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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di LUGLIO 2011

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aggiornamento al 25.07.2011

aggiornamento al 18.07.2011

aggiornamento al 13.07.2011

aggiornamento all'11.07.2011

aggiornamento al 04.07.2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 25.07.2011

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AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Procedimenti di verifica dei requisiti ex art. 40, commi 9-ter e quater, del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 e smi (comunicato alle SOA 12.07.2011 n. 65 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

LAVORI PUBBLICI: Regolamento in materia di procedimento ex art. 40, comma 9-quater, del D.Lgs. 163/2006 per l’accertamento della responsabilità delle imprese che presentano falsa dichiarazione o falsa documentazione ai fini della qualificazione sotto il profilo del dolo o della colpa grave (regolamento 12.07.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E. Moro, La nullità assoluta del contratto ad effetti reali ai sensi dell'art. 40, comma 2, della L. 28.02.1985 N. 47 – Una breve disamina degli istituti eccezionali della convalida del contratto previsti dalla legge: l'atto di conferma e la sanatoria di diritto (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, La gestione abusiva dei rifiuti integra un reato permanente o istantaneo? (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P. Urbani, Le innovazioni in materia di edilizia privata nella legge n. 106/2011 di conversione del DL 70 13.05.2011. Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia (link a www.pausania.it).

APPALTI: S. Giacchetti, Codice degli appalti pubblici: la “dichiarazione giurata” ovvero l’arte di complicarsi inutilmente la vita (link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: M. Bellina, Demansionamento e rifiuto della prestazione lavorativa (link a www.ipsoa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Art. 7 D.L. n. 70/2011 - c.d. Decreto sviluppo - prime indicazioni operative (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circolare 04.07.2011 n. 16/2011).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto: Variazione capitolo entrata versamento somme da sanzioni - legge quadro inquinamento acustico (ANCI, nota 31.05.2011 n. 129 di prot.).

UTILITA'

APPALTI: Costo del personale e sicurezza nella selezione delle offerte negli appalti - Prime indicazioni elaborate dal Gruppo di lavoro interregionale sui contratti presso ITACA.
La legge 106/2011 di conversione del DL 70/2011 (decreto sviluppo), entrata in vigore lo scorso 13 luglio, ha introdotto un importante novità nel criterio di scelta dell’offerta migliore che sicuramente avrà importanti ricadute su tutto il sistema di aggiudicazione e selezione degli appalti regolato dal codice dei contratti.
In particolare la nuova norma, volta a migliorare le condizioni di lavoro e in genere a sostenere l’importante settore degli appalti, introduce il comma 3-bis all’art. 81 del d.lgs. 163/2006: “L’offerta migliore è altresì determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più significative sul piano nazionale, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
La norma impone di salvaguardare comunque e sempre il valore della manodopera quale costo non negoziabile, e pertanto da sottrarre al mercato e alla concorrenza, in analogia con quanto previsto già per gli oneri di sicurezza.
Il Gruppo di lavoro interregionale “Codice contratti” operante presso ITACA e coordinato da Regione Piemonte, ha adottato nell’incontro tenuto lo scorso 14 luglio, un documento recante “PRIME INDICAZIONI PER L’APPLICAZIONE DELLE MODIFICAZIONI INTRODOTTE ALL’ART. 81 DEL CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI DALLA LEGGE 12.07.2011, N. 106, DI CONVERSIONE DEL DL 70/2011”.
Il documento, che sarà trasmesso alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome per le opportune valutazioni, vuole essere un primo contributo a supporto delle stazioni appaltanti che si trovano ad applicare una norma che indubbiamente impatta su tutte le procedure di gara, settori e per qualunque importo e che avrà rilevanti sviluppi anche nelle fase di gestione del contratto (tratto dal sito www.itaca.org).
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Il costo del lavoro non è negoziabile! Le modifiche introdotte dalla “Legge Sviluppo” e le prime indicazioni operative.
La Legge 106/2011 (Legge di conversione del Decreto Sviluppo) ha introdotto una importante novità nel criterio di scelta dell’offerta che avrà ripercussioni su tutto il sistema di aggiudicazione degli appalti.
In particolare la nuova norma introduce il comma 3-bis all’art. 81 del Codice degli Appalti (D.Lgs. 163/2006): “L’offerta migliore è determinata al netto delle spese relative al costo del personale, valutato sulla base dei minimi salariali definiti dalla contrattazione collettiva nazionale di settore tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e le organizzazioni dei datori di lavoro comparativamente più significative sul piano nazionale, e delle misure di adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
La norma, quindi, impone di salvaguardare sempre e comunque il valore della manodopera quale costo non negoziabile, così come già previsto per i costi della sicurezza.
Il Gruppo di lavoro interregionale “Codice contratti” operante presso ITACA e coordinato da Regione Piemonte, ha adottato nell’incontro tenuto lo scorso 14 luglio, un documento recante “Prime indicazioni per l’applicazione delle modificazioni introdotte all’art. 81 del Codice dei Contratti pubblici dalla Legge 12.07.2011, n. 106, di conversione del DL 70/2011”.
Il documento, che sarà trasmesso alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome per le opportune valutazioni, vuole essere una guida in grado di fornire indicazioni operative sui Lavori pubblici, alla luce delle nuove disposizioni normative (21.07.2011 - commento tratto da www.acca.it).

VARI: Come comportarsi prima di partire per le nostre vacanze. Consigli per la sicurezza dai Vigili del Fuoco.
Prima di partire per le tanto attese vacanze, risulta opportuno rispettare una serie di regole, come ad esempio:
» chiudere il rubinetto principale del gas; qualora vengano utilizzate bombole di gas, collocare quelle in uso sempre all’esterno dell’abitazione in luogo non esposto al sole e non depositare mai quelle vuote negli scantinati;
» interrompere l’erogazione della corrente dal quadro elettrico principale; se particolari esigenze (impianti di allarme, congelatore, frigorifero) non lo consentissero, staccare dalla presa la spina di tutti gli apparecchi non necessari (forno elettrico, televisore, video registratore, orologi digitali, HI-FI);
» chiudere la valvola principale dell’acqua; se ciò non fosse possibile, ad esempio per la necessità di mantenere in funzione un impianto automatico di irrigazione, diminuirne la pressione, chiudendo in parte il rubinetto.
Queste raccomandazioni e tanto altro nel documento pubblicato dai Vigili del Fuoco.
Nell'opuscolo sono presenti anche una serie di consigli su come comportarsi durante il viaggio e sui comportamenti da tenere in caso di pericolo (21.07.2011 - link a www.acca.it).

VARI: Impianti a gas: precauzioni, requisiti per la sicurezza, comportamenti in casi di emergenza. Una guida per l’installazione, utilizzo e manutenzione.
In Italia sono distribuiti principalmente 2 tipi di gas:
Þ gas naturale, comunemente definito metano, che arriva dai giacimenti di estrazione alle utenze attraverso un sistema di trasporto primario e reti di distribuzione;
Þ GPL (gas di petrolio liquefatto), proveniente dalla distillazione del petrolio greggio, che viene generalmente commercializzato in bombole o in piccoli serbatoi.
I requisiti essenziali per la sicurezza di un impianto alimentato a gas sono vari e le precauzioni da adottare, sia da parte dell'installatore che da parte degli utenti finali, sono numerose.
Ad esempio, per un terminale a gas come un piano cottura, occorrono i seguenti requisiti:
ventilazione: i locali devono essere adeguatamente ventilati, al fine di far affluire l’aria necessaria per la combustione;
aerazione: i locali devono essere adeguatamente aerati per favorire il ricambio d’aria;
evacuazione prodotti della combustione: gli apparecchi devono essere raccordati a sistemi di scarico come camini e canne fumarie di sicura efficienza;
dispositivi di sorveglianza di fiamma: tutti gli apparecchi (ad esclusione dei piani di cottura, per i quali al momento non esiste l’obbligo) devono essere dotati di dispositivi di sorveglianza di fiamma per bloccare la fuoriuscita del gas in caso di spegnimento.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ha pubblicato una guida contenente le Informazioni di sicurezza e antincendio per gli utenti di gas naturale e GPL.
Lo scopo della pubblicazione è quello di fornire agli installatori e a tutti gli utenti di gas combustibili informazioni utili per la sicurezza, in maniera chiara e precisa.
Nell’opuscolo sono riportate informazioni di carattere generale, le precauzioni da osservare, i requisiti per la sicurezza, caratteristiche e raccomandazioni per ciascuna tipologia di gas (21.07.2011 - link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Guida alle applicazioni innovative finalizzate all’integrazione architettonica del fotovoltaico (GSE, luglio 2011).
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Come si realizza un impianto fotovoltaico “architettonicamente integrato”? Ecco la guida alle applicazioni innovative.
Il concetto di integrazione architettonica nasce con il secondo Conto Energia, che prevedeva un incremento della tariffa incentivante base per gli impianti integrati e per quelli parzialmente integrati architettonicamente.
Con l’evoluzione tecnologica degli ultimi anni il modulo fotovoltaico non va considerato più come mero generatore di energia, ma diventa un nuovo componente architettonico, con una funzione che lo rende parte integrante dell’edificio.
Il quarto Conto Energia, continuando in questa direzione, sottolinea l’esigenza che i moduli fotovoltaici diventino materia di architettura con un ruolo sempre più integrato nell’edificio e non soltanto perché si necessita di una edilizia sostenibile dal punto di vista energetico.
Il GSE ha pubblicato la guida alle applicazioni innovative finalizzate all’integrazione architettonica degli impianti fotovoltaici.
La Guida fornisce le definizioni di base, i criteri e le modalità di installazione di un impianto fotovoltaico costituito da moduli non convenzionali o componenti speciali al fine di esplicitare le categorie ammissibili a questa privilegiata classe di incentivazione (21.07.2011 - commento tratto da www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI SERVIZI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 29 del 21.07.2011, "Indirizzi in materia di affidamento dei servizi e convenzioni tra enti pubblici e cooperative sociali in attuazione della d.g.r. n. 1353/2011" (deliberazione G.R. 13.07.2011 n. 6459).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 21.07.2011 n. 168 "Regolamento in materia di procedimento ex art. 40, comma 9-quater del decreto legislativo n. 163/2006 per l’accertamento della responsabilità delle imprese che presentano falsa dichiarazione o falsa documentazione ai fini della qualificazione sotto il profilo del dolo o della colpa grave" (AVCP, regolamento 12.07.2011).

LAVORI PUBBLICI: G.U. 21.07.2011 n. 168 "Procedimenti di verifica dei requisiti ex art. 40, commi 9-ter e quater del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni" (AVCP, comunicato alle SOA 12.07.2011 n. 65).

APPALTI SERVIZI E FORNITURE: G.U. 18.07.2011 n. 165 "Saggio degli interessi da applicare a favore del creditore nei casi di ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, comunicato).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 06.06.2011 n. 129 "Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo, a norma dell’articolo 14 della legge 28.11.2005, n. 246, nonché attuazione della direttiva 2008/122/CE, relativa ai contratti di multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di rivendita e di scambio" (D.Lgs. 23.05.2011 n. 79).

QUESITI & PARERI

PUBBLICO IMPIEGO - VARI: Come devono essere rilasciati i certificati dal pronto soccorso?
Domanda.
Come devono essere rilasciati i certificati rilasciati dal pronto soccorso o dagli ospedali in caso di ricovero e dimissione? Sono ancora redatti in forma cartacea o utilizzano il sistema telematico anche loro? Come possiamo sapere se si tratta di ricovero ospedaliero piuttosto che malattia non ospedaliera? E' necessario riprodurli dal medico di famiglia oppure no?
Risposta.
A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 25 della L. 04.11.2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro alla Finanziaria 2010), al fine di assicurare un quadro completo delle assenze per malattia nei settori pubblico e privato, nonché un efficace sistema di controllo delle stesse, in tutti i casi di assenza per malattia dei dipendenti di datori di lavoro privati, per il rilascio e la trasmissione dell'attestazione di malattia si applicano le disposizioni di cui all'art. 55-septies del D.Lgs. 30.03.2001, n. 165.
Ne discende che, in tutti i casi di assenza per malattia, la certificazione medica (con inizio e durata presunta della malattia) deve essere trasmessa per via telematica, direttamente dal medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale o dalla struttura sanitaria pubblica che la rilascia, all'INPS e dal predetto Istituto immediatamente inoltrata, con le medesime modalità, ai datori di lavoro. L'eventuale inosservanza di tale obbligo comporta l'irrogazione di sanzioni disciplinari nei confronti dei medici inadempienti.
Tenuto presente che permangono alcune obiettive situazioni di tipo tecnico e/o procedurale L'INPS, con il Messaggio n. 9197 del 20.04.2011, ha previsto le seguenti ipotesi di deroga:
1. ricovero ospedaliero.
2. degenza in strutture di pronto soccorso.
3. strutture di medici privati non ancora abilitati all'invio telematico.
In pratica l'Inps precisa che nel caso in cui il medico "non proceda all'invio on-line del certificato di malattia, ad esempio perché impossibilitato a utilizzare il sistema di trasmissione telematica, ma rilasci la certificazione e l'attestazione di malattia in forma cartacea", sarà cura del lavoratore presentare "l'attestazione al proprio datore di lavoro e, ove previsto, il certificato di malattia all'Inps, secondo le modalità tradizionali" (19.07.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

APPALTI: Pendenze con l'Agenzia delle Entrate ed esclusione dal contratto d'appalto.
Domanda.
Si chiede se deve essere pronunciato o meno il provvedimento di esclusione dalla stipula di un contratto di appalto nei confronti di una ditta che alla data di presentazione dell'offerta di gara risultava già avere pendenze con l'Agenzia delle Entrate.
Risposta.
L'oggetto del quesito riguarda la possibilità o meno di esclusione dalla stipula di un contratto di appalto nei confronti di una ditta che risulta avere pendenze con l'Agenzia delle Entrate. In tema di requisiti soggettivi per la partecipazione a gare di appalto, la ratio dell'art. 38, comma 1, lettera g), D.Lgs. 12-04-2006, n. 163, il quale stabilisce l'esclusione dei "soggetti che hanno commesso violazioni, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti", risponde all'esigenza di garantire l'Amministrazione relativamente alla solvibilità e solidità finanziaria del soggetto con il quale contrae.
In relazione alla rilevata ratio appare necessario che sia di volta in volta in concreto indagata la vicenda relativa all'assolvimento degli obblighi di pagamento di imposte e tasse per accertarne la rilevanza, mirando la necessaria verifica ad appurare non già la sussistenza di una mera singola violazione, ma la globale regolarità sul piano tributario di ciascuna impresa partecipante alla gara quale eventuale futura contraente con la P.A., capace di accreditare la solvibilità delle imprese; singole, isolate omissioni di modesto contenuto, incapaci in quanto tali di reagire su tale globale situazione finanziaria, non possono giustificare la grave conseguenza dell'esclusione da una pubblica gara, tra l'altro di facoltativa applicazione nei singoli ordinamenti nazionali.
Inoltre non può essere considerata irregolare la posizione dell'impresa partecipante a gara pubblica qualora sia ancora pendente il termine di 60 giorni per l'impugnazione (o per l'adempimento) ovvero, qualora sia stata proposta impugnazione, non sia passata ancora in giudicato la pronuncia giurisdizionale (TAR Veneto Sez. I, 27.01.2011 n. 115; Cons. Stato Sez. V, 20.04.2010, n. 2213) (15.07.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

PUBBLICO IMPIEGO: Pensione più lontana per gli statali. Anche chi matura 40 anni di contributi dovrà aspettare 13 mesi. Nota operativa dell'Inpdap sulla legge di stabilità finanziaria recentemente approvata.
Chi nel 2012 matura il diritto a pensione con il solo requisito della massima anzianità contributiva (i 40 anni), indipendentemente dall'età anagrafica, potrà accedere al pensionamento dopo 13 mesi (un anno per la cosiddetta «finestra mobile», più un mese di ulteriore posticipo. Tale disposizione, introdotta dalla legge n. 111/2011 (la manovra Tremonti), si applica anche ai dipendenti pubblici iscritti all'Inpdap, con esclusione degli insegnanti.
Lo precisa lo stesso ente di previdenza nella tempestiva nota operativa 21.07.2011 n. 27, che si occupa di tutte le altre novità in materia pensionistica.
Decorrenza anzianità. L'intervento in tema di decorrenza della pensione di anzianità è contenuto nell'art. 18, comma 22-ter, 22-quater, 22-quinquies. Pertanto, chi matura, nel 2012, il diritto a pensione con il solo requisito della massima anzianità contributiva, indipendentemente dall'età anagrafica (40 anni di anzianità contributiva), potrà accedere al pensionamento decorsi 13 mesi dal raggiungimento del predetto requisito (12 mesi per la c.d. «finestra mobile», già prevista dalla legge n. 122/2010, più un mese di ulteriore posticipo).
Chi matura il diritto nel 2013 potrà accedere al pensionamento decorsi 14 mesi dal raggiungimento del requisito della massima anzianità contributiva mentre chi matura il diritto a partire dal 2014 potrà accedere al pensionamento decorsi 15 mesi dal raggiungimento del citato requisito.
La disposizione, si legge nella nota, non si applica nei confronti del personale del comparto scuola per il quale resta confermata la precedente normativa (comma 9, dell'art. 59 della legge n. 449/1997) che prevede il pensionamento dal 1° settembre dell'anno di maturazione del requisito.
Aspettative di vita. Il sistema di adeguamento dei requisiti per il conseguimento del diritto a pensione (previsto dall'articolo 12, commi 12-bis e 12-ter della legge n. 122/2010) è stato modificato.
In particolare, l'adeguamento automatico dell'età pensionabile alla speranza di vita individuata dall'Istat, già programmato dall'01.01.2015, viene anticipato all'01.01.2013 e il dato relativo alla variazione nel triennio precedente della speranza di vita viene fornito dall'Istat a partire dall'anno 2011 e reso disponibile entro il 31 dicembre dello stesso anno.
Di conseguenza, a partire dall'01.01.2013 i requisiti anagrafici prescritti per i pensionamenti di vecchiaia, ovvero i requisiti di età e i valori di somma di età anagrafica e di anzianità contributiva (le cosiddette «quote») sono incrementati di tre mesi.
Rivalutazione automatica. Per gli anni 2012 e 2013, è stata modificata la perequazione delle pensioni superiori a 5 il trattamento minimo Inps per le quali essa è concessa solo per la fascia di importo inferiore a tre volte il predetto minimo Inps e nella misura del 70%.
È previsto un correttivo in base al quale sulle pensioni anzidette, il cui ammontare sia inferiore al limite costituito dall'importo corrispondente a 5 volte il minimo Inps incrementato della quota di perequazione, l'aumento è attribuito fino a concorrenza di tale limite perequato.
Pensioni d'oro. La legge di conversione del decreto riporta in vita uno degli istituti più controversi del sistema previdenziale, il cosiddetto «contributo di solidarietà».
Si tratta di una trattenuta secca che si applica sui trattamenti pensionistici più elevati. Per determinare se si è o meno soggetti a questo prelievo, la legge 111/2011 prevede tre scaglioni di pensione:
- fino a 90 mila euro lordi, non si applica alcuna trattenuta;
- per gli importi che superino i 90 mila euro lordi annui (pari da un importo netto mensile di € 4.381,77 per 13 mesi) e fino a 150 mila euro, il contributo è pari al 5% della parte eccedente il predetto importo;
- per la parte eccedente i 150 mila euro (pari da un importo netto mensile di € 6.947,96 per 13 mesi) la misura della trattenuta è del 10%.
La trattenuta in questione si applica a decorrere dall'01.08.2011 e fino al 31.12.2014 e, in ogni caso, per effetto di tale riduzione, il trattamento pensionistico complessivo non può essere inferiore a 90 mila euro lordi annui.
Reversibilità. Con effetto sulle pensioni decorrenti dall'01.01.2012 (art. 18, comma 5) l'aliquota percentuale della pensione a favore dei superstiti (ora del 60%) è ridotta, nei casi in cui il matrimonio con il dante causa sia stato contratto ad età del medesimo superiori a 70 anni e la differenza di età tra i coniugi sia superiore a 20 anni, del 10% in ragione di ogni anno di matrimonio con il dante causa mancante rispetto al numero di 10. Nei casi di frazione di anno la predetta riduzione percentuale è proporzionalmente rideterminata.
Le disposizioni di cui ai precedenti periodi non si applicano nei casi di presenza di figli di minore età, studenti, ovvero inabili. Si tratta del ritorno a una vecchia norma «antibusi» (per scoraggiare in questo caso i matrimoni fittizi tra assistiti e badanti) già presente nell'ordinamento pensionistico statale, giudicata incostituzionale nei primi anni 70.
Resta in ogni caso confermato, sottolinea la nota, il regime di cumulabilità (di cui all'art. 1, comma 41, della legge n. 335/1995) (articolo ItaliaOggi del 23.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti locali, sanatoria ampia. Meritocrazia «congelata» e annullata negli enti con pochi dipendenti. Consiglio dei ministri: approvato il decreto correttivo della riforma della Pubblica amministrazione.
Si allargano le maglie per i dirigenti a tempo degli enti locali, la distinzione del personale in fasce di merito è definitivamente rimandata a data da destinarsi e tramonta del tutto negli enti che contano fino a 15 dipendenti o 5 dirigenti, mentre si precisa l'immediata applicabilità del nuovo sistema di relazioni sindacali, senza aspettare la prossima tornata contrattuale.

Sono i contenuti del restyling della riforma del Pubblico impiego portato dal Dlgs correttivo approvato in via definitiva ieri dal consiglio dei ministri.
Sul versante degli incarichi dirigenziali, enti locali e Regioni escono definitivamente dal tetto fissato dalla riforma Brunetta, che impediva di assegnare posti dirigenziali a tempo in numero superiore all'8 per cento dell'organico dirigenziale di ogni ente. Alle amministrazioni territoriali si applicherà un nuovo limite, al 18% (si veda «Il Sole 24 Ore» del 14 luglio), ma il passaggio in consiglio dei ministri ha aggiunto un nuovo tassello, nonostante l'opposizione di Via XX Settembre: i contratti già siglati, anche se in sovrannumero rispetto ai tetti fissati dalla riforma, proseguono tranquillamente per la loro strada fino alla scadenza naturale. Un modo per togliere definitivamente d'impaccio le tante amministrazioni, compresi grandi Comuni come Milano a Roma, con una dotazione di dirigenti a tempo decisamente superiore a quella prevista dalle nuove regole.
Il correttivo interviene nuovamente anche su un altro dei pilastri della riforma, quello della divisione in fasce di merito del personale, per assegnare un salario accessorio differenziato in base alle «pagelle» ottenute in termini di produttività. La graduatoria del merito scompare definitivamente in tutti gli enti, locali e centrali, di piccole dimensioni: il personale eviterà le fasce quando gli organici conteranno fino a 15 persone, mentre per i dirigenti l'addio scatta quando non sono superiori a cinque.
Anche negli altri enti, però, per vedere le graduatorie meritocratiche, si dovrà attendere: traducendo in legge lo stop di fatto già previsto nell'intesa con i sindacati del 4 febbraio scorso (che però riguardava solo la Pubblica amministrazione centrale), il correttivo spiega che la distinzione in fasce partirà solo con i prossimi rinnovi contrattuali. Il blocco degli stipendi pubblici previsto dalla manovra 2010 aveva già complicato l'applicazione di questo sistema, e l'accordo del 4 febbraio ne era la conseguenza immediata: l'incrocio con la nuova manovra, che prefigura un altro allungamento dello stop ai contratti (possibile fino al 2017), rischia però di far finire in cantina le fasce, a tempo quasi indeterminato.
«In ogni caso –precisa però la nuova norma– deve essere garantita l'attribuzione selettiva» delle risorse accessorie. Confermata, infine, l'applicazione immediata delle nuove regole che assegnano maggiori poteri ai dirigenti e sottraggono l'organizzazione degli uffici alla concertazione con i sindacati (articolo Il Sole 24 Ore del 23.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Assunzioni: dati sensibili solo se indispensabili. Chiarimenti del Garante della privacy sui test di assunzione.
Test per l'assunzione senza dati sensibili o comunque senza dati superflui. Il questionario sottoposto ai candidati non deve indagare su aspetti privati e delicati del tutto estranei alla valutazione della idoneità a svolgere le mansioni. Altrimenti si viola lo Statuto dei Lavoratori, la legge Biagi e il codice della privacy, rischiando sanzioni amministrative, penali e anche l'obbligo di risarcire i danni morali.
Questo il principio affermato dal Garante della privacy, che con un suo provvedimento ha dichiarato illecito il trattamento di dati effettuato dall'Aler (Azienda lombarda per l'edilizia residenziale) di Brescia con un questionario somministrato ai candidati che partecipavano alla selezione per il reclutamento di un dirigente tecnico.
La stessa sorte è toccata alla Cispel Lombardia Services Srl in relazione al trattamento dei dati per la selezione e alla psicologa incaricata della raccolta dei profili. Questo significa che tutti rischiano sanzioni amministrative. Peraltro il garante ha dato comunicazione della vicenda anche all'autorità giudiziaria per i profili penalistici di violazione delle norme dello statuto dei lavoratori. Da subito comunque i test sono stati bloccati e non è possibile usare i dati personali. In sostanza la selezione è stata azzerata e i soggetti che hanno partecipato alla raccolta dei dati sono esposti a pesanti responsabilità. Tra l'altro aggiungiamo che gli interessati potrebbe avanzare richieste di risarcimento del danno subito per l'illecito trattamento dei propri dati personali: un danno che è indennizzato anche come danno morale.
Nel caso specifico, infatti, il garante si è trovato di fronte a questionari che indagavano veramente in profondità sulle persone e in maniera del tutto ingiustificata. Numerose domande contenute nel questionario riguardavano aspetti anche intimi della sfera personale dei candidati, relativi ai rapporti affettivi, al grado di stabilità degli stessi, alla vita sessuale (con richieste su eventuali problemi o disturbi), condizioni di salute psico-fisica, eventuali interruzioni di gravidanza, tentativi di suicidio.
Secondo il garante i test in questione non superano il giudizio di legittimità. Le domande contrastano, prima che con le disposizioni del codice della privacy, con l'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori, che vieta al datore di lavoro di fare indagini ai fini dell'assunzione sulle opinioni religiose, politiche e sindacali del lavoratore e su fatti non rilevanti per la valutazione dell'attitudine professionale.
La stabilità del rapporto di coppia piuttosto che circostanze riguardante la condizione sanitaria non sono coerenti con l'obiettivo di valutare l'idonea professionale. Un'altra violazione si è verificata in relazione alla Legge Biagi e cioè all'articolo 10 del decreto legislativo n. 276 del 2003 che vieta alle agenzie di lavoro o ai soggetti che si occupano di preselezione di lavoratori di effettuare indagini relative alle convinzioni personali, al credo religioso, all'orientamento sessuale, allo stato di gravidanza, allo stato di salute.
Per arrivare al codice della privacy: il garante ha accertato che la raccolta dei dati personali risulta non ha rispettato i principi di indispensabilità, pertinenza e non eccedenza fissati dal dlgs 196/2003. Secondo il codice della privacy il trattamento dei dati sensibili è ammesso, in base al principio di indispensabilità, solo quando non se ne può fare a meno, utilizzando altri tipi di dati.
Sono state violate anche le autorizzazioni generali al trattamento dei dati sensibili, che non contemplano l'ipotesi dei questionari pre-assunzione in esame tra i casi autorizzati (articolo ItaliaOggi del 23.07.2011).

PUBBLICO IMPIEGOLa valutazione va in naftalina. Slitta l'obbligo di dividere i dipendenti per fasce di merito.  In cdm il decreto correttivo della legge Brunetta. Efficacia immediata per la riforma.
Immediata entrata in vigore della riforma Brunetta, senza attendere la prossima contrattazione nazionale collettiva; dirigenza a contratto entro il 18% della dotazione organica per regioni ed enti locali; rinvio delle fasce di valutazione alla prossima tornata della contrattazione collettiva nazionale.

Il decreto correttivo alla riforma-Brunetta, oggi sul tavolo del consiglio dei ministri, introduce modifiche molto significative al dlgs 150/2009.
Efficacia immediata della riforma. Il decreto correttivo, all'articolo 4, interpreta autenticamente i commi 1, 2 e 4, dell'articolo 65 del dlgs 150/2009 stabilendo che essi vadano letti «nel senso che l'adeguamento dei contratti collettivi integrativi è necessario solo per i contratti vigenti alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo, mentre ai contratti sottoscritti successivamente si applicano immediatamente le disposizioni introdotte dal medesimo decreto». Dunque, tutti i contratti decentrati stipulati successivamente al 15.11.2009 (come era ovvio) dovevano e debbono essere già adeguati alla legge Brunetta.
In secondo luogo, si interpreta autenticamente anche il comma 5 dell'articolo 65 del dlgs 150/2009, dedicato ai contratti collettivi nazionali. Il correttivo spiega che le norme sui contratti collettivi nazionali demandate alla sottoscrizione della nuova tornata contrattuale sono solo quelle che disciplinano il procedimento di stipulazione e controllo, ma non quelle che incidono sulla definizione delle materie di competenza dei contratti stessi.
Il che, conferma la piena ed immediata applicabilità dell'articolo 40 del dlgs 165/2001, privando in via retroattiva i contratti collettivi nazionali della possibilità di disciplinare sostanzialmente tutte le materie riguardanti l'organizzazione, gli incarichi dirigenziali, le progressioni verticali, le prerogative dei dirigenti quali datori di lavoro.
Dirigenti a contratto. Regioni ed autonomie locali potranno assumere dirigenti a contratto nel limite del 18% e non dell'8% della dotazione organica. Il decreto correttivo al dlgs 150/2009 recepisce solo in parte le richieste della Conferenza unificata, Anci e Upi. Le regioni, esercitando la propria potestà legislativa e regolamentare, dovranno adeguare i propri ordinamenti ai principi posti dal comma 6 dell'articolo 19 del dlgs 165/2001. In ogni caso, gli incarichi dirigenziali a tempo determinato non potranno superare il 18% della dotazione organica della qualifica dirigenziale a tempo indeterminato.
Per quanto riguarda gli enti locali, il nuovo comma 6-quinquies dell'articolo 16 del dlgs 165/2001 riesuma l'articolo 110, comma 1, del dlgs 267/2000 ma stabilisce che il numero complessivo degli incarichi a contratto a copertura della dotazione organica dirigenziale deve essere preventivamente determinato. Ciò significa che il regolamento di organizzazione deve stabilire il numero assoluto massimo di dirigenti a contratto ammissibili. In ogni caso, tale numero non può essere superiore al 18%diciotto per cento del totale della dotazione organica della qualifica dirigenziale a tempo indeterminato.
Rinvio delle fasce. La modifica forse più clamorosa è quella che concerne l'articolo 19 del dlgs 150/2009, la norma dalla quale deriva l'obbligo di collocare i dipendenti in fasce di merito a seguito della valutazione dei risultati individuali. L'accordo del 4 febbraio scorso aveva sostanzialmente dato un colpo di freno all'operatività di questa parte, per altro estremamente significativa, della riforma Brunetta.
Il decreto correttivo attribuisce, ora, valore di legge al contenuto sostanziale dell'accordo, cioè rinviare a tempi migliori la ripartizione delle fasce. L'articolo 6, comma 2, del correttivo prevede una specifica norma transitoria, ai sensi della quale la differenziazione per fasce «si applica a partire dalla tornata di contrattazione collettiva successiva a quella relativa al quadriennio 2006-2009».
La norma transitoria, comunque, nelle more dei predetti rinnovi contrattuali, dà alle amministrazioni la facoltà di utilizzare le risorse aggiuntive previste dall'articolo 16, comma 5, dl 98/2011, convertito in legge 111/2011, cioè il 50% dei risparmi derivanti dall'attuazione di misure di contenimento della spesa aggiuntive. Le risorse risparmiate, ai sensi della manovra 2011, possono andare a rimpinguare le risorse della contrattazione decentrata e il 50% di esse va destinato appunto a premiare le prestazioni individuali secondo il sistema delle fasce.
Comunque, le fasce non saranno operative se il numero dei dipendenti delle aree delle qualifiche in servizio nell'amministrazione non è superiore a 15; lo stesso vale per i dirigenti, se il numero di quelli in servizio non è superiore a 5. Lo stesso vale anche per regioni ed enti locali (articolo ItaliaOggi del 22.07.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALIMANOVRA CORRETTIVA/ L'obbligo per i mini-enti è subito operativo. Associazionismo, accelerazione senza certezze.
Una decisa, vincolante e, per alcuni aspetti, confusa accelerazione nella direzione della realizzazione della gestione associata delle funzioni fondamentali tra i piccoli comuni è contenuta nella legge n. 111 di conversione del dl n. 98, cioè nella cd manovra estiva 2011.
Viene modificato quanto previsto dalla manovra estiva dello scorso anno, in particolare l'applicazione di questo principio diventa immediatamente operativa, senza nessun rinvio a provvedimenti attuativi: già entro il corrente anno una parte significativa delle funzioni fondamentali assegnate ai comuni dovranno essere gestite in forma associata, mentre il processo si dovrà completare entro il 2013. Sulla disposizione, a parte i dubbi di legittimità costituzionale sia per la possibile violazione delle prerogative dei comuni che per la invasione di materie rimesse alla competenza legislativa delle regioni, pendono numerosi dubbi operativi.
Le nuove disposizioni riprendono, pressoché testualmente, il contenuto di uno schema di dpcm che, sulla scorta delle previsioni del dl n. 78/2010, anche se con notevole ritardo, è stato sottoposto all'esame della Conferenza unificata. Provvedimento contro cui si è levato un vero e proprio fuoco di sbarramento dell'Anci, che ha chiesto il rinvio della disciplina di questa materia alla riforma del testo unico delle legge sull'ordinamento locale, cioè al cd codice delle autonomie che il senato sta esaminando in queste settimane, opponendo quindi un no pregiudiziale.
Il provvedimento contiene 2 disposizioni, che riscrivono il comma 31 dell'articolo 14 del dl n. 78/2010. In primo luogo si stabilisce che il limite minimo entro cui i comuni devono necessariamente dare corso alla gestione associata è fissato in 5 mila abitanti ovvero nel «quadruplo del numero degli abitanti del comune demograficamente più piccolo tra quelli associati». In secondo luogo di stabilisce che almeno 2 funzioni fondamentali debbano essere gestite in forma associata entro il 31.12.2011, almeno ulteriori 2 entro il 31.12.2012 e le restanti 2 entro il 31.12.2013.
Rimangono in piedi tutte le altre disposizioni del dl n. 78/2010. Quindi, le funzioni fondamentali sono quelle individuate in via provvisoria dalla legge n. 42/2009 sul cd federalismo fiscale: generali di amministrazione, di gestione e di controllo, nella misura complessiva del 70% delle spese come certificate dall'ultimo conto del bilancio disponibile alla data di entrata in vigore della presente legge; polizia locale; istruzione pubblica, ivi compresi i servizi per gli asili nido e quelli di assistenza scolastica e refezione, nonché l'edilizia scolastica; nel campo della viabilità e dei trasporti; riguardanti la gestione del territorio e dell'ambiente, fatta eccezione per il servizio di edilizia residenziale pubblica e locale e piani di edilizia nonché per il servizio idrico integrato; settore sociale.
Il vincolo della gestione associata costituisce norma di «coordinamento della finanza pubblica e del contenimento delle spese». A scanso di equivoci viene chiarito da un lato che «i comuni non possono svolgere singolarmente le funzioni fondamentali svolte in forma associata» e, dall'altro, che «la medesima funzione non può essere svolta da più di una forma associativa». Le forme di gestione associata che possono essere attivate sono le convenzioni e le unioni dei comuni. Sono rimesse alla autonomia legislativa regionale le seguenti scelte: «La dimensione territoriale ottimale e omogenea per area geografica... secondo i principi di economicità, di efficienza e di riduzione delle spese».
La scelta del parlamento costituisce un tentativo di superare la dimensione eccessivamente ridotta della gran parte dei comuni italiani, mettendo con ciò la parola fine al confronto sulla opportunità di restringere autoritativamente il numero dei piccoli municipi. Sul terreno applicativo si deve sottolineare l'assoluta necessità che i piccoli comuni si mettano rapidamente in moto, sia operando le scelte sulle materie da gestire da subito in forma associata, sia sulla individuazione delle forme, che sulla scelta dei partner che sulla opzione per una unica forma di gestione associata o per lo spezzettamento in varie esperienze.
A parte le possibili riserve di carattere generale sulla disposizione, ci sono alcuni dubbi che devono essere chiariti. Si può ritenere che la soglia dei 5 mila abitanti possa essere individuata non in quella dell'ultimo censimento, cioè ad oggi, ma in quella del 31 dicembre dell'anno precedente, cioè il principio utilizzato dal dlgs n. 267/2000 per le scelte di carattere finanziario.
Vi sono invece dei dubbi sulla soglia fissata per i comuni che facevano o fanno parte di comunità montane. Ed ancora si può ritenere che anche le comunità montane, in quanto legislativamente equiparate alle unioni di comuni, possono essere destinatarie della gestione associata (articolo ItaliaOggi del 22.07.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, permessi facili. Diritto alla retribuzione per l'intera giornata. La disciplina per i lavoratori dipendenti che partecipano agli organi elettivi.
Qual è la disciplina relativa all'attestazione dei permessi fruiti da un lavoratore dipendente che svolge un incarico elettivo?

Come prescritto dall'art. 79, comma 6, del dlgs n. 267/2000, il lavoratore dipendente deve documentare, con apposita certificazione, l'attività e i tempi di espletamento del mandato, quantificando anche il tempo impiegato per lo spostamento da e per il luogo di lavoro, sia per i permessi retribuiti che per quelli non retribuiti.
Secondo la giurisprudenza amministrativa, infatti «solo per la partecipazione alle sessioni del consiglio comunale spetta il permesso retribuito per l'intera giornata, pertanto solo per tali sessioni è bastevole l'attestato di partecipazione senza l'indicazione del tempo impegnato per l'espletamento dell'attività partecipativa, mentre per la partecipazione alle riunioni di tutti gli altri organi dei quali l'amministratore è componente e per l'espletamento delle altre attività politico-amministrative, essendo il permesso previsto nei limiti del tempo impegnato per l'attività partecipativa inclusiva del tempo necessario per raggiungere la sede dell'organo e rientro e per lo studio dell'ordine del giorno, l'attestato deve contenere anche quest'ultime indicazioni» (cfr. sent. Tar Campania-Salerno n. 2036/2004).
Le attestazioni potranno essere rilasciate dal sindaco, dal segretario comunale, dal dirigente ai sensi dell'art. 107, comma 3, lett. h), del dlgs n. 267/2000, oppure dal segretario del collegio cui partecipa l'amministratore interessato (articolo ItaliaOggi del 22.07.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di funzione.
Quale disciplina si applica all'indennità di funzione da corrispondere ai componenti di un consorzio?

L'art. 5, comma 7, del dl n. 78/2010 stabilisce che «agli amministratori di forme associative di enti locali aventi per oggetto la gestione dei servizi e funzioni pubbliche non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni e indennità o emolumenti in qualsiasi forma siano essi percepiti».
Considerato che l'art. 31 del decreto legislativo n. 267/2000, disciplinante i consorzi degli enti locali, è compreso nel Capo V del Titolo II del medesimo decreto, dedicato alle forme associative, il divieto riguarda in genere anche i componenti degli organi dei consorzi fra enti locali.
Il tenore letterale dell'art. 5 appare, infatti, indicativo di una precisa volontà del legislatore nel senso di escludere qualsiasi forma associativa (ivi compresi i consorzi degli enti locali).
La norma interviene in termini generali su tutto il panorama degli amministratori locali, attraverso una duplice direttrice: da un lato, prevedendo che attraverso apposito decreto interministeriale siano fissate le entità retributive degli amministratori di province e comuni, con riduzioni percentuali rispetto ai valori attualmente vigenti; dall'altro escludendo che gli amministratori degli altri enti locali possano essere a qualsiasi titolo remunerati (articolo ItaliaOggi del 22.07.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Composizione commissioni.
È possibile ricomprendere il sindaco nella compagine delle forze politiche presenti nel consiglio comunale ai fini della composizione delle commissioni consiliari, considerato che il consiglio è composto da due soli gruppi con lo stesso numero di consiglieri?

In base a quanto disposto dall'articolo 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, relativo al rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rappresentate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il legislatore non precisa come debba essere applicato tale criterio di proporzionalità. È da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate la determinazione dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
In merito, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 44/1997, ha precisato che il sindaco «viene computato ad ogni fine tra i componenti del consiglio stesso», con diritto di voto, e pertanto va ricompreso nel computo per la determinazione dei rappresentanti consiliari nelle commissioni nel rispetto, ovviamente, del criterio proporzionale recato dal citato art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 22.07.2011).

AMBIENTE-ECOLOGIAI centri di raccolta dei rifiuti, comunque, autorizzati possono ospitare i RAEE domestici ritirati uno contro uno.
La raccolta dei RAEE in Italia non ha ancor raggiunto i livelli desiderati (lo dicono in una interessante ricerca ReMedia e GFK Eurisko, in collaborazione con Remade in Italy e ASSORAEE) e va assolutamente incentivata. Sotto tal profilo, un aiuto può venire anche dalla circolare 02.03.2011 n. 5911 della Regione Lombardia, che riconosce a tutti i centri di raccolta, comunque autorizzati in base a qualunque normativa, la possibilità di ospitare i RAEE provenienti da nuclei domestici raccolti anche da parte dei distributori e degli installatori di AEE nonché dei gestori dei centri di assistenza tecnica di tali apparecchiature.
Sono circa 19 milioni gli italiani che in un anno si disfano almeno di un piccolo apparecchio elettronico (si tratta dei Paed, i piccoli apparecchi elettrodomestici domestici) e di questi soltanto 8,5 milioni portano i “mini" RAEE (Rifiuto di Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche) al centro di raccolta autorizzato o lo consegnano al negoziante al momento di riacquisto di un nuovo prodotto analogo. Lo afferma la ricerca "Gli Italiani e il riciclo dei Piccoli Apparecchi Elettronici Domestici" curata da GFK Eurisko per il ReMedia, pubblicata nei giorni scorsi sul sito del Consorzio. L’indagine risulta inserita in un progetto più ampio teso a stimare il potenziale del segmento del riciclo dei Paed in Italia, in considerazione dei comportamenti dei cittadini, dell’attività di raccolta e riciclo realizzata annualmente da ReMedia e della valutazione dei benefici ambientali ed economici che potremmo ottenere riciclando con maggiore consapevolezza. La ricerca comprende un’analisi dello scenario europeo relativo alla raccolta dei PAED posto in confronto con l’Italia nonché una rilevazione dei comportamenti effettivi nello smaltimento dei Paed e del livello di conoscenza della normativa da parte del cittadino/consumatore (grazie a 700 individui intervistati rappresentativi di oltre 50 milioni di Italiani).
Nell’ambito del settore dei RAEE, i Paed costituiscono una categoria con un’elevata potenzialità di recupero e valorizzazione dei materiali in essi contenuti: tra di essi vi sono piccoli elettrodomestici per la casa, PC, telefoni, videocamere e strumenti musicali, utensili ad uso domestico, giochi che dipendono dalla corrente elettrica e piccoli dispositivi per la cura della salute.
Sintetizzando, soltanto il 30% dei Paed diventano rifiuti: se gli italiani raccogliessero e riciclassero correttamente il 100% dei Paed (pari a circa 120.000 tonnellate in un anno), e si ipotizzasse di applicare le percentuali di riciclo raggiunte da ReMedia (ben il 92,6%!) in un solo anno si avrebbero 76.400 tonnellate di materie prime seconde da immettere in nuovi processi produttivi, circa 120.000 tonnellate di emissioni di CO2 evitate, 58.000 TEP (Tonnellate Equivalenti di Petrolio), di Energia risparmiata nonché 400 nuovi posti di lavoro nelle aziende che fanno riciclaggio.
La prima considerazione che emerge dalla Ricerca in modo evidente è che “nel raffronto con i principali paesi europei l’Italia registra uno dei tassi più bassi di raccolta dei PAED (16,8%), al di sotto della media continentale del 26%. Motivo di successo dei paesi più virtuosi è la densità dei centri di raccolta, uno ogni 10.000 abitanti, laddove in Italia si evidenza una minore capillarità delle isole ecologiche.
L’informazione sul tema della raccolta separata dei rifiuti elettronici resta anche in Europa un elemento di debolezza: se infatti l’80% dei cittadini conosce la raccolta differenziata dei rifiuti urbani solo il 50% è consapevole che i RAEE devono essere gestiti quale flusso specifico di rifiuti
”. Tra le altre considerazioni, emerge che la disponibilità dei centri di raccolta in Italia è ancora molto disomogenea tra Nord, Centro e Sud.
Anche l’“uno contro uno” non va ancora tanto bene: meno del 4% degli italiani ha sfruttato la possibilità del ritiro gratuito presso il punto vendita e solo 1 italiano su 2 ha utilizzato un centro di raccolta comunale almeno 1 volta nel 2010.
La nota del 02.03.2011 della Regione Lombardia.
Alla luce di quanto illustrato, una “mano” alla raccolta dei RAEE può venire, forse, da quanto indicato dalla Regione Lombardia con una nota del 02.03.2011, prot. n. 5911 della Direzione Generale Territorio e Urbanistica, Pianificazione dei Rifiuti, indirizzata a Province e Comuni lombardi.
La nota, infatti, chiarisce che i RAEE domestici, raccolti nell’ambito delle procedure di cui al D.M. 08.03.2010, n. 65 (c.d. Decreto “uno contro uno”) possono essere conferiti presso i centri di raccolta di cui all’art. 6, comma 1, lett. a) e c), del D.Lgs n. 151/2005 (Decreto RAEE), autorizzati sia ai sensi del D.M. 08.04.2008 (come modificato dal D.M. 13.05.2009), sia autorizzati in forma ordinaria o semplificata ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006 che rispettino, per quanto riguarda i RAEE, nelle caratteristiche strutturali e nelle modalità gestionali, i requisiti fissati nell’Allegato 1 del DM 08.04.2008.
In buona sostanza, secondo la D.G. Territorio e Urbanistica, Pianificazione dei Rifiuti della Regione Lombardia, la possibilità di accogliere i RAEE domestici ricevuti dai distributori, dagli installatori e dai centri di assistenza di AEE deve essere riconosciuta a tutti i centri di raccolta comunque autorizzati.
Due parole sul ritiro “uno contro uno” e…
Come accennato, il c.d. “ritiro uno contro uno” introdotto dal D.M. 08.03.2010, n. 65 permette al cittadino che acquista una nuova apparecchiatura elettrica o elettronica (cioè un’AEE) di lasciare al negoziante quella vecchia: i commercianti, dal canto loro, sono obbligatoriamente tenuti al ritiro della vecchia AEE (che a questo punto diventa un RAEE, e cioè un Rifiuto da Apparecchio Elettrico ed Elettronico) presso il loro punto vendita.
La normativa prevede che i RAEE raccolti in tal modo dal rivenditore, vengano stoccati in un apposito sito per il tempo massimo o per un quantitativo massimo, raggiunto il quale, i RAEE dovranno essere conferiti presso un centro di raccolta di cui all'art. 6, comma 1, lett. a) e c), del D.Lgs. n. 151/2005.
… sui centri di raccolta.
I centri di raccolta dei rifiuti (le c.d. eco-piazzole) possono essere sia privati sia comunali. In via generale, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lettera mm) del D.Lgs n. 152/2006, per “centro di raccolta” si intende una “area presidiata e allestita […] per l'attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti urbani per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento”.
La disciplina della gestione e della relativa autorizzazione dei centri di raccolta si rinviene nel citato D.M. 08.04.2008 (modificato dal D.M. 13.05.2009), mentre la disciplina del ritiro gratuito della vecchia apparecchiatura elettrica (per es. frigorifero, etc.) da parte del commerciante previo acquisto di quello nuovo è contenuta nel parimenti citato D.M. n. 65/2010 che ha introdotto un regime semplificato (sotto il profilo gestionale e amministrative) a favore del commerciante.
Da quanto detto, l’autorizzazione dei centri privati viene rilasciata ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006, mentre quella dei centri comunali (anche nell’ipotesi di un affidamento a terzi, cioè in pratica di una gestione da parte dei privati) viene data, in primo luogo, secondo le regole fissate dal D.M. 08.04.2008, ed in secondo luogo, a causa della confusione determinatasi per l’accavallarsi delle norme in materia, anche dalle disposizioni del D.Lgs. n. 152/2006.
I chiarimenti della nota del 02.03.2011 della Regione Lombardia.
Secondo quanto si legge nella nota regionale in commento, la disposizione di cui all’art. 8 del D.M. n. 65/2010, “pur essendo intesa a ribadire che i nuovi centri di raccolta RAEE sono realizzati e gestiti sulla base della disciplina agevolativa, non esclude la compresenza sul territorio di centri di raccolta RAEE autorizzati sulla base di altre discipline ritenute legittime dall’ordinamento giuridico”.
Infatti, l’art. 8 del D.M. n. 65/2010 rinvia, per quanto riguarda le modalità di realizzazione e gestione dei centri di raccolta di cui all’art. 6, comma 1, lettere a) e c) del D.Lgs. n. 151/2005, ai contenuti del D.M. 08.04.2008 e s.m.i. e da ciò discende che tali centri di raccolta sono oggetto di una disciplina agevolata per la loro realizzazione e funzionamento: orbene, “Tale disciplina, dettata a livello primario dalla definizione di cui all’art. 183, comma 1, lettera mm), del D.Lgs. 152/2006, coesiste attualmente con la disciplina di autorizzazione ordinaria applicabile agli impianti di gestione dei rifiuti, tra i quali si annoverano certamente anche i centri di stoccaggio di cui all’art. 208 del D.Lgs. 152/2006, e con tutte le altre discipline di settore applicabili ai rifiuti”. Sotto tale profilo, si rileva nella nota, “L’autorizzazione unica di cui all’art. 208 del D.lgs. 152/2006 garantisce una tutela ambientale che viene ritenuta piena dal legislatore nazionale e, in molti casi, presuppone la rispondenza a requisiti che garantiscono una protezione dell’ambiente ancor più elevata rispetto alle modalità semplificate consentite dal DM 08.04.2008.”
Secondo l’ufficio regionale lombardo, nella disposizione di cui all’art. 2, comma 7, del D.M. 08.04.2008 –la quale esclude, per i centri di raccolta operanti sulla base di disposizioni regionali o di enti locali che siano conformi alle disposizioni tecnico gestionali previste dall’Allegato 1 del D.M. 08.04.2008, il rilascio di una nuova autorizzazione comunale– “è possibile ravvisare l’intenzione di assimilare, sussistendo le condizioni citate, i centri di raccolta già autorizzati come impianti o operazioni gestionali ai centri di raccolta disciplinati dal D.M. 08.04.2008”.
Come anticipato, la nota in parola suggerisce in definitiva il riconoscimento “a tutti i centri di raccolta, comunque autorizzati in base a qualunque normativa, la possibilità di ospitare i RAEE provenienti da nuclei domestici raccolti anche da parte dei distributori e degli installatori di AEE nonché dei gestori dei centri di assistenza tecnica di tali apparecchiature”: secondo la Regione Lombardia, “Tale conclusione, oltre ad apparire atta ad offrire una soluzione gestionale funzionale, risulta anche idonea sia ad evitare conseguenze dannose in termini di tutela ambientale, sia al fine di incentivare il conferimento dei RAEE presso i centri di raccolta di cui all’art. 6, comma 1, lettere a) e c), del D.lgs. 151/2005”.
In tema di centri di raccolta, infine, si segnala la recente pronuncia della S.C. (Corte di Cassazione, Sezione III penale, sentenza 17864 del 09.05.2011) che ha confermato l’interpretazione di chi sosteneva che nel caso in cui i centri di raccolta comunali rispettino le disposizioni del D.M. 08.04.2008, non è necessaria anche l'autorizzazione regionale..
Regione Lombardia, Direzione Generale Territorio e Urbanistica, Pianificazione dei Rifiuti, nota 02.03.2011 n. 5911, Regime autorizzativo impianti di conferimento dei RAEE (rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche) domestici
Per le informazioni ai consumatori in tema di RAEE, si veda il nuovo sito di ReMedia: www.remediapervoi.it Per maggiori informazioni sulla Ricerca: ReMedia e GFK Eurisko, in collaborazione con Remade in Italy e ASSORAEE, "Gli Italiani e il riciclo dei Piccoli Apparecchi Elettronici Domestici" (20.07.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

ESPROPRIOpere pubbliche in difetto. Si paga il valore venale e il danno. Sanabili vent'anni di espropri.
Cambia dal 6 luglio, con l'articolo 34 del Dl 98 (legge 111/2011) il regime dei suoli soggetti a procedure di esproprio per pubblica utilità, qualora manchi l'atto iniziale (dichiarazione di pubblica utilità) o quello finale (il decreto di esproprio). Se l'amministrazione ha acquisito immobili con procedure errate, odi fatto, spetta oggi il valore venale con l'incremento di importi per l'occupazione abusiva (5% annuo) e per danno non patrimoniale (10%, che raddoppia in caso di perdita del bene destinato a edilizia pubblica).
La novità interessa i proprietari che abbiano perso la disponibilità dell'area nell'arco degli ultimi 20 anni (termine di usucapione a favore della Pa) qualora sia mancato qualsiasi atto di procedura. Se invece vi è un contenzioso, innanzi il giudice ordinario (in materia di danni) o innanzi il giudice amministrativo (in tema di retrocessione o acquisizione) la norma può sanare anche questioni ultraventennali. Pagherà l'amministrazione che fruisce dell'area, salvo rivalsa (se prevista) su terzi quali i concessionari di un'area sportiva, o i proprietari di unità di edilizia pubblica su aree non correttamente espropriate.
I presupposti per la sanatoria sono rigidi e dettagliati, perché occorrono: 1) attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico; 2) ragioni che devono prevalere sui contrapposti interessi privati dei proprietari; 3) carenti alternative alla sanatoria (articolo 42-bis, comma 4).
Ciò significa che un'area destinata a strada, detenuta senza titolo dall'amministrazione, sarà agevolmente sanata con la nuova procedura: basta sottolineare la destinazione collettiva, priva di alternative; ma nel caso di un'area attrezzata a parco pubblico, a campi da tennis, o anche solo a scuola o caserma dei vigili del fuoco (considerate utilizzazioni reversibili), l'ente espropriante dovrà valutare con attenzione gli interessi in conflitto.
La scuola realizzata su un'area detenuta senza titolo da un Comune potrebbe, per esempio, tornare al privato proprietario dell'area, che a sua volta potrebbe poi darla in locazione ... (articolo Il Sole 24 Ore del 22.07.2011 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGODetrazioni, basta richieste annuali. Inpdap: la dichiarazione non va ripetuta.
Vita più facile ai pensionati Inpdap (e non solo). La richiesta di detrazioni per il carico familiare non va più ripetuta ogni anno, ma soltanto in caso di variazioni della dichiarazione precedentemente presentata.
Lo spiega, tra l'altro, l'Inpdap nella nota operativa n. 26/2011.
Richieste una volta per sempre. La novità arriva dalla legge n. 106/2011 (conversione dl n. 70/2011) che, tra l'altro, ha modificato l'articolo 23 del dpr n. 600/1973 in merito al diritto alle detrazioni fiscali.
Praticamente, si torna alla vecchia disciplina in virtù della quale le detrazioni «sono riconosciute se il percipiente dichiara di avervi diritto, indica le condizioni di spettanza, il codice fiscale dei soggetti per i quali si usufruisce e si impegna a comunicare tempestivamente le eventuali variazioni», cosicché la dichiarazione ha effetto anche per i periodi d'imposta successivi.
La nuova normativa solleva quindi i contribuenti dall'obbligo di presentare ogni anno all'Inpdap (in via generale al sostituto d'imposta), la domanda contenente la richiesta delle detrazioni per carichi di famiglia assieme alle condizioni di spettanza e ai dati relativi ai familiari per i quali richiedono l'attribuzione del beneficio fiscale. L'adempimento deve essere effettuato, tempestivamente, soltanto al verificarsi di ogni variazione che rilevi ai fini del diritto a fruire delle predette detrazioni.
Novità dal 2011. La novità ha effetto immediato per i pensionati Inpdap. L'istituto, infatti, spiega che riconoscerà le detrazioni per carichi di famiglia sulla base dell'ultima richiesta presentata dal contribuente il quale, tuttavia, avrà l'obbligo di comunicare tempestivamente ogni eventuale variazione.
Di conseguenza, l'Inpdap non sospenderà l'attribuzione del beneficio fiscale con la rata del prossimo mese di agosto a coloro che non abbiano presentato la prescritta dichiarazione entro il 31 maggio, diversamente da quanto aveva stabilito lo stesso istituto previdenziale con la nota operativa n. 7/2011 (su ItaliaOggi del 4 febbraio).
Infine l'Inpdap spiega che rimane invariato quanto già in essere per le detrazioni sul reddito che vengono attribuite direttamente dall'istituto in base ai dati reddituali in suo possesso (articolo ItaliaOggi del 20.07.2011).

EDILIZIA PRIVATAMintrasporti/ Nei garage si applica il codice.
Nell'autorimessa sotterranea aperta al pubblico trova applicazione il codice della strada. In caso di sosta a pagamento andranno però predisposti nelle immediate vicinanze anche stalli di sosta senza vincoli.

Lo ha chiarito il ministero dei trasporti con il parere n. 3485 del 23.06.2011.
La questione delle autorimesse sotterranee a pagamento è sempre più frequente e per questo motivo un comune ha richiesto chiarimenti. A parere dell'organo centrale di coordinamento costituisce strada «qualsiasi area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali».
In pratica a prescindere dalla proprietà del manufatto le norme del codice trovano applicazione su qualsiasi spazio destinato ad ospitare la mobilità di un numero indistinto di persone. Ma attenzione alla collocazione degli stalli.
Specifica infatti il ministero che se l'autorimessa non ricade nelle aree pedonali, nelle ztl o in zone di particolare pregio urbanistico, «vige l'obbligo di predisporre, nella stessa area, un congruo numero di stalli senza dispositivi di controllo della durata della sosta, opportunamente disposti nell'area di sosta già presente in superficie, ovvero in entrambe» (articolo ItaliaOggi del 19.07.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA CORRETTIVA/ Blocco assunzioni a lunga gittata. Un anno in più, tranne che per forze dell'ordine e agenzie. Operazione restyling per il calcolo dell'indennità di vacanza.
Lacrime e sangue per l'impiego pubblico, ma a partire dal 2013, a meno che esigenze improvvise non richiedano ulteriori anticipi degli effetti della manovra varata ieri. I tagli alle spese complessive per il personale pubblico contribuiranno per circa 1.500.000 di euro tra il 2013 e il 2016, con risparmi annui a regime, a partire dal 2017, per 370 milioni.
Il tutto sarà rimesso, però, ad regolamenti delegati di delegificazione che interverranno con una serie di misure specifiche, per assicurare i risparmi previsti.

Il primo intervento della legge 111/2011 consiste nella proroga di un anno dell'efficacia delle disposizioni in materia di limitazione della possibilità di assumere nuovi dipendenti per le amministrazioni dello Stato, a esclusione dei Corpi di polizia, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, per le agenzie fiscali, per gli enti pubblici non economici e per gli enti dell'articolo 70, comma 4, del dlgs 165/2001. La disposizione riguarda direttamente solo le amministrazioni statali. Per gli enti locali non è necessaria. Infatti le disposizioni sul contenimento delle assunzioni di comuni e province sono operative a regime, cioè con disposizioni che valgono a tempo indeterminato.
Il secondo intervento demandato ai regolamenti delegati è la proroga fino al 31.12.2014 del congelamento al 2010 delle retribuzioni dei dipendenti e dei fondi decentrati per la contrattazione. I regolamenti delegati potranno allentare sia il blocco parziale delle assunzioni, sia il congelamento degli stipendi e dei fondi contrattuali, differenziando il regime di contenimento della spesa per i comparti «virtuosi».
Ancora, si prevede una revisione delle modalità di calcolo dell'indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017: potrebbe essere il preannuncio di ulteriori congelamenti della contrattazione. I risparmi passeranno anche per la semplificazione ed il rafforzamento dell'obbligatorietà delle procedure di mobilità del personale tra le pubbliche amministrazioni, per favorire la redistribuzione territoriale dei dipendenti pubblici, così da rimediare a problemi di carenze in certe amministrazioni, cui fanno fronte eccessi delle dotazioni di altre. Allo scopo di uniformare la normativa, i regolamenti delegati potranno anche coinvolgere tutti i soggetti pubblici come destinatari diretti delle misure di razionalizzazione della spesa di personale; faranno eccezione solo regioni e province autonome, nonché gli enti del servizio sanitario nazionale.
Infine i regolamenti delegati potranno prevedere «ulteriori misure di risparmio, razionalizzazione e qualificazione della spesa delle amministrazioni centrali anche attraverso la digitalizzazione e la semplificazione delle procedure, la riduzione dell'uso delle autovetture di servizio, la lotta all'assenteismo anche mediante estensione delle disposizioni di cui all'articolo 71 del dl 25.06.2008, n. 112 convertito dalla legge 06.08.2008, n. 133 al personale del comparto sicurezza e difesa con eccezione di quello impegnato in attività operative o missioni».
Per contribuire ai risparmi, gli enti avranno la facoltà di adottare entro il mese di marzo di ogni anno «piani triennali di razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di riordino e ristrutturazione amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche», dai quali ricavare anche finanziamenti per l'incentivazione del personale.
Ancora, si impone espressamente ai dirigenti pubblici di attuare sentenze della Corte costituzionale che accertino l'incostituzionalità di forme di assunzioni a tempo indeterminato, incluse quelle frutto della stabilizzazione o trasformazione di rapporti a tempo determinato, nonché gli inquadramenti e le promozioni (articolo ItaliaOggi del 19.07.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Le pagelle per misurare le scelte dei sindaci. Dal personale alle dismissioni, i criteri che sceglieranno gli enti da premiare.
Il principio è semplice: individuare gli enti meglio gestiti , e le Giunte che sono riuscite a risanare situazioni di difficoltà ereditate dagli amministratori precedenti, e riservare loro una maggiore autonomia e regole più blande sui vincoli di bilancio.
L'attuazione, però, rischia di essere un rompicapo di improbabile solcuzione.
La sfida di "virtuosità" degli enti locali ... (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTIPagamenti. La determinazione dell'Avcp. Tracciabilità rigida sul fronte degli appalti.
Linea morbida su finanziamenti, utenze e servizi sanitari, ma rigidità assoluta sugli altri fronti: ecco ciò che emerge dall'analisi di quella che può essere definita la "guida Avcp" (Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici) per l'applicazione dell'articolo 3 della legge 136/2010 in tema di tracciabilità dei pagamenti.
Dalla determinazione 07.07.2011 n. 4 la tracciabilità esce ridimensionata in relazione ai finanziamenti pubblici: sono sottoposti agli obblighi di tracciabilità i soggetti, anche privati, destinatari di finanziamenti pubblici solo se stipulano contratti che rientrano nella definizione di "appalto pubblico" ex articolo 3, comma 6, del Dlgs 163/2006.
Amministrazioni e imprese pubbliche, poi, possono pagare luce, gas, telefono e simili anche con la modalità Rid e, quindi, senza indicare il Cig, che però deve essere contenuto nella delega all'addebito rilasciata a monte alla banca designata. Infine i servizi sanitari: esclusi dagli obblighi di tracciabilità i pagamenti delle Asl per prestazioni socio-sanitarie e di ricovero, di specialistica ambulatoriale e diagnostica strumentale erogate da soggetti privati in regime di accreditamento, così come il pagamento a fronte della fornitura diretta di farmaci al cittadino da farmacie convenzionate.
Molto rigide, invece, le posizioni Avcp sull'obbligo di tracciabilità per la "filiera delle imprese" coinvolte negli appalti. La definizione interessa non solo l'appaltatore ma anche la stazione appaltante, obbligata a verificare l'inserimento della clausola di tracciabilità in tutti i contratti stipulati dall'appaltatore e dal subappaltatore con i subcontraenti della filiera delle imprese. Per gli appalti di fornitura, l'ultimo rapporto rilevante è quello relativo alla realizzazione del bene oggetto della fornitura principale, escluse le sub-forniture destinate a realizzare il prodotto finito. Non sono poi sottoposti a tracciabilità gli acquisti di beni che confluiscono nelle scorte di magazzino, sempreché l'acquisto preceda la commessa pubblica.
Gli esempi portati da Avcp (si veda la tabella) manifestano un notevole rigore, che spesso si scontrerà con difficoltà applicative. Nemmeno i mutui sfuggono alla tracciabilità, che tuttavia può realizzarsi in forma attenuata: è utilizzabile il sistema Rid, a patto che il Cig venga indicato nella autorizzazione/delega all'accredito in conto. Viene poi confermato esplicitamente che non possono essere esclusi dagli obblighi di tracciabilità i rapporti fra enti/società pubbliche quando sono attivati in condizioni di concorrenza con operatori di mercato.
Particolare la posizione Avcp sui rapporti con gli operatori non stabiliti in Italia. A fronte di un loro rifiuto di sottoscrivere le clausole di tracciabilità, l'amministrazione potrà contrarre solo se si tratta dell'unico possibile contraente, e dimostrando di essersi comunque attivata richiedendo l'applicazione della tracciabilità. Ulteriore settore di interesse operativo è la formazione: viene confermata l'applicabilità della 136/2010, ma la mera partecipazione di un dipendente a un seminario o a un convegno non integra la fattispecie di appalto di servizi, e quindi il pagamento non va tracciato.
Un ultimo aspetto operativo: la comunicazione di conto dedicato deve essere sottoscritta dal legale rappresentante dell'impresa appaltatrice o da un soggetto munito di apposita procura (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2011 - link a www.corteconti.it).

APPALTI SERVIZICorte dei conti Lombardia. A volte riportare i servizi all'interno è più conveniente.
Messo in discussione il dogma della riduzione della spesa di personale. A fronte della possibilità di reinternalizzare un servizio, con conseguente oggettivo risparmio in termini di costi, si può giustificare un aumento della spesa per i dipendenti?

Il problema è stato posto dal comune di Porto Mantovano alla Corte dei conti Lombardia, la quale, pur cavalcando una soluzione favorevole all'ente locale, rimette la questione alle Sezioni Riunite.
Il presupposto viene identificato in una situazione considerata ottimale dal punto di vista della gestione del personale, cioè un rapporto fra spesa di personale e spesa corrente che si aggira attorno al 22% e un rapporto fra dipendenti e residenti pari a 1 ogni 400 circa.
Dati alla mano, il Comune dimostra che riportare all'interno un'attività, prima esternalizzata, comporta maggiori costi a livello di personale, ma l'incremento viene assorbito da minori oneri in termini di uscite per servizi, con una differenza di gran lunga a favore del comune. La Corte lombarda osserva come le disposizioni sulla riduzione della spesa di personale non rappresentano mere indicazioni, ma devono essere considerate veri e propri vincoli, che si inseriscono in quel coordinamento della finanza pubblica, previsto dal l'articolo 119 della Costituzione.
D'altro canto, però, i giudici contabili non si nascondono che i principi di economicità e di efficacia non rappresentano solo criteri che devono guidare le scelte discrezionali della pubblica amministrazione, ma devono essere considerati elementi che caratterizzano la legittimità del l'azione amministrativa, di cui l'autorità giudiziaria può ben chiederne conto. Si colloca, quindi, in quell'alveo del buon andamento tutelato dall'articolo 97 della Costituzione.
Già in altra occasione, le Sezioni riunite hanno sottolineato che sulla spesa di personale è necessaria un'analisi molto più dettagliata per arrivare a una quantificazione più precisa. Il coordinamento delle diverse esigenze tutelate dalla stessa Costituzione diventa sempre più complesso se si considera anche il principio dell'autonomia organizzativa degli enti territoriali previsto dal l'articolo 114.
In altri termini, la Corte si chiede se l'efficienza, l'efficacia e l'economicità non costituiscano un confine invalicabile anche per le esigenze di finanza pubblica, che si reggono sui tagli alla spesa storica. Le argomentazioni risultano estremamente convincenti, anche se la Corte non ha affondato il colpo, in quanto una crepa del sistema potrebbe aprire il campo a comportamenti elusivi che possono realmente mettere in crisi i delicati equilibri dei conti pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOManovra. Punito singolarmente chi viola le regole sulla stabilità interna - Nulli i contratti di servizio e gli atti elusivi. Sul Patto sanzioni ad personam. Politici e dirigenti rischiano fino a 10 volte l'indennità e il triplo dello stipendio.
La manovra introduce la sanzione personale per la violazione del Patto di stabilità interno. Dall'entrata in vigore del Dl 98/2011, infatti, i contratti di servizio e gli altri atti di regioni ed enti locali elusivi delle regole del Patto sono colpiti da nullità. Inoltre, qualora la Corte dei conti accerti che il rispetto del Patto sia stato artificiosamente conseguito grazie a un'errata imputazione di entrate e/o uscite rispetto ai pertinenti capitoli di bilancio o ad altre forme elusive, gli amministratori e il responsabile del servizio finanziario che li abbiano posti in essere, possono essere condannati, rispettivamente, a una sanzione pecuniaria fino a un massimo di 10 volte l'indennità di carica percepita e fino a 3 mensilità del trattamento retributivo, al netto degli oneri fiscali e previdenziali.
È una forma di responsabilità amministrativa di tipo sanzionatorio, simile a quella che prevede una sanzione parametrata all'indennità percepita, per gli amministratori degli enti territoriali che ricorrano al debito per finanziare spese non d'investimento (articolo 30, comma 15, della legge 289/2002).
Ma torniamo alla norma della manovra (articolo 20, commi 10, 11 e 12) che facendo perno sulla nullità degli atti e sulla responsabilità personale, vuole scoraggiare manovre elusive nella gestione finanziaria, finalizzate al conseguimento formale-cartolare degli obiettivi del Patto, senza tuttavia che a ciò si coniughi un rispetto sostanziale degli stessi. Fra gli artifici contabili più frequenti, si possono elencare:
- l'errata imputazione di spese in sezioni di bilancio non rilevanti ai fini del Patto (soprattutto nei servizi in conto terzi/partite di giro);
- il ricorso strumentale a rapporti finanziari e di servizio con i soggetti partecipati;
- la mancata iscrizione in bilancio di spese da sostenere e la relativa formazione di debiti fuori bilancio;
- il rinvio agli esercizi successivi di pagamenti eccedenti i limiti imposti dal Patto.
Sulla questione dell'indebitamento, la Corte dei conti (sezioni riunite, sentenza 12/2007) ha fissato alcuni principi che sembrano applicabili anche alla sanzione in tema di Patto, chiarendo la natura dell'ammenda di cui all'articolo 30, comma 15, della legge 282/2002:
- il procedimento per la sua applicazione è quello previsto per l'ordinario giudizio di responsabilità. Non è utilizzabile, invece, la procedura relativa ai giudizi a istanza di parte;
- per la condanna è necessario che ricorra l'ordinario elemento soggettivo del dolo o della colpa grave;
- il destinatario della sanzione è l'ente di appartenenza degli amministratori e non l'erario.
Per il calcolo dell'importo, la configurazione dell'elemento soggettivo, l'intermediazione di soggetti strumentali dell'ente pubblico e le modalità di dichiarazione della nullità, si segnalano le decisioni 87/2008 della Corte conti Umbria, 444/2010 della Corte conti - sezione 1° giurisdizionale centrale e 473/2011 della Corte conti Lazio, nonché l'ordinanza 27092/2009 della Cassazione.
Il mancato rispetto del Patto, tuttavia, presenta problemi applicativi maggiori. Nel caso del debito, infatti, sono chiari il momento e l'atto violativo del precetto (l'esecuzione del contratto di finanziamento in violazione dell'articolo 119, comma 6, Costituzione). Inoltre è agevole individuare i soggetti responsabili (gli amministratori che hanno deliberato il ricorso al debito).
In tema di Patto, invece, è più difficile identificare i comportamenti elusivi e i relativi responsabili. La casistica, difatti, è più ampia: alcuni esempi-tipo –quali lo stanziamento di maggiori spese per garantire servizi essenziali, oppure l'utilizzo strumentale degli enti partecipati per le assunzioni o, ancora, gli artifici di bilancio– sono elencati nella tabella qui a fianco.
Occorreranno accertamenti complessi per qualificare i provvedimenti e gli atti elusivi, anche di tipo omissivo e per individuare i responsabili, l'apporto causale e il profilo soggettivo, tenendo presente il ruolo assunto non tanto nella compagine amministrativa, quanto nell'iter procedurale che ha originato lo sforamento. Riguardo alle modalità di violazione, inoltre, andrà precisato il giudice competente a dichiararne la nullità.
Se per i contratti la Cassazione, nell'ordinanza 27092/2009, stabilisce la competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria (e non della Corte dei conti), nel caso di provvedimenti e atti amministrativi le modalità sono ancora da definire. Ancor più complesso, infine, è il caso dei comportamenti di fatto (ad esempio: una fattura nel cassetto), per i quali è concettualmente arduo configurare una nullità in senso tecnico.
Nonostante le difficoltà, è apprezzabile il tentativo del legislatore di porre un altro tassello nella costruzione di un sistema di sanzioni personali per prevenire comportamenti opportunistici in materia di finanza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 18.07.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Piccoli Comuni: Regioni su funzioni associate.
La Conferenza delle Regioni e delle Province autonome riunitasi il 07.07.2011 ha dato il via libera ad un documento sul DPCM per l’esercizio in forma obbligatoriamente associata delle funzione fondamentali dei comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti.
Il tema era stato posto all’ordine del giorno della Conferenza Unificata del 7 Luglio (poi rinviata) per una “informativa” del Governo.
Si riporta di seguito il testo integrale.
Schema di D.P.C.M. recante “Esercizio in forma obbligatoriamente associata delle funzione fondamentali dei Comuni con popolazione inferiore ai 5000 abitanti ai sensi dell’articolo 14, comma 31, del decreto legge 31.05.2010 n. 78, convertito nella legge 30.07.2010 n. 122”.
Le Regioni, in relazione allo schema di D.p.c.m. in oggetto, in più occasioni e da ultimo nella seduta della Conferenza Unificata del 03.03.2011 avevano richiesto che si instaurasse sulle tematiche del Decreto Legge 78 ed in particolare in relazione alle norme che prevedono l’obbligo per i Comuni di esercitare obbligatoriamente in forma associata le funzioni fondamentali ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione, un confronto ai fini di una verifica complessiva anche per le necessarie connessioni con la Legge 42 del 2009 e i decreti legislativi attuativi ed in particolare per quello relativo al federalismo municipale. Per questo, era stato richiesto un formale passaggio dello schema di D.p.c.m. attuativo dell’articolo 14, comma 31, del D.L. 78 del 2010 in sede di Conferenza Unificata.
Nel prendere atto della decisione del Governo di rendere esclusivamente una informativa sul provvedimento, che proprio per la complessità dei temi trattati avrebbe richiesto un confronto tecnico di tutti i livelli istituzionali per dirimere le numerose questioni a livello interpretativo, le Regioni ribadiscono la richiesta di istituire in tempi brevi –considerati anche i termini previsti dal provvedimento- il Tavolo di confronto e nel merito formulano le seguenti osservazioni:
1. in relazione al dato demografico per l’attuazione dell’articolo 2 dello schema di d.p.c.m. occorre chiarire quale sia il dato da prendere in considerazione. Sarebbe utile individuarlo tra quello dell’ultimo censimento o il più aggiornato riferimento Istat;
2. sempre in relazione all’articolo 2, comma 1, si suggerisce l’opportunità di integrare il criterio del quadruplo del numero degli abitanti del comune demograficamente più piccolo con la previsione di considerare comunque conseguita l’adeguatezza nel caso in cui sia raggiunta la soglia dei 3000 o 5000 abitanti, ai sensi del comma 28 dell’articolo 14 del D.L. 78 a prescindere dal numero dei comuni associati;
3. è necessario affrontare il caso in cui un comune obbligato non sia in grado di adempiere alle disposizioni della Legge per mancanza di comuni limitrofi anch’essi obbligati. Per questa particolare casistica, non regolata dal D.p.c.m. ma non infrequente nella pratica, occorre chiarire quali misure dovranno essere adottate e quali conseguenze ricadranno sul Comune
(link a www.regioni.it).

GIURISPRUDENZA

LAVORI PUBBLICI: L'Anas paga i danni se il terreno privato frana.
L’Anas deve pagare i danni all’automobilista investito da una frana anche se questa proviene dal terreno di un privato.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con la sentenza 18.07.2011 n. 15720 inchioda l’azienda alle sue responsabilità escludendo la possibilità di scaricare su terzi l’obbligo di segnalare rischi o porre in sicurezza le aree in prossimità delle strade statali.
La prevedibilità dell’evento.
Gli ermellini hanno così ribaltato i verdetti con cui sia del Tribunale sia della Corte d’Appello di merito avevano negato il diritto del ricorrente a ottenere un indennizzo dall’Anas per i danni causati alla sua automobile dal cedimento di un terreno a monte della strada che stava percorrendo.
Secondo i giudici di merito, infatti, la responsabilità prevista dall’articolo 2051 del codice civile si applica alle situazioni di pericolo che si possono verificare sulle strade pubbliche o aperte al pubblico ma va esclusa, quando l’evento è imprevedibile o perché causato dallo stesso utente o perché dovuto a un’alterazione “repentina dello stato della cosa”, come avvenuto, secondo la Corte d’Appello di Milano, nel caso analizzato.
Per i giudici di secondo grado l’Anas, infatti, non poteva ipotizzare né evitare una frana che proveniva da un terreno di proprietà di terzi e non aveva di conseguenza alcun obbligo né di segnalare un pericolo non individuabile né di mettere in atto interventi di salvaguardia.
Non è d’accordo la Cassazione, che rinvia la causa alla Corte d’Appello invitandola a tenere nella debita considerazione soprattutto due circostanze che proverebbero la prevedibilità dell’evento. Negli anni precedenti quel tratto stradale era già stato interessato da sfaldamenti di piccola entità, comunque tali da indurre le Ferrovie dello stato a mettere in sicurezza i binari a ridosso della zona. Crolli presi in considerazione, come risultava da una relazione tecnica, anche dalla stessa Anas, che aveva predisposto delle opere, per fronteggiare lo stesso problema (commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti di produzione da fonti rinnovabili - Sospensione della pratica DIA in attesa dell’adozione di indirizzi interpretativi - Illegittimità - Fondamento.
Secondo lo schema delineato dall’art. 23 del T.U. edilizia non è consentita l’inibitoria dell’intervento che si intende realizzare se non per la riscontrata assenza di una o più delle condizioni stabilite dalla normativa vigente al momento della scadenza dei termini previsti per la formazione del titolo edilizio, senza poter mai invocare al medesimo fine atti regolamentari che allo stato risultano solo in corso di predisposizione.
Un simile potere soprassessorio (sospensione della pratica DIA in attesa della adozione di indirizzi interpretativi ed operativi), oltre a porsi in contrasto con quanto previsto dall’art. 21-quater della l. n. 241 del 1990, non appare neppure contemplato dalla normativa in materia di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili (d.lgs. n. 387 del 2003).
Peraltro, in applicazione del principio di legalità dell’azione amministrativa ciascuna amministrazione può esercitare soltanto i poteri espressamente previsti dalla legge e secondo le modalità da questa previste, e ciò tanto più ove si tratti di incidere su attività economiche soggette a (parziale) liberalizzazione (cfr. art. 1 della legge n. 239 del 2004) e ritenute fondamentali per il raggiungimento di obiettivi di politica ambientale fissati a livello comunitario (direttiva 2001/77/CE) e internazionale (Protocollo di Kyoto).
In questa prospettiva, il provvedimento inibitorio viola i principi fondamentali di semplificazione stabiliti dal d.lgs. n. 387 del 2003, che prevede termini perentori per la conclusione dei relativi procedimenti amministrativi, sì da non tollerare una loro sospensione ad tempus (cfr. Corte cost., sent. n. 364 del 2006) o, a maggior ragione, sine die (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2011 n. 1373 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti di energie rinnovabili - Leggi regionali dichiarate incostituzionali - D.L. n. 105/2010, art. 1-quater - Salvezza dei titoli abilitativi - Esercizio dell’impianto entro 150 gg. dalla data di entrata in vigore della norma - Ordine di sospensione dei lavori o annullamento del titolo - Conseguenze.
L’art. 1-quater del decreto legge n. 105 del 2010 consente la salvezza degli effetti dei titoli abilitativi formatisi in relazione ad impianti di energie rinnovabili recanti soglie superiori rispetto alla disciplina statale, per effetto di leggi regionali dichiarate poi incostituzionali (nella specie, sentenza Corte Cost. n. 119/2010). L’articolo in esame subordina la salvezza della DIA al completamento ed all’esercizio dell’impianto entro una certa data (150 gg. dal’entrata in vigore della norma), tenuto conto, tra l’altro, dell’utilità che detti impianti hanno per l’economia nazionale e dell’affidamento riposto nella norma dichiarata incostituzionale.
Se questo è vero per le procedure in cui,fisiologicamente,alla DIA sono seguiti i lavori, è parimenti vero per i casi in cui l’intervento dell’autorità ha impedito l’operatività della DIA. L’impossibilità di eseguire i lavori dovuta ad un ordine di sospensione o all’annullamento del titolo, lungi dall’impedire la salvezza delle DIA, comporta pertanto lo spostamento in là della data ultima per il conseguimento della salvezza (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2011 n. 1365 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Art. 11 d.P.R. n. 380/2001 - Titolo idoneo a legittimare la richiesta del permesso di costruire - Situazione giuridica assimilabile alla proprietà - Aspettativa qualificata - Contratto di opzione.
L’art. 11 del DPR n. 380 del 2001, nel prevedere che il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo, richiede, quale titolo astrattamente idoneo a legittimare la richiesta del permesso di costruire, la sussistenza di una situazione giuridica assimilabile alla proprietà o, eventualmente, alla qualificata aspettativa di poter esercitare le prerogative del proprietario sull’area in cui si intende realizzare un determinato intervento: rientra in tali ipotesi anche la stipulazione di un contratto di opzione il quale, per la sua configurazione di sostanziale proposta irrevocabile (con vincolo a carico del concedente e diritto potestativo in favore dell’opzionario), senz’altro è istituto idoneo a far insorgere, in capo all’interessato, una situazione di qualificata aspettativa; anzi, in forza dell’assetto di poteri che si instaura tra concedente ed opzionario (al quale è rimesso il semplice esercizio di un diritto potestativo ai fini del perfezionamento del successivo contratto) esso risulta persino più incisivo, sotto il profilo della effettiva disponibilità dell’immobile, rispetto al contratto preliminare di vendita che è da tempo ritenuto titolo idoneo a richiedere il permesso di costruire (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2011 n. 1365 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Vincolo archeologico diretto - Imposizione - Identificazione del deposito archeologico - Precisa localizzazione dell’area.
In tema di imposizione di vincolo archeologico diretto, è ritenuta indefettibile, affinché siano evitati inutili sacrifici delle proprietà incise, un’adeguata identificazione del deposito archeologico, accompagnata dalla precisa localizzazione dell’area in cui lo stesso si presume esistente, di modo che l’imposizione del vincolo cada su una superficie effettivamente interessata dai reperti congruamente individuati, quanto a rilevanza, consistenza, estensione e ubicazione del relativo deposito. (Cons. St., sez. VI, 05.10.2001, n. 5247; Cons. St., sez. VI, 07.05.2001, n. 2522; Cons. St., sez. VI, 26.01.2000, n. 357).
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Vincolo archeologico diretto - Imposizione - Estensione - Complesso unitario inscindibile dei ruderi.
L’Amministrazione può estendere il vincolo diretto ad intere aree in cui siano disseminati ruderi archeologici particolarmente importanti, richiedendosi, tuttavia, che i ruderi stessi costituiscano un complesso unitario inscindibile, tale da rendere indispensabile il sacrificio totale degli interessi contrapposti, in modo tale da evitare che l’imposizione della limitazione sia sproporzionata rispetto alle finalità di pubblico interesse cui è preordinata (Cons. St., sez. VI, 27.09.2005, n. 5069) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2011 n. 1358 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti di energia rinnovabile - Criteri di inserimento nel paesaggio - Competenza - Conferenza Unificata - Linee guida statali - Art. 12, c. 10 d.lgs. n. 387/2003 - Regioni - Competenza in via attuativa - Province e comuni - Incompetenza.
Le competenze in tema di individuazione di aree idonee e di elaborazione di criteri di corretto inserimento degli impianti di energie rinnovabili nel paesaggio appartengono unicamente alla Conferenza Unificata (mediante linee guida c.d. statali - cfr. art. 12, c. 10 d.lgs. n. 387/2003) in via generale ed alle Regioni in via meramente attuativa; non anche a province e comuni, i quali potranno tutt’al più provvedere, ai sensi dell’art. 117, sesto comma, Cost., alla disciplina degli aspetti più propriamente organizzativi e procedimentali, nel rispetto di quanto già stabilito in proposito dalle linee guida statali e regionali, non anche gli aspetti sostanziali come quelli che nella specie si è inteso in senso assolutamente prevalente regolare (cfr. TAR Lecce, sez. I, 26.01.2011, n. 140).
VIA - Impianti fotovoltaici - Regolamento per la redazione degli studi e la valutazione della compatibilità ambientale - Provincia - Incompetenza relativa.
L’incompetenza della Provincia all’emanazione di un regolamento per la redazione degli studi e la valutazione della compatibilità ambientale di impianti fotovoltaici deve essere ritenuta non assoluta ma relativa.
E ciò in forza di una interpretazione più restrittiva del concetto di incompetenza assoluta che, anche a seguito della riforma costituzionale del 2001, deve essere letta come impossibilità non tanto di adottare il singolo atto ma, piuttosto, di intervenire in generale sull’intero settore di attività: circostanza questa che nel caso di specie non si verifica, posto che la Provincia esercita comunque numerose competenze -anche al di là di quelle specificamente delegate in tema di VIA- in materia di tutela dell’ambiente [cfr. art. 19, comma 1, lettere a) ed e), del decreto legislativo n. 267 del 2000) e di valorizzazione delle risorse energetiche [cfr. lettera b) della stessa disposizione] (TAR Puglia Lecce, sez. I, 29.06.2011 nn. 1215, 1216 e 1218 e 11.07.2011 n. 1286) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2011 n. 1356 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: VIA - Regione Puglia - Delega alle province delle competenze sulla VIA - L.r. Puglia n. 17/2007 - Titolarità del potere - Regione - Istituto della delegazione - Principi generali.
Se è pur vero che con la l.r. Puglia n. 17 del 2007 sono state delegate alle province pugliesi le competenze sulla VIA, dall’altro lato è anche vero che tale delega ha riguardato soltanto l’esercizio delle funzioni stesse, non anche la loro titolarità. In questa direzione il delegante conserva poteri di coordinamento e di alta sorveglianza, e tra questi anche quello di emanare direttive.
Del resto, in applicazione di principi generali dell’ordinamento costituzionale ed amministrativo l’istituto della delegazione non spoglia il delegante del potere di provvedere sulla materia delegata, conservando anzi in merito ad esso il potere di (re)intervenire in ogni momento: non è un caso, infatti, che nulla è mutato in ordine al potere della Regione Puglia di adottare atti di indirizzo in materia di VIA (cfr. art. 7 della legge regionale n. 11 del 2001).
VIA - Art. 7, c. 7 d.lgs. n. 152/2006 - Competenze in materia di VIA - Principio di sussidiarietà verticale.
Il codice dell’ambiente (cfr. art. 7, comma 7) assegna unicamente alle Regioni ed alle province autonome il potere di disciplinare in materia di VIA “le competenze proprie e quelle degli altri enti locali”.
Si tratta di una applicazione del principio di sussidiarietà verticale in base al quale lo Stato, nell’esercizio della competenza esclusiva in materia di tutela dell’ambiente [cfr. art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.], ha ritenuto di allocare tale specifica competenza, per ragioni per l’appunto di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, al livello di governo regionale (TAR Puglia Lecce, sez. I, 29.06.2011 nn. 1215, 1216 e 1218 e 11.07.2011 n. 1286) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 18.07.2011 n. 1356 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'esclusione di un concorrente da una gara, motivata sulla base della lettera d'invito, contenente una disciplina più restrittiva rispetto alla normativa di gara.
E' illegittimo il provvedimento di esclusione da una gara, adottato da una stazione appaltante nei confronti di un RTI, sulla base della disciplina contenuta nella lettera d'invito, più restrittiva rispetto alla normativa di gara, prevista nel bando.
Nel caso di specie, la lettera di invito impone la disponibilità in proprietà od in avvalimento di tutti i mezzi necessari per l'esecuzione del contratto, in quanto espressamente elenca le lavorazioni per le quali i medesimi sono necessari. Il suddetto enunciato è contrario alle disposizioni della normativa di gara, contenute nelle norme integrative al bando e nel capitolato speciale prestazionale.
Trova, pertanto, applicazione il principio secondo cui, in tema di gare pubbliche, nel caso di contrasto tra il bando e la lettera di invito, prevale il primo, quale lex specialis della selezione concorsuale, non modificabile mediante lettera d'invito (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.07.2011 n. 4278 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: VIA - Art. 5, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 152/2006 - Impatti cumulativi - Insuscettibilità di analisi frazionata.
Quando l’intervento progettato, pur essendo suddiviso in singole frazioni anche al solo fine di soddisfare esigenze di snellezza procedimentale dell’impresa, appare riconducibile ad un unico programma imprenditoriale, la conseguenza che si registra sul terreno del doveroso assoggettamento a VIA è senz’altro quella di una analisi che tenga conto necessariamente dei cd impatti cumulativi.
Il codice dell’ambiente, con l’art. 5, comma 1, lettera c, restituisce invero un concetto di impatto ambientale che , per sua natura, appare insuscettibile di analisi frazionata. Logica conseguenza di questo approccio alla nozione di impatto ambientale appare l’obbligo, per l’imprenditore, di evidenziare gli interventi connessi, complementari o a servizio di quello proposto -così come prescritto dall’art 3, comma 2, lettera b), n. 2, del DPCM 27.12.1988- perché solo così è possibile una verifica illuminante ed esaustiva della incidenza ambientale di un progetto complesso.
Ciò significa che, pur a fronte di una pluralità di procedimenti amministrativi messi in moto dall’imprenditore, l’organo preposto a compiere la valutazione di impatto ambientale ha il preciso dovere di operarne la reductio ad unitatem, specie in presenza di elementi sintomatici della unicità di intervento (Consiglio Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3849).
DIRITTO AMBIENTALE - Principio di precauzione - Art. 3-ter d.lgs. n. 152/2006.
Dal principio di precauzione (art. 3-ter d.lgs. n. 152/2006) deriva l’esigenza di un’azione ambientale consapevole e capace di svolgere un ruolo teso alla salvaguardia dell’ecosistema in funzione preventiva , anche quando non sussistono evidenze scientifiche conclamate che illustrino la certa riconducibilità di un effetto devastante per l’ambiente ad una determinata causa umana.
VIA - Tutela preventiva dell’interesse pubblico ambientale - Principio di precauzione.
La valutazione di impatto ambientale comporta una valutazione anticipata finalizzata, nel quadro del principio comunitario di precauzione, alla tutela preventiva dell'interesse pubblico ambientale, con la conseguenza che, in presenza di una situazione ambientale connotata da profili di specifica e documentata sensibilità, anche la semplice possibilità di un'alterazione negativa va considerata un ragionevole motivo di opposizione alla realizzazione di un'attività, sfuggendo, per l'effetto, al sindacato giurisdizionale la scelta discrezionale della p.a. di non sottoporre beni di primario rango costituzionale, qual è quello dell'integrità ambientale, ad ulteriori fattori di rischio che, con riferimento alle peculiarità dell'area, possono implicare l'eventualità, non dimostrabile in positivo ma neanche suscettibile di esclusione, di eventi lesivi (TAR Toscana Firenze, sez. II, 20.04.2010, n. 986) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 14.07.2011 n. 1341 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTILa responsabilità precontrattuale della PA può prescindere dalla legittimità del suo operato.
Al fine del riconoscimento della responsabilità precontrattuale non si deve tener conto della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, bensì della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto.

Sulla base di questo principio il Consiglio di Stato, Sez. VI, con sentenza 12.07.2011 n. 4196 ha riconosciuto la responsabilità precontrattuale per il comportamento tenuto da un Comune e dalla regione Toscana che dopo aver aggiudicato un appalto per la realizzazione di un termovalorizzatore hanno poi successivamente adottato atti e provvedimenti tali da rendere definitivamente impossibile la realizzazione dell’impianto.
In particolare, successivamente all’aggiudicazione dell’appalto, sull’area di realizzazione dell’impianto venivano posti una serie di vincoli ambientali, paesaggistico e archeologici che di fatto determinavano l’impossibilità della sua realizzazione.
Avverso tali provvedimenti la società aggiudicataria proponeva ricorso chiedendone l’annullamento e il risarcimento dei danni.
In seguito al giudizio di primo grado svolto dinanzi il TAR Toscana e nel quale erano state rigettate le richieste della ricorrente, veniva proposto appello al Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato adito, pur riconoscendo la legittimità dei comportamenti delle Pubbliche amministrazioni che avevano determinato la revoca dell’appalto, ha sottolineato come “…ai fini della configurabilità della responsabilità precontrattuale della p.a., non si deve tener conto della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica cristallizzato nel provvedimento amministrativo, bensì della correttezza del comportamento complessivamente tenuto dall’Amministrazione durante il corso delle trattative e della formazione del contratto, alla luce dell’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede ai sensi dell’articolo 1337 c.c.[…] Se ciò è vero, ne risulta confermata la configurabilità di cui all’art. 1337 cod. civ. anche nell’ipotesi in cui la mancata stipula del contratto sia dipesa da fattori non imputabili all’amministrazione (ad es., il factum principis ovvero il radicale mutamento della situazione di fatto sottesa alla vicenda di causa – Cons. Stato, sent. 1763 del 2006 cit.), laddove –tuttavia– l’amministrazione si sia comunque resa colpevole di un contegno non compatibile con il generale obbligo di realizzazione degli adempimenti necessari a garantire la validità, l’efficacia o l’utilità del rapporto sostanziale”.
In conformità a tale principio i giudici della VI sezione hanno riconosciuto la responsabilità del Comune e della Regione Toscana, per aver ritardato l’adozione di alcuni provvedimenti di loro competenza nonostante fossero già a conoscenza della sopravvenuta impossibilità di realizzazione dell’opera.
In merito al quantum del danno risarcibile è stato precisato come generalmente in materia di responsabilità precontrattuale sono risarcibili le spese inutilmente sopportate nel corso delle trattative svolte in vista della conclusione del contratto, nonché il ristoro della perdite, se adeguatamente provate, di ulteriori occasioni di stipulazione di altri contratti.
Tale criterio tuttavia è stato soggetto ad alcuni temperamenti da parte dei giudici della VI sezione in quanto, pur trattandosi di comportamento contrario a buona fede in senso soggettivo tenuto dall’amministrazione nel corso della fase precontrattuale, la mancata stipula del contratto “…non costituisca un effetto di tale comportamento, bensì l’effetto di fattori ulteriori autonomamente idonei, sotto il profilo causale, a determinare l’impossibilità di stipulare il contratto”.
Sulla base di queste considerazioni il Consiglio di Stato ha formulato il criterio in base al quale le amministrazioni condannate dovranno determinare la somma di denaro da proporre alla società appellante.
In conclusione con la sentenza in commento è stata valorizzata anche nei rapporti tra privato e pubblica amministrazione la necessità del rispetto del principio di correttezza e buona fede il quale impone alle parti del rapporto il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In tema di responsabilità per danni contabili indiretti la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui avviene il pagamento della somma a titolo di risarcimento del terzo danneggiato.
Con riferimento alla prospettata prescrizione dell’azione risarcitoria, occorre evidenziare come la giurisprudenza prevalente di questa Corte dia rilevanza al momento dell’adempimento dell’obbligazione, individuando nella fase del pagamento il dies a quo del termine di decorrenza. Pertanto, in tema di responsabilità per danni contabili indiretti, come nella specie, la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui avviene il pagamento della somma a titolo di risarcimento del terzo danneggiato, il che, nel caso di specie, sarebbe accaduto con le delibere di riconoscimento dei debiti fuori bilancio del dicembre 2006.
D’altra parte ove si ammettesse la possibilità di iniziare nei confronti dell'amministratore o del dipendente pubblico l'azione di responsabilità ancor prima del verificarsi del pagamento, costui potrebbe essere condannato a risarcire un danno mai prodotto all'erario, e, più in generale, che solo con l'effettuazione del pagamento si può ritenere realizzata la diminuzione patrimoniale per l'erario, e quindi attualizzata la lesione del bene giuridico protetto, e solo allora si ha la possibilità di agire per ripristinare, attraverso il risarcimento del danno, la situazione giuridica violata (Corte dei Conti, Sez. I d'appello, sentenza 11.07.2011 n. 313 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA: I beni demaniali non sono suscettibili di usucapione in mancanza di previa sdemanializzazione.
I beni demaniali, in quanto inalienabili ai sensi dell'articolo 823, c.c. non sono suscettibili di usucapione, in mancanza di previa sdemanializzazione, e sono tutelabili mediante i poteri di autotutela possessoria.
In particolare, il disuso prolungato di una strada vicinale da parte della collettività e l'inerzia dell'amministrazione nella cura della stessa e/o nell'intervento riguardo ad occupazioni o usi da parte di privati incompatibili con la destinazione pubblica, non bastano a comprovare inequivocamente la cessata destinazione del bene (anche solo potenziale) all'uso pubblico (c.d. sdemanializzazione tacita), occorrendo che detti indizi siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze tali da non lasciare adito ad altre ipotesi, salva quella che la stessa abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso stradale pubblico (cfr. Cons. Stato, IV, 07.09.2006, n. 5209; V, 06.10.2009, n. 6095; TAR Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450; TAR Abruzzo, Pescara, I, 20.06.2009, n. 445; TAR Emilia Romagna, Parma, 25.05.2005, n. 291)
(TAR Umbria, sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Di fronte al potere-dovere di reprimere gli abusi edilizi, l’affidamento del privato è tutelabile soltanto qualora sia stato provato il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, e nel contempo l’esistenza dell’abuso sia stata ritenuta implicitamente regolare dall’Amministrazione.
Il Collegio ricorda che la giurisprudenza di questo Tribunale è ferma nel ritenere che, di fronte al potere-dovere di reprimere gli abusi edilizi, l’affidamento del privato è tutelabile (sia pure nel limitato senso di esigere una motivazione rafforzata del provvedimento sanzionatorio) soltanto qualora sia stato provato il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’abuso, e nel contempo l’esistenza dell’abuso sia stata ritenuta implicitamente regolare dall’Amministrazione (in occasione dell’esame di precedenti pratiche edilizie, o di attività di vigilanza sul territorio – cfr. TAR Umbria, 18.03.2008, nn. 102-103; 18.08.2009, n. 492; 21.01.2010, n. 23) (TAR Umbria, sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn un momento successivo al rilascio della concessione è possibile avanzare una richiesta derogatoria se una nuova legge ne preveda la facoltà.
Occorre premettere alcune considerazioni:
- deve ribadirsi, sotto il profilo temporale, la regola per cui la determinazione degli oneri di urbanizzazione avviene, in via generale, secondo il principio “tempus regit actum”;
- il rilascio della concessione segna il momento costitutivo dell’obbligazione di corrispondere gli oneri di urbanizzazione, che deve avvenire alla luce di tutte le norme applicabili alla fattispecie;
- la non corretta determinazione degli oneri lede una posizione di diritto soggettivo, regolata dalla legge, che può essere fatta valere nell’ordinario termine di prescrizione.
Ciò premesso la questione controversa si caratterizza non per il fatto che il Comune, in ossequio al principio del “tempus regit actum”, ha applicato lo “ius superveniens” alla domanda di concessione (presentata peraltro sotto l’impero delle precedente legge) e costituito dalle nuove e più gravose tabelle, ma perché, successivamente, il concessionario (avvalendosi della cennata norma transitoria della stessa legge) ha richiesto la determinazione degli oneri in base alla previgente normativa.
Osserva anzitutto il Collegio che, come il rilascio della concessione, anche la determinazione dei relativi oneri è avvenuta sotto la vigenza della sopraggiunta legge regionale n. 52/1999, della quale fa parte incontestabilmente anche la norma transitoria dell’art. 44.
Emerge poi che le nuove tabelle di determinazione erano inapplicabili alla fattispecie di riferimento, proprio per gli effetti esplicati dalla norma transitoria dell’art. 44; quest’ultima, in sostanza, sia pure previa presentazione di specifica domanda (che si avvicina all’esercizio di una sorta di diritto potestativo), ha introdotto una deroga al principio del “tempus regit actum”, comportando l’applicazione del previgente sistema di computo degli oneri nonostante che ad esso si provveda in relazione a concessione emessa sotto l’imperio della nuova normativa.
Questa ricostruzione, ad avviso del Collegio, opera necessariamente nei casi, come quello in trattazione, in cui non si rileva nella legge alcun termine entro il quale il concessionario debba chiedere la determinazione dell’importo degli oneri che deve corrispondere. E poiché la posizione tutelata dalla norma transitoria in questione riveste natura di diritto soggettivo (patrimoniale, ad una più favorevole determinazione degli oneri) deve concludersi che il concessionario può esercitarlo (anche a contestazione della pretesa comunale e mediante azione di accertamento) sicuramente anche in un momento successivo alla chiusura del procedimento da parte dell’atto che assente la concessione edilizia, purché sotto la vigenza o per l’effetto di norma che quel diritto prevede. Ne deriva che al diritto del ricorrente come sopra delineato corrisponde il dovere dell’amministrazione di procedere alla determinazione degli oneri secondo la legge anche a fronte di una concessione già rilasciata.
Né questa tesi può essere validamente smentita dal prosieguo delle motivazioni rese dal TAR, per il quale è “logico ritenere che la facoltà debba essere esercitata nelle more del procedimento destinato a concludersi con il rilascio della concessione”. Il giudice di prima istanza ha supportato questo orientamento ritenendo che: “diversamente la norma avrebbe previsto l’applicazione della disciplina precedente -in modo automatico e quindi a prescindere dalla “istanza” degli interessati– a tutte le domande presentate prima della entrata in vigore della nuova legge”; ed ancora che: “una siffatta interpretazione dell’art. 44, comma 1, in esame, di contenuto derogatorio rispetto al principio generale, deriva dalla natura stessa della disposizione, inclusa tra le norme transitorie che sono dirette proprio a consentire il passaggio da una ad un’altra normativa; che non è però consentito attribuire alla norma un significato ulteriormente derogatorio rispetto allo schema legale tipico - che resta fondato, in generale, sul momento del rilascio del titolo edificatorio, quale elemento temporale di individuazione delle tabelle applicabili”.
Deve anzitutto essere esclusa la validità logica dell’argomentazione per cui la necessità della domanda militerebbe per l’inapplicabilità del beneficio alle domande presentate dopo la concessione; il fatto che il beneficio non venga riconosciuto d’ufficio non è di per sé un indice interpretativo per negarne l’applicazione.
Ma, osserva il Collegio, la tesi del TAR non può essere condivisa nella sua sostanza giuridica poiché, dopo aver peraltro ammesso la portata derogatoria della norma di legge, il primo giudice ne esclude immotivatamente ogni operatività, limitandosi ad affermare, in assoluta ed apodittica prevalenza del principio “tempus regit actum”, che in un momento successivo all’emissione del rilascio del titolo non sia possibile avanzare la richiesta derogatoria. In tal modo non viene data alcuna interpretazione della norma in parola ma si provvede semplicemente a non applicarla.
Per dare invece effettivo senso all’esistenza della disposizione (secondo noto canone interpretativo) va anche qui ribadito che allorquando l’amministrazione provveda a determinare gli oneri relativi ad una concessione rilasciata sotto l’impero di una nuova legge, la quale preveda tuttavia l’applicazione a domanda di un regime transitorio di maggior favore, si debba tenere conto di tale istanza del concessionario ove questa sia stata presentata anche dopo il rilascio della concessione; ed in particolare, se gli oneri sono stati già determinati, che occorre provvedere ad adeguarne il conteggio sulla base della domanda di applicazione della norma transitoria.
Un ultima osservazione, per completezza, riguarda l’irrilevanza del fatto che la domanda sia stata presentata nel periodo di “vacatio” della legge n. 52/1999 e quindi allorquando non era ancora formalmente in vigore anche la norma transitoria in quella legge inserita. Ed invero da un lato la sopravvenuta vigenza della disposizione che permette l’applicazione del sistema precedente, non esenta dall’esaminare la domanda anche se presentata nel periodo di “vacatio legis”, se la legge non prevede precisi ed inderogabili termini procedimentali, in applicazione dei quali l’istanza possa essere giudicata intempestiva (come anche tardiva) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 09.07.2011 n. 4133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' inammissibile l'impugnazione del bando da parte dell'impresa non partecipante.
Secondo un condiviso orientamento giurisprudenziale, è inammissibile l'impugnazione del bando da parte dell'impresa non partecipante, la quale deduca che la formulazione dello stesso è stata fatta in modo tale non da precludere assolutamente, ma soltanto da rendere non remunerativa, la partecipazione alla gara stessa (in tal senso TAR Lombardia Milano, I, 05.12.2008, n. 5755) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,  sentenza 08.07.2011 n. 1330 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Bando di gara - Presentazione delle offerte - Plico e buste sigillati e controfirmati sui lembi di chiusura - Finalità della previsione - Nozione di “lembo di chiusura”.
La previsione del bando di gara, che impone la presentazione da parte dei concorrenti di plico e buste sigillati e controfirmati sui lembi di chiusura, risponde alla ratio di garantire la genuinità e paternità della domanda di partecipazione e della documentazione a questa allegata, la quale può essere assicurata solo se la sigillatura sia tale da impedire che il plico possa essere aperto senza che ne resti traccia visibile e possa essere anche solo teoricamente manomesso (vedi Consiglio di Stato, IV, 10.03.2011, n. 1553).
Tale previsione va, però, interpretata in maniera non formalistica al fine di garantire la massima partecipazione alla gara e la concorrenza tra gli operatori del settore.
Si è, pertanto, condivisibilmente ritenuto che per "lembo di chiusura" di una busta deve intendersi quello costituente l'imboccatura della stessa soggetto ad operazione di chiusura a sé stante, sicché è sufficiente che l'adempimento formale imposto al concorrente venga limitato ai lembi della busta chiusi dall’utilizzatore, con esclusione di quelli preincollati dal fabbricante (in tal senso Consiglio di Stato, VI, 04.06.2007, n. 2946 e 20.04.2006, n. 2200) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 08.07.2011 n. 1315 - link a www.ambientediritto.it).

ENTI LOCALI: Sulla sussistenza della giurisdizione ordinaria per i danni causati dalla mala gestio di amministratori di società partecipate dalla P.A.
La responsabilità di amministratori e sindaci, pur se nominati dallo Stato o dagli enti pubblici, è disciplinata dall'art. 2449, c. 3, cod. civ. che dispone: "Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall'assemblea".
Conseguentemente, gli amministratori di società partecipate rispondono nei confronti della società, dei soci, dei creditori, dei terzi, a norma degli artt. 2392 -2395 cod. civ. dovendosi escludere che il rapporto di servizio tra società partecipata e P.A. sia immediatamente riferibile agli amministratori stante la rispettiva, diversa personalità giuridica, e dovendosi considerare che il danno cagionato dalla loro mala gestio è al patrimonio della società, che resta privato e autonomo da quello dei suoi soci.
Ne deriva che l'azione di responsabilità nei confronti dei suoi amministratori esperibile dalla stessa previa delibera dell' assemblea (art. 2393 cod. civ.), ovvero dai suoi soci nel loro interesse, ma con diretto beneficio alla società (art. 2393-bis cod. civ.) appartiene alla giurisdizione ordinaria, salva, la responsabilità amministrativa di costoro se non esercitano colpevolmente l'azione di responsabilità (Corte di Cassazione, SS.UU. civili, ordinanza 05.07.2011 n. 14655 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATALa piena conoscenza di un titolo edilizio, dalla quale decorre il termine di impugnazione, si realizza, per i proprietari dei fondi vicini, quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica: pertanto, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento, a meno che non venga provata una conoscenza anticipata o si deducano censure di assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso.
Per costante giurisprudenza la piena conoscenza di un titolo edilizio, dalla quale decorre il termine di impugnazione, si realizza, per i proprietari dei fondi vicini, quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica: pertanto, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori, bensì con il loro completamento, a meno che non venga provata una conoscenza anticipata o si deducano censure di assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso (fra le tante, Cons. Stato, sez. V, 23.05.2000, n. 2983; TAR Liguria, sez. I - 19.12.2006 n. 1711; TAR Veneto, sez. II - 25.05.2005 n. 2154; TAR Lombardia, Brescia, 11.03.2002, n. 476)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.07.2011 n. 1763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel consentire modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde “unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma 6” della L.R. 12/2005 (cioè l’altezza media ponderale di metri 2,40), si ribadisce che l’art. 64, primo comma, l.r. 12/2005 ammette l’incremento delle altezze nei soli limiti strettamente funzionali ad assicurare le condizioni minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, sicché l’altezza media di 2,40 metri deve ritenersi ad un tempo altezza minima (per l’abitabilità degli spazi) e altezza massima (se comporta l’innalzamento delle linee di colmo e di gronda del tetto).
Ai sensi dell’art. 63, c. 6, l. reg. Lombardia n. 12/2005 “il recupero abitativo dei sottotetti è consentito purché sia assicurata per ogni singola unità immobiliare l'altezza media ponderale di metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri 2,10 per i comuni posti a quote superiori a seicento metri di altitudine sul livello del mare, calcolata dividendo il volume della parte di sottotetto la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa”.
L’art. 64, c. 1, l. reg. Lombardia n. 12/2005, prevede che “gli interventi edilizi finalizzati al recupero volumetrico dei sottotetti possono comportare l’apertura di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi, per assicurare l’osservanza dei requisiti di aeroilluminazione e per garantire il benessere degli abitanti, nonché, ove lo strumento urbanistico generale comunale vigente risulti approvato dopo l’entrata in vigore della l.r. 51/1975, modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde, purché nei limiti di altezza massima degli edifici posti dallo strumento urbanistico ed unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all’articolo 63, comma 6”.
Come questo Tribunale ha già affermato, nel consentire modificazioni delle altezze di colmo e di gronda e delle linee di pendenza delle falde “unicamente al fine di assicurare i parametri di cui all'articolo 63, comma 6” (cioè l’altezza media ponderale di metri 2,40), che l’art. 64, primo comma, l.r. 12/2005 ammette evidentemente l’incremento delle altezze nei soli limiti strettamente funzionali ad assicurare le condizioni minime di salubrità agli spazi (resi) abitativi, sicché l’altezza media di 2,40 metri deve ritenersi ad un tempo altezza minima (per l’abitabilità degli spazi) e altezza massima (se comporta l’innalzamento delle linee di colmo e di gronda del tetto) (Tar Lombardia, Milano, sez. II, 29.10.2009, n. 4941).
Anche la sentenza di questo Tribunale, 22.01.2010, n. 195, invocata dalla difesa dell’amministrazione resistente, non ha affatto affermato principi contrastanti con quelli qui richiamati: nel sostenere che, nel caso in cui le necessità tecniche rendano necessario realizzare altezze medie ponderali sull’intera unità immobiliare superiori, le altezze eccedenti debbono essere costituite da vani tecnici od altre strutture che escludano l’utilizzo a fini abitativi (circostanza che nel caso di specie non ricorre), ha comunque tenuto ben ferma l’interpretazione dell’art. 63, c. 6, l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui il limite ivi previsto costituisce sia limite minimo che limite massimo.
Il Collegio non condivide quanto affermato dalla difesa dell’amministrazione circa la sussistenza di un potere discrezionale della p.a. finalizzato alla tutela del benessere dei cittadini e della salubrità delle abitazioni, ponendo la legge regionale il limite di altezza quale requisito perché l’intervento possa essere qualificato quale recupero di sottotetto, senza lasciare, dunque, alcuno spazio a valutazioni discrezionali.
Le esigenze di salubrità degli ambienti sono state oggetto di valutazione da parte del legislatore regionale, senza che sia, quindi, consentito all’amministrazione comunale derogare al limite posto dalla legge regionale, invocando differenti limiti previsti dai regolamenti di igiene.
Essendo incontestato che l’intervento edilizio in questione prevede la realizzazione di appartamenti con altezze medie ponderali superiori ai m. 2,40, le denuncie di inizio attività impugnate si pongono, dunque, in contrasto con la legge regionale n. 12/2005
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.07.2011 n. 1763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALaddove il diritto del Comune di pretendere l’adempimento delle obbligazioni assunte dal lottizzante non si sia prescritto e, tuttavia, la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione non possa più essere adempiuta nei modi convenuti, a causa della sopravvenuta modifica, mediante variante urbanistica, del territorio interessato dalla lottizzazione, la possibilità di sostituire l’obbligazione originaria con una nuova obbligazione non può essere attuata senza il consenso della parte obbligata.
- Pur mostrandosi la giurisprudenza incline ad applicare al Piano di lottizzazione un termine massimo di durata, per esso non espressamente previsto, ricavato in via analogica da quello dettato dall’art. 16, co 5° cit., per il Piano particolareggiato, tuttavia, l'individuazione di siffatto termine viene ritenuta necessaria al solo scopo di non attribuire alle lottizzazioni convenzionate l'effetto di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura, rispondendo così ad un preminente interesse pubblico, non soltanto per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione, ma anche per l'edificazione dei lotti.
- In una convenzione di lottizzazione tra un privato e un Comune, alle opere di urbanizzazione il privato deve provvedere via via che nascono gli insediamenti abitativi e, comunque, prima della scadenza del termine di efficacia della convenzione.

Ritiene il Collegio che, laddove il diritto del Comune di pretendere l’adempimento delle obbligazioni assunte dal lottizzante non si sia prescritto e, tuttavia, la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione non possa più essere adempiuta nei modi convenuti, a causa della sopravvenuta modifica, mediante variante urbanistica, del territorio interessato dalla lottizzazione, la possibilità di sostituire l’obbligazione originaria con una nuova obbligazione non può essere attuata senza il consenso della parte obbligata (cfr., per la valorizzazione della natura contrattuale del rapporto nascente dalla convenzione di lottizzazione: TAR Sicilia, Catania, sez. I, 29.09.2004, n. 2718).
Deve, pertanto, reputarsi illegittima la pretesa del Comune di attuare unilateralmente la sostituzione dell’oggetto dell’obbligazione originariamente assunta dalla parte lottizzante, mediante ri-localizzazione delle aree da cedere per urbanizzazioni, trattandosi di novazione oggettiva dell’obbligazione originaria che richiede, ai sensi degli artt. 1230 e ss. c.c., l’accordo delle parti.
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La società ricorrente applica alla convenzione per cui è causa il termine decennale fissato dall’art. 16 della legge urbanistica per l’attuazione del Piano particolareggiato, giungendo a ritenere ormai inefficace la convenzione che, sottoscritta nel 1989, sarebbe scaduta sin dal dicembre del 1999.
Sul punto, è opportuno precisare che, pur mostrandosi la giurisprudenza incline ad applicare al Piano di lottizzazione un termine massimo di durata, per esso non espressamente previsto, ricavato in via analogica da quello dettato dall’art. 16, co 5° cit., per il Piano particolareggiato, tuttavia, l'individuazione di siffatto termine viene ritenuta necessaria al solo scopo di non attribuire alle lottizzazioni convenzionate l'effetto di condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura, rispondendo così ad un preminente interesse pubblico, non soltanto per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione, ma anche per l'edificazione dei lotti (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 12.10.2004 n. 6527; sez. VI, 20.01.2003 n. 200; IV, 11.03.2003 n. 1315; id. 16.03.1999, n. 286; nonché Consiglio di Stato sez. IV, 02.06.2000 n. 3172, per cui si tratta di termine applicabile soltanto alle disposizioni a contenuto espropriativo e non anche alle prescrizioni urbanistiche del piano, destinate a rimanere pienamente operanti e vincolanti senza limiti di tempo, fino all’eventuale approvazione di un nuovo piano attuativo).
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Secondo la tesi esponente il termine di prescrizione del diritto alla cessione delle aree decorrerebbe dalla scadenza del termine di adempimento previsto in convenzione e, quindi, nel caso di specie, dalla scadenza del termine massimo di quattro anni stabilito dall’art. 9 della cit. convenzione.

Sul punto, il Collegio deve preliminarmente dare atto della mancanza di un orientamento giurisprudenziale univoco in ordine all’individuazione del dies a quo del termine di prescrizione degli obblighi convenzionali, per cui, a fronte di un orientamento incline a far coincidere il suddetto dies a quo con la scadenza del termine di adempimento previsto nella convenzione, si registra un opposto schieramento favorevole all’individuazione del dies a quo del termine decennale di prescrizione dalla scadenza del termine di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, di cui la convenzione costituisce attuazione (cfr., nel primo senso, tra le altre, TAR Toscana, 16.09.2009, n. 1446, per cui l'obbligazione del privato diventerebbe esigibile proprio alla scadenza del termine previsto in convenzione e da quel momento decorrerebbe l'ordinario termine di prescrizione.
Mentre, per la seconda opzione, che consente di fissare il predetto termine in modo certo, senza le variabili legate all’interpretazione del contenuto dell’accordo in ordine al termine di adempimento, nonché, alle vicende legate al comportamento in executivis delle parti, cfr. TAR Veneto, Sez. II, 01.12.2010, n. 6321, secondo cui, decorso l’ordinario termine decennale di prescrizione ex art. 2946 c.c. dalla scadenza della convenzione, il diritto dovrebbe dichiararsi prescritto ai sensi del disposto di cui all'art. 2935 c.c., proprio poiché "la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere", e, pertanto, “il relativo dies a quo deve individuarsi secondo i principi generali in ordine all'esigibilità dell'adempimento, nel giorno in cui il credito sia certo, liquido ed esigibile, risultando definiti e certi tutti gli elementi dell'obbligazione. Per tale via, prosegue il TAR da ultimo cit., quand’anche la convenzione non indichi un termine di adempimento, deve riconoscersi la possibilità di pretendere l’adempimento soltanto a decorrere dalla scadenza del termine decennale di validità della convenzione, che segna il termine finale di eseguibilità delle opere in essa previste”; analogamente, nel senso di ritenere che il privato vanti dieci anni di tempo per l'esecuzione delle opere previste in convenzione, per cui solo dalla scadenza della convenzione medesima è possibile verificare se le opere siano state o meno eseguite ed il Comune ha titolo a richiedere la cessione delle aree e l’adempimento di tutte le obbligazioni previste dalla convenzione: TAR Lombardia, Brescia, 28.11.2001 n. 1126; TAR Lombardia, Brescia, n. 65/2003; TAR Campania, Napoli, sez. II, n. 2773/2007; nello stesso senso, cfr. anche la decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, del 14.12.2009, n. 1187, secondo cui l’inadempimento si può dire definitivamente concretato “solo al compimento del termine decennale di durata della convenzione e non già dal momento della assunzione dell’obbligo. Pertanto, solo dall’anzidetto momento dell’inadempimento poteva decorrere l’ordinario termine di prescrizione. Tale conclusione non può essere vanificata dalla clausola dell’art. 4 della convenzione, il cui scopo era limitato ed inteso ad altre finalità nel senso di subordinare il rilascio del certificato di abitabilità alla realizzazione delle opere di urbanizzazione. Solo l’inadempimento definitivo legittimava il Comune ad agire e, pertanto, nel 1999 non erano ancora decorsi i termini di prescrizione”).
Tanto premesso, il Collegio ritiene che -per la soluzione del caso in esame- risulta addirittura superfluo prendere posizione sulla predetta questione, non essendo stata fornita agli atti di causa la prova della decorrenza del termine quadriennale di adempimento di cui all’art. 9 cit.
A ben vedere, infatti, la disciplina del “termine di adempimento” solo apparentemente risulta ricavabile con certezza dalla cit. clausola, posto che essa àncora la decorrenza del predetto quadriennio ad un termine incerto (ovvero: “dalla data odierna e comunque prima della dichiarazione di ultimazione lavori dei singoli edifici”). In tal senso, è bene evidenziare come la ridetta previsione debba essere coordinata con quella contenuta negli artt. 3 e 4 della medesima convenzione, i quali, per la cessione, rispettivamente, delle aree per urbanizzazioni primarie e di quelle per urbanizzazioni secondarie, subordinano l’adempimento alla preventiva richiesta dell’ente locale (cfr. gli artt. 3 e 4 cit., ove si prevede che la cessione avvenga “su richiesta dell’amministrazione”).
Sul punto, è utile richiamare la sentenza della Cassazione civile, sez. III, 11.01.2006, n. 261, ove la S.C. ha riconosciuto corretta l’impostazione seguita dal giudice di merito che non aveva ritenuto -in una convenzione di lottizzazione tra un privato e un Comune- che il termine ultimo entro il quale il privato si sarebbe dovuto attivare per compiere le opere di urbanizzazione fosse ricavabile da una singola clausola che stabiliva un termine massimo, ma ritenendo piuttosto necessario procedere all'interpretazione complessiva delle clausole negoziali, da cui si ricavava che, alle opere di urbanizzazione, il privato doveva provvedere via via che nascevano gli insediamenti abitativi e, comunque, prima della scadenza del termine di efficacia della convenzione.
In definitiva, tenuto conto che, anteriormente al decorso del termine decennale di validità della convenzione (sottoscritta il 14.12.1989 e, dunque, sino al 14.12.1999) non è stata dimostrata la produzione della dichiarazione di ultimazione dei lavori, si deve ritenere che il predetto termine di quattro anni non abbia mai iniziato a decorrere.
Ciò, con l’ulteriore conseguenza che, non essendo stata dimostrata l’avvenuta decorrenza, anteriormente alla scadenza del termine decennale di validità della convenzione (come sopra desunto dagli artt. 16, 5° co. e 28, 5° co., della legge 17.08.1942 n. 1150, nonché dall’art. 46, co. 2°, della legge reg. Lombardia n. 12/2005 ), del diverso termine di adempimento fissato all’art. 9 della convenzione, si deve ritenere che il dies a quo del termine di prescrizione debba essere individuato alla data del 14.12.1999, con conseguente individuazione del dies ad quem entro cui il Comune avrebbe potuto richiedere l’adempimento delle obbligazioni convenzionali alla data del 14.12.2009.
Consegue da ciò l’infondatezza della dedotta prescrizione atteso che, già con nota del 12.05.2008, agli atti, il Comune risulta avere esplicitamente richiesto alla società l’assolvimento degli obblighi de quibus, richiesta poi ribadita con la comunicazione di avvio del 24.11.2009, qui gravata, con cui l’ente resistente ha manifestato in modo non equivoco la volontà di esercitare il proprio diritto alla cessione delle aree
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.07.2011 n. 1760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: L'interpretazione di un atto amministrativo a contenuto non normativo, risolvendosi nell'accertamento della volontà della p.a., ovverosia di una realtà fenomenica e obiettiva, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune dalla violazione di quelle norme che, dettate per l'interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei medesimi nonché dell'esigenza della certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica amministrazione.
Alle Norme tecniche di attuazione di un Piano regolatore generale deve essere data lettura sistematica, per cui ciascuna di esse va interpretata nel contesto e nell'insieme di riferimento, ed un'interpretazione utile, per cui ciascuna di esse deve essere intesa non solo in modo che abbia un senso, ma anche, tra più possibili significati, quello maggiormente conforme a Costituzione, la quale impone vincoli espliciti e puntuali alla possibilità edificatoria dei suoli.

Secondo la Cassazione (Cassazione civile, sez. III, 10.03.2011, n. 5700; Cassazione civile, sez. lav., 23.07.2010, n. 17367) <<L'interpretazione di un atto amministrativo a contenuto non normativo, risolvendosi nell'accertamento della volontà della p.a., ovverosia di una realtà fenomenica e obiettiva, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e immune dalla violazione di quelle norme -in particolare, gli art. 1362, comma 2, 1363 e 1366- che, dettate per l'interpretazione dei contratti, sono applicabili anche agli atti amministrativi, tenendo peraltro conto della natura dei medesimi nonché dell'esigenza della certezza dei rapporti e del buon andamento della pubblica amministrazione>>.
Inoltre (cfr. Cons. di Stato 10.03.1981 n. 248; TAR Puglia Lecce, sez. I, 13.05.2004, n. 2890) “Alle Norme tecniche di attuazione di un Piano regolatore generale deve essere data lettura sistematica, per cui ciascuna di esse va interpretata nel contesto e nell'insieme di riferimento, ed un'interpretazione utile, per cui ciascuna di esse deve essere intesa non solo in modo che abbia un senso, ma anche, tra più possibili significati, quello maggiormente conforme a Costituzione, la quale impone vincoli espliciti e puntuali alla possibilità edificatoria dei suoli”) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 05.07.2011 n. 1752 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La chiusura di un porticato configura una ristrutturazione parziale.
Invero, la chiusura di un porticato, ancorché parzialmente chiuso, determina una maggiore volumetria rispetto alla situazione immediatamente preesistente (così Cons. Stato, Sez. V, 26.10.1998, n. 1554). Un siffatto intervento non può pertanto considerarsi come rivolto a conservare l’organismo edilizio, ma configura una ristrutturazione parziale.
Anche nella prospettiva dell’art. 3 della l.r. Umbria 18.02.2004, n. 1, che rileva in questa sede, l’intervento in questione non è riconducibile tra gli “interventi di restauro e di risanamento conservativo”, di cui alla lett. c), ma tra gli “interventi di ristrutturazione edilizia”, di cui alla successiva lett. d) (in termini TAR Umbria, 11.08.2006, n. 418) (TAR Umbria, sentenza 04.07.2011 n. 192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti e presentazione delle offerte, al bando chi non rispetta il bando!
La presentazione delle offerte nei bandi di gara pubblici deve essere effettuata secondo le indicazioni richieste dal bando di gara; la ditta partecipante rischia di essere estromessa dalla gara qualora presenti le offerte con caratteristiche non previste dal bando.
La questione.
I giudici amministrativi hanno affrontato un caso molto particolare che però ci è utile per comprendere l’argomento oggetto del presente commento: come la presentazione delle offerte nei bandi di gara devono essere pedissequamente osservate dai partecipanti all’appalto.
Il caso preso in esame dai giudici amministrativi riguarda l’impugnazione, da parte di una società, della comunicazione di esclusione dalla gara per l'affidamento della fornitura di sistemi, infrastrutture tecnologiche e servizi per l'archivio digitale e cartaceo di una provincia pugliese; il motivo dell’esclusione è che il plico dell'offerta tecnica non contiene il CD con i files su PDF come espressamente previsto a pena d’esclusione dal disciplinare di gara.
Il disciplinare di gara, infatti, prevede espressamente che “ai fini di una più agevole consultazione, dovrà essere consegnata a pena di esclusione una copia dell'offerta tecnica in formato elettronico PDF memorizzato su supporto non modificabile (es. CD.R o DVD.R) includendo gli eventuali allegati”.
La procedura semplificata.
Per la risoluzione del caso è stata attuata la procedura semplificata di cui all’articolo 60 del nuovo codice del processo amministrativo. Il Codice del processo amministrativo approvato con il decreto legislativo 02.07.2010, n. 104, conferma la cd. definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata, ovvero la possibilità che il collegio definisca direttamente la causa in sede di decisione della domanda cautelare.
E si ha salvezza del diritto di ciascuna delle parti di chiedere termini per proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di giurisdizione o di competenza. In tal caso, ove necessario, il collegio dispone l’integrazione del contraddittorio e fissa contestualmente la data per il prosieguo della trattazione.
La mancanza di questa previsione era innanzi avvertita quale problematica, in quanto la decisione di definire il giudizio nel merito da parte del giudice, non permetteva alla parte di lamentare ulteriori profili dell’atto, tramite ricorso incidentale o proposizione di motivi aggiunti.
La decisione dei giudici amministrativi.
I giudici amministrativi della Puglia ritengono che il ricorso presentato dalla ditta avverso l’esclusione dalla partecipazione alla gara sia da respingere .
Le clausole del bando sono chiare e inequivoche nel stabilire l'esclusione dalla gara nell'ipotesi di mancata produzione del CD, per cui non vi è spazio per una qualsiasi interpretazione di tipo teleologico in relazione al “principio del favor partecipationis”.
La richiesta di produrre il CD, inserita nella lex specialis, non è neppure incongrua, illogica o sproporzionata: si tratta del deposito di supporti informatici di facile e corrente utilizzo (soprattutto per una società che si occupa proprio di elaborazione dati), che appare funzionale allo scopo evidenziato nel capitolato (di rendere la procedura di gara celere e sicura, concretizzando così una delle direttive ispiratrici della disciplina, sia sostanziale sia processuale, degli appalti pubblici), senza comportare alcun aggravio significativo a carico della concorrente.
Il TAR della Puglia respinge il ricorso e condanna la società esclusa dal bando di gara al pagamento nei confronti della provincia pugliese dell’importo di euro 5.000,00 maggiorate di CPI e IVA (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 01.07.2011 n. 1007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEIndennità da esproprio e plusvalenze, nessun contrasto con la Cedu.
In tema di imposte sui redditi, la S.C. ha affermato che non contrasta con l'art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritto dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, l'assoggettamento a tassazione delle plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità di esproprio.
In tema di imposte sui redditi, la S.C. ha affermato che non contrasta con l'art. 1 del Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei diritto dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali, l'assoggettamento a tassazione delle plusvalenze conseguenti alla percezione di indennità di esproprio, ai sensi dell'art. 11, comma 5, L. 30.12.1991, n. 413, atteso che il "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia del diritto fondamentale di proprietà, enunciato dall'art. 1 cit., riguarda la disciplina delle ipotesi di ingerenza dell'Ente Pubblico sulla proprietà privata e del "quantum" da corrispondere in tali casi al privato spogliato del suo diritto di proprietà, mentre l'art. 11 cit. attiene al momento successivo dell'esercizio del potere impositivo dello Stato sui propri contribuenti, cioè ad un ambito, quello fiscale, del tutto distinto dagli aspetti sostanziali-indennitari della vicenda espropriativa.
Va ricordato che l'art. 1 del Protocollo n. 1 dispone: "Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali di diritto internazionale. Le precedenti disposizioni non portano pregiudizio al diritto degli Stati di mettere in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi oppure di ammende".
Ricorda la S.C. che la Corte Europea ha più volte affermato che l'art. 1 del Protocollo n. 1 contiene tre norme distinte: "la prima norma, esposta nella prima frase del primo paragrafo, è di natura generale ed enuncia il principio del diritto al rispetto dei beni; la seconda norma, contenuta nella seconda frase del primo paragrafo, riguarda la privazione dei beni a certe condizioni; la terza norma, nel secondo paragrafo, riconosce che gli Stati Contraenti hanno il diritto, tra l'altro, di controllare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale.... Tali norme non sono "distinte" nel senso che non hanno un legame tra loro: la seconda e la terza norma, relative a particolari casi di ingerenza nel diritto al rispetto dei beni, devono essere interpretate alla luce del principio contenuto nella prima norma" (cfr. James e altri a Regno Unito, 21.02.1986, Serie A n. 98, che in parte ripete i termini della tesi della Corte in Sporrong e Lonnroth c. Svezia, 23.09.1982, Serie A n.52, p 24; cfr. anche The Holy Monasteries c. Grecia, sentenza del 9 dicembre 1994, Serie A n. 301-A; Iatridis c. Grecia GC, n. 31107/1996,CEDU 1999-11; e Beyeler c. Italia GC, n, 33202/1996, CEDU 2000-1)".
Tra le varie decisioni viene ricordata, in particolare, il noto Provvedimento del 29.03.2006 Grande Camera, caso: Scordino contro Italia, Ricorso n. 36813/1997, secondo cui "l'ingerenza nel diritto al rispetto dei beni deve contemperare un "giusto equilibrio" tra le esigenze dell'interesse generale della comunità e il requisito della salvaguardia dei diritti fondamentali dell'individuo (cfr, tra altre autorità Sporrong e Ldnnroth, cit. supra). La preoccupazione di conseguire tale equilibrio si riflette nella struttura dell'art. 1, visto nella sua interezza, e che comprende quindi la seconda frase che deve essere letta alla luce del principio generale enunciato nella prima frase. In particolare, deve sussistere un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati ed il fine che si cerca di realizzare con qualsiasivoglia misura applicata dallo Stato, comprese le misure che privano una persona dei suoi beni (cfr. Pressos Campania Naviera S. A. e altri e. Belgio, sentenza 20.11.1995, Serie A n. 332; L'ex re di Grecia e altri c. Grecia GC, n. 25701/1994; e Sporrong e Lonnroth, city supra)".
In definitiva, quindi, la misura nazionale (rispetto alla quale "lo Stato gode di un ampio margine di discrezionalità sia nello scegliere i mezzi di attuazione che nell'accertare se le conseguenze derivanti dall'attuazione siano giustificate nell'interesse generale per il conseguimento delle finalità della legge" - cfr. Chassagnou e altri c. Francia GC, n. 25088/94, 28331/95 e 28443/95) deve rispettare il giusto equilibrio richiesto e non deve imporre un onere sproporzionato sui ricorrenti (cfr. Jahn e altri c. Germania GC, n. 46720/1999,72203/2001 e 72552/2001).
Sulla base di questi principi la Corte esclude che la disciplina dell'art. 11 cit. non può in alcun modo incidere sul "giusto equilibrio", attenendo non certo ai fondamentali momenti sopra enunciati, ma solo al momento successivo dell'esercizio del potere impositivo delle Stato sui propri contribuenti. La norma stabilisce che le somme costituenti plusvalenze (costituite dai corrispettivi pagati al proprietario -non imprenditore- di terreni aventi determinate destinazioni urbanistiche sotto forma di indennità di esproprio per cessione volontaria in sede espropriativa o di indennizzo per acquisizione coattiva, conseguente ad occupazione d'urgenza divenuta illegittima) siano (ovviamente e regolarmente) tassate attraverso due modalità, la cui scelta è rimessa al contribuente: o quest'ultimo opterà per la tassazione ordinaria, oppure l'ente erogante opererà su dette plusvalenze una ritenuta del venti per cento, a titolo d'imposta.
Ad avviso della S.C. appare chiaro che, in entrambi i casi, è in discussione non il principio di un risarcimento commisurato alla restituito in integrum o quello di un'indenità ragionevolmente rapportata al valore dei beni, bensì la scelta operata discrezionalmente e legittimamente dal legislatore italiano sulle modalità attraverso le quali tassare una plusvalenza realizzata da un contribuente.
Cioè ad un ambito, quello fiscale, del tutto distinto L'attinenza del "giusto equilibrio" ai soli aspetti sostanziali-indennitari della vicenda espropriativa e la distinzione tra questi e quello strettamente fiscale viene riscontrata dalla S.C. alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale sulla legittimità costituzionale dell'art. 11 cit. (Sent. n. 283 del 1993 e n. 148 del 1999).
La sentenza ha poi precisato che il regime fiscale in tema di plusvalenze realizzate mediante percezione della indennità di esproprio a seguito di una procedura di espropriazione per pubblica utilità o di cessione di terreni fabbricabili, opera "quale che sia la finalità concreta -realizzazione di un'opera pubblica o di un'opera di pubblica utilità, categoria quest'ultima nella quale rientrano gli insediamenti produttivi e gli impianti industriali, pur se realizzati da privati, previsti dagli strumenti urbanistici- a cui la medesima procedura sia preordinata.
Pertanto, attesa la irrilevanza sia del titolo sia della finalità dell'opera che realizza il trasferimento, la plusvalenza è soggetta a tassazione tanto se il trasferimento avviene a seguito di cessione a titolo oneroso, riconducibile ad una scelta libera ed autonoma del cedente, quanto se il trasferimento avviene forzosamente a seguito di espropriazione, di cessione volontaria o di occupazione appropriativa per la realizzazione di un'opera pubblica o di pubblica utilità
".
Nella specie la S.C. ha ritenuto applicabile l'art. 11 cit. con riferimento alle plusvalenze realizzate a seguito di procedura espropriativa finalizzata alla realizzazione di un P.I.P., in cui solo una parte delle aree occupate era stata destinata a infrastrutture urbane, mentre la restante parte era stata destinata alla successiva assegnazione in lotti ad imprese private (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. civile, sentenza 30.06.2011 n. 14362).

ENTI LOCALIEnti locali, no alla finanza creativa se manca la copertura normativa.
Con la sentenza che si presenta il giudice amministrativo si pronuncia sulla possibilità o meno, per gli enti locali, di prescrivere ai propri cittadini particolari prestazioni patrimoniali, esaminando, nel concreto, un regolamento comunale che impone ai concessionari di suolo pubblico la corresponsione di somme per il "degrado del suolo stradale", in aggiunta al canone per l'occupazione e alle spese di risistemazione del manto stradale.
In particolare, le norme regolamentari da cui scaturisce la vicenda, consentono al Comune di pretendere il pagamento di somme a fronte dell'esecuzione d'interventi di manomissione e di ripristino dei sedimi stradali da parte dei soggetti erogatori di pubblici servizi.
Il sistema tariffario è basato sulla zona dell'intervento e il tipo di pavimentazione e, inoltre, sono previste specifiche sanzioni pecuniarie per l'inosservanza delle disposizioni regolamentari.
In buona sostanza, dette previsioni regolamentari, nelle parti di specifico interesse, definiscono i presupposti e i contenuti delle obbligazioni a carico dei soggetti interessati al rilascio delle concessioni di scavo, ovvero che sarebbero incorsi nella violazione dei precetti regolamentari.
Il contenzioso deciso dal giudice, prende avvio dalle richieste di pagamento inviate dal Comune a una società, attiva nel settore delle comunicazioni elettroniche, che nel territorio comunale aveva realizzato infrastrutture costituite da condotti predisposti per l'installazione di fibre ottiche, provvedendo a interrarli lungo il reticolo stradale urbano.
La società, destinataria delle predette richieste di pagamento, le impugna, travolgendo nel ricorso anche gli atti presupposti (regolamento e relativa delibera consiliare di approvazione).
Nella sentenza 30.06.2011, n. 708, il TAR Piemonte-Sez. I, ritiene di accogliere le doglianze della ricorrente e, in particolare, la denunciata violazione dell'art. 23 Cost., in quanto le vagliate disposizioni regolamentari comunali, che impongono ai concessionari la corresponsione di somme per il degrado del suolo stradale (in aggiunta al canone per l'occupazione del suolo pubblico e alle spese di risistemazione a carico del concessionario), danno vita a veri e propri interventi ablatori, in assenza della copertura legislativa richiesta dalla previsione costituzionale.
Infatti, il precetto contenuto nella richiamata norma costituzionale, comporta che le prestazioni patrimoniali imposte dagli enti pubblici (non importa se di natura tributaria o meno) devono essere previamente contemplate in una fonte legislativa di rango primario, mancante nel caso di specie; peraltro, il TAR ricorda che la giurisprudenza amministrativa formatasi con precipuo riferimento alla materia degli scavi per la realizzazione d'impianti di telecomunicazione, ha costantemente affermato la necessità di una disposizione primaria che legittimi l'imposizione di prestazioni patrimoniali ai soggetti obbligati.
Da quanto sopra esposto, ne consegue l'illegittimità delle impugnate previsioni regolamentari, che prevedono il potere del Comune d'imporre le prestazioni patrimoniali in questione e relative al presunto degrado del suolo pubblico cagionato dagli interventi di posa di cavidotti, nonché degli atti che ne hanno fatta applicazione nel caso concreto, atteso che tali previsioni configurano vere e proprie prestazioni patrimoniali imposte, e non semplici rimborsi o indennizzi da corrispondersi per il ripristino del suolo stradale manomesso, in quanto la stessa previsione di un meccanismo ex ante di rimborso delle spese ne rende evidente la natura, non potendosi quantificare il costo effettivo degli interventi di ripristino in via presuntiva, ma solo a posteriori.
Secondariamente, il TAR ricorda la previsione dell'art. 93, comma 1, D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, secondo cui "Le pubbliche amministrazioni, le regioni, le province ed i comuni non possono imporre, per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge", norma che ha reso esplicito, nella specifica materia, il divieto posto a livello generale dall'art. 23 Cost..
Il regolamento, approvato dal Comune quando detta previsione legislativa era già in vigore, viola apertamente tale divieto in quanto, come già precisato, non prevede un meccanismo di rimborso delle spese per la risistemazione del suolo stradale, ma un vero e proprio canone ex ante a carattere tariffario.
La questione, peraltro, era già stata esaminata dallo stesso giudice (Sent. n. 2362 dell'08.05.2010), affermando il principio "per il quale il tassativo disposto dell'art. 93, comma 2, D.Lgs. n. 259 del 2003 esclude la legittimità dell'imposizione agli operatori di telecomunicazione per gli interventi di manomissione della sede stradale, di oneri finanziari o reali diversi rispetto alla tassa di occupazione di suolo pubblico e al canone per l'occupazione di suolo o aree pubbliche e, in particolare, di indennizzi per il degrado e il deterioramento dei beni demaniali".
Sulla base di tale principio, la cui validità il TAR ritiene di dover confermare, determina ancora una volta lo stesso giudice ad accogliere la domanda d'annullamento proposta in giudizio, poiché le impugnate norme regolamentari contribuiscono a disegnare, in violazione dell'art. 93, D.Lgs. n. 259 del 2003, il sistema tariffario relativo agli oneri per il deterioramento generale della sede stradale.
Da ultimo, il TAR esamina la denunciata violazione dell'art. 1, comma 1, L. 24.11.1981, n. 689 ("Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione"), con riferimento alle somme pretese dal comune a titolo d'ammenda, e alle previsioni regolamentari che fondavano l'esercizio del potere sanzionatorio esercitato nella fattispecie, ritenendo fondata anche questa censura, non rinvenendo nella materia de qua una previsione legislativa che, in ossequio al principio di legalità fissato dalla richiamata norma, legittimasse il Comune a imporre le sanzioni congegnate a livello regolamentare, e così imposte con una disposizione di carattere autoritativo: conseguentemente, dispone l'annullamento delle prescrizioni regolamentari che hanno previsto il potere sanzionatorio in questione, nonché degli atti che ne hanno fatto puntuale applicazione nei confronti della ricorrente.
E' di piena evidenza come tutti gli ulteriori atti con cui è richiesto il pagamento delle somme contabilizzate, ovvero ne viene effettuato il sollecito, sono affetti dagli stessi vizi che inficiano quelli impugnati col ricorso principale, per invalidità derivata dalle disposizioni regolamentari che ne costituiscono il presupposto, risultando meritevoli, perciò, di annullamento.
Il monito che ci deriva dalla sentenza, può essere riassunto nella massima secondo cui i Comuni non possono imporre prestazioni patrimoniali in assenza di una fonte legislativa che lo consenta e, circa la fattispecie esaminata, la pretesa dell'Amministrazione al pagamento di somme a titolo di ristoro del degrado del corpo stradale, in quanto avente natura di prestazione patrimoniale obbligatoriamente imposta, è illegittima in quanto priva di fondamento normativo (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 30.06.2011 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’edificio oggetto di recupero del sottotetto, pur rientrando in zona A di PRG, è frontista di un edificio ricadente in zona F2 posto a distanza inferiore a mt. 10 dal medesimo, e il DM 1444/1968 non prevede deroga della distanza minima di mt. 10 dai fabbricati se non esclusivamente nell’ambito di pianificazione urbanistica ovvero mediante l’approvazione di appositi piani attuativi fra edifici omogenei.
- Il recupero di un sottotetto a fini abitativi va considerato correttamente come nuova costruzione ed è poi, comunque, soggetto alla disciplina del D.M. 02.04.1968 n. 1444 in tema di distanze.
- Il problema relativo alla distanza tra fabbricati si pone non fra immobili siti entrambi in zona A, ma fra l’edificio del ricorrente in zona A e altro sito in zona F2. Ciò posto, se anche si ammettesse la possibilità di una deroga alla norma generale dell’art. 9 D.M. 1444/1968 per il caso di nuove costruzioni che interessino la sola zona A, detta deroga non si potrebbe estendere al caso presente, di immobili siti in zone diverse. A ciò osta in primo luogo il carattere di norma imperativa del D.M. 1444/1968, che, come correttamente rilevato dalla difesa comunale, ammette deroga solo nell’ambito di una ragionata pianificazione urbanistica. Osta poi in secondo luogo la mancanza di identità fra i due casi: una deroga interpretativa per la sola zona A potrebbe giustificarsi in base all’esigenza di preservare il carattere “spontaneo” dei centri storici, cresciuti in aderenza fra i vari edifici, esigenza non ricorrente nel rapporto fra zone diverse.

Il provvedimento in epigrafe, prodotto in copia dal ricorrente sub A, denega il rilascio del richiesto permesso di costruire “considerato che l’edificio oggetto dell’intervento proposto, pur rientrando in zona A di PRG, è frontista di un edificio ricadente in zona F2 posto a distanza inferiore a mt. 10 dal medesimo, e il DM 1444/1968 non prevede deroga della distanza minima di mt. 10 dai fabbricati se non esclusivamente nell’ambito di pianificazione urbanistica ovvero mediante l’approvazione di appositi piani attuativi fra edifici omogenei”, deroghe tutte che, come pacifico in causa, nella specie non constano.
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Il recupero di un sottotetto a fini abitativi va considerato correttamente come nuova costruzione, come risulta da C.d.S. sez. V 24.02.1999 n. 195 nonché da TAR Lombardia Milano sez. II 10.12.2010 n. 7505 e, nella giurisprudenza della Sezione, dalla sentenza sez. I 29.09.2009 n. 1712, citata anche dal ricorrente; è poi comunque soggetto alla disciplina del D.M. 02.04.1968 n. 1444 in tema di distanze, così come ritenuto da C.d.S. sez. V 19.10.1999 n. 1565, pure citata dal ricorrente.
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Non appare pertinente al caso di specie la questione relativa alla applicabilità del limite di distanza di 10 metri per il caso di nuove costruzioni anche al caso in cui esse si collochino in zona A.
Infatti, come evidenzia il provvedimento impugnato, il problema relativo alla distanza si pone non fra immobili siti entrambi in zona A, ma fra l’edificio del ricorrente in zona A e altro sito in zona F2. Ciò posto, se anche si ammettesse la possibilità di una deroga alla norma generale dell’art. 9 D.M. 1444/1968 per il caso di nuove costruzioni che interessino la sola zona A, detta deroga non si potrebbe estendere al caso presente, di immobili siti in zone diverse.
A ciò osta in primo luogo il carattere di norma imperativa del D.M. 1444/1968, che, come correttamente rilevato dalla difesa comunale, ammette deroga solo nell’ambito di una ragionata pianificazione urbanistica. Osta poi in secondo luogo la mancanza di identità fra i due casi: una deroga interpretativa per la sola zona A potrebbe giustificarsi in base all’esigenza di preservare il carattere “spontaneo” dei centri storici, cresciuti in aderenza fra i vari edifici, esigenza non ricorrente nel rapporto fra zone diverse (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 996 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito alla quantificazione della sanzione pecuniaria ex art. 52, comma 2, L.R. 12/2005 (Qualora il mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie, ancorché comunicato ai sensi dell’articolo 52, comma 2, risulti in difformità dalle vigenti previsioni urbanistiche comunali, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria pari all’aumento del valore venale dell’immobile o sua parte, oggetto di mutamento di destinazione d’uso, accertato in sede tecnica e comunque non inferiore a mille euro), la determinazione dell’entità della sanzione pecuniaria, avvenuta utilizzando le valutazioni tecniche effettuate dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (O.M.I.) tenuto dall’Agenzia del Territorio, rappresenta espressione di discrezionalità tecnica dell’amministrazione, che può essere sindacata soltanto sotto l’aspetto dell’attendibilità delle operazioni tecniche, sotto il duplice profilo della correttezza del criterio tecnico individuato e della correttezza del procedimento applicativo seguito dalla autorità per l’applicazione dello stesso.
Il giudice è qui chiamato ad accertare non se quella cui è giunta l'Amministrazione sia l'unica soluzione possibile (perché il carattere elastico ed opinabile dei parametri utilizzati implica che non esiste un unico risultato esatto), ma se quella soluzione sia, pur nella sua fisiologica opinabilità, tecnicamente attendibile.

Quanto al secondo motivo, lo stesso ricorrente fa leva sulla violazione e falsa applicazione dell’art. 53, co. II, L.R. Lombardia n. 12/2005 e sull’eccesso di potere per difetto di motivazione, illogicità e difetto di istruttoria.
In particolare, in via subordinata l’esponente si duole della quantificazione della sanzione pecuniaria, che dovrebbe essere operata secondo la tecnica estimativa, con assoluta contestualità nella individuazione dei valori iniziale e finale e avendo presente come epoca di riferimento quella della commissione dell’abuso. Nei fatti, invece, l’amministrazione si sarebbe limitata, in modo del tutto illegittimo, a recepire le valutazioni espresse dall’Agenzia delle Entrate, che, però, non sarebbero rispondenti ai criteri della corretta tecnica estimatoria, non essendo stati precisati né i listini di riferimento, né la tipologia di fabbricato cui è stato attribuito il valore massimo e neppure l’epoca di riferimento dei valori indicati.
La difesa esponente conclude, quindi, richiedendo C.T.U. ai fini della quantificazione di cui sopra.
...
La determinazione dell’entità della sanzione pecuniaria, avvenuta utilizzando le valutazioni tecniche effettuate dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (O.M.I.) tenuto dall’Agenzia del Territorio, rappresenta espressione di discrezionalità tecnica dell’amministrazione, che può essere sindacata soltanto sotto l’aspetto dell’attendibilità delle operazioni tecniche, sotto il duplice profilo della correttezza del criterio tecnico individuato e della correttezza del procedimento applicativo seguito dalla autorità per l’applicazione dello stesso (cfr. la nota decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, del 09.04.1999 n. 601 che, innovando l’orientamento preesistente, ha riconosciuto la possibilità di un sindacato “forte” sulla discrezionalità tecnica).
In conformità della suesposta impostazione si spiega l’attuale orientamento giurisprudenziale che, a proposito del sindacato giurisdizionale sulle valutazioni connotate da discrezionalità tecnica, ritiene che il giudice amministrativo possa censurare dette valutazioni solo laddove risultino tecnicamente inattendibili o affette da evidenti illogicità (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 21.03.2011, n. 1699).
Detto in altri termini, il giudice è qui chiamato ad accertare non se quella cui è giunta l'Amministrazione sia l'unica soluzione possibile (perché il carattere elastico ed opinabile dei parametri utilizzati implica che non esiste un unico risultato esatto), ma se quella soluzione sia, pur nella sua fisiologica opinabilità, tecnicamente attendibile (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 21.03.2011, n. 1712).
Ebbene, in relazione al caso che qui occupa, il Collegio ritiene che il giudizio espresso dall’Agenzia del Territorio non possa essere considerato inattendibile, atteso che:
- promana da un soggetto avente personalità giuridica di diritto pubblico a cui istituzionalmente compete la “gestione dell’osservatorio del mercato immobiliare e di servizi estimativi che può offrire sul mercato” (cfr. art. 4, lett. g, dello Statuto definitivo, di cui al “Testo deliberato nella riunione del Comitato Direttivo del 13.12.2000, coordinato con le modifiche ed integrazioni deliberate nella riunione del Comitato Direttivo del 19.01.2001”);
- la determinazione del “valore complementare”, ovvero dell’“aumento di valore venale dell’immobile” conseguente al cambio di destinazione d’uso, effettuata sulla base dei listini dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, tenuto dalla stessa Agenzia, risulta esente da vizi sia con riguardo ai parametri utilizzati che alla loro concreta applicazione al caso che qui occupa.
In tal senso, giova considerare come i valori risultanti dalla banca dati dell’O.M.I. (che, stando alla giurisprudenza tributaria, integrano presunzioni semplici - Cfr., al riguardo, Comm. trib. prov.le Modena, sez. IV, 20.04.2010, n. 84; Comm. trib. reg. Bari, sez. VII, 01.09.2009, n. 96), non risultano affatto smentiti dai dati forniti da parte ricorrente, la quale, a ben vedere, ne contesta soltanto l’applicazione fattane dall’Agenzia, allorché:
- avrebbe attribuito un “basso valore alla funzione uffici”;
- avrebbe attribuito un valore alla funzione residenziale dei medesimi uffici diversa da quella “normale”.
In realtà, sul primo aspetto, va rimarcato come il valore attribuito dall’Agenzia, come pure si evince dai listini depositati in atti dalla stessa ricorrente, corrisponda a quello degli uffici in ottimo stato conservativo (sia pure individuato, nell’intervallo tra una soglia minima e massima, in prossimità della prima anziché della seconda); quanto al secondo aspetto, va precisato come sarebbe stato tutt’altro che logico valutare, come vorrebbe l’esponente, i medesimi immobili, in “ottimo stato conservativo”, per la loro quotazione come uffici (corrispondente alla loro destinazione d’uso prima del mutamento) e in “normale stato conservativo” per la loro quotazione come residenza (corrispondente a quella successiva al mutamento stesso), al fine di assottigliare il più possibile l’incremento di valore (cd. valore complementare) derivante dalla operazione in questione.
Non v’è dubbio, infatti, che il raffronto debba essere operato fra i valori assegnati agli immobili in relazione al medesimo stato di conservazione, così come correttamente operato da parte dell’amministrazione in causa.
L’attendibilità, quindi, della stima –non contraddetta da elementi in grado di infirmarla (non ricavabili dai contratti di compravendita prodotti dalla ricorrente, che non risultano riferiti ad unità residenziali di “eguali caratteristiche … ubicazionali” a quelle di che trattasi)– esclude la necessità di disporre, al riguardo, una C.T.U (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.06.2011 n. 1730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mancata presentazione del contratto di avvalimento: legittima esclusione da gara.
La mancata produzione del contratto di avvalimento, nell’ambito della documentazione amministrativa da presentare in sede di gara, legittima la stazione appaltante alla esclusione del concorrente inadempiente.
E’ questo il principio stabilito dal TAR Toscana, Sez. I, con sentenza 27.06.2011 n. 1110.
Nel caso di specie il ricorrente aveva partecipato, in costituendo raggruppamento di imprese, alla gara indetta per l’affidamento dell’incarico di redazione del Regolamento urbanistico e di costruzione del SIT a supporto dell’atto di governo. In assenza di produzione del contratto di avvalimento, il ricorrente è stato escluso dalla gara. Conseguentemente viene contestata l’esclusione dalla gara, facendo riferimento all’istituto dell’avvalimento in ambito comunitario.
In particolare, il ricorrente sostiene che tale istituto è funzionale a garantire la massima partecipazione dei concorrenti alle gare pubbliche e, pertanto, la stazione appaltante avrebbe dovuto chiedere chiarimenti in luogo di escludere il concorrente sulla base della mancata produzione del contratto di avvalimento.
Al contrario, osservano i giudici del TAR Toscana, l’articolo 49 del Codice degli appalti stabilisce che in caso di ricorso all’istituto dell’avvalimento il concorrente deve produrre una serie di documenti tra cui “una dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima si obbliga verso il concorrente e verso la stazione appaltante a mettere a disposizione per tutta la durata dell’appalto le risorse necessarie di cui è carente il concorrente” (cfr. lett. d]) nonché “in originale o copia autentica il contratto in virtù del quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell’appalto” (cfr. lett. f]).
Nel caso affrontato è di tutta evidenza che la stazione appaltante nel disciplinare di gara ha richiesto, oltre alla dichiarazione sottoscritta dall’impresa ausiliaria, anche il contratto in originale o in copia autenticata. Altrettanto chiaro è che la parte ricorrente non ha prodotto copia del contratto, giacché si sostiene che lo stesso è stato concluso in forma verbale e non era quindi possibile produrne una copia cartacea. Si sostiene altresì che comunque la stazione appaltante avrebbe dovuto ritenere sufficiente la dichiarazione prodotta dalla ditta ausiliaria.
Richiamando, la giurisprudenza più recente il TAR ha evidenziato la estrema importanza della cognizione in sede di gara di tale contratto anche al fine di poter esaminare in concreto le pattuizioni stabilite tra le parti e poter quindi appurare se dalle stesse emerga una concreta cessione di mezzi e risorse tra ausiliaria e concorrente, tale da dare concretezza all’istituto dell’avvalimento stesso (Cons. Stato, sez. III, 18.04.2011, n. 2344).
La necessaria produzione in giudizio del contratto di avvalimento appare quindi tutt’altro che eccessiva o irrazionale e comporta che gli accordi tra le parti in tale materia dovranno senz’altro rivestire una forma scritta, tale da poter essere prodotti nella documentazione di gara. Deve quindi evidenziarsi che, contrariamente a quanto sostenuto in ricorso, la semplice dichiarazione di impegno della ausiliaria a fornire al concorrente quanto necessario per l’esecuzione del contratto non può dirsi sostituiva e assorbente rispetto alla produzione del vero e proprio contratto di avvalimento, giacché soltanto quest’ultimo contiene le specifiche pattuizioni tra impresa ausiliaria e concorrente e consente quindi la verifica della serietà degli impegni assunti dall’ausiliaria anche in termini di messa a disposizione di mezzi e risorse a favore dell’impresa che partecipa alla gara.
Sulla base di queste valutazioni, il TAR Toscana ha respinto il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in € 2000 (link a www.altalex.com).

PUBBLICO IMPIEGO: La mera circostanza che la commissione non sia composta almeno per un terzo da donne non vizia le operazioni concorsuali.
Con ricorso presentato nella pronuncia in rassegna i ricorrenti avevano chiesto al Tribunale di annullare, previa sospensione dell’efficacia, la determina del Direttore del Servizio Risorse Umane di un Comune avente ad oggetto “Selezione pubblica a 15 posti di dirigente. Recepimento della graduatoria finale”, la determina del Direttore Generale di individuazione della Commissione esaminatrice e della Segreteria tecnica, il provvedimento contenente la loro esclusione dalla prova orale e la graduatoria finale degli idonei predisposta dalla Commissione Giudicatrice, nonché tutti gli atti preordinati, consequenziali e comunque connessi del relativo procedimento, ivi compresi gli atti di nomina dei vincitori.
Non condivisibili, secondo il tribunale amministrativo di Torino sono, tra le altre contestazioni, le argomentazioni relative alla pretesa violazione, sempre nella nomina della Commissione, delle pari opportunità, per la presenza, all’interno dell’organo collegiale, solo di componenti di sesso maschile: come evidenziato da costante giurisprudenza, ricordano i giudici torinesi, “la mera circostanza che una commissione di concorso non sia composta almeno per un terzo da donne (così come prescritto dall'art. 9, comma 2, d.P.R n. 487 del 1994) non esplica di per sé effetti vizianti delle operazioni concorsuali: tale violazione, infatti, è rilevante soltanto in presenza di una condotta discriminatoria del collegio in danno dei concorrenti di sesso femminile” (Cons. St., sez. VI, 27/12/2006, n. 7962; Cons. St., sez. V, 23/10/2007 n. 5572; TAR Campania, Napoli, sez. III, 03/02/2010 n. 558).
Nella vicenda in commento, concludono i giudici sabaudi, di una simile condotta, anche alla luce dei risultati della selezione, che hanno visto l’affermazione di numerose concorrenti nelle prime posizioni della graduatoria, non si riscontra, in verità, alcun concreto indizio nella procedura oggetto di causa (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 26.06.2011 n. 677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

SICUREZZA LAVOROResponsabile il lavoratore per l'imprudente violazione di idonee misure di sicurezza.
Sussiste continuità normativa tra l'art. 34, lett. b), del d.P.R. n. 547/1955 e l'All. IV del D.Lgs. n. 81/2008 che vieta, nelle aziende o lavorazioni in cui esistono pericoli specifici di incendio, l'uso di apparecchi a fiamma libera e di manipolare re materiali incandescenti, a meno che non siano adottate misure di sicurezza; in caso di violazione del predetto divieto, risponde della relativa violazione non soltanto il datore di lavoro, ma anche il lavoratore che operi imprudentemente violando idonee misure di sicurezza.
Interessante sentenza quella qui esaminata con cui la Corte si pronuncia, per la prima volta dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, sulla questione relativa alla configurabilità di una peculiare fattispecie penale contemplata in materia di disciplina dei luoghi di lavoro e, soprattutto, sull'addebitabilità della stessa, oltre che al datore di lavoro, anche ai lavoratori dipendenti che imprudentemente non osservano i divieti imposti dalla legge.
La Corte, nel risolvere la questione, si pronuncia affermativamente sul primo quesito, ritenendo esistente una successione di leggi penali che non ha comportato alcun effetto abrogativo della fattispecie esaminata e, quanto al secondo quesito, ha esteso l'ascrivibilità soggettiva del fatto anche al lavoratore che imprudentemente non abbia osservato quanto richiesto dalla normativa a tutela della propria ed altrui incolumità fisica.
Il caso.
La vicenda processuale che ha offerto l'occasione agli Ermellini per occuparsi della questione traeva origine da una sentenza di condanna di un lavoratore che, alle dipendenze di una S.n.c., effettuava lavori di saldatura elettrica su tubazioni facenti parte di un impianto di distribuzione stradale gpl, senza adottare idonee misure di sicurezza atte ad evitare pericoli di incendio o di propagazione fiamme.
Riteneva, in particolare, il Tribunale che la responsabilità dell'imputato emergesse in modo inequivocabile dalle risultanze processuali, avendo egli agito con grossolana imprudenza e senza adottare le necessarie precauzioni, pur svolgendosi l'attività di saldatura nelle vicinanze di un serbatoio di GPL.
Il ricorso.
Resisteva alla condanna la difesa dell'operaio contestando, da un lato, il fatto che il Tribunale non avesse tenuto conto che, a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2008, la violazione contestata non costituisse per i lavoratori subordinati un'ipotesi di reato: il nuovo T.U.S., a dire della difesa, avrebbe infatti abrogato il d.P.R. n. 547/1955 e la condotta contestata sarebbe sanzionata penalmente solo se attribuibile a soggetti diversi dal lavoratore subordinato (v. artt. 63 e 68, all. 4, D.Lgs. n. 81/2008); dall'altro, contestava la sussistenza della violazione ipotizzata, essendo emerso dall'istruttoria dibattimentale che l'imputato non aveva usato fiamme libere e tanto meno manipolato materiali incandescenti.
Le cause dell'infortunio occorso al collega di lavoro, a giudizio della difesa, esulavano completamente dall'oggetto della contestazione, sicché il Tribunale avrebbe omesso di accertare se la saldatura elettrica fosse sussumibile nell'ipotesi prevista dall'art. 34 d.P.R. n. 547/1955.
Tale norma, oggi abrogata, non vietava l'uso di scintille ma l'uso di fiamme libere: in sintesi, nella motivazione il tribunale non avrebbe spiegato perchè l'utilizzo di scintille o la saldatura elettrica fossero sussumibili nell'ipotesi contravvenzionale contestata.
La decisione della Cassazione.
La Corte di Cassazione, pur annullando senza rinvio per prescrizione la sentenza di condanna ritenendo che in relazione al reato di pericolo contestato occorresse accertare se la saldatura elettrica potesse essere sussunta nelle ipotesi previste dalla norma, ha colto l'occasione per fare chiarezza sui nodi principali della vicenda.
Anzitutto, evidenzia la Cassazione come il nuovo T.U.S. che ha abrogato il d.P.R. 27.04.1955, n. 547, prevede oggi all'all. 4 una disposizione identica all'art. 34, lett. b), del decreto abrogato ("4.1 nelle aziende o lavorazioni in cui esistono pericoli specifici di incendio: 4.1.2 è vietato usare apparecchi a fiamma libera e manipolare materiali incandescenti, a meno che non siano adottate misure di sicurezza").
Non può però sostenersi, come fa invece la difesa, che tale norma sia sanzionata penalmente solo quando la violazione sia commessa dai datori di lavoro. Ed invero, precisano gli Ermellini, pur essendo vero, da un lato, che l'art. 63, comma 1, T.U.S. prevede che i luoghi di lavoro debbano essere conformi ai requisiti indicati nell'allegato 4 e che, dall'altro, l'art. 64 prevede che tale obbligo gravi sul datore di lavoro prevedendosi, in caso di mancata ottemperanza, l'applicazione di una sanzione penale a suo carico (art. 68); è, tuttavia, altrettanto vero che lo stesso T.U.S. contempla, all'art. 59 (come sostituito dal D.Lgs. 03.08.2009, n. 106, art. 36) sanzioni penali anche per i lavoratori "per la violazione dell'articolo 20 comma 2 lettera b), c), d), e), f), g), h) ed i), e articolo 43, comma 3, primo periodo".
Orbene, tra le violazioni sopra indicate rientrano, per i giudici di Piazza Cavour, anche quelle riguardanti la osservanza delle disposizioni e delle istruzioni ai fini della protezione collettiva ed individuale, la corretta utilizzazione delle attrezzature di lavoro, delle sostanze e dei preparati pericolosi, nonché dei dispositivi di sicurezza, e la utilizzazione in modo appropriato dei dispositivi di protezione. Poiché, dunque, al lavoratore era stato addebitato di aver operato imprudentemente in violazione di idonee misure di sicurezza, vi è "continuità normativa" con la previgente disciplina e sicura ascrivibilità soggettiva del fatto sia al lavoratore dipendente che al datore di lavoro.
Non può che convenirsi con la soluzione cui è pervenuta la Suprema Corte.
Sull'esistenza di un rapporto di continuità normativa tra le disposizioni in materia di luoghi di lavoro dettate dall'abrogato d.P.R. n. 547/1955 e quelle contenute nel nuovo D.Lgs. n. 81/2008 si è già, peraltro, pronunciata più volte la Corte (v., ad es.: Cass. pen., Sez. 3, n. 23976 del 07/05/2009, dep. 11/06/2009, imp. P.M. in proc. D., in Ced Cass. 244083, sulla continuità normativa tra l'art. 8 dell'abrogato d.P.R. n. 547 e la nuova fattispecie prevista dal combinato disposto degli artt. 63, 64 e 68, lett. b), in relazione all'All. IV, punto 1.4.1, D.Lgs. n. 81 del 2008; Sez. 3, n. 17218 del 03/03/2009, dep. 23/04/2009, imp. G., in Ced Cass. 243756, sulla continuità normativa tra l'art. 34 del d.P.R. n. 547 del 1955 e gli artt. 63 e 64 del D.Lgs. n. 81 del 2008, riguardanti le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi).
Quanto, poi, alla responsabilità del lavoratore per l'imprudente violazione di norme di sicurezza, non v'è dubbio che, in generale, l'art. 20 T.U.S., nel declinare gli obblighi dei lavoratori, impone a quest'ultimo di "prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro", dettagliando al comma 2 gli obblighi specifici su ciascun dipendente incombenti, tra cui rientrano quelli di "utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro, le sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi di trasporto, nonché i dispositivi di sicurezza" (lett. c), di "utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione" (lett. d) ed, infine, di "non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori" (lett. g).
L'osservanza di detti obblighi, oltre ad essere penalmente sanzionata, costituisce un utile parametro di riferimento normativo della loro condotta (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. penale, sentenza 23.06.2011 n. 25205).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Difformità totale - Nozione - Presupposti - Art. 44, lett. c), DPR 380/2001.
La difformità totale di un manufatto dalla concessione edilizia si delinea allorché le modifiche comportino un'alterazione del progetto originario nelle sue caratteristiche essenziali di struttura, aspetto estetico, architettura, destinazione e, nel caso in cui vengano realizzati volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto, allorquando i volumi realizzati in eccesso costituiscano un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile (Cass. Sez. 3, n. 3350 del 29/01/2004, Lasi).
In conclusione, la totale difformità non coincide solo con la modifica volumetrica del manufatto rispetto a quanto assentito.
Errore tecnico - Vigilanza sulla conformità dell'opera - Obblighi e responsabilità del committente - Fattispecie.
In edilizia, l'obbligo di esercitare la dovuta vigilanza sulla conformità dell'opera alla legge fa carico al committente dell'opera stessa. Né può essere invocato l'errore tecnico, quale elemento viziante della conoscenza, e quindi della volontarietà del fatto.
Nel caso di specie, lo spostamento della collocazione del manufatto da realizzare fu decisa dalla stessa committente, la quale non poteva certo ignorare lo stato dei luoghi e comunque era tenuta a controllare in corso d'opera quanto era facilmente visibile, senza necessità di uno specifico expertise (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.06.2011 n. 25191 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sagoma di un edificio - Nozione.
Per sagoma di un edificio si deve fare riferimento alla conformazione planivolumetrica della costruzione ed al suo perimetro inteso sia in senso verticale sia orizzontale (Cass. Sez. 3, n. 8081 del 15/07/1994, Soprani) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.06.2011 n. 25191 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Risarcimento dei danni - Parte civile - Presupposti - Onere della prova - Esclusione - Accertamento sulla misura ed esistenza del danno - Giudice della liquidazione - Competenza.
In materia di risarcimento dei danni, ai fini della pronuncia di condanna generica in favore della P.C. non è necessario che il danneggiato provi la effettiva sussistenza dei danni ed il nesso di causalità tra questi e l'azione dell'autore dell'illecito, essendo sufficiente l'accertamento di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose.
La suddetta pronuncia infatti costituisce una mera declaratoria juris da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (così, Sez. 6, n. 12199 del 29/03/2005, Molisso) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.06.2011 n. 25191 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Difformità totale.
La difformità totale di un manufatto dalla concessione edilizia si delinea allorché le modifiche comportino un’alterazione del progetto originario nelle sue caratteristiche essenziali di struttura, aspetto estetico, architettura, destinazione e, nel caso in cui vengano realizzati volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto, allorquando i volumi realizzati in eccesso costituiscano “un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile”.
Pertanto, la totale difformità non coincide solo con la modifica volumetrica del manufatto rispetto a quanto assentito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.06.2011 n. 25191 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Società in nome collettivo.
La responsabilità per le violazioni contravvenzionali commesse nell’ambito di una società in nome collettivo grava su ciascun socio in quanto titolare del diritto-dovere di amministrare, essendo irrilevante l’esercizio di fatto di mansioni diverse da parte dei singoli soci (fattispecie in tema di rifiuti) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2011 n. 25045 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Concorso nel reato dell’appaltatore.
In materia di rifiuti il committente dei lavori edili e il direttore del lavori non possono essere ritenuti responsabili a titolo di concorso con l’appaltatore per la raccolta e lo smaltimento abusivi del rifiuti non pericolosi connessi all’attività edificatoria: infatti nessuna fonte legale, né scaturente da norma extrapenale, né da contratto, pone in capo a tali soggetti l’obbligo di garanzia in relazione all’interesse tutelato ed il correlato potere giuridico di impedire che l’appaltatore commetta il reato di abusiva gestione dei rifiuti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2011 n. 25041 - tratto da www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ruscellamento liquami.
In assenza di una condotta di scarico, le acque reflue devono qualificarsi rifiuti liquidi il cui versamento sul suolo ovvero la cui immissione in acque superficiali o sotterranee, senza autorizzazione, è sanzionata penalmente dall’art. 256, commi 1 e 2, del D.Lv. 152/2006 (fattispecie in tema di "ruscellamento") (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2011 n. 25037 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è necessaria la presentazione della scia per l’adeguamento di un impianto radioelettrico preesistente.
Nella pronuncia in rassegna il titolare di un impianto di telefonia GSM regolarmente autorizzato, ubicato in un Comune lombardo, ha presentato allo stesso Ente una DIA, ai sensi dell’art. 87-bis del Codice delle Comunicazioni, al fine di adeguarlo alle più moderne tecnologie. Dopo aver ricevuto la nota con cui il Responsabile dello Sportello Unico del Comune ha comunicato che l’intervento denunciato non sarebbe più soggetto a DIA ma a SCIA, ritenendo l’atto illegittimo, la società lo ha impugnato deducendo violazione di legge ed eccesso di potere sotto diversi profili.
I giudici del Tribunale amministrativo di Brescia, accogliendo il ricorso, ricordano che la materia delle telecomunicazioni è disciplinata dal Testo Unico approvato con D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, cosiddetto Codice delle Comunicazioni Elettroniche, il quale all’art. 4, tra gli obiettivi generali della disciplina, prevede la promozione della semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica.
Nell’ottica della semplificazione, spiegano i giudici lombardi, per evitare il proliferare di reti di telefonia, il legislatore, in sede di conversione del D.L. 25.03.2010, n. 40, è intervenuto, con la L. 22.05.2010, n. 73, aggiungendo al corpo del Decreto l’art. 5-bis, con cui è stato inserito nel Codice delle Comunicazioni Elettroniche l’art. 87-bis a mente del quale “Al fine di accelerare la realizzazione degli investimenti per il completamento della rete di banda larga mobile, nel caso di installazione di apparati con tecnologia UMTS, sue evoluzioni o altre tecnologie su infrastrutture per impianti radioelettrici preesistenti o di modifica delle caratteristiche trasmissive, fermo restando il rispetto dei limiti, dei valori e degli obiettivi di cui all'articolo 87 nonché di quanto disposto al comma 3-bis del medesimo articolo, è sufficiente la denuncia di inizio attività, conforme ai modelli predisposti dagli enti locali e, ove non predisposti, al modello B di cui all'allegato n. 13. Qualora entro trenta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda sia stato comunicato un provvedimento di diniego da parte dell'ente locale o un parere negativo da parte dell'organismo competente di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36, la denuncia è priva di effetti”. Detta norma è entrata in vigore, in uno con la legge di conversione n. 73/2010, il 26.05.2010.
A distanza di circa due mesi il D.L. 31.05.2010, n. 78 (Manovra economica), con l’art. 49, comma 4-bis ha sostituito l'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, con l’art. 19 (Segnalazione certificata di inizio attività - SCIA). Dopo alcune iniziali incertezze interpretative è intervenuto il Ministro per la Semplificazione, con la nota P.C.M. del 16.09.2010, chiarendo che la S.C.I.A. deve ritenersi applicabile al T.U. dell’edilizia n. 380/2001, mediante il meccanismo della sostituzione automatica di norme; osservano i giudici bresciani, tuttavia, come identico discorso non possa farsi per il Codice delle Comunicazioni Elettroniche in quanto la disciplina in esso contenuta si pone in rapporto di specialità rispetto al Testo unico dell’Edilizia.
In proposito deve ribadirsi la sostanziale esigenza di semplificazione sottesa a tale disciplina, che risulterebbe vanificata dall’applicabilità della SCIA, richiamandosi quanto affermato dal Giudice delle Leggi nella pronuncia n. 223/2005 laddove afferma che la disposizione che ammette la formazione del titolo per silentium prevede moduli di definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi in quanto tali di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria. In altri termini, la disciplina dettata dal D.Lgs. 259/2003 costituisce normativa speciale e, come tale, non suscettibile di essere modificata da quella generale dettata dal T.U. dell'edilizia.
La compiutezza della suddetta disciplina speciale induce a ritenere che i titoli abilitativi da esso previsti (autorizzazione e denuncia di inizio attività) malgrado la identità del nomen con gli istituti previsti dal T.U. dell'edilizia, siano provvedimenti del tutto autonomi che assolvono integralmente le esigenze proprie delle telecomunicazioni e quelle territoriali alla cura degli enti locali, come è desumibile dalla singolarità del procedimento, dalla qualificazione di opere di urbanizzazione primaria, nonché dalla necessità cui è finalizzata la disciplina del D.Lgs. 259/2003 di semplificare l'attività edilizia relativa alle infrastrutture di comunicazione elettronica (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2010, n. 4557; v. anche TAR Lazio Roma, sez. II, 19.07.2006, n. 6056) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.06.2011 n. 1660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulle condizioni che devono sussistere affinché una società capogruppo possa essere chiamata a rispondere di responsabilità amministrativa, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001.
Una società capogruppo può essere chiamata a rispondere, ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, per il reato commesso nell'ambito dell'attività di altra società del gruppo, purché nella sua consumazione concorra una persona fisica che agisca per conto della holding perseguendo anche l'interesse di quest'ultima (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 20.06.2011 n. 24583 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Gestione dei rifiuti, il titolare risponde per il fatto del dipendente.
Risponde del reato di gestione non autorizzata dei rifiuti (art. 256, comma 1, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) il titolare, legale rappresentante, della ditta per conto della quale viene svolta l'attività illecita, a nulla rilevando che egli fosse stato assente il giorno di commissione dell'illecito ne' che sul luogo fosse presente un suo dipendente.
La sentenza in esame offre un'utile occasione alla Suprema Corte per soffermarsi sul tema della ripartizione delle responsabilità penali tra i soggetti dell'impresa con riferimento al reato di gestione non autorizzata di rifiuti, contemplato dall'art. 256, comma 1, del D.lgs. 03.04.2006, n. 152.
La Corte, nel ripercorrere l'evoluzione giurisprudenziale formatasi sotto la vigenza del T.U.A., ribadisce –attualizzandolo alle modifiche introdotte con il recente D.Lgs. n. 205/2010– che in tema di gestione dei rifiuti, le responsabilità per la sua corretta effettuazione, in relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravano su tutti i soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo dei beni dai quali originano i rifiuti stessi, e le stesse si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti.
Il concetto di “coinvolgimento” trovava specificazione nelle disposizioni poste dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 10 ed attualmente D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 188 (fatte salve le ipotesi di concorso di persone nel reato), ma anche la mera osservanza delle condizioni di cui all'art. 10 non vale ad escludere le responsabilità dei detentori e/o produttori di rifiuti allorquando costoro si siano resi responsabili di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti. I principi sopra richiamati risultano, infatti, per la Corte, sostanzialmente ribaditi anche allo luce del D.L.vo 03.12.2010, n. 205 (artt. 2 e 16).
Il caso.
La vicenda processuale che ha offerto alla Corte l'occasione per ribadire la linea giurisprudenziale di legittimità formatasi sotto la vigenza del decreto Ronchi, vedeva imputato il socio accomandatario, quale legale rappresentante ex lege, di una società esercente attività di raccolta, smaltimento e stoccaggio di rifiuti speciali non pericolosi misti, provenienti da attività di rifacimento del manto stradale, contenenti scarti di cemento, bitume catramato e terriccio, in mancanza della prescritta autorizzazione.
Secondo il giudice di merito, risultava provata l'attività illecita riguardante i rifiuti non pericolosi e, per quanto qui di interesse, del relativo reato doveva essere chiamato a rispondere il titolare della società, essendo l'attività della stessa riconducibile al medesimo né risultando che nell'ambito aziendale fosse stata rilasciata una valida delega di funzioni ad altri soggetti.
Il ricorso.
Resisteva alla sentenza di condanna la difesa dell'imputato. In particolare, riteneva che la condanna fosse fondata esclusivamente sulla veste legale di amministratore ex lege della S.a.s., non potendo a lui muoversi alcun addebito personale, in quanto, da un lato, egli non aveva effettuato il trasporto e, dall'altro, non risultava aver impartito direttive. Inoltre, aggiungeva la difesa, il reato contestato (art. 256, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006), a differenza di quello previsto dal comma 2 della citata norma, è reato comune a condotta attiva e non un reato proprio dell'imprenditore o del responsabile dell'Ente.
Diversamente, secondo la difesa, risultava che il formulario di trasporto rifiuti era stato predisposto da un dipendente della società, mentre il titolare della stessa si trovava fuori sede, a tal fine contestando la circostanza che nessun addebito fosse stato a lui mosso né a titolo di concorso nel reato né fosse stata individuata una posizione di garanzia.
La decisione della Cassazione.
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha ritenuto del tutto sfornita di pregio giuridico la tesi sostenuta dalla difesa, procedendo ad attualizzare i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, alla nuova disciplina dettata dal T.U.A. come modificato dal D.Lgs. n. 205/2010.
La norma contestata, com'è noto, è costituita dall'art. 256, comma 1, del T.U.A. che, sotto la rubrica "Attività di gestione di rifiuti non autorizzata", punisce come reato contravvenzionale la condotta di «Chiunque effettua una attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescritta autorizzazione, iscrizione o comunicazione». Il comma 2 della disposizione in esame, richiamato dalla difesa del ricorrente, punisce con le stesse sanzioni indicate dal comma 1, i «titolari di imprese ed ai responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all'articolo 192, commi 1 e 2».
Sembrerebbe, quindi, che solo nelle ipotesi del comma 2 e non in quelle del comma 1 debba venire in rilievo la responsabilità penale del titolare dell'impresa o dell'ente, soggetti espressamente richiamati dalla stessa fattispecie penale quali responsabilità del reato di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti. Può dunque fondatamente ritenersi che, per i reati previsti dal comma 1, debba escludersi la responsabilità del titolare dell'impresa nei casi in cui la commissione dell'illecito penale sia, nella sua materialità, ascrivibile ad un dipendente?
La risposta fornita dai giudici di Piazza Cavour è, correttamente, negativa.
Ed infatti, come ricordato dagli Ermellini nella sentenza qui esaminata, in tema di gestione dei rifiuti le responsabilità per la sua corretta effettuazione, in relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravano su tutti i soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo dei beni dai quali originano i rifiuti stessi, e le stesse si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti.
Il concetto di “coinvolgimento” trovava, infatti, specificazione nelle disposizioni poste dall'art. 10 dell'abrogato decreto Ronchi (D.Lgs. n. 22 del 1997) ed, attualmente, dall'art. 188 del D.Lgs. n. 152/2006 (fatte salve le ipotesi di concorso di persone nel reato), ma anche la mera osservanza delle condizioni di cui all' art. 10 non valeva ad escludere l responsabilità dei detentori e/o produttori di rifiuti allorquando costoro si fossero resi responsabili di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti (v., tra le tante: Cass. pen., Sez. 3, n. 7746 del 27/11/2003, dep. 24/02/2004, imp. T. e altro, in Ced Cass. 227400; Sez. 3, n. 32338 del 12/06/2007, dep. 09/08/2007, imp. P., in Ced Cass. 237820).
I principi sopra richiamati, ricorda la Corte, risultano sostanzialmente ribaditi anche allo luce del D.L.vo 03.12.2010, n. 205 (artt. 2 e 16). Ed infatti, da un lato, mentre l'art. 2 apporta modifiche all'art. 178 del T.U.A. che fissa i principi applicabili in tema di gestione dei rifiuti, dall'altro, l'art. 16 apporta modifiche, per quanto qui di interesse, all'art. 188 T.U.A. che riguarda la responsabilità della gestione dei rifiuti. Le modifiche in esame, in particolare, ribadiscono l'importanza e l'attualità del principio della cosiddetta responsabilità "condivisa" nella gestione dei rifiuti.
Ciò, in altri termini, significa che l'affermazione (corretta) secondo cui il reato di cui al comma 1 dell'art. 256 T.U.A. sia un reato comune e non un reato proprio (nel senso che non deve essere commesso per forza da soggetti esercenti professionalmente l'attività di gestione dei rifiuti, facendo la norma riferimento, quanto al soggetto attivo, a «chiunque»), è tuttavia indubbio che, in presenza di un'attività di gestione svolta da un'impresa valgono i principi in precedenza richiamati, in tema di responsabilità condivisa, al fine di individuare i soggetti responsabili.
Conferma di tale soluzione, infatti, è rinvenibile anche nella giurisprudenza antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, essendo stato invero affermato che la responsabilità per la attività di gestione non autorizzata non attiene necessariamente al profilo della consapevolezza e volontarietà della condotta, potendo scaturire da comportamenti che violino i doveri di diligenza, per la mancata adozione di tutte le misure necessarie per evitare illeciti nella predetta gestione, e che legittimamente si richiedono ai soggetti preposti alla direzione dell'azienda. (In applicazione di tali principi la Corte ha ritenuto la responsabilità dei titolari di una impresa edile produttrice di rifiuti per il trasporto e lo smaltimento degli stessi, con automezzo di proprietà della società, in assenza delle prescritte autorizzazioni: Cass. pen., Sez. 3, n. 47432 del 05/11/2003, dep. 11/12/2003, imp. B. e altri, in Ced Cass. 226868).
Per quanto, invece, riguarda la fattispecie prevista dal comma 2 dell'art. 256 T.U.A., la giurisprudenza afferma tradizionalmente che il reato di abbandono incontrollato di rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed imprese ed ai responsabili di enti anche sotto il profilo della omessa vigilanza sull'operato dei dipendenti che hanno posto in essere la condotta di abbandono. (Fattispecie nella quale il sequestro preventivo riguardava un autocarro adibito al trasporto di rifiuti abbandonati in modo incontrollato e condotto da un dipendente del titolare dell'impresa: Cass. pen., Sez. 3, n. 24736 del 18/05/2007, dep. 22/06/2007, imp. S., in Ced Cass. 236882) (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. penale, sentenza 15.06.2011 n. 23971).

PUBBLICO IMPIEGO: L'ordine di servizio illegittimo non dà luogo a mobbing.
Il quesito: Esiste una soglia di non punibilità per gli atti emulativi che la P.A. compie ai danni di un dipendente?
Il caso.

Con distinti ricorsi, un funzionario dell'Isvap impugnava una serie di atti di gestione del rapporto di lavoro, asserendone l'illegittimità e la finalità mobbizzante.
Il Tar Lazio accoglieva un ricorso concernente l'illegittimità di un atto, mentre ne respingeva un altro per mobbing.
Avverso la reiezione del ricorso per mobbing il ricorrente proponeva appello al Consiglio di Stato.
Inquadramento della problematica.
La prova dell'esistenza di un disegno persecutorio –nelle fattispecie di mobbing– è ulteriore rispetto alla dimostrazione di una pluralità di condotte lesive poste in essere nei confronti del dipendente.
La decisione.
La sentenza in esame si occupa di una fattispecie di asserito mobbing nell'ambito delle categorie di rapporti di pubblico impiego la cui cognizione è riservata alla giurisdizione del G.A.
La persecuzione datoriale costituisce materia sensibile, che ha molto affaticato la giurisprudenza (non sempre conscia delle acquisizioni della psicologia del lavoro), la quale, dopo alcune iniziali aperture (nei giudizi di merito) ha da alcuni anni assunto posizioni che paiono molto prudenti.
In tale ultimo orientamento pare inscriversi anche la decisione in commento, ponendo alcuni punti fermi ai fini della configurazione della fattispecie del mobbing all'interno dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle PP.AA..
I giudici di Palazzo Spada ritengono che, pur in presenza di determinazioni sfavorevoli per il dipendente adottate da parte datoriale (nella fattispecie, trasferimento ad altro servizio, mancati incrementi stipendiali e mancata attribuzione di premi legati al rendimento), non è possibile configurare attività persecutoria qualora sia ravvisabile una ragionevole spiegazione alternativa al comportamento tenuto dalla P.A..
L'approccio adottato parrebbe segnalare l'esistenza di una sorta di atteggiamento benevolo di fondo per la condotta gestionale delle PP.AA., il che, tenuto conto dell'oggettivo incremento del contenzioso per condotte mobbizzanti registratosi nell'ultimo decennio non può ritenersi rassicurante dal punto di vista dei lavoratori pubblici.
Purtuttavia, il G.A. ritiene che la mera concatenazione degli atti (illeciti o anche apparentemente e/o astrattamente leciti) idonei a spiegare efficacia lesiva dei diritti morali e/o professionali del lavoratore non sia, di per sé sola, idonea a costituire prova del loro connotato emulativo e vessatorio.
Pertanto, lungi dall'accogliere quelle istanze anche dottrinali secondo cui il disegno persecutorio andrebbe colto “sottotraccia”, il G.A. puntualizza che, al contrario, perché di mobbing possa parlarsi occorre un “sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alle sue finalità i singoli atti cui viene riferito”.
Dunque, il piano persecutorio viene dal G.A. posto a monte, per tal via onerandosi il ricorrente di fornire una prova diabolica: se il mobbing non si evince dalle evidenze fattuali, come è possibile risalire alle intenzioni datoriali, riconducendole, successivamente, ad un piano squisitamente oggettivo quale quello dibattimentale?
Appare indubbio che gli orientamenti giurisprudenziali non possano –ai fini dell'affermazione della sussistenza della fattispecie- tralatiziamente rinviare per intero agli elementi di prova allegati (offensività della condotta, direzione univoca degli atti persecutori e pretestuosi), altrimenti si darebbe ingresso ad una quota di contenzioso certamente volta a lucrare indebiti benefici risarcitori.
E', tuttavia, parimenti indubitabile che la crescita della conflittualità in seno agli ambienti di lavoro pubblico spinge ad interrogarsi sull'opportunità di ricercare nuovi punti di equilibrio in ordine alla individuazione dei profili dell'intenzionalità delle condotte datoriali, onde non porre i lavoratori ricorrenti nella condizione di dover fornire prova di elementi soggettivi sottesi alle condotte gestionali delle PP.AA., difficilmente oggettivabili ove non presuntivamente ricavati dal quadro complessivo delle determinazioni datoriali assunte nei confronti del dipendente (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a www.altalex.com).

ENTI LOCALI: Provvedimenti istitutivi di zone a traffico limitato (z.t.l.). Discrezionalità dei Comuni.
I provvedimenti limitativi della circolazione veicolare all’interno dei centri abitati sono espressione di scelte latamente discrezionali, che coprono un arco molto esteso di soluzioni possibili, incidenti su valori costituzionali spesso contrapposti, i quali devono essere contemperati secondo criteri di ragionevolezza (Cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 04.03.2008, n. 824; id., 11.12.2007, 6383; id., 29.05.2006, n. 3259; Ad. Plen., 06.02.1993, n. 3).
Avverso i provvedimenti istitutivi di zone a traffico limitato nei centri storici dei Comuni, non sono proponibili doglianze con cui si lamenta la violazione degli artt. 16 e 41 Cost. quando non sia vietato tout court l’accesso e la circolazione all’intero territorio, ma solo a delimitate, seppur vaste, zone dell’abitato urbano particolarmente esposte alle conseguenze dannose del traffico; viceversa, deve ritenersi che la parziale limitazione della libertà di locomozione e di iniziativa economica sia sempre giustificata quando derivi dall’esigenza di tutela rafforzata di patrimoni culturali ed ambientali di assoluto rilievo mondiale o nazionale. La gravosità delle limitazioni si giustifica anche alla luce del valore primario ed assoluto riconosciuto dalla Costituzione all’ambiente, al paesaggio, alla salute (Cfr. Corte cost., 07.11.2007, n. 367).
E’ legittima la deliberazione 29.07.2006, n. 410, con la quale il Comune di Roma, all’esito di una accurata istruttoria, e nel quadro di una più ampia manovra volta a ridurre gli effetti nocivi del traffico veicolare all’interno del centro storico, ha rimodulato il sistema tariffario relativo al rilascio dei permessi di accesso alle zone a traffico limitato individuate nel centro abitato, prevedendo in particolare:
1) che ad ogni permesso di accesso, di qualsivoglia categoria, venga abbinata una sola targa;
2) il divieto di rilascio di permessi di accesso senza targa;
3) il rilascio di non più di tre permessi di accesso, con tariffe e durata variamente modulate per ogni nucleo familiare residente nel centro;
4) il rilascio, in favore dei residenti, di un apposito permesso di solo transito di durata annuale e ad un costo prestabilito di duecento euro (Cfr. Cons. Stato, Sez. V, 13.02.2009 n. 825 ed ivi ult. riferimenti) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3073 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire per la realizzazione di una canna fumaria. Mancato rispetto delle distanze di cui all’art. 6, commi 15 e 17, del D.P.R. n. 1391 del 1970.
E’ illegittimo un permesso di costruire per la realizzazione di una canna fumaria (nella specie utilizzata per l’attività di panetteria), rilasciato in violazione delle distanze di cui all’art. 6, commi 15 e 17, del D.P.R. 22.12.1970 n. 1391, secondo cui: "Le bocche dei camini devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque altro ostacolo o struttura distante meno di 10 metri"; né può avere rilevanza, ai fini della legittimità del permesso di costruire, il fatto che il proprietario dell’immobile posto a distanza inferiore a quella legale abbia prestato il proprio consenso alla realizzazione del manufatto, atteso che le suddette disposizioni hanno finalità diverse da quelle in materia di rispetto delle distanze tra le costruzioni, essendo previste a tutela del superiore interesse della protezione dall’inquinamento e, quindi, le norme in questione sono da ritenere inderogabili (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 12.05.2011 n. 718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Verande in condominio tra limiti e divieti.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione ribadisce un consolidato indirizzo: i lavori di chiusura di un balcone necessitano di un permesso di costruire e non possono essere considerati interventi di manutenzione straordinaria.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, è intervenuta recentemente, con la nuova sentenza 11.05.2011 n. 18507 con cui non solo ribadisce ma consolida ulteriormente un orientamento che, negli ultimi anni, sia la stessa Corte sia i giudici amministrativi avevano già confermato.
In buona sostanza, i giudici della Suprema Corte ribadiscono che: “La trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, o di un terrapieno et similia mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica o altri elementi costruttivi, non costituisce intervento di manutenzione straordinaria, di restauro o pertinenziale, ma è opera già soggetta a concessione edilizia e attualmente a permesso di costruire”.
Nel ribadire tale principio i giudici, nel corso della motivazione, si rifanno a molteplici pronunzie dello stesso ente giudicante (Cass., Sez., sent. n. 35011/2007 e sent. n. 25588/2004).
Inoltre lo stesso orientamento è stato confermato dai giudici amministrativi (Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 394 dell’08.04.1999 e sent. n. 675 del 22.07.1992, Cons. giust. amm. Sic., Sez. riunite, sent. n. 345 del 15.10.1991).
Problemi definitori e requisiti tecnici per la costruzione.
Il codice civile non contiene una disciplina specifica in materia di verande in condominio. Quindi potremmo considerare la veranda come “un manufatto costruttivo che determina una modifica esterna della facciata dell’edificio, suscettibile di rilievo urbanistico, ma privo di individualità propria, in quanto destinato a integrare il restante edificio” [1].
Tale manufatto va considerato come un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire a esigenze temporanee con la successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell’immobile [2].
La lacuna codicistica viene comunque superata mediante l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza in riferimento alla disciplina contenuta nel D.P.R. 380 del 06.06.2001 (T.U. edilizia) e nella legge 47 del 28.02.1985 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie).
Secondo la giustizia amministrativa, premesso che la realizzazione di una veranda comporti l’aumento della superficie utile di un appartamento e la modifica esterna della sagoma dell’edificio, ne discende che il suddetto intervento richieda il previo rilascio della concessione di costruzione (Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 394 dell’08.04.1999 e sent. n. 675 del 22.07.1992).
Vi è da precisare che a questo assunto ci si è arrivati dopo un lungo iter interpretativo perché per quanto riguarda poi la nozione di “costruzioni” ai fini del rilascio della concessione edilizia, il Consiglio di Stato, accogliendo il costante orientamento della giurisprudenza di merito, ha stabilito che per “costruzioni” ai fini del rilascio del suddetto provvedimento concessorio debbano intendersi le opere che attuano una trasformazione urbanistico- edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dalla circostanza che essa avvenga mediante realizzazione di opere murarie: è infatti irrilevante che le opere siano realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, laddove comportino la trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio.
Inoltre si precisa che, pure nel caso di costruzioni non infisse al suolo ma aderenti a esso che alterino in modo rilevante e duraturo nel tempo lo stato del terreno, quali una roulotte con veranda su pavimento in cemento e piattaforma di legno, si dispone la necessità del rilascio della concessione edilizia. Infatti per “sagoma di un edificio” si intende la figura piana risultante dal contorno esterno dell’edificio, proiettato sul piano orizzontale e sui piani verticali, con esclusione delle sporgenze che non concorrono alla definizione di superficie coperta, come i balconi, gli aggetti ornamentali e le tettoie a sbalzo; di conseguenza, non possono esservi dubbi sulla circostanza che per la realizzazione della veranda sia obbligatorio il rilascio della concessione di costruzione (TAR Veneto, Sez. II, sent. n. 1216 del 10.02.2003).
Il principio giuridico richiamato viene ulteriormente ribadito dall’ulteriore previsione secondo la quale il carattere di precarietà, addebitabile alla struttura-veranda da realizzare, non esime l’interessato a munirsi della concessione a costruire: in particolare, “sono soggette a concessione edilizia non le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo a un impiego diverso da quello che gli è proprio, in relazione alla sua condizione naturale e alla sua qualificazione giuridica, e a nulla rileva l’eventuale precarietà della struttura da realizzare” (TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 2451 del 28.02.2006).
Tipologie di verande e relativa concessione edilizia richiesta.
Dal punto di vista strutturale possiamo distinguere diverse tipologie di verande:
- pannelli in vetro e alluminio sul parapetto di un balcone già chiuso;
- veranda-ripostiglio;
- veranda con pannelli scorrevoli o struttura grigliata in cemento.
Pannelli in vetro e alluminio sul parapetto di un balcone già chiuso.
Per tali fattispecie è sancito l’obbligo della concessione edilizia per il condomino che procedeva all’installazione di pannelli in vetro e alluminio sul parapetto di un balcone già chiuso per i restanti lati da muri perimetrali dell’edificio preesistente, in ragione del fatto che l’installazione di tali pannelli determinava:
a. la realizzazione di un nuovo locale autonomamente utilizzabile;
b. l’aumento della superficie utile;
c. la modifica della sagoma dell’edificio stesso [3].
Veranda-ripostiglio.
Di medesimo avviso è la pronuncia del TAR Campania, in cui si è escluso che possa farsi rientrare nella categoria degli interventi di manutenzione straordinaria la realizzazione di una veranda-ripostiglio che doti l’appartamento di una struttura nuova e aggiuntiva, estranea morfologicamente e funzionalmente all’originaria conformazione dell’immobile condominiale (TAR Campania, sent. n. 2708 del 12.06.2001).
Veranda con pannelli scorrevoli o struttura grigliata in cemento.
La giurisprudenza ha ritenuto che in questo caso non si verifichi un ampliamento di volume, con la conseguenza che il condomino, ove decida di realizzare tale struttura, non deve munirsi di concessione edilizia (TAR Sardegna, sent. n. 856 del 10.07.2003; TAR Liguria, sent. n. 843 del 03.07.2003).
Quando si richiede [4]
Non di rado si verifica l’ipotesi in cui sia chiuso a veranda uno spazio già inglobato nelle preesistenti parti dell’edificio: in tal caso le verande installate sono da considerarsi come elementi accessori a un fabbricato, con funzione di riparo dagli agenti atmosferici e di protezione dall’accesso furtivo di terzi nell’abitazione. In merito a tale fattispecie, si ritiene la non necessità della concessione edilizia: il condomino dovrà dunque munirsi solo di DIA dal momento che la strutturaveranda accessoria al fabbricato assolve alla mera finalità di conservazione [5].
Sono assoggettati al regime della semplice denuncia di inizio di attività quegli interventi, diretti alle predette finalità, che consistono nell’installazione di “elementi compatibili con le esigenze dell’ordinario uso dell’edificio o della parte di esso cui accedono nel rispetto degli elementi tipologici formali e strutturali dello stesso edificio e della destinazione edilizio-urbanistica delle varie parti di cui esso si compone” (TAR Lazio, Sez. II-ter, sent. n. 1550 del 28.02.2002) [6].
Dal permesso di costruire alla SCIA [7]
L’attività di costruzione dei privati è vincolata da modalità e strumenti normativi che hanno subìto, nel tempo, sostanziali modifiche: si è passati dalla licenza edilizia di cui alla legge 1150 del 17.08.1942, alla concessione edilizia di cui alla legge 10 del 28.01.1977 (legge Bucalossi), sino al permesso di costruire di cui al D.P.R. 380/2001.
La “licenza edilizia” era originariamente prevista soltanto per ciò che riguardava le edificazioni da effettuare sul territorio urbano ed era gratuita; inoltre, era un provvedimento di natura autorizzatoria che, a seguito di verifica della conformità tra l’attività costruttiva richiesta e le previsioni degli strumenti urbanistici, consentiva al privato l’esercizio della facoltà di costruire, immanente al diritto di proprietà.
Con la legge 10/1977 (legge Bucalossi), la licenza edilizia fu sostituita dalla “concessione edilizia”: la facoltà di costruire veniva scissa dal diritto di proprietà, sicché lo ius aedificandi diventava l’oggetto di uno specifico provvedimento concessorio da parte della Pubblica amministrazione. Tuttavia, con la sent. n. 5 del 30.01.1980, era intervenuta apportando delle precisazioni relativamente alla facoltà dello ius aedificandi.
Anche a seguito di queste indicazioni, nel 2001, con il D.P.R. 380, entra in vigore il T.U. edilizia e la concessione edilizia viene sostituita dal “permesso di costruire”, rilasciato dallo Sportello Unico per l’edilizia (art. 5).
Con l’approvazione del “D.L. Sviluppo”, il cui testo è ormai definitivo dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (la n. 110 di venerdì 13.05.2011), vengono apportate sostanziali modifiche al Testo Unico dell’edilizia, definendo la procedura per il rilascio del titolo abilitativo.
Per il rilascio del permesso di costruire viene introdotto il silenzio-assenso entro un termine massimo di 90 giorni (180 per i comuni con oltre centomila abitanti), salvo i casi ove sussistano vincoli ambientali, paesaggistici e culturali.
Il termine per le verifiche ex post da parte delle amministrazioni sugli interventi realizzati con (segnalazione certificata di inizio attività) viene dimezzato da 30 giorni. L’ambito di applicazione viene esteso agli interventi edilizi che, prima del “D.L. Sviluppo”, erano soggetti a DIA, ma non sostituisce , né i nulla osta e le autorizzazioni concedibili in caso di vincoli paesaggistici, ambientali o culturali. Inoltre, vengono liberalizzati i cambiamenti di destinazione in deroga ai piani regolatori, e fino all’eventuale entrata in vigore di leggi regionali specifiche sull’attività edilizia.
Riportiamo nella tabella 1 l’excursus normativo e le attuali disposizioni.
Considerazioni conclusive.
Dall’iter giurisprudenziale tracciato possiamo trarre le seguenti conclusioni:
a. il condomino che intenda realizzare una struttura-veranda dovrà sempre munirsi di concessione edilizia;
b. invece, se si tratta di una struttura precaria, destinata a far fronte a sue esigenze momentanee e a essere rimossa dopo l’uso temporaneo; oppure è diretta al recupero del patrimonio edilizio già esistente, o viene realizzata al solo scopo di protezione dagli agenti atmosferici esterni nei limiti della funzionalità dell’immobile, non è necessaria la concessione edilizia;
c. il condomino che realizzi una veranda senza il permesso di costruire si renderebbe fautore di abusi edilizi, con conseguente addebito di responsabilità amministrative e penali;
d. la chiusura di una veranda senza concessione rientra tra gli interventi abusivi di ristrutturazione edilizia la cui repressione comporta l’ingiunzione alla spontanea rimozione dell’abuso: allo scadere del termine all’uopo fissato, è prevista la demolizione d’ufficio, a spese del responsabile, o, se il ripristino non sia possibile, l’irrogazione di una sanzione pecuniaria pari al doppio dell’aumento di valore dell’immobile conseguente alla realizzazione dell’opera, da determinarsi con riguardo alla data di ultimazione dei lavori;
e. L’autorizzazione assembleare risulta necessaria qualora la realizzazione del manufatto possa arrecare pregiudizio ad alcuni condomini (cfr. Cass., sent. n. 10704 del 24 dicembre 1994 e sent. n. 5652 del 21.10.1980), o perché non vengano rispettate le distanze legali fra le due proprietà (Cass., sent. n. 5652 del 21.10.1980).
In questa seconda ipotesi è opportuno che l’autorizzazione venga formalizzata con atto notarile e successiva trascrizione presso dei registri immobiliari. Tale formalità consentirà di cautelarsi da eventuali azioni che potrebbero essere intentate dall’acquirente in caso di vendita dell’appartamento da parte del confinante [8].
Inoltre sarà opportuno in sede assembleare che il condomino sottoponga il relativo progetto corredato da tutte le informazioni inerenti il materiale e le modalità di costruzione del manufatto. Ma anche in caso di delibera favorevole, adottata a maggioranza, non potrà evitare eventuali azioni legali da parte di singoli condomini (cfr. Cass., sent. n. 3510 del 28.05.1980) che dovesse invocare per esempio l’alterazione del decoro architettonico o l’alterazione del profilo igienico (Cass., sent. n. 2543 del 07.07.1976).

TABELLA 1 - La disciplina della veranda abitabile costruita su un terrazzo.
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Agevolazioni fiscali
Non è prevista la detrazione del 36% perché la costruzione della veranda costituisce un incremento volumetrico.
La disciplina condominiale
Dal punto di vista della disciplina condominiale se la veranda è costruita sul terrazzo è considerata sopraelevazione; pertanto è da corrispondere ai condomini l’indennità dell’art. 1127 cod. civ. L’opera non può essere vietata dai condomini purché rispetti il decoro architettonico, la sicurezza strutturale dell’edificio e se non è esclusa dal regolamento contrattuale.
In presenza del riscaldamento centralizzato, la trasformazione del balcone in veranda comporta la revisione della tabella di riscaldamento.
La modifica della tabella di proprietà non è strettamente necessaria, laddove non venga alterato in maniera notevole il rapporto millesimale tra le proprietà esclusive, all’interno del condominio.
Qualora il giudice ritenga che effettivamente vi sia stata una notevole alterazione dei rapporti millesimali, la perizia con cui si determinano i nuovi millesimi può tener conto solo della nuova superficie aggiunta se l’ampliamento riguardi piani o porzioni di piano della stessa altezza degli altri.
Se, invece, l’addizione riguarda una serra o un sottotetto che hanno parte della loro altezza inferiore alle altre, non abitabile, il criterio corretto è quello del volume (Cass., sent. n. 7300/2010).
Permessi
Alcuni comuni non richiedono permessi se si tratta di un ridotto ampliamento. Comunque devono essere sempre rispettate le distanze legali.
IVA

Se l’ampliamento riguarda un’abitazione acquistata con i benefici “prima casa”, l’IVA si applica al 4% (Ag. entrate, circ. n. 19 dell’01.3.2001).

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[1] In dottrina vi sono diverse definizioni: alcuni identificano la veranda nella chiusura, prevalentemente con vetri, supportati su metallo o legno, di spazi scoperti come balconi o terrazze, con opere effettuate dopo l’ultimazione dell’edificio (F. Tamborrino, Codice tecnico-legale del condominio, Milano, 2a ed., 2006, pagg. 125-126). Mentre De Tilla la considera come balcone aggettante dalle mura perimetrali di un edificio chiuso con vetrate. Cfr. Dizionario del condominio, Milano, 2007, pag. 693.
[2] Secondo un’interpretazione giurisprudenziale consolidata, una veranda non è da intendersi quale opera precaria, in quanto non è destinata a sopperire a esigenze temporanee e contingenti e quindi a essere rimossa, ma a durare nel tempo, configurandosi quale nuovo locale autonomamente utilizzabile e destinato ad ampliare il godimento dell’immobile (Cass., sent. n. 24086 del 13.06.2008).
[3] Sulla fattispecie vedasi sent. n. 42318 del 18.09 cui ha affermato, sulla base di consolidata giurisprudenza, che “la realizzazione di una veranda, anche mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica o altri elementi costruttivi, non costituisce intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a permesso di costruire”. In un altro caso sempre affrontato dalla Cassazione si è stabilito che anche la trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda è opera soggetta a concessione edilizia (Cass., sent. n. 3879 del 27.03.2000; Trib. Chieti 19.04.2007).
[4] Il recente “Decreto Sviluppo”, emanato in data 05.05.2011 apportato notevoli modifiche in merito a questo istituto. Si rimanda il lettore, per ulteriori approfondimenti, all’articolo pubblicato sul C.I. n. 885, pag. 1036.
[5] P. Marzaro Gamba, La denuncia d’inizio di attività edilizia: profili sistematici, sostanziali e processuali, Milano 2005, pagg. 65-91.
[6] Però, su una fattispecie analoga, lo stesso TAR Lazio (sent. n. 9570 del 05.11.2003) ha escluso l’esentabilità dal regime della concessione edilizia per una veranda apposta da un condomino su un terrazzino del proprio appartamento, confinante con quello condominiale, ritenendo che tale intervento non avesse esclusivamente una finalità di riparo compatibile con l’uso ordinario dell’abitazione: con la costruzione si era infatti creato un nuovo spazio interamente chiuso, utilizzabile come nuovo piccolo locale, e che arrecava una visibile alterazione allo stesso terrazzo condominiale.
[7] Per approfondimenti sulle recenti novità introdotte sul Piano casa si rinvia a S. Rezzonico-G. Tucci (a cura di), Casa, tutti gli adempimenti e le agevolazioni per ristrutturare, le Guide del Consulente immobiliare, giugno 2011, pagg. 33 e segg.
[8] G. Palmieri., Dizionario pratico del condominio, Milano, 2000, pag. 125
(tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

PUBBLICO IMPIEGO: Sistema di classificazione – comparto Regioni-Enti locali – categoria D – posizioni differenziate.
L’art. 4 del CCNL del 31.03.1999 del comparto Regioni-Enti locali prevede che “Gli enti disciplinano, con gli atti previsti dai rispettivi ordinamenti, nel rispetto dei principi di cui all’art. 36, d.lgs. n. 29/1993 come modificato dagli artt. 22 e 23 del d.lgs. n. 80/1998 e tenendo conto dei requisiti professionali indicati nelle declaratorie delle categorie di cui all’allegato A, le procedure selettive per la progressione verticale finalizzate al passaggio dei dipendenti alla categoria immediatamente superiore del nuovo sistema di classificazione, nel limite dei posti vacanti della dotazione organica di tale categoria che non siano stati destinati all’accesso dall’esterno. Analoga procedura può essere attivata dagli enti per la copertura dei posti vacanti dei profili delle categorie B e D di cui all’art. 3, comma 7, riservando la partecipazione alle relative selezioni al personale degli altri profili professionali delle medesime categorie”.
Sicché per il passaggio all’interno della stessa categoria D ad uno dei profili professionali superiori –(rectius alla posizione economica superiore)– è prevista la stessa procedura selettiva prevista per il passaggio da una categoria all’altra, nel presupposto che si sia di fronte a posizioni economiche distinte cui corrisponde anche un differente contenuto professionale e in ragione della diversa professionalità di provenienza (ex 7^ e 8^ qualifica funzionale) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 18.03.2011 n. 6295 - link a www.amministrazioneincammino.luiss.it).

CONDOMINIORiparazione dei balconi aggettanti e frontalini: oneri di ripartizione.
In tema di parti comuni e relativo obbligo di manutenzione vige una disciplina differente per i balconi cosiddetti “aggettanti” e per gli elementi decorativi presenti sugli stessi.

I balconi aggettanti, i quali sporgono dalla facciata dell'edificio, costituiscono solo un prolungamento dell'appartamento dal quale protendono e rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono. Non fungono da copertura del piano inferiore in quanto essi, dal punto di vista strutturale sono del tutto autonomi rispetto agli altri piani, poiché possono sussistere indipendentemente dall'esistenza di altri balconi nel piano sottostante o sovrastante e non avendo, quindi, funzione di copertura del piano sottostante, il balcone aggettante non soddisfa una utilità comune ai due piani e non svolge neppure una funzione a vantaggio di un condomino diverso dal proprietario del piano.
Detti balconi e le relative solette non svolgendo alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura dell'edificio, non possono considerarsi a servizio dei piani sovrapposti e, quindi, di proprietà comune dei proprietari di tali piani e ad essi non può applicarsi il disposto dell'articolo 1125 c.c. secondo cui le spese per la ricostruzione e manutenzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti uguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.

E’ quanto ha ribadito sostanzialmente la Corte di cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 12.01.2011 n. 587 e con la sentenza 05.01.2011 n. 218, confermando in tal modo un orientamento ormai consolidato e superando definitivamente la posizione secondo cui, invece, la soletta è soggetta al regime di comunione tra proprietario che usa il balcone e proprietario dell’unità immobiliare sottostante, con applicabilità dell’articolo 1125 del codice civile quale criterio di ripartizione delle spese (Cass. n. 4821/1983; n. 283/1987).
La Corte di Cassazione ha puntualizzato che seppure volesse riconoscersi alla soletta del balcone una funzione di copertura rispetto al balcone sottostante, tuttavia, trattandosi di copertura disgiunta dalla funzione di sostegno e, quindi, non indispensabile per l'esistenza stessa dei piani sovrapposti, non può parlarsi di elemento a servizio di entrambi gli immobili posti su piani sovrastanti, né, quindi, di presunzione di proprietà comune del balcone aggettante riferita ai proprietari dei singoli piani (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.07.2004 n. 14576).
I balconi aggettanti e le relative solette rientrano nella proprietà esclusiva dei titolari degli appartamenti cui accedono, conseguentemente le spese di riparazione gravano solo sugli stessi. Soggetti a un regime diverso, invece, sono tutti gli elementi decorativi del balcone.
Ed invero i cementi decorativi dei frontali e dei parapetti, nonché le viti di ottone e i piombi ai pilastri della balaustra, le aggiunte sovrapposte con malta cementizia dei balconi, in virtù della funzione di tipo estetico che essi svolgono rispetto all’intero edificio, del quale accrescono il pregio architettonico, sono considerati parti comuni ai sensi dell’art. 1117 del cod. civ.
La spesa per la loro riparazione o ricostruzione ricade su tutti i condomini, proporzionalmente al valore della proprietà di ciascuno.
I frontalini dei balconi e la parte inferiore degli stessi, anche per il solo fatto di essere costruiti con caratteristiche uniformi, hanno una funzione ben precisa nell'estetica e nel decoro architettonico di un edificio, che può essere esclusa solo in presenza di una precisa prova contraria, da cui risulti che trattasi di un fabbricato privo di qualsiasi uniformità architettonica, o che trovasi in uno stato di scadimento estetico tale da rendere irrilevante l'arbitrarietà costruttiva o di manutenzione dei singoli particolari (commento tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).
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Per ulteriori approfondimenti si legga:
- la voce "balconi".

URBANISTICANelle zone in cui il piano particolareggiato è decaduto è comunque consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa urbanistico-edilizia di zona che resta automaticamente ultrattiva a tempo indeterminato per la parte che disciplina l'edificazione nelle sue linee fondamentali ed essenziali.
Le aree all'interno del piano particolareggiato attuato ma decaduto, infatti, in forza del suddetto art. 17 della Legge n. 1150/1942, non restano prive di regolamentazione urbanistica, in quanto permane la disciplina di pianificazione generale e quella di linea fondamentale ed essenziale di pianificazione attuativa fino a quando non subentri una nuova disciplina.

Il Collegio non ha motivo, nel caso in esame, per scostarsi dall’ormai costante orientamento giurisprudenziale in forza del quale nelle zone in cui il piano particolareggiato è decaduto è comunque consentita la costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto della normativa urbanistico-edilizia di zona che resta automaticamente ultrattiva a tempo indeterminato per la parte che disciplina l'edificazione nelle sue linee fondamentali ed essenziali (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 07.04.2004, n. 1968; idem 09.12.1996 n. 1491 e, da ultimo, TAR Campania Salerno, Sez. II, 20.07.2006, n. 1108; TAR Lazio-Latina, 10.06.2006, n. 367; TAR Liguria, Sez. II, 20.01.2006, n. 40).
Le aree all'interno del piano particolareggiato attuato ma decaduto, infatti, in forza del suddetto art. 17 della Legge n. 1150/1942, non restano prive di regolamentazione urbanistica, in quanto permane la disciplina di pianificazione generale e quella di linea fondamentale ed essenziale di pianificazione attuativa fino a quando non subentri una nuova disciplina.
Nel caso in esame, pertanto, l’Amministrazione non avrebbe potuto negare la concessione edilizia sul semplice rilievo dell’avvenuta scadenza della convenzione, ma avrebbe dovuto verificare se il piano di lottizzazione fosse stato effettivamente attuato nella parte che qui interessa attraverso la realizzazione di tutte le opere di urbanizzazione previste dallo stesso (cfr. TAR Marche, 14.04.2004, n. 158), atteso che il citato art. 17, consentendo anche la costruzione di nuovi edifici, implicitamente non include gli stessi nel concetto di attuazione (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 16.05.2007 n. 423 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: In un piano attuativo, la convenzione, liberamente sottoscritta dalle parti e contenente l’obbligo a carico della società di realizzare le opere in essa specificamente indicate, integra un accordo consensualmente pattuito che non può essere modificato unilateralmente. Inoltre, la mancanza nella convenzione di una clausola espressa che escluda lo scomputo è irrilevante, atteso che lo scomputo non costituisce un diritto del privato costruttore ma deve essere espressamente accettato dall’amministrazione.
La convenzione urbanistica –sia di lottizzazione ovvero accessiva alla concessione edilizia- rappresenta un istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la giurisprudenza è concorde nel ritenere che esso sia frutto dell’incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile. Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle ipotesi in cui alcuni contenuti dell’accordo vengono proposti dall’Amministrazione in termini non modificabili dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto.

Si osserva che:
a). la convenzione, liberamente sottoscritta dalle parti e contenente l’obbligo a carico della società di realizzare le opere in essa specificamente indicate, integra un accordo consensualmente pattuito che non può essere modificato unilateralmente;
b). la mancanza nella convenzione di una clausola espressa che escluda lo scomputo è irrilevante, atteso che lo scomputo non costituisce un diritto del privato costruttore ma deve essere espressamente accettato dall’amministrazione.
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Com’è noto, la convenzione urbanistica –sia di lottizzazione ovvero accessiva alla concessione edilizia- rappresenta un istituto di complessa ricostruzione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la giurisprudenza è concorde nel ritenere che esso sia frutto dell’incontro di volontà delle parti contraenti nell’esercizio dell’autonomia negoziale retta dal codice civile (cfr., da ultimo, Sez. V, 10.01.2003, n. 33).
Tale ricostruzione conserva la sua validità anche nelle ipotesi, come quella in esame, in cui alcuni contenuti dell’accordo vengono proposti dall’Amministrazione in termini non modificabili dal privato, essendo evidente che una tale evenienza non esclude che la parte che abbia sottoscritto la convenzione, conoscendone il contenuto, abbia inteso aderirvi e ne resti vincolata, salvo il ricorso agli strumenti di tutela in caso di invalidità del contratto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.07.2005 n. 4014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI Comuni, pur non potendo rilasciare titoli edificatori quando vi sia lesione dei diritti reali dei terzi, non sono tuttavia tenuti a indagare d’ufficio la situazione dominicale alla ricerca di una bilanciata composizione degli interessi dei privati.
Deve osservarsi che i Comuni, pur non potendo rilasciare titoli edificatori quando vi sia lesione dei diritti reali dei terzi, non sono tuttavia tenuti a indagare d’ufficio la situazione dominicale alla ricerca di una bilanciata composizione degli interessi dei privati.
Questi ultimi, infatti, conservano il potere di tutelarsi davanti al giudice ordinario nei confronti dei vicini che attraverso atti amministrativi abbiano ottenuto una posizione di vantaggio in contrasto con i diritti reali esistenti (cfr. Tar Lombardia Brescia, 27.10.2004, n. 1430) (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 23.05.2005 n. 541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Sanatoria ex art. 31 L. 47/1985 - Vincoli di inedificabilità ex art. 33 L. 47/1985 - Efficacia all'epoca del rilascio - Necessità.
2. - Sanatoria ex art. 31 L. 47/1985 - Valutazione dell'opera abusiva - Normativa applicabile e compatibilità attuale con il vincolo.

1. - I vincoli di inedificabilità preclusivi del condono edilizio ex art. 33 L. 47/1985 devono essere efficaci al momento del rilascio della concessione in sanatoria e non scaduti.
2. - Ai fini del rilascio della concessione edilizia in sanatoria l'opera abusiva deve essere valutata alla stregua della normativa vigente all'epoca dell'emanazione del provvedimento da parte dell'amministrazione, dovendosi comunque valutare l'attuale compatibilità con il vincolo, dell'opera realizzata abusivamente, a prescindere dall'epoca di introduzione del vincolo stesso.
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1. - Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 16.10.1998 n. 1306, in Rass. Cons. di Stato, 1998, pag. 1520, Consiglio di Stato, A.P., 22.07.1999 n. 20, in Rass. Cons. di Stato, 1999, pag. 1080.
2. - Cfr. TAR Toscana, III Sezione, 09.11.2000 n. 2322
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 06.11.2000 n. 2265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI:  1. - Bando di gara per l'affidamento del servizio di tesoreria - Clausola che richiede l'erogazione di contributi e sponsorizzazioni - Contenuto estraneo al servizio - Illegittimità.
2. - Bando - Criteri di valutazione delle offerte - Inscindibilità - Illegittimità di alcuni criteri - Conseguenze - Illegittimità integrale della gara.

1. - Costituisce violazione del principio della par condicio tra le imprese concorrenti l'inserimento, nel bando di gara per l'affidamento del servizio di tesoreria, di clausole concernenti la richiesta di erogazione di contributi e di sponsorizzazioni, attesa l'assoluta estraneità di tali prestazioni rispetto al costo e all'efficienza del servizio.
2. - Posto che i criteri prefissati nel bando di gara per la valutazione delle offerte nonché quelli per la valutazione di elementi aggiuntivi (nella specie consistenti nella disponibilità o meno ad erogare contributi e sponsorizzazioni), costituiscono un corpus unico preordinato a scegliere l'offerta più vantaggiosa, la riconosciuta illegittimità di taluni dei criteri comporta l'annullamento integrale del bando in quanto, diversamente, allorché il giudice eliminasse i soli aspetti ritenuti viziati, risulterebbe arbitrariamente alterata la logica sottesa alla procedura stessa secondo la quale spetta unicamente all'amministrazione, a seguito dell'annullamento degli atti compiuti, porre nuovi criteri, conformi a parametri di legittimità (nella fattispecie è stato precisato che la procedura dovrà essere riaperta dalla fase della presentazione delle domande, limitatamente ai soggetti che erano già stati ammessi a partecipare alla gara stessa).
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1. - In tal senso anche Cons. Stato, sez. V, 20.08.1996, n. 937, in Rass. Cons. Stato, 1996, I, 1181 e TAR Toscana, II sezione, 18.12.1998, n. 1077 in Rass. TAR, 1999, I, 626.
2. - In materia vedi la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 05.11.1999, n. 1745, in Rass. Cons. Stato, 1999, I, 1915, in motivazione pag. 1917
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.10.2000 n. 2215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIProcesso amministrativo - Impugnazione - Legittimazione attiva - Associazioni ambientaliste riconosciute - Quando sussiste.
Le Associazioni ambientaliste, pur se riconosciute con decreto del Ministero dell'Ambiente, sono legittimate ad agire in proprio, in forza dell'art. 18 L. n. 349/1986, per far valere interessi diffusi, solo quando l'interesse all'ambiente assume qualificazione normativa, nei limiti di cui alla L. n. 349/1986 o di altre fonti legislative intese ad identificare beni ambientali in senso giuridico, con esclusione degli atti che abbiano una mera valenza urbanistica.
Tale legittimazione deve essere esclusa soprattutto allorché risulti accertato che l'area non è oggetto di una specifica disciplina normativa, tale da differenziarla, sotto il profilo della tutela ambientale, da tutte le altre (fattispecie relativa ad impugnazione di variante urbanistica e concessione edilizia) (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.10.2000 n. 2195 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAParcheggio - Art. 9 l. n. 122/1989 e art. 17, comma 90, l. 127/1997 - Applicabilità - Presupposti.
Atteso che ai sensi degli artt. 9 legge 24.03.1989 n. 122 e 17, comma 90, legge n. 127/1997 la relazione tra la realizzazione di parcheggi e la nascita del vincolo pertinenziale con le rispettive unità immobiliari deve essere immediata, legittimati ad usufruire della previsione normativa sono esclusivamente i proprietari di unità immobiliari esistenti, e solo essi possono realizzare parcheggi anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, tra cui le aree libere come ad esempio cortili, piazzali e giardini ricompresi nel lotto originario sul quale insiste il fabbricato (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.10.2000 n. 2194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanzioni - Ingiunzione a demolire ex art. 7 Legge 47/1985 - Scogliera - Realizzazione senza titolo - Legittimità della sanzione.
La realizzazione di una scogliera su area sottoposta a vincolo ambientale-paesaggistico e idrogeologico (di dimensioni notevoli e maggiori della preesistente che aveva subito il fenomeno erosivo) costituente un enorme piazzale fornito di recinzione è una trasformazione urbanistica che, in assenza di titolo, appare meritevole di subire il regime sanzionatorio di cui all'art. 7 Legge 47/1985 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 02.10.2000 n. 2007 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADiniego - Illegittimità - Fascia di rispetto stradale - Computabilità ai fini della volumetria edificabile.
Il vincolo derivante da una fascia di rispetto stradale ha l'effetto urbanistico di prescrivere un semplice obbligo di distanza, ma non quello di rendere inedificabile l'area che vi ricade, pertanto, posto che la "ratio" delle disposizioni che danno origine alla c.d. "zona di rispetto viario" sono quelle di garantire la sicurezza della circolazione stradale, tali aree possono essere computabili ai fini della volumetria edificabile e deve conseguentemente ritenersi illegittimo il diniego di concessione edilizia adottato per l'insufficienza del possesso del lotto minimo necessario poiché la porzione di lotto compresa nella fascia di rispetto stradale non è stata ritenuta computabile come superficie edificabile (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.09.2000 n. 1982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAProcesso amministrativo - Controinteressato - Piano regolatore - Configurabilità - Criterio.
1. - Qualora siano oggetto di impugnativa disposizioni di P.R.G., il cui annullamento incide su particolari soggetti in concreto titolari di specifiche posizioni di vantaggio qualificate direttamente dalle norme impugnate, tali soggetti rivestono la natura di controinteressati in senso sostanziale e altresì la posizione di controinteressati in senso formale ove siano espressamente o agilmente individuabili; pertanto l'omessa notificazione del ricorso a tali soggetti ne comporta l'inammissibilità.
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1. - Cfr. Tar Toscana, sez. III, 19.07.2000 n. 1713 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.09.2000 n. 1926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAtto amministrativo - Comunicazione di avvio del procedimento - Vincolo storico artistico - Termine di 60 giorni ex art. 20 L. 1089/1939 per l'imposizione del vincolo - Non occorre comunicazione.
1. - Con riguardo all'imposizione del vincolo storico e artistico, deve essere respinta la censura di violazione dell'art. 7 L. 241/1990 per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento quando, in conseguenza di lavori in corso rispetto ai quali era stata notificata la sospensione da parte del Comune, l'Amministrazione era tenuta ad attivarsi nel breve termine di sessanta giorni di cui all'art. 20 della legge 1089/1939, e pertanto, ben poteva usufruire della deroga al procedimento generale derivante "da particolari esigenze di celerità", di cui all'art. 7 della legge n. 241/1990.
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1. - Sulla necessità della comunicazione di avvio del procedimento in caso di imposizione di vincolo storico e artistico ai sensi della legge 1089/1939 cfr. Cons. di Stato 08.03.2000 n. 1171, in Rass. Cons. di Stato, 2000, pag. 524; Cons. di Stato 20.01.2000 n. 262, in Rass. Cons. di Stato, 2000, pag. 83; Cons. di Stato 22.07.1999 n. 1005, in Rass. Cons. di Stato, 1999, pag. 1203 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.09.2000 n. 1923 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Sanatoria ex artt. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Silenzio-assenso e prescrizione del diritto al conguaglio dell'oblazione - Palese sproporzione tra importo autoliquidato ed effettivamente dovuto - Non si forma il silenzio assenso e non interviene la prescrizione.
Nell'ambito del condono edilizio, la palese sproporzione tra l'importo autoliquidato e quello effettivamente dovuto è elemento che denota, di per sé, la volontà di sottrarsi all'integrale pagamento di tutte le somme dovute a titolo di oblazione, condizione, invece, richiesta dal comma dodicesimo dell'articolo 35 della legge n. 47/1985, affinché la domanda possa intendersi accolta, per effetto del decorso del termine biennale.
Conguagli e rimborsi, pertanto, possono ritenersi corrispondenti a mere rettifiche degli importi corrisposti, per errori di calcolo o anche interpretativi, non tali tuttavia da porre in dubbio -in base a regole di logica e di comune buon senso- la reale volontà dell'Amministrato di corrispondere il saldo di quanto effettivamente dovuto.
La prescrizione del diritto ai medesimi conguagli e rimborsi, dunque non può nemmeno entrare in discussione quando non risulti soddisfatta la condizione procedurale, cui lo stesso tacito condono è subordinato, ovvero il "pagamento di tutte le somme ... dovute." (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 01.09.2000 n. 1879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. - Lottizzazione abusiva - Esclusione - Elementi indiziari previsti dall'art. 18, comma 1, L. 47/1985 - Necessità.
2. - Lottizzazione abusiva - Interpretazione restrittiva dell'art. 18, comma 1, L. 47/1985.

1. - Deve ritenersi illegittima la convinzione del Sindaco della presenza di una abusiva lottizzazione dei terreni a scopo edificatorio, basata essenzialmente sugli intervenuti frazionamenti catastali richiesti dall'interessato, atteso che il solo frazionamento dell'originario terreno e la vendita dei relativi lotti non è sufficiente a dimostrare l'intento di lottizzazione abusiva, ove non sia accompagnato dagli ulteriori e concorrenti elementi indiziari previsti dall'art. 18, L. 28.02.1985 n. 47, (rappresentati dall'infima entità dei lotti compravenduti, dalla circostanza che gli acquirenti non siano dediti ad attività agricola ovvero dalla insuscettibilità dei terreni ad essere utilizzati ai fini agricoli, dalla maggiore o minore prossimità dei terreni oggetto di vendita in serie frazionata a località abitativo-residenziale o turistico-residenziale), né risulti iniziata alcuna opera idonea alla trasformazione urbanistico o edilizia del terreno interessato.
2. - L'art. 18, comma 1, seconda parte, L. 28.02.1985 n. 47 va interpretato restrittivamente, nel senso che il concetto di non equivocità della destinazione del terreno a scopi edificatori reintroduce la necessità che al mero frazionamento di un terreno in lotti sul piano giuridico segua qualche attività materiale, mentre la vendita frazionata può solo costituire il presupposto per attivare una maggiore vigilanza del territorio (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 04.08.2000 n. 1830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIAtto amministrativo - Vizi - Incompetenza - Atto vincolato - Irrilevanza - In tema di appalto.
L'incompetenza deve configurarsi come vizio rilevante solo a carico dei provvedimenti di natura discrezionale, la cui rimeditazione da parte di autorità differente potrebbe legittimamente condurre a differenti determinazioni, non così per gli atti il cui contenuto risulti vincolato, per effetto della legge o di pronunzia giurisdizionale che essa espliciti.
Deve ritenersi pertanto legittimo il provvedimento di esclusione dell'offerta adottato in una procedura di appalto dal Dirigente (il quale ha altresì presieduto la commissione di gara) anziché dalla Giunta -come invece previsto dall'art. 30 del regolamento comunale sui contratti- ove, verificata in sede giurisdizionale la legittimità della procedura selettiva sotto il profilo del rispetto delle norme che ne regolano i meccanismi, la verifica in sede amministrativa (cui assolve l'atto di approvazione) non potrebbe avere alla luce della legge esito differente se ad essa procedesse un diverso organo dell'Ente o diversa autorità a ciò preposta dall'ordinamento (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 20.07.2000 n. 1731 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Motivazione - Necessità anche in caso di assenso - Annullamento ministeriale - Legittimità.
2. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Prescrizioni e condizioni - Possibilità - Limiti.

1. - In sede di esercizio del potere, ex art. 7 della legge n. 1497/1939, di autorizzazione paesaggistica, la motivazione è necessaria non solo in caso di diniego ma anche per l'assenso, dovendosi dare conto, in quest'ultimo caso, dell'iter logico seguito per verificare e riconoscere la compatibilità effettiva degli interventi edificatori, nella loro globalità, in riferimento agli specifici valori paesaggistici dei luoghi; è pertanto legittimo il provvedimento del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali di annullamento dell'autorizzazione paesaggistica (rilasciata nel procedimento di condono edilizio) pronunciato per riscontrata carenza di motivazione e quindi per la mancanza dell'elemento essenziale della valutazione che deve essere alla base del provvedimento autorizzatorio: ossia il giudizio di compatibilità dell'opera con il contesto ambientale tutelato.
2. - Se è vero che l'Amministrazione, in sede di autorizzazione paesaggistica, può suggerire modificazioni ritenute opportune per ottenere l'armonizzazione delle nuove costruzioni con l'ambiente circostante, è altrettanto indubbio che si tratta pur sempre di una facoltà di cui l'Amministrazione può avvalersi solo a condizione che la prescrizione impartita consenta l'eliminazione degli inconvenienti che impediscono un armonico inserimento dell'opera nel contesto ambientale; e ciò senza trascurare che ove si consentisse una modifica materiale dell'opera ai fini del condono edilizio, si verrebbero a sanare non già le opere realizzate ed ultimate entro una certa data (01.10.1983) ma opere diverse, in realtà ultimate successivamente, oltre i precisi limiti temporali inderogabilmente previsti dalla legge.
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1. - Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.07.1996, n. 968, in Rass. Cons. Stato 1996, pag. 1209 e Cons. Stato, sez. VI, 05.07.1990, n. 692, in Rass. Cons. Stato 1990, pag. 994.
2. - Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.10.1999, n. 1437, in Rass. Cons. Stato 1999, pagg. 1689 e segg. e nel senso di escludere la possibilità di imporre prescrizioni e condizioni Tar Toscana, sez. I, 17.07.2000 n. 1691
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 17.07.2000 n. 1695 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Annullamento ministeriale - Termine di 60 giorni - Applicabilità alla comunicazione o alla notificazione - Esclusione.
2. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Annullamento ministeriale - Termine di 60 giorni - Decorrenza - Completezza della documentazione - Necessità.
3. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Prescrizioni e condizioni - Possibilità - Condono edilizio - Esclusione.

1. - Il termine di sessanta giorni di cui all'art. 82 del D.P.R. n. 616/1977, nel testo modificato dalla legge n. 431/1985, ancorché perentorio, attiene al solo esercizio del potere di annullamento -da parte dell'amministrazione statale- delle autorizzazioni regionali in materia di costruzioni nelle zone soggette a vincolo paesistico di cui all'art. 7 L. 1497/1939, restando estranea alla previsione normativa l'ulteriore fase della comunicazione o notificazione.
2. - Il termine di sessanta giorni di cui all'art. 82 del D.P.R. n. 616/1977 decorre dalla data di ricezione, da parte dell'amministrazione centrale, del provvedimento regionale completo dell'intera documentazione, salva la possibilità di disporre integrazioni istruttorie che interrompono il predetto termine perentorio.
Tale possibilità di interruzione è connessa alla circostanza di fatto che la decorrenza del termine presuppone la completezza della documentazione necessaria alla formulazione del giudizio di legittimità rimesso all'amministrazione statale preposta alla tutela del vincolo, salva la possibilità (per l'interessato) di dimostrare che la richiesta istruttoria di ulteriore documentazione è del tutto ingiustificata e volta ad eludere la perentorietà del termine stabilito.
3. - Ai fini della sanatoria -e, correlativamente, del nulla osta paesaggistico laddove trattasi di opere eseguite su aree sottoposte a vincolo- occorre aver riferimento alla data di ultimazione delle stesse e, quindi, agli elementi strutturali o estetici che già connotano le opere eseguite, dovendosi valutare la sanabilità o, prima ancora in caso di contrasto con un vincolo ambientale, la compatibilità della costruzione, così come essa si presenta e non come potrebbe essere qualora fossero realizzate determinate modifiche, strutturali o meno, che ne consentirebbero l'inserimento nell'ambiente circostante.
Infatti l'oggetto della valutazione di compatibilità ambientale, richiesta all'autorità competente, non può che essere il manufatto edilizio così come esso si presenta alla data fissata dalla legge ai fini della sanatoria dell'opera abusiva; il parere favorevole condizionato a eventuali modifiche della stessa è illegittimo in quanto determinerebbe, in pratica, l'elusione del termine di ultimazione del manufatto, il cui rispetto costituisce invece il presupposto di ammissibilità alla procedura di sanatoria ed alla conseguente, ove necessaria, valutazione di compatibilità ambientale della costruzione.
E' pertanto legittimo il decreto ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria rilasciato dal Comune nel procedimento ex art. 32 L. 47/1985 a condizione che siano realizzate "falde inclinate di copertura in cotto" (ritenuto necessario dalla medesima autorità comunale ai fini del rispetto del vincolo paesaggistico).
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1. - 2. - Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 03.02.2000, n. 628, in Rass. Cons. Stato 2000, pag. 219 e Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2000, n. 403, in Rass. Cons. Stato 2000, pag. 124.
3. - In argomento, sulla possibilità di imporre prescrizioni e condizioni, si veda Tar Toscana, sez. I, 17.07.2000 n. 1695
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 17.07.2000 n. 1691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. - Concorso di progettazione - Procedura ristretta ex D.Lgs. 157/1995 - Criteri - Sommatoria dei punteggi ottenuti in sede di prequalificazione ed in sede di gara vera e propria - Illegittimità.
2. - Servizi - Concorso di progettazione - D.Lgs. 157/1995 - Criteri - Principio generale di netta separazione tra fase di qualificazione e fase di valutazione delle offerte - Sussistenza.
3. - Processo amministrativo - Impugnazione - Interesse - Appalti e forniture - Servizi - Bando - Dies a quo - Individuazione.
4. - Risarcimento del danno - Annullamento giurisdizionale della lex specialis, "in parte qua", e della conseguente aggiudicazione - Accoglimento della domanda di risarcimento del danno in forma specifica proposta dal ricorrente secondo classificato, ex art. 35 D.Lgs. 80/1998 - Accertamento e dichiarazione del diritto del ricorrente all'aggiudicazione della gara d'appalto - Sussistenza.

1. - E' illegittimo il bando di gara nella parte in cui viene prevista, ai fini della formazione della conclusiva graduatoria dei partecipanti alla selezione, la sommatoria dei punteggi agli stessi attribuiti sia nella fase di prequalificazione, che in sede di valutazione comparativa dei progetti esaminati.
2. - All'interno del sistema delineato dal D.Lgs 157/1995 è chiaramente individuabile un principio di netta separazione fra la fase della qualificazione (disciplinata quanto ai relativi requisiti, dagli artt. 12-17) e quella della valutazione dell'offerta (in ordine alla quale gli elementi rilevanti vengono individuati dall'art. 23).
3. - L'interesse all'impugnazione del bando di gara, nella parte in cui prevede, ai fini della formazione della conclusiva graduatoria dei partecipanti alla selezione, la sommatoria dei punteggi da ciascuno di essi conseguiti nella fase di prequalificazione e nella fase di gara vera e propria, assume il necessario carattere di concretezza ed attualità solo al momento ed in conseguenza dell'approvazione della conclusiva graduatoria e dell'accessiva aggiudicazione, atteso che la valenza pregiudizievole di tale disposizione della "lex specialis" della gara, è venuta ad emersione in conseguenza e per l'effetto dell'attribuzione (operata nei confronti del controinteressato raggruppamento) di un punteggio complessivo che ha a quest'ultimo consentito di conseguire un poziore collocamento nella conclusiva graduatoria.
4. - Per effetto dell'annullamento del bando di gara "in parte qua" (ovvero, nella specie, limitatamente alla previsione, in esso contenuta, della sommatoria dei punteggi conseguiti dai partecipanti alla selezione ai fini della formazione della graduatoria finale) e del conclusivo provvedimento di aggiudicazione, è accoglibile la domanda di risarcimento in forma specifica, svolta ai sensi dell'art. 35 D.Lgs 80/1998 (nel caso di specie, il giudice amministrativo ha accertato e dichiarato il diritto del ricorrente all'aggiudicazione della gara d'appalto, in ragione del maggior punteggio da questi conseguito in sede di valutazione delle soluzioni progettuali presentate).
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1. - 2. - Con espresso riferimento al caso di specie, si vedano altresì le seguenti determinazioni dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici: n. 9/99 dell'08.11.1999 (in G.U. 107 del 10.05.2000) e n. 17/2000 dell'05.04.2000 (in G.U. 120 del 25.05.2000) (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 12.07.2000 n. 1640 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. - Contratti - Concessione - Gestione di teatro comunale - Attinenza ad un bene pubblico - Convenzione - Disciplina degli obblighi e delle condizioni per l'esercizio dell'attività.
2. - Contratti - Concessione - Rinnovo condizionato - Atto unilaterale della p.a. - Accordo dei contraenti in ordine alle condizioni essenziali - Necessità.
3. - Contratti - Concessione condizionata - Interruzione delle trattative da parte della p.a. - Interesse del privato - Sussistenza - Tutelabilità davanti al G.A.
4. - Contratti - Concessione - Rinnovo - Modifiche alla convenzione - Richiesta del concessionario - Mancato perfezionamento di un elemento essenziale del contratto - Conclusione delle trattative - Esclusione.
5. - Atto amministrativo - Comunicazione di avvio del procedimento - Contratti - Partecipazione del privato alla trattativa - Non occorre.

1. - Il rapporto che ha per oggetto la concessione ad un privato della gestione di un teatro comunale deve qualificarsi come concessione che attiene ad un bene pubblico e all'attività riferibile all'ente locale; alla concessione accede la convenzione che disciplina gli obblighi e le condizioni per l'esercizio dell'attività.
2. - Nel caso che l'Amministrazione deliberi di procedere al rinnovo della concessione anche per l'anno successivo "alle stesse condizioni, con i medesimi prezzi e medesimi patti", tale provvedimento costituisce un atto unilaterale della P.A. ed il rinnovo deve considerarsi subordinato al raggiungimento dell'accordo tra i contraenti in ordine a dette condizioni essenziali, tra cui anche la definizione del programma della stagione teatrale.
3. - Nell'ambito del sistema della concessione-convenzione e dello specifico strumento della concessione condizionata, deve ritenersi sussistente l'interesse del privato, tutelabile dinanzi al Giudice Amministrativo, a sentire accertare la legittimità dell'atto con cui l'Amministrazione comunale dichiara interrotte le trattative e delibera di iniziare nuove trattative con soggetti diversi.
4. - La richiesta del concessionario della gestione del teatro di stralciare dalla bozza di convenzione predisposta dal Comune alcune previsioni relative al piano finanziario dell'attività e dal programma della stagione, senza fare proposte concrete in vista del raggiungimento dell'accordo, impedisce -per libera scelta dello stesso concessionario- il perfezionarsi di uno degli elementi essenziali dello stipulando contratto (art. 1325 C. civ.) e comporta che le trattative non possano ritenersi concluse.
5. - Non sussiste l'obbligo di informare il privato dell'avvio di un procedimento che si conclude con l'atto che dichiara terminata la trattativa con il privato stesso, qualora quest'ultimo abbia attivamente partecipato alla trattativa (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.07.2000 n. 1615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. - Atto amministrativo - Motivazione - Delibera di interruzione delle trattative - Sintetico richiamo alle vicende che hanno caratterizzato il rapporto - Sufficienza.
2. - Atto amministrativo - Delibera del consiglio comunale - Mancata indicazione nell'ordine del giorno - Delibera meramente applicativa di precedente determinazione - Irregolarità formale - Insussistenza - Legittimità.
3. - Atto amministrativo - Pareri preventivi ex art. 53 L. 142/1990 - Omissione - Assenza di valutazioni di carattere tecnico e di impegni di spesa - Possibilità.
1. - Deve ritenersi adeguatamente motivata la delibera che dà atto dell'interruzione delle trattative con colui che era il concessionario della gestione per l'anno precedente, richiamandosi -seppure in modo sintetico- alle vicende che hanno caratterizzato il rapporto e comportato il suo deterioramento, quali le contestazioni tra le parti, la richiesta di contributi non previsti che contrasta con l'impegno assunto dal concessionario a gestire l'attività alle medesime condizioni dell'anno precedente, richiesta che conferma una situazione economica e patrimoniale del teatro incerta e instabile, con la chiara prevedibilità di un ulteriore certo e futuro contenzioso.
2. - Non costituisce irregolarità formale, come tale rilevante ai fini della legittimità dell'atto, la mancata indicazione nell'ordine del giorno della seduta del Consiglio Comunale delle possibili determinazioni in ordine alla gestione del teatro, nel caso in cui queste vengano trattate nell'ambito delle comunicazioni del sindaco previste dal suddetto ordine del giorno e comportino la adozione di una delibera meramente applicativa di altra determinazione precedentemente assunta dal competente organo .
3. - I pareri preventivi ex art. 53 L n. 142/1990 anche in ordine alla copertura finanziaria dell'atto possono essere omessi qualora il provvedimento non implichi valutazioni di carattere tecnico e non contenga impegni di spesa.
__________________
3. - Cfr. . di Stato, Sez. VI, n. 513/1996 in Rass. Cons. di Stato, 1996, pag. 508 e Sez. V n. 442/1994, in Rass. Cons. di Stato, 1994, pag. 754 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 11.07.2000 n. 1615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Diniego - Illegittimità - Manufatto adibito ad assistenza e riabilitazione di invalido - Legge 104/1992 - Ragioni eccezionali - Assentibilità dell'intervento fino all'esaurimanto della causa.
È illegittimo il provvedimento con il quale il Comune, in ordine ad una richiesta di concessione edilizia per la "creazione" di un alloggio finalizzato ad accogliere una persona affetta da invalidità totale e permanente (posizionato al piano terreno di un fabbricato urbano e costituito da una stanza con servizi igienici e piccola palestra), rigetta l'anzidetta domanda in quanto la legge n. 104/1992 deve essere interpretata -nel caso di adibizione dei progettati manufatti alle funzioni di assistenza e riabilitazione delle quali l'invalido ha estremo e indispensabile bisogno- nel senso di consentire l'assentibilità dell'intervento edilizio proposto al fine di permettere l'esercizio dei diritti di libertà e autonomia della persona handicappata, nonché il recupero funzionale dell'invalido, sicché l'esaurirsi di una siffatta causa porterà necessariamente al venir meno delle ragioni del tutto eccezionali che legittimano, ora, l'assentibilità alla realizzazione delle opere stesse (che dovranno quindi essere successivamente rimosse) (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.06.2000 n. 1151 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Diniego - Sanatoria art. 13 L. 47/1985 - Contrasto con profili di tipo igienico-sanitario - Legittimità.
E' legittimo il diniego avverso la richiesta di concessione in sanatoria ai sensi dell'art. 13 L. 47/1985 ove, pur non ostandovi interessi urbanistici, sussistono interessi altrettanto essenziali e meritevoli di tutela afferenti all'igiene ed alla sanità che richiedono la demolizione dell'opera abusiva dal momento che un'opera, ancorché sanabile dal punto di vista strettamente urbanistico-edilizio, non può però essere assentita allorché contrasta con aspetti altrettanto essenziali e meritevoli di tutela quali quelli connessi alla igienicità e salubrità dei locali (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 928 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Diniego - Volumetria - Area già computata in occasione di precedente concessione - Calcolo sulla parte residua - Legittimità.
Un'area già computata ai fini del calcolo della volumetria consentita non può essere considerata libera ai fini di una seconda concessione richiesta (quest'ultima, nella perdurante esistenza della prima edificazione), a nulla rilevando che la proprietà dell'intera, originaria area sia stata nel frattempo frazionata o trasferita.
Deve pertanto ritenersi legittima la determinazione dell'amministrazione comunale che nel verificare l'assentibilità del progetto edificatorio proposto dai ricorrenti ai fini del rilascio di una seconda concessione tenga conto della residua volumetria edificabile della porzione di terreno di proprietà degli interessati, rilevando, in concreto, il sopravvenuto esaurimento della capacità edificatoria della parte del lotto interessata alla costruzione dei manufatti (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 927 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Annullamento ministeriale - Giudizio di compatibilità con il vincolo paesistico - Profilo di legittimità - Attinenza.
2. - Autorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Annullamento ministeriale - Motivazione - Necessità - Fattispecie - Sufficienza - Manufatti similari nella zona - Irrilevanza.
1. - Dal momento che il rilievo ministeriale d'incompatibilità di un'opera con l'ambiente circostante, lungi dal costituire un'ingerenza nel giudizio di merito di competenza dell'Ente locale, concerne il necessario giudizio di compatibilità dell'autorizzazione con il vincolo, attiene al profilo di legittimità -rientrando nella più generale figura di eccesso di potere- la considerazione dell'autorizzazione ex art. 7 della legge 1497/1939 in rapporto alle esigenze di tutela del vincolo paesistico, dovendosi ritenere che, essendo scopo dell'autorizzazione quello di amministrare il vincolo garantendo la conservazione dei valori oggetto di tutela, tale atto sia affetto da un vizio funzionale allorché l'iter del procedimento ed in generale la circostanza connessa alla sua adozione rendano palese che vengono consentite trasformazioni in contrasto con il pregio ambientale.
2. - L'obbligo di motivazione (ex art. 82, nono comma, D.P.R. 616/1977) del provvedimento di annullamento dell'autorizzazione rilasciata ex art. 7 L. 1497/1939 -a mezzo del quale il Ministro è tenuto ad esternare completamente le ragioni della ritenuta incompatibilità dell'opus con l'ambiente circostante- risulta essere stato sufficientemente soddisfatto mediante il rilievo che l'opera risulta addirittura "assemblata" e che introduce "aspetti di degrado nella configurazione del sito", avendo avuto cura l'Autorità ministeriale di evidenziare come la permanenza di tali opere ha comportato l'alterazione dell'assetto estetico-tradizionale oltreché panoramico della località protetta.
E' del tutto irrilevante che nelle vicinanze del fabbricato esistano altri fabbricati similari che anzi imprimono il carattere della doverosità all'intervento di annullamento del Ministero volto ad impedire l'ulteriore degrado dell'intera area.
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1. - Vedi Consiglio di Stato, VI Sez., 04.11.1991, n. 828, in Rass. Cons. di Stato, 1991, in motivazione pag. 1744.
2. - Cfr., in tema di motivazione dell'annullamento ministeriale, TAR Toscana, III Sez., 07.04.2000, n. 604
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIComunicazione di avvio del procedimento - Procedimenti ad iniziativa di parte - Esclusione.
L'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento di cui al comma 1 dell'art. 7 L. 241/1990 deve ritenersi escluso nell'ipotesi di procedimenti attivati ad iniziativa di parte invero, essendo la comunicazione preordinata a far conoscere in via preliminare le intenzioni dell'amministrazione, nel caso in cui sia la parte ad attivare il procedimento la finalità della norma può dirsi pienamente soddisfatta (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Atto amministrativo - Comunicazione di avvio del procedimento - Ingiunzione a demolire - Non occorre.
2. - Sanzioni - Ingiunzione a demolire art. 7 L. 47/1985 - Trasformazione di volume tecnico in volume abitativo - Ampliamento del manufatto preesistente - Legittimità della sanzione.
3. - Sanzioni - Ingiunzione a demolire - Mancata individuazione dei beni da acquisire - Non inficia l'ingiunzione.

1. - Non sussiste l'obbligo di osservanza delle prescrizioni di carattere garantistico previste dall'art. 7 L. 241/1990 a carico del Comune nel caso di ordinanza di demolizione poiché trattasi di attività vincolata, come tale esente dall'obbligo di avviso.
2. - L'uso della sanzione amministrativa prevista dall'art. 7 della legge n. 47/1985 si rileva corretto in caso di trasformazione del volume tecnico in un volume abitativo poiché costituisce una nuova opera urbanisticamente rilevante in ampliamento del manufatto preesistente, che in mancanza di titolo, è soggetta alla sanzione della demolizione prevista dal citato articolo.
3. - L'ingiunzione di demolire ha l'effetto di diffidare il destinatario all'adempimento dell'ordine in esso contenuto, in difetto del quale il Comune provvede all'acquisizione del bene e dell'area di sedime, ma una non esatta individuazione dei beni da acquisire non ha valenza inficiante sull'ordine medesimo (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEDichiarazione di pubblica utilità - Termini - Scadenza - Decreto di esproprio - Illegittimità - Termine quinquennale di occupazione di urgenza - Irrilevanza.
Il termine di validità della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei lavori (che non è fissato in alcun provvedimento legislativo) è determinato di volta in volta dalle Amministrazioni nei provvedimenti di approvazione dei progetti esecutivi in rapporto alla tipologia e durata dei lavori da eseguire; pertanto è illegittimo il decreto di esproprio intervenuto dopo la scadenza del termine massimo di quarantotto mesi fissato nei provvedimenti con i quali è stata dichiarata la pubblica utilità dell'opera in questione, a nulla rilevando la disciplina del D.L. 534/1987 e della L. 158/1991 concernente esclusivamente la proroga del termine di occupazione quinquennale fissato dall'art. 20 della legge 865/1971 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 18.04.2000 n. 703 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI1. - Risarcimento del danno - Illegittimità dell'aggiudicazione per contraddittorietà ed ingiustizia e disparità di trattamento - Colpa della P.A. - Sussistenza.
2. - Risarcimento del danno - Esclusione illegittima - Mancata aggiudicazione - Risarcimento automatico - Impossibilità - Onere della prova - Contenuto.
3. - Risarcimento del danno - Esclusione illegittima - Criterio ex art. 345 L. 20.3.1865 n. 2248 all. F - Impossibilità.
4. - Lavori - Risarcimento del danno - Esclusione illegittima - Perdita di chance - Determinazione - Criteri.
5. - Risarcimento del danno - Esclusione illegittima - Perdita di chance - Liquidazione del danno - Metodo - Prova del danno - Criterio.
6. - Risarcimento del danno - Esclusione illegittima - Responsabilità precontrattuale - Risarcibilità dell'interesse negativo - Criterio.
7. - Processo amministrativo - Risarcimento del danno - Domanda (solo) per mancata aggiudicazione - Interpretazione da parte del giudice come domanda di risarcimento per perdita di chance - Impossibilità - Ragioni - Risarcimento per responsabilità precontrattuale - Impossibilità per le stesse ragioni.
8. - Lavori - Risarcimento del danno - Prescrizione - Decorrenza del termine.

1. - Nel caso di accertata illegittimità dell'aggiudicazione dell'appalto (con sentenza passata in giudicato), su impugnativa di un concorrente escluso, per "contradddittorietà ed ingiustizia" e per "disparità di trattamento" devono ravvisarsi sussistenti i profili di colpa della P.A. giustificativi dell'imputabilità ad essa dell'evento dannoso, ritenendosi violate le regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione pubblica deve ispirarsi.
2. - La concorrente illegittimamente esclusa da una gara per l'aggiudicazione di un contratto della P.A., ai fini dell'accoglimento della domanda di risarcimento del danno per mancata aggiudicazione, deve provare il proprio "diritto all'aggiudicazione" ossia la sicura aggiudicabilità dell'appalto in suo favore e la diminuzione dell'integrità patrimoniale subita per effetto degli atti illegittimamente posti in essere dalla P.A., non conseguendo questo automaticamente dall'accoglimento del ricorso proposto avverso l'esclusione riconosciuta illegittima.
3. - Ai fini della quantificazione del risarcimento, nell'ipotesi di concorrente illegittimamente esclusa da una gara per l'aggiudicazione di un contratto della P.A., non può invocarsi la disposizione di cui all'art. 345 della l. 20.03.1865, n. 2248, all. F (che, nel dare atto della facoltà della P.A. "di risolvere in qualunque tempo il contratto", ricongiunge l'esercizio di tale potere "al pagamento dei lavori eseguito e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell'importare delle opere non eseguite") che presuppone un illegittimo esercizio del potere di revoca del bando di gara che, intervenuto successivamente all'aggiudicazione della gara, si riveli assimilabile ad un atto di "recesso".
4. - Nell'ipotesi di concorrente illegittimamente escluso da una gara per l'aggiudicazione di un contratto della P.A., il risarcimento del danno (che non possa essere integrato dal danno per la mancata aggiudicazione, nella specie per difetto di prova del "diritto all'aggiudicazione") può configurarsi in relazione alla c.d. "perdita di chance", riferita alla possibilità di conseguire un risultato utile (chance), la cui risarcibilità è conseguenza del verificarsi di un danno emergente da perdita di possibilità attuale e non di un futuro risultato utile.
5. - Il danno da "perdita di chance" va liquidato assumendo come parametro di valutazione l'utile economico complessivamente realizzabile dal danneggiato, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo; ovvero, ove tale metodologia risulti di difficilmente applicazione, con ricorso al criterio equitativo ex art. 1226 c.c..
Al fine di ottenere il risarcimento per perdita di una chance, è necessario che il danneggiato dimostri (anche in via presuntiva, ma pur sempre sulla base di circostanze di fatto certe e puntualmente allegate) la sussistenza di un valido nesso causale tra il danno e la ragionevole probabilità della verificazione futura del danno e provi quindi la realizzazione in concreto almeno di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta.
6. - La responsabilità precontrattuale viene in considerazione laddove sia dimostrata l'esistenza di una perdita patrimonialmente rilevante connessa alle spese incontrate per prendere parte ad una gara per l'aggiudicazione di un contratto di appalto, aggiudicazione alla quale la parte non abbia potuto concretamente essere posta in condizione di aspirare per fatto imputabile a comportamento dalla P.A. assunto in violazione degli obblighi di affidamento ex art. 1337 c.c..
In caso di lesione dell'interesse giuridico al corretto svolgimento delle trattative, il danno risarcibile (liquidabile anche in via equitativa) si sostanzia unicamente nelle perdite derivate dall'aver fatto affidamento nella conclusione del contratto e nei mancati guadagni verificatisi in conseguenza delle altre occasioni contrattuali perdute
7. - In presenza di una domanda di parte concernente il (solo) danno da mancata aggiudicazione, non è dato al Giudice operare una "modificazione" (quasi a realizzare una "mutatio", o, quantomeno, una "emendatio libelli" d'ufficio) dell'originaria pretesa, ammettendo a delibazione (e, nel caso di dimostrata fondatezza della domanda, a risarcimento) l'inammissibile tipologia di illecito riveniente dalla perdita di chance.
Infatti, la pretesa dedotta, presupponendo la certezza dell'esito favorevole della procedura, non è in alcun modo assimilabile alla diversa domanda con la quale, in relazione alla mera probabilità di esito favorevole della selezione, venga invocato il risarcimento del pregiudizio da perdita di chance.
Le medesime considerazioni precludono la delibabilità della proposta pretesa risarcitoria sotto profilo -pur astrattamente ipotizzabile- del risarcimento per culpa in contrahendo (c.d. responsabilità precontrattuale), costituito dalle spese inutilmente effettuate in vista della conclusione del contratto, sia dalla perdita di ulteriori occasioni contrattuali, ugualmente o maggiormente vantaggiose.
8. - Il termine prescrizionale per l'esercizio della pretesa risarcitoria del concorrente escluso da una gara d'appalto decorre dal passaggio in giudicato della decisione giurisdizionale di illegittimità delle determinazioni con le quali l'Amministrazione ha disposto l'aggiudicazione dell'appalto (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 13.04.2000 n. 660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Diniego - Sanatoria ex artt. 31 e ss. L. n. 47/85 - Vincolo ambientale - Parere negativo della Commissione Beni Ambientali - Motivazione - Necessità - Fattispecie - Sufficienza.
Ai fini del condono edilizio ex art. 31 e ss. L n. 47/1985, la valutazione negativa dell'autorità preposta alla tutela del vincolo ambientale (Commissione Beni Ambientali) costituisce atto di discrezionalità tecnica che deve essere adeguatamente motivato sulle valutazioni compiute in ordine alla prevalenza dell'interesse pubblico giustificativo del sacrificio imposto al privato.
Risulta adeguatamente motivato il parere sfavorevole reso "poiché i manufatti costituiscono elementi di disordine compositivo volumetrico e materico, manifestamente evidenziato dalla eterogeneità dei materiali applicati, dalla geometria delle intersezioni a livello di copertura" (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.04.2000 n. 602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAutorizzazione gratuita L. n. 94 del 1992 - Opere realizzate in zona paesisticamente protetta - Esclusione.
Le opere edilizie realizzate in zona paesisticamente protetta non sono in ogni caso assentibili mediante autorizzazione gratuita di cui alla legge n. 94 del 1992, per l'esplicita esclusione stabilita dallo stesso legislatore (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 07.04.2000 n. 602 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. - Processo amministrativo - Impugnabilità dell'atto - Aggiudicazione - Aggiudicazione provvisoria - Consegna e svolgimento del servizio - Immediata lesività - Impugnabilità.
2. - Gara - Certificato di qualità - Criteri di attribuzione del punteggio - Determinazione prima della conoscenza dell'offerta - Necessità.

1. - E' suscettibile di impugnazione immediata l'aggiudicazione provvisoria di una gara per l'affidamento di un appalto -indipendentemente dall'esistenza o meno di un vero e proprio provvedimento di approvazione della stazione appaltante- in caso di consegna e svolgimento del servizio e stipulazione del contratto, atteso che l'immediata attività esecutiva posta in essere dall'Amministrazione la rende idonea a ledere immediatamente la sfera giuridica dei terzi.
2. - Incorre nella violazione del principio generale della predeterminazione dei criteri di valutazione delle offerte, l'Amministrazione che non esplicita puntualmente i criteri di attribuzione del punteggio concernente il certificato di qualità della ditta invitata alla gara prima dell'apertura della busta contenente l'offerta economica e la relazione progettuale e cioè, in sostanza, prima di conoscere tutti i dati dell'offerta (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 15.03.2000 n. 450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAProcesso amministrativo - Impugnazione - Decorrenza del termine - Edilizia residenziale pubblica - Piani di zona - Assegnazione aree - Dies a quo - Individuazione.
Poiché per gli atti per i quali non è richiesta la notificazione e per i quali sia prevista la pubblicazione obbligatoria il termine per impugnare decorre dall'ultimo giorno della pubblicazione all'albo pretorio -operando, infatti, tale pubblicazione come presunzione di conoscenza da parte degli interessati- è tardiva l'impugnazione proposta dopo la scadenza del termine così determinato, avverso il provvedimento di assegnazione dei terreni di una zona Peep con esclusione dei ricorrenti (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 14.03.2000 n. 441 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPiano regolatore - Variante - Motivazione specifica - Quando occorre.
1. - Nell'ipotesi di approvazione da parte del Comune di una variante al Piano Regolatore, modificante la disciplina urbanistica della zona, non sussiste l'obbligo di motivazione specifica sulla nuova destinazione, che si rende invece necessaria nelle ipotesi in cui la scelta incida su aspettative assistite da una speciale tutela o da uno speciale affidamento, quali quelle derivanti da un piano di lottizzazione debitamente approvato e convenzionato.
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1. - Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 06.03.1998 n. 382 in Rass. Cons. Stato 1998, pag. 340 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 14.03.2000 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEOccupazione temporanea e d'urgenza - Scadenza termini per compimento di espropriazione senza adozione del relativo provvedimento - Effetti sulla dichiarazione di pubblica utilità e sul provvedimento di occupazione d'urgenza.
1. - Il decorso dei termini finali fissati ex art. 13 della Legge 2359/1865 nell'atto dichiarativo della pubblica utilità senza la realizzazione dell'opera e/o la emanazione del decreto di esproprio comporta l'inefficacia, ex tunc, della originaria dichiarazione di pubblica utilità, determinando l'illegittimità ab initio della intera procedura espropriativa e della connessa occupazione d'urgenza che risulta così disposta sine titulo.
_________________
1. - La decisione afferma innovativamente la illegittimità della intera procedura espropriativa e della connessa occupazione d'urgenza per il solo fatto dello scadere dei termini finali della dichiarazione di pubblica utilità (senza la tempestiva emanazione del decreto di esproprio) così da determinarsi ex tunc l'inefficacia della medesima dichiarazione.
La tradizionale giurisprudenza risulta, invece, orientata nel senso che lo scadere di detti termini comporta l'illegittimità del decreto di esproprio tardivamente adottato (vds. Cons. Stato, Sez. V, 23.10.1981 n. 518; Sez. IV, 09.07.1974 n. 531), senza "retroagire" sull'atto dichiarativo della p.u. (per i profili risarcitori conseguenti alla realizzazione dell'opera pubblica vds. per tutte la "fondamentale" Cass. Sez. Un. 28.02.83 n. 1464, nonché, per gli effetti restitutori e di decorrenza del termine di prescrizione, Cass. Sez. Un. 04.03.1997 n. 1907 e Cass. Sez. I, 15.12.1995 n. 12841)
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 14.03.2000 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanzioni – Ingiunzione a demolire – In pendenza di domanda di condono ex art. 31 L. 47/1985 sul manufatto originario - Realizzazione nuova costruzione – Legittimità della sanzione.
È legittimo il provvedimento con il quale l’Amministrazione ingiunge la demolizione di una nuova costruzione realizzata previo abbattimento del manufatto precedente -di dimensioni, caratteristiche e volumi nettamente (tre volte) inferiori- già oggetto di domanda di condono ex art. 31 L. 47/1985 ancora pendente (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 03.03.2000 n. 405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIProcesso amministrativo - Impugnazione - Interesse – Carenza sopravvenuta – Appalti e forniture – Esclusione dalla gara – Impugnazione – Successiva aggiudicazione – Mancata impugnazione - Improcedibilità.
1. – Il provvedimento di aggiudicazione dell’appalto non impugnato determina l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso avverso l’esclusione dalla licitazione, posto che l’eventuale annullamento di quest’ultima non produce l’automatico travolgimento dell’atto di aggiudicazione.
________________
1. - conforme sentenza TAR Toscana n. 402 dell'01.03.2000 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 01.03.2000 n. 400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE1. - Dichiarazione di pubblica utilità - Carenza - Decreto di occupazione d'urgenza - Carenza di potere - Esclusione.
2. - Processo cautelare - Espropriazione e occupazione - Occupazione temporanea e d'urgenza - Azione di reintegrazione nel possesso di fronte al G.A. - Mancata impugnazione nei termini - Inammissibilità - Domanda cautelare ex art. 21 L. n. 1034/1971- Necessità - Rigetto.

1. - In tema di espropriazione per pubblica utilità, la carenza della dichiarazione di pubblica utilità determina l'illegittimità del decreto di occupazione d'urgenza per difetto del presupposto e non la sua nullità per carenza di potere ablativo (secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa che si differenzia da quello delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione).
2. - Non può accogliersi la domanda diretta alla reintegrazione del possesso di terreni oggetto di provvedimenti di occupazione d'urgenza non impugnati nei termini (ed a torto ritenuti nulli per difetto della dichiarazione di p.u.) posto che, a prescindere dall'applicabilità nel processo amministrativo degli strumenti interinali disciplinati dal codice di rito (nonché dalla riconducibilità della controversa fattispecie nell'ambito della giurisdizione esclusiva ex art. 34 d.lgs. 80/1998), l'interessato avrebbe dovuto proporre in via incidentale, nella tempestiva impugnativa dei decreti di occupazione, domanda di sospensione dell'esecuzione ex art. 21, u.cpv. L. n. 1034/1971 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, ordinanza 24.02.2000 n. 265).

AGGIORNAMENTO AL 18.07.2011

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UTILITA'

EDILIZIA PRIVATALombardia, Piano Casa 2011: timeline secondo la legge n. 106/2011.
E' stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 160 del 12.07.2011 la legge 12.07.2011 n. 106 di conversione, con modificazioni, del decreto legge 13.05.2011, n. 70, noto come ^Decreto Sviluppo^.
La timeline del Piano Casa é stata quindi aggiornata secondo le nuove scadenze (link a www.studiospallino.it).

SICUREZZA LAVORO: Lavoratori esposti al sole: obbligo del datore di lavoro proteggerli adeguatamente!
I "lavoratori outdoor" sono coloro che svolgono una frazione significativa del proprio orario lavorativo all'aperto e sono esposti a patologie correlate con la radiazione solare. Tra le categorie dei lavoratori che possono essere soggette a questi rischi ci sono: agricoltori, giardinieri, portuali, operai di cantiere, istruttori di sport all'aperto, benzinai, postini, bagnini, vigili urbani e tanti altri.
La radiazione solare ultravioletta deve essere considerata a tutti gli effetti un rischio di natura professionale che va trattato alla stregua di tutti gli altri rischi (chimici, fisici, biologici) presenti nell'ambiente di lavoro. La permanenza al sole per un periodo più o meno prolungato (la variabilità è soggettiva) può provocare danni seri all’organismo umano.
I datori di lavoro devono mettere in atto strategie di protezione dai raggi solari. Vediamone qualcuna: ... (link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVORO: Domande e risposte sulla sicurezza nei cantieri e nei luoghi di lavoro.
- Quali sono i requisiti per svolgere la funzione di R.S.P.P.?
- Come vanno trattati i lavoratori occasionali?
- E’ obbligatorio tenere a bordo dei mezzi d’opera cassette di medicazione?
- Il C.I.P. allegato al DURC appena scaduto può considerarsi sostituivo dello stesso?
La risposta a queste e molte altre domande è contenuta nella pubblicazione “Quesiti sulla sicurezza nei luoghi di lavoro” a cura del servizio “Info.Sicuri” della Regione Piemonte.
Nel documento che alleghiamo a questo articolo sono presenti una serie di domande a cui la Regione Piemonte ha fornito precise risposte.
Queste sono relative a:
- Applicazione generale del D.Lgs. 81/2008 e smi – Titolo I
- Luoghi di lavoro, macchine e DPI – Titolo II e III
- Cantieri – Titolo IV
- Segnaletica di sicurezza, movimentazione manuale dei carichi, videoterminali – Titoli V, VI, VII
- Agenti fisici, sostanze pericolose, agenti biologici, protezione da atmosfere esplosive – Titoli VIII, IX, X, XI (link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quarto Conto Energia: arrivano le Regole Tecniche e le Regole Applicative.
Il GSE (Gestore di Servizi Energetici) ha pubblicato le “Regole Applicative” sul quarto Conto Energia (D.M. 05.05.2011).
Il documento del GSE, ha lo scopo di assicurare chiarezza e trasparenza sui sistemi di incentivazione degli impianti fotovoltaici. Esso definisce:
- le modalità di individuazione della tariffa incentivante a cui l'impianto fotovoltaico può accedere;
- le modalità di definizione delle maggiorazioni e del premio abbinato all’uso efficiente dell’energia;
- le modalità di accesso alle tariffe.
Vengono, inoltre, definite le modalità di accesso alla maggiorazione del 10% sulla tariffa incentivante per l'utilizzo di componenti prodotti nell'Unione Europea.
Il secondo documento pubblicato è relativo alle Regole Tecniche, che completano e integrano le informazioni che il GSE ha già pubblicato nei giorni scorsi relativamente alla iscrizione al Registro per i grandi impianti fotovoltaici (link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 16.07.2011 n. 164 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 06.07.2011, n. 98 recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria" (Legge 15.07.2011 n. 111).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 15.07.2011, "Modifiche ed integrazioni al d.d.u.o. n. 1556 del 21.02.2011 sulle modalità di accesso e di funzionamento della procedura informatizzata per il taglio di boschi, in attuazione dell’art. 11, comma 2, del r.r. 5/2007 (Norme forestali regionali)" (decreto D.U.O. 08.07.2011 n. 6288).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 14.07.2011, "Definizione delle caratteristiche dei capi di abbigliamento delle guardie ecologiche volontarie (art. 3, c. 1, lett. E), l.r. 9/2005)" (deliberazione G.R. 06.07.2011 n. 1951).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 28 del 13.07.2011 "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del Regolamento Regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei “Tecnici competenti” in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 04.07.2011, in attuazione dell’art. 2, commi 6 e 7 della legge 26.10.1995, n. 447, della deliberazione 17.05.2006, n. 8/2561 e del decreto 30.05.2006, n. 5985" (comunicato regionale 06.07.2011 n. 74).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sistri e recepimento della Dir. n. 2008/99/Ce: da quando diverranno applicabili le sanzioni?
Domanda.
Le norme relative al Sistri stanno per essere nuovamente cambiate a seguito del recepimento della direttiva 2008/99/CE sulla tutela penale dell'ambiente ma non appare chiaro da quando diverranno (e in che modo) applicabili le sanzioni. Potreste chiarirci tale aspetto?
Risposta.
Le nuove sanzioni del SISTRI -introdotte nel D.Lgs. n. 152/2006 dal D.Lgs. n. 205/2010- saranno applicabili al termine del periodo c.d. "a doppio binario" (la fase transitoria durante la quale è prevista la convivenza degli obblighi documentali del registro di carico e scarico e del formulario di identificazione dei rifiuti col SISTRI) il cui termine è regolato dall'art. 12, comma 2, del D.M. 17.12.2009. Come è noto tale termine ha subìto varie modifiche e da ultimo è stato prorogato dal D.M. 26.05.2011, che ha previsto una partenza scaglionata del SISTRI a seconda delle categorie di imprese considerate.
Pertanto, quindi, le sanzioni entreranno in vigore per tali imprese solo dopo il rispettivo termine ad esse relativo
Il comma 1 dell'art. 39 del D.Lgs. n. 205/2010 ha confermato che le sanzioni del SISTRI entreranno in vigore a decorrere dal giorno successivo alla scadenza del termine di cui all'art. 12, comma 2, del D.M. 17.12.2009.
Il comma 2 dell'art. 39, però, ha previsto che tali sanzioni fossero introdotte con gradualità ("Al fine di graduare la responsabilità nel primo periodo di applicazione"), per consentire agli operatori del settore di superare le difficoltà derivanti dell'applicazione del nuovo sistema.
Più precisamente tale disposizione ha stabilito che i soggetti obbligati all'iscrizione che omettano l'iscrizione (fattispecie prevista dall'art. 260-bis, comma 1, TUA) o il relativo versamento nei termini previsti (fattispecie prevista dall'art. 260-bis, comma 2, TUA), fermo restando l'obbligo di adempiere all'iscrizione al SISTRI con pagamento del relativo contributo, vengano puniti con sanzioni commisurate al ritardo, per ciascun mese o frazione di mese di ritardo ed in particolare:
- se l'inadempimento si verifica nel periodo 01/01/2011-30/06/2011 [primo semestre], il soggetto obbligato all'iscrizione che omette iscrizione o versamento è punito con una sanzione pari al 5% dell'importo annuale dovuto per l'iscrizione;
- se l'inadempimento si verifica (o comunque si protrae) nel periodo 01/07/2011-31/12/2011 [secondo semestre], il soggetto obbligato all'iscrizione che omette iscrizione o versamento è punito con una sanzione pari al 50% dell'importo annuale dovuto per l'iscrizione.
Tuttavia, il legislatore nell'introdurre una previsione così puntuale, non aveva certo immaginato che a seguito delle successive proroghe la data d'inizio di questo meccanismo di attenuazione delle sanzioni sarebbe poi risultato "superato" e non più coordinato con la data (rectius, le date) del pieno avvio del SISTRI (si veda, da ultimo la partenza "scaglionata" prevista per le differenti categorie di soggetti interessati dal D.M. 26.05.2011).
Si è così deciso di dover correre nuovamente ai ripari e di introdurre nuove modifiche (le stesse, probabilmente, a cui si fa riferimento nel quesito).
Si è scelto di utilizzare a questo scopo lo schema di decreto legislativo di attuazione delle direttive 2008/99/CE (tutela penale dell'ambiente) e 2009/123/CE (inquinamento provocato dalle navi), non ancora pubblicata in GU.
L'ultima versione del decreto -quella definitivamente approvato dal Consiglio dei Ministri n. 145 del 07.07.2011- precisa la portata temporale della riduzione delle sanzioni, chiarendo che sino alla piena operatività del SISTRI, saranno ridotte, ad eccezione dei casi di comportamenti fraudolenti:
- a 1/10 le sanzioni per le violazioni compiute negli otto mesi successivi alla decorrenza degli obblighi di operatività per ciascuna categoria di operatori, enti o imprese
- a 1/5 le sanzioni per le violazioni compiute dalla scadenza dell'ottavo mese e per i successivi quattro mesi.
Quindi, al posto delle date già indicate, si ricorre ad un periodo, rispettivamente, di otto e quattro mesi, a partire dai termini di piena operatività ex art. 12, comma 2, DM del 17.12.2009 e s.m.i., durante il quale le sanzioni saranno più soft.
Si segnala, da ultimo, che il termine di avvio della piena operatività del SISTRI per le microimprese (fino a 10 dipendenti) produttrici di rifiuti pericolosi subirà una ulteriore proroga a seguito della norma all'uopo inserita nel testo del c.d. "decreto Sviluppo" (D.L. n. 70/2011) definitivamente approvato da parte del Senato: la norma non precisa la nuova data ma questa dovrà essere comunque "non antecedente all'01.06.2012". La data fissata dal D.M. 26.05.2011 è (era), invece, quella del 02.01.2012 (14.07.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTILa determina dell'Authority sui pagamenti. Tracciabilità dovuta. Acquisizioni in economia coinvolte.
Tracciabilità dei pagamenti obbligatoria anche per le acquisizioni in economia mediante amministrazione diretta, quando sia necessario approvvigionarsi dei beni e servizi necessari per l'effettuazione dell'opera o del servizio. L'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori servizi e forniture rivede il suo precedente avviso e corregge il tiro.
Il punto 3.13 della determinazione 07.07.2011 n. 4, che contiene le linee guida sulla tracciabilità dei flussi finanziari ai sensi dell'articolo 3 della legge 136/2010 prende atto che gli appalti necessari all'amministrazione diretta non possono sfuggire alla tracciabilità.
La precedente determinazione 10/2010 dell'Authority aveva indirettamente qualificato l'istituto dell'amministrazione diretta, escludendo che si tratti di un contratto d'appalto con un operatore economico, cioè con uno dei soggetti considerati dall'articolo 3, commi 19 e 22, del codice dei contratti. Da qui la conclusione della sua sottrazione agli obblighi sulla tracciabilità.
Il provvedimento del 2010 aveva, tuttavia, trascurato la circostanza che gli enti per svolgere in amministrazione diretta servizi o forniture debbono disporre materialmente dei mezzi di produzione. O, in mancanza, acquisirli. Era evidente, allora, che gli appalti finalizzati appunto ad ottenere detti mezzi di produzione, proprio in quanto appalti, non potessero sfuggire alla disciplina della tracciabilità: in particolare, l'obbligo di acquisire il codice identificativo della gara (Cig) e tutte le regole sulle clausole contrattuali necessarie a garantire il rispetto dell'obbligo di tracciare i pagamenti mediante conti correnti specificamente indicati.
La determinazione 4/2011 spiega meglio la questione. L'Authority ritiene di specificare che «le acquisizioni di beni e servizi effettuate dal responsabile del procedimento per realizzare le fattispecie in economia sono soggette agli obblighi di cui all'art. 3 della legge n. 136/2010 qualora siano qualificate come appalti». Il che avviene sempre appunto per le acquisizioni dei mezzi di produzione, a meno che non si tratti di mere spese economali, sottratte agli obblighi sulla tracciabilità.
Il punto 3.13 della determinazione 4/2011 torna a precisare invece che «sono soggetti agli obblighi di tracciabilità gli acquisti in economia mediante procedura di cottimo fiduciario, ivi compresi gli affidamenti diretti di cui all'articolo 125, comma 8, ultimo periodo e comma 11, ultimo periodo» del codice dei contratti (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011 - link a www.corteconti.it).

NEWS

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Amministratori, rimborsi se assolti.
Quesito: Sono rimborsabili le spese legali sostenute da ex amministratori comunali coinvolti in un procedimento penale?

Non esiste una disposizione che obblighi il comune a tenere indenni gli amministratori delle spese processuali sostenute in giudizi penali concernenti imputazioni oggettivamente connesse all'espletamento dell'incarico, espressamente prevista, invece, per i dipendenti comunali.
La disposizione ex art. 28 Ccnl dipendenti degli enti locali del 14/09/2000 è stata considerata dalla giurisprudenza «applicabile in via retroattiva ed in via estensiva agli amministratori e non solo ai dipendenti pubblici -“in considerazione del loro status di pubblici funzionari”- ma si è ritenuta limitata ai procedimenti giurisdizionali, senza che ciò escluda tuttavia la rimborsabilità della spese sopportate in sede di indagine penale, potendosi fare ricorso alla azione di ingiustificato arricchimento» (cfr. Cons. di stato, sez. VI, sent. n. 5367/2004).
In forza di tale norma «hanno titolo al rimborso delle spese legali il dipendente e quindi l'amministratore legale, sottoposti a giudizio penale per fatti o atti direttamente connessi all'espletamento del servizio e all'adempimento dei compiti d'ufficio, sempreché il giudizio non sia concluso con una sentenza di condanna e non vi sia conflitto di interessi con l'amministrazione di appartenenza...» (cfr Cons. di stato, sez. V, sent. n. 3946/2001).
Altra parte della giurisprudenza (cfr. Cons. di stato, sez. V n. 2242/2000) ha, invece, applicato l'analogia iuris -tramite il richiamo all'art. 1720, comma 2, c.c., in base al quale «Il mandante deve inoltre risarcire i danni che il mandatario ha subito a causa dell'incarico»- ed ha, comunque, evidenziato la sostanziale eccezionalità del rimborso delle spese legali ribadendo, con richiamo alla giurisprudenza ordinaria che, ai fini del rimborso, è necessario accertare che le spese siano state sostenute a causa e non semplicemente in occasione dell'incarico e sempre entro il limite costituito dal positivo e definitivo accertamento della mancanza di responsabilità penale degli amministratori che hanno sostenuto le spese legali.
Il giudice ordinario ha, peraltro, chiarito ulteriormente tale concetto precisando che il rimborso previsto dalla norma del codice civile concerne solo le spese sostenute dal mandatario in stretta dipendenza dall'adempimento dei propri obblighi, quelle, cioè, effettuate per l'espletamento di attività che il mandante ha il potere di esigere e che, per loro natura, si collegano necessariamente all'esecuzione dell'incarico conferito, rappresentando il rischio a questo inerente.
L'ipotesi, non si verifica quando tale attività abbia in qualsiasi modo dato luogo a un'azione penale contro il mandatario e questi abbia dovuto effettuare spese di difesa delle quali intenda chiedere il rimborso ex art. 1720 c.c. Ciò è evidente nel caso in cui l'azione si riveli, a esito del procedimento penale, fondata, ed il mandatario-reo venga condannato, giacché la commissione di reato non può rientrare nei limiti di un mandato validamente conferito (artt. 1343 e 1418 cc).
Il rimborso non è possibile neppure quando il mandatario-imputato, venga prosciolto, giacché in tal caso la necessità di effettuare le spese di difesa non si pone in nesso di causalità diretta con l'esecuzione del mandato, ma tra l'uno e l'altro fatto si pone un elemento intermedio, dovuto all'attività di una terza persona, pubblica o privata, e dato dall'accusa poi rivelatasi infondata. Anche in questa eventualità non è dunque ravvisabile il nesso di causalità necessaria tra l'adempimento del mandato e la perdita pecuniaria, di cui perciò il mandatario non può pretendere il rimborso (cfr. Corte suprema di cassazione, sez. I civ., del 20/12/2007, depositata il 16/04/2008, n. 10052).
Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali della Cassazione e del Consiglio di stato, pertanto, le spese legali possono essere rimborsate solo qualora vi sia una sentenza definitiva di assoluzione nel merito dalle imputazioni contestate che escluda, oltre alla responsabilità del dipendente o dell'amministratore, anche un eventuale conflitto d'interesse con l'Ente (cfr. Corte dei conti, sez. Giur. Reg. Liguria, sent. n. 580 del 13.10.2008).
È infatti opinione dominante, nella giurisprudenza contabile, che per non configurare conflitto di interessi occorre una sentenza emessa con la formula più ampia possibile, tale da far ritenere il comportamento degli amministratori e/o dipendenti improntato al rispetto del principio cardine dell'art. 97 Costituzione (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011).

ENTI LOCALIRendiconto d'obbligo per i comuni che hanno usufruito del 5 per mille.
Tutti i comuni, cui sono state destinate somme per effetto della scelta dei contribuenti ai fini del cinque per mille, sono tenuti alla redazione del rendiconto e della relazione sulle modalità di utilizzo. I comuni destinatari di contributi di importo inferiore a 20 mila euro dovranno conservare per dieci anni la rendicontazione, mentre le amministrazioni locali che hanno ricevuto somme pari o maggiori di 20 mila euro devono trasmettere la rendicontazione al Ministero dell'interno. In caso di inadempienza, scatterà nei confronti delle amministrazioni locali, l'iter per il recupero delle somme.
Lo precisa la circolare 13.07.2011 n. 8/2011 del Dipartimento della Finanza Locale del Viminale, che fa chiarezza sulle modalità per la predisposizione da parte dei comuni, del rendiconto sulla destinazione delle quote del 5 per mille dall'anno d'imposta 2008.
Come noto, l'articolo 63-bis del dl n. 112/2008 ha previsto la facoltà di destinare una quota pari al 5 per mille anche a sostegno delle attività sociali svolte dal comune di residenza. La legge prevede che i soggetti beneficiari del 5 per mille, sono tenuti alla redazione, entro un anno dalla ricezione delle somme ad essi destinate, di un rendiconto dal quale risulti, anche grazie a una relazione illustrativa, in modo chiaro e trasparente, la destinazione delle somme ad essi attribuite.
La circolare in oggetto, pertanto, precisa che i comuni devono provvedere alla rendicontazione delle somme relative agli esercizi finanziari 2009, 2010 e 2011, rispettivamente per i periodi d'imposta 2008,2009 e 2010. Per far ciò possono utilizzare un rendiconto, il cui schema generale è allegato alla circolare in esame e altresì disponibile sul sito della direzione centrale della finanza locale del Viminale (www.finanzalocale.interno.it). Il rendiconto dovrà essere firmato dal responsabile dei servizi sociali, da quello del servizio finanziario e dal collegio dei revisori dei conti (ovvero dal revisore unico), corredato da una relazione che illustri quanto riportato sinteticamente nel citato rendiconto.
Tutti i comuni, quindi, sono tenuti alla redazione del rendiconto e della relazione illustrativa entro un anno dall'effettiva percezione dell'importo spettante. Ai fini del calcolo del termine, si fa riferimento alla data in cui la somma viene accreditata presso la sezione della Tesoreria provinciale dello Stato. In particolare, i comuni percettori di somme inferiori a 20 mila euro sono tenuti alla sola conservazione di detti documenti per dieci anni. Documenti che potrebbero, infatti, essere oggetto di apposite verifiche da parte dello stesso Ministero dell'interno. I comuni, invece, percettori di somme pari o superiori a 20 mila euro sono ulteriormente tenuti a trasmettere il carteggio alla stessa Direzione centrale della Finanza Locale, entro 30 giorni dalla scadenza prevista per la redazione.
Per effetto delle disposizioni contenute all'articolo 12 del Dpcm 03/04/2009, i comuni che non rendicontano le somme, quelli che, pur percependo somme inferiori a 20 mila euro non ottemperano alla richiesta ministeriale di trasmettere il carteggio e i comuni percettori di somme superiori a tale soglia che non trasmettono il rendiconto e la relazione, saranno oggetto di provvedimenti di recupero (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALIL'apprendistato ora apre alla p.a.. Assunzioni con contratto di mestiere o per formazione/ricerca. Cosa prevede l'accordo siglato nei giorni scorsi dal governo e dalle organizzazioni sindacali.
L'apprendistato apre alla pubblica amministrazione. L'accordo sull'apprendistato siglato da governo e sindacati (si veda ItaliaOggi del 13 luglio scorso) prevede per la prima volta che anche gli enti pubblici potranno assumere apprendisti, in particolare in applicazione della tipologia di contratti prevista dall'articolo 1, comma 2, lettere b) e c), del testo unico, e cioè l'apprendistato professionalizzante (o contratto di mestiere), nonché l'apprendistato di alta formazione e ricerca. Resta escluso, invece, l'apprendistato per la qualifica professionale.
Per le pubbliche amministrazioni si tratta certo di un'opportunità da cogliere, anche se il percorso per rendere operativo il reclutamento degli apprendisti appare piuttosto complesso.
L'articolo 7, comma 8, del Testo unico intanto demanda a successivi provvedimento la soluzione del principale problema da risolvere nell'esportazione di questa tipologia di lavoro nella pubblica amministrazione: cioè le modalità di assunzione. La norma stabilisce che la regolamentazione del reclutamento e dell'accesso all'impiego nella p.a., sarà definita da un decreto del presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro perla pubblica amministrazione e l'innovazione e del ministro del lavoro e delle politiche sociali di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze, sentite le parti sociali e la Conferenza unificata, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
Verosimilmente, non si potrà fare a meno di condizionare il reclutamento ad un concorso pubblico, come impone l'articolo 97, comma 3, della Costituzione, come già del resto avviene per l'assunzione mediante contratto di formazione e lavoro. A maggior ragione l'assunzione di apprendisti nella p.a. non potrà prescindere dal concorso: l'articolo 2, comma 1, del Testo unico chiarisce a livello normativo e, dunque, fugando ogni residuo dubbio, che il contratto di apprendistato è a tempo indeterminato, anche se caratterizzato dalla «libera recedibilità» tra le parti. Infatti, l'ultimo periodo del citato articolo 2, comma 1, chiarisce che «se nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato».
Il Dpcm cui rinvia il testo unico potrebbe, tuttavia, non essere sufficiente. Infatti, il testo unico rimette ai contratti collettivi la disciplina di dettaglio dell'apprendistato professionalizzante; specifiche leggi regionali, nonché, per i soli profili che attengono alla formazione, accordi con le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, le università, gli istituti tecnici e professionali e altre istituzioni formative o di ricerca, saranno il presupposto per l'apprendistato di alta formazione e ricerca. È facile constatare come attualmente la contrattazione collettiva dei comparti pubblici non preveda nulla in merito.
In effetti, l'estensione alla p.a. del contratto di apprendistato appare estremamente utile, per provare a rilanciare un ringiovanimento dei ranghi dei dipendenti pubblici: l'età media in questi ultimi anni si è alzata oltre i 47 anni, anche a causa dei vincoli alle assunzioni disposti dalle varie leggi finanziarie.
Non solo. Come tipico contratto a causa mista, l'apprendistato ha una duplice funzione: non solo la regolamentazione del rapporto di lavoro, ma anche una specifica funzione formativa per il lavoratore, cui corrispondono simmetrici oneri organizzativi a carico del datore, da cui discendono alcune specifiche agevolazioni tipiche del negozio. Tra queste, può rivelarsi di particolare interesse per le amministrazioni pubbliche e tanto più per gli enti locali la possibilità espressamente prevista dall'articolo 2, comma 1, lettera c), del Testo unico «di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante, in applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto ovvero, in alternativa, di stabilire la retribuzione dell'apprendista in misura percentuale e in modo graduale alla anzianità di servizio».
Poiché gli enti locali debbono contenere le assunzioni entro il 20% del costo delle cessazioni avvenute l'anno precedente, sul piano finanziario le assunzioni in apprendistato potrebbero rivelarsi convenienti. Naturalmente, però, la sola valutazione del vantaggio finanziario non è sufficiente. La qualità della formazione è altrettanto importante ed occorre che gli enti assicurino un'effettiva ed efficace azione di miglioramento della professionalità degli apprendisti, perché il sistema risponda pienamente e correttamente agli intenti del legislatore (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiù flessibile l'utilizzo delle visite fiscali.
L'uso delle visite mediche di controllo (le c.d. visite fiscali) nei confronti dei dipendenti pubblici assenti per malattia diventa più flessibile, lasciando alle singole amministrazioni maggiore spazio di manovra, ma mantenendo comunque inalterato l'obiettivo di perseguire l'assenteismo. Possono essere così sintetizzate le modifiche apportate dalla manovra correttiva. Appare opportuno che i comuni e gli altri enti locali si diano, attraverso norme regolamentari, criteri di carattere generale per decidere le modalità di utilizzazione di questo strumento.
Sulla base delle disposizioni precedentemente in vigore tutte le PA, anche nel caso di assenze per malattia di un solo giorno, erano obbligate a richiedere le visite fiscali. Solo in casi eccezionali, quali ad esempio il ricovero in una struttura ospedaliera, non sussisteva tale vincolo. Il che si è dimostrato molto oneroso, visto che il costo delle visite fiscali è stato posto dalla Corte costituzionale a carico delle singole amministrazioni. E molto spesso si è rilevato inutile, visto che in molte realtà a seguito delle numerose richieste le visite fiscali non possono essere effettuate, quanto meno in tempi utili.
Con le nuove disposizioni, le amministrazioni dovranno decidere il ricorso alle visite mediche di controllo sulla base dei seguenti tre fattori: l'esigenza di contrastare l'assenteismo, la storia dei singoli dipendenti e gli oneri che esse sono chiamate a sostenere. Il modo con cui mettere insieme questi fattori deve essere scelto da ogni singolo ente. Per cui appare opportuno che si approvi un regolamento, assai snello, con cui dettare i principi di carattere generale a cui fare riferimento. Ad esempio, se un dipendente non si è mai assentato per malattia negli ultimi 10 anni, è assai probabile che il suo malessere corrisponda ad una condizione di effettiva patologia; se tra l'assenza e la malattia di cui in modo certo il dipendente è affetto vi è un nesso immediato, può essere inutile richiedere la visita.
Ed ancora, nell'ambito delle risorse disponibili, si possono dare delle priorità. Ed inoltre, si può rimettere al dirigente competente una valutazione discrezionale nei casi in cui vi siano dei dubbi sulla effettività della malattia. Peraltro, in questa sede è bene decidere se il dirigente competente è uno solo nell'intero ente, nel qual caso non può che essere quello del personale, o se la competenza è attribuita a tutti i dirigenti o se vi è una decisione da assumere con il concorso del dirigente del settore e di quello preposto alla gestione delle risorse umane.
Il legislatore ha inoltre stabilito che le visite fiscali debbano necessariamente essere richieste, anche nel caso di assenze per una sola giornata, quando la malattia segue o precede immediatamente una giornata o un periodo non lavorativo. Il riferimento va al venerdì ed al lunedì, ai giorni immediatamente precedenti o seguenti le ferie, ai giorni in cui si può fare ponte. Questa disposizione sembra quanto mai opportuna visto che l'esperienza e i dati ci dicono che in queste giornate si registrano picchi di assenze per malattia. Per cui le singole amministrazioni non hanno in questa materia alcun margine di autonomia ed il mancato rispetto della prescrizione determina l'insorgere di responsabilità in capo al dirigente competente.
Il provvedimento interviene anche sulle cd fasce di reperibilità, cioè le ore nelle quali i dipendenti assenti per malattia devono necessariamente essere presenti nel proprio domicilio per le eventuali visite di controllo. Si conferma che la loro durata giornaliera viene fissata dal ministro della pubblica amministrazione e della Innovazione con un proprio decreto. Si stabilisce, norma che per il personale degli enti locali era già presente nel Ccnl, che l'eventuale assenza dal proprio domicilio durante tali ore deve essere preventivamente comunicata all'ente. Questa mancata comunicazione deve necessariamente essere sanzionata in via disciplinare.
Nel ricordare la necessità che il dipendente fornisca comunque idonea giustificazione, la stessa può essere costituita dalla produzione della certificazione di essersi recati a una visita medica o di essere stati sottoposti ad un esame clinico, diagnostico ecc. (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: A casa per inidoneità fisica. E in caso di pericolo scatterà la sospensione. Lo prevede lo schema di dpr attuativo della riforma del pubblico impiego.
Dipendenti pubblici, l'inidoneità psicofisica assoluta fa scattare il licenziamento. Inoltre, in presenza di comportamenti gravi e ripetuti del dipendente statale (ovvero in presenza di condizioni fisiche critiche), quando ci sia il fondato motivo che tali fattispecie possano generare pericolo per sé, per gli altri lavoratori o per l'utenza, la pubblica amministrazione può disporre la sua sospensione cautelare dal servizio.
Queste alcune delle disposizioni contenute nello schema di dpr, approvato dal Consiglio dei Ministri lo scorso 7 luglio, attuativo delle disposizioni ex articolo 55-octies del dlgs 165/2011 (riforma del pubblico impiego).
Le disposizioni si applicano ai dipendenti, anche con qualifica dirigenziale, delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, degli enti di ricerca e delle università, nonché al personale delle Agenzie fiscali.
Restano escluse le categorie del personale cosiddetto non contrattualizzato (es. prefetti, professori universitari, magistrati).
L'iter. L'iniziativa per avviare la procedura per l'accertamento dell'inidoneità psicofisica permanente spetta all'amministrazione ovvero al dipendente. L'inidoneità può essere assoluta, nel caso di dipendente che a causa di infermità o di difetto fisico o mentale «si trovi nell'assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa». È invece relativa, nel caso di dipendente che, per le predette cause, non può svolgere alcune o tutte le mansioni che sono proprie dell'area, categoria o qualifica posseduta.
La p.a., precisa l'art. 3, deve avviare «d'ufficio» l'iter per l'accertamento dell'inidoneità psicofisica del dipendente, quando si protragga l'assenza per malattia del dipendente, oltre il primo periodo previsto dal Ccnl quale conservazione del posto, quando si è in presenza di disturbi gravi, evidenti e ripetuti che «facciano fondatamente presumere l'esistenza dell'inidoneità permanente o relativa», ovvero in presenza di condizioni fisiche che facciano presumere l'inidoneità fisica permanente assoluta o relativa dal servizio.
Nel primo dei casi evidenziati, l'amministrazione, prima di concedere l'ulteriore periodo di malattia al dipendente, procede all'accertamento delle condizioni di salute dello stesso, per il tramite delle commissioni mediche presso le Asp. Come detto, in presenza di condotte gravi che possano essere nocive allo stesso dipendente, ai colleghi o all'utenza, l'amministrazione può disporre la sospensione dal servizio sino a quando il dipendente non si sottoporrà alla visita medica. Se il dipendente «salterà» la visita medica per ben due volte, l'amministrazione ha facoltà di risolvere il rapporto di lavoro.
Il dipendente sottoposto all'iter di accertamento per la verifica di comportamenti gravi o in presenza di condizioni fisiche nocive, spetta il trattamento economico previsto in caso di assenza per malattia. Al dipendente sospeso per mancata presentazione alla (prima) visita medica di idoneità spetta il trattamento economico previsto per chi è sottoposto a sospensione cautelare per procedimento penale (il trattamento meglio noto come «assegno alimentare»).
Le conseguenze. Se viene accertata l'inidoneità permanente relativa alle mansioni del profilo assegnato al dipendente, l'amministrazione dovrà attivarsi per «rinquadrarlo» in mansioni equivalenti, ovvero in altro profilo professionale, assicurando un percorso di riqualificazione. Potrà eventualmente assegnarlo anche a mansioni inferiori, assicurando al dipendente il trattamento economico dell'area e fascia di provenienza, mediante la corresponsione di un assegno ad personam. Ma se non sarà possibile collocare in alcun modo il dipendente, questi sarà messo in «soprannumero», rendendo indisponibile il relativo posto.
La p.a. potrà anche avviare una consultazione con altre amministrazioni nell'ambito territoriale della provincia, ai fini della ricollocazione del dipendente interessato. Nel caso di dirigenti, l'amministrazione dovrà trovare altro incarico dirigenziale e, nel caso di indisponibilità di posti, collocarli a disposizione nei ruoli, senza incarico. Tuttavia, se il dipendente viene riconosciuto inidoneo assoluto al servizio, l'amministrazione, previa comunicazione, risolve il rapporto di lavoro e corrisponde, se dovuta, l'indennità di preavviso (articolo ItaliaOggi del 14.07.2011 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTIIn tema di gare pubbliche, nel caso di contrasto tra il bando e la lettera di invito, prevale il primo, quale lex specialis della selezione concorsuale, non modificabile mediante lettera d'invito.
Osserva il Collegio che la lettera di invito contiene una disciplina dei requisiti di ammissione alla procedura più restrittiva di quella prevista dal bando, o meglio dalle sue norme integrative.
Deve essere poi osservato che la stazione appaltante non propone alcuna giustificazione del suddetto contrasto.
Torva quindi applicazione il principio, affermato da Cons. Stato, V, 29.03.2004, n. 1660, secondo cui in tema di gare pubbliche, nel caso di contrasto tra il bando e la lettera di invito, prevale il primo, quale lex specialis della selezione concorsuale, non modificabile mediante lettera d'invito (nello stesso senso C.G.A., 18.05.2005, n. 349, Cons. Stato, II, 07.03.2001, n. 149/2001) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 14.07.2011 n. 4278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le spese contrattuali gravano sull’affidatario. La terminologia, anche generica di contraente, utilizzata nel r.d. del 1924 non è dirimente nel senso di ritenere che esse possano essere pretese solo dopo la stipulazione del contratto; anzi, la natura stesse di tali spese (imposte, bolli, ecc.) ne implica una contestualità/anteriorità con la stipulazione. D’altro canto l’art. 139 del d.p.r. 207/2010 chiarisce che le spese di contratto sono a carico dell’"affidatario”.
La vigente normativa preclude la stipulazione del contratto in ipotesi di mancanza attuale di correntezza contributiva, sicché la stazione appaltante correttamente ha preso atto dell’impossibilità di stipulare il contratto, unitamente alla circostanza correttamente già contestata, revocando l’affidamento con determinazione per tale profilo vincolata.

E’ pacifico che le spese contrattuali gravino sull’affidatario. La terminologia, anche generica di contraente, utilizzata nel r.d. del 1924 non è dirimente nel senso di ritenere che esse possano essere pretese solo dopo la stipulazione del contratto; anzi la natura stesse di tali spese (imposte, bolli, ecc.) ne implica una contestualità/anteriorità con la stipulazione. D’altro canto l’art. 139 del d.p.r. 207/2010 chiarisce che le spese di contratto sono a carico dell’"affidatario” (in tal caso quindi espressamente utilizzando una qualificazione che esclude l’intervenuta stipulazione del contratto).
La ricorrente deduce di avere eccepito in compensazione crediti derivanti dall’anticipata esecuzione dei lavori. Poiché per altro la stessa ricorrente dichiara che trattavasi di crediti che sarebbero emersi da un sal non ancora emesso, come eccepito dall’amministrazione, il credito eccepito in compensazione non era né liquido né esigibile sicché alcun onere dell’amministrazione vi era di considerarlo.
Né pare corretta la censura di “sproporzione” poiché rilevante è non tanto l’importo in contestazione quanto l’ostacolo che la condotta della ricorrente ha ingiustificatamente frapposto alla stipulazione del contratto; inoltre, a contrario, proprio l’indisponibilità a versare una somma non rilevante e comunque presupposta per la stipulazione del contratto poneva la vicenda contrattuale in inevitabile fase di stallo e risultava sintomatica di non solvibilità dell’impresa.
A ciò si aggiunga che, nelle more del procedimento di revoca, è emersa una inadempienza contributiva della ricorrente (per altro la seconda, essendone emersa una prima, poi sanata, a ridosso dell’aggiudicazione).
Sul punto occorre precisare che trova applicazione non solo l’art. 38 co. 2 lett. i), come sostenuto in ricorso, bensì l’art. 38 co. 3, quanto al rapporto tra correntezza contributiva e stipulazione del contratto; detto comma oltre alla verifica delle dichiarazioni rese in sede di partecipazione, tra cui quella di cui all’art. 38 lett. i), ai fini di una eventuale esclusione, per quanto in specifico riguarda l’”affidatario” e quindi la stipulazione del contratto, rinvia all’art. 2 del d.l. n. 210/2002 il quale recita: “Le imprese che risultano affidatarie di un appalto pubblico sono tenute a presentare alla stazione appaltante la certificazione relativa alla regolarità contributiva a pena di revoca dell'affidamento”.
Si ritiene pertanto che la vigente normativa precluda la stipulazione del contratto in ipotesi di mancanza attuale di correntezza contributiva, sicché la stazione appaltante correttamente ha preso atto dell’impossibilità di stipulare il contratto, unitamente alla circostanza correttamente già contestata, revocando l’affidamento con determinazione per tale profilo vincolata.
Il regolamento del codice appalti prevede poi la verifica di gravità, con riscontro di almeno due durc negativi, nei confronti dell’appaltatore già firmatario del contratto; analoga previsione non è richiamata per quanto concerne le irregolarità riscontrate al momento della stipulazione del contratto (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 14.07.2011 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANel caso di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede contenziosa. Dato che, l’edificazione potrebbe, ad esempio, essere anche abusiva, il termine decadenziale per l'impugnazione decorre solo dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità o delle violazioni urbanistiche; o dal contenuto specifico della concessione; ovvero comunque del progetto edilizio.
Nel caso di costruzione da parte del vicino, la conoscenza di una situazione potenzialmente lesiva non obbliga il titolare dell'interesse legittimo oppositivo ad attivarsi immediatamente in sede contenziosa.
Dato che, l’edificazione potrebbe, ad esempio, essere anche abusiva, il termine decadenziale per l'impugnazione decorre solo dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità o delle violazioni urbanistiche; o dal contenuto specifico della concessione; ovvero comunque del progetto edilizio (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.07.2011 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di autorimesse e parcheggi sulla base del presupposto normativo della disciplina dell’art. 9, 1° co., della l. 122/1989, è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza.
In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell’originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un’autorimessa, non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal PRG, anche per quanto concerne quindi il pagamento dei contributi concessori.

La norma dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, che consente di realizzare gratuitamente “nel sottosuolo” parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, è una norma che ponendosi in deroga “…agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti…” è di stretta interpretazione per cui deve trovare rigorosa applicazione solo nelle fattispecie in essa espressamente previsti.
Al riguardo la giurisprudenza unanime ha sempre affermato che la realizzazione di autorimesse e parcheggi sulla base del presupposto normativo della disciplina dell’art. 9, 1° co., della l. 122/1989, è condizionata dal fatto che questi siano realizzati nel sottosuolo per l’intera altezza.
In altre parole, la deroga per la realizzazione di autorimesse e parcheggi prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi da destinare a pertinenza di singole unità immobiliari, siano totalmente al di sotto dell’originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale condizione, la realizzazione di un’autorimessa, non può dirsi realizzata nel sottosuolo, per cui in tali casi si applica la disciplina urbanistica dettata per le ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal PRG, anche per quanto concerne quindi il pagamento dei contributi concessori (cfr. Consiglio Stato , sez. IV, 27.11.2010, n. 8260; Consiglio Stato, sez. IV, 23.02.2009, n. 1070).
In conseguenza, vi è un regime di sostanziale alternatività tra la fattispecie di carattere eccezionale dell’art. 9 e la ordinaria disciplina urbanistica in materie di autorimesse dei singoli Comuni.
Nel caso in esame, deve rilevarsi che, risultando un riporto di terra nel limite di 1 mt., ne consegue che l’autorimessa non risulta integralmente realizzata “nel sottosuolo”, ma è solamente “seminterrata
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.07.2011 n. 4234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAQualora un atto amministrativo a carattere generale sia sottoposto a plurime forme di pubblicità, la decorrenza del termine di impugnazione deve essere ancorata alla scadenza dell’ultima forma di pubblicità prevista dalla legge o in base alla legge.
- L’interesse all’impugnazione da parte dei destinatari delle scelte urbanistiche, proprio per evitare di addivenire ad una legitimatio generalis, richiede che le “determinazioni lesive” fondanti siffatto interesse siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di VAS.
- Sono inammissibili le censure concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente, sul presupposto che le prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, rimanendo salva la possibilità eccezionale di proporre impugnativa solo quando la nuova destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente, incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente. Si rammenti l’importanza dei limiti che si frappongono alla configurabilità dell’interesse c.d. strumentale all’impugnazione di uno strumento urbanistico, nel senso che tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire.
- La destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni. In sostanza, le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono soltanto quelle:
a) del superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) della lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione e accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree;
c) delle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
d) dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo.

Come già chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, IV, 31.05.2011 n. 3297; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.1988, n. 3; TAR Lombardia, Milano, II, 27.01.2010 n. 187), qualora un atto amministrativo a carattere generale sia sottoposto a plurime forme di pubblicità, la decorrenza del termine di impugnazione deve essere ancorata alla scadenza dell’ultima forma di pubblicità prevista dalla legge o in base alla legge (art. 41, co. 2° c.p.a.).
Ebbene, con particolare riguardo alla Regione Lombardia, la L.R. 11-3-2005 n. 12 (Legge per il governo del territorio) all’art. 13 (Approvazione degli atti costituenti il piano di governo del territorio), ha previsto che (comma 11°): <<Gli atti di PGT acquistano efficacia con la pubblicazione dell'avviso della loro approvazione definitiva sul Bollettino Ufficiale della Regione, da effettuarsi a cura del comune…>>.
Ne consegue che, quando –come nel caso che qui occupa- la deliberazione di approvazione del P.G.T. sia stata dapprima pubblicata sull’Albo Pretorio e solo in seguito assoggettata alla pubblicazione sul B.U.R., la presunzione legale di conoscenza non avrà luogo sino a che non si sia perfezionata l'intera fase della pubblicità legale.
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Come rammentato anche di recente dalla giurisprudenza amministrativa, l’interesse all’impugnazione da parte dei destinatari delle scelte urbanistiche, proprio per evitare di addivenire ad una legitimatio generalis, richiede che le “determinazioni lesive” fondanti siffatto interesse siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di VAS (così Consiglio di Stato, IV, 12.01.2011 n. 133).
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È utile rammentare il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui sono inammissibili le censure concernenti la disciplina urbanistica di aree estranee a quelle di proprietà del ricorrente, sul presupposto che le prescrizioni dello strumento urbanistico vanno considerate scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale, rimanendo salva la possibilità eccezionale di proporre impugnativa solo quando la nuova destinazione urbanistica, pur concernendo un'area non appartenente al ricorrente, incida direttamente sul godimento o sul valore di mercato dell'area stessa, o comunque su interessi propri e specifici del medesimo esponente (cfr. Cons. Stato IV, 24.12.2007 n. 6619; Cons. Stato, sez. IV, 10.06.2004, n. 3755; sez. IV, 05.09.2003, n. 4980).
Ebbene, nel caso in esame non sussiste affatto la prova di tale diretta incidenza della nuova destinazione urbanistica delle aree agricole sull’indice edificatorio dell’area a destinazione produttiva dell’istante.
Per cogliere al meglio tale aspetto, è sufficiente richiamare, anche qui, l’orientamento espresso dalla più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale ha sottolineato l’importanza dei limiti che si frappongono alla configurabilità dell’interesse c.d. strumentale all’impugnazione di uno strumento urbanistico, nel senso che: <<tale impugnazione deve pur sempre ancorarsi a specifici vizi ravvisati con riferimento alle determinazioni adottate dall’Amministrazione in ordine al regime dei suoli in proprietà del ricorrente, e non può fondarsi sul generico interesse a una migliore pianificazione del proprio suolo, che in quanto tale non si differenzia dall’eguale interesse che quisque de populo potrebbe nutrire>> (cfr. Consiglio di Stato, IV, 12.01.2011 n. 133; Cons. Stato, sez. IV, 13.07.2010, nr. 4546).
In altri termini, sempre a mente del Supremo Consesso: <<l’utilità rappresentata dal possibile vantaggio che astrattamente il ricorrente potrebbe ottenere per effetto della riedizione dell’attività amministrativa non è ex se indicativa della titolarità di una posizione di interesse giuridicamente qualificata e differenziata, idonea a legittimare la tutela giurisdizionale>> (cfr. decisione n. 133/2011 cit.).
Né, sempre secondo la cit. decisione, tale utilità potrebbe essere ravvisata nella “reviviscenza” del previgente e più favorevole P.R.G., che si avrebbe per effetto dell’annullamento giurisdizionale del P.G.T., posto che tale utilità, <<oltre a essere anch’essa non indicativa dell’esistenza di un interesse giuridicamente tutelabile, quand’anche effettivamente sussistente sarebbe comunque provvisoria, essendo jus receptum che l’effetto immediato dell’annullamento di uno strumento urbanistico consiste nel dovere dell’Amministrazione di riesercitare la propria potestà di pianificazione del territorio>> (cfr. dec. n. 133/2011 cit., nonché: Cons. Stato, sez. IV, 07.06.2004, nr. 3563; Cons. Stato, sez. V, 23.04.2001, nr. 2415).
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È oltremodo pacifico che anche la destinazione data alle singole aree non necessiti di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell’impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
In sostanza, le evenienze che giustificano una più incisiva e singolare motivazione degli strumenti urbanistici generali sono soltanto quelle:
a) del superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) della lesione dell’affidamento qualificato del privato, derivante da convenzioni di lottizzazione e accordi di diritto privato intercorsi fra il Comune e i proprietari delle aree;
c) delle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di concessioni edilizie o di silenzio rifiuto su una domanda di concessione e, infine,
d) dalla modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2010, nr. 7492; id., 04.05.2010, nr. 2545; id., 28.09.2009, nr. 5834; id., 21.06.2007, nr. 3400)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.07.2011 n. 1882 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARISentenza cds. Azione popolare a metà.
L'azione popolare ex art. 9 dlgs n. 267 del 2000 (Tuel) ha natura sostitutiva o presupposto necessario per l'azione va rinvenuto soltanto nell'omissione, da parte dell'ente, dell'esercizio delle proprie azioni, ma non è esperibile al fine di rimuovere gli errori e le illegittimità da questo commessi.

Lo ha chiarito il Consiglio di stato, Sez. IV con la sentenza 09.07.2011 n. 4130.
Nel caso in esame la società Acegas–Aps s.p.a. aveva impugnato la sentenza con la quale il Tar Friuli–Venezia Giulia aveva annullato, a seguito di azione popolare, la concessione edilizia rilasciata dal Comune di Trieste in favore della Ericsson per la realizzazione di una stazione radio.
La sentenza appellata fondava tale annullamento sulla circostanza che «la concessione edilizia impugnata è stata rilasciata in assenza del consenso dell'ente proprietario del suolo», ente identificato nel Comune di Trieste e non nell'Acegas.
Contro tale decisione, l'Acegas aveva proposto appello lamentando che non era possibile per i ricorrenti agire in nome e per conto del Comune, ai sensi dell'art. 9 dlgs n. 267/2000, «dal momento che tale ente agirebbe contro se stesso, in quanto emanante il provvedimento impugnato».
Il Consiglio di stato accoglie l'appello.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, infatti, l'azione popolare costituisce uno dei casi in cui, derogando all'art. 81 cod. proc. civ., può aversi un legittimo fenomeno di sostituzione processuale.
La disposizione, di stretta interpretazione, si limita ad attribuire una «speciale» legittimazione attiva, la quale, pur non fondata sulla titolarità propria e diretta di una posizione giuridica, costituisce tuttavia titolo autonomo -fondato solo sulla previsione di legge e sul presupposto (essere cittadino elettore) da questa previsto- per adire il giudice, sebbene la titolarità delle posizioni giuridiche che si intendono tutelare sia dell'ente locale.
Non è, invece, possibile che l'elettore agisca in sostituzione dell'ente (da lui considerato inadempiente), contro atti adottati dall'ente medesimo, dal momento che in tali casi quest'ultimo, qualora sussistano i presupposti, dovrà agire in autotutela, e non essendo l'azione ex art. 9 di tipo «correttivo» (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011).

URBANISTICA: La ripubblicazione del piano regolatore generale non è necessaria se le modifiche sono "obbligatorie".
Osserva il Collegio che la giurisprudenza di questa Sezione ha avuto modo di precisare, con avviso del tutto condivisibile, che la ripubblicazione del piano regolatore generale non è necessaria se le modifiche sono “obbligatorie” e ciò perché è proprio il carattere dovuto dell’intervento dell’Autorità competente all’approvazione dello strumento urbanistico che rende superfluo l’apporto collaborativo del privato, superato e ricompreso nelle scelte pianificatorie operate in sede regionale e comunale (cfr. ad es. C.d.S., sez. IV, n. 1516 del 2008; 30.09.2002, n. 4984; 05.09.2003, nn. 2977 e 4984) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2011 n. 4074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: VIA - Opera pubblica di rilevanza statale o regionale - Individuazione dell’ente competente in materia di VIA - Disciplina previgente al T.U.A. - Criterio ontologico strutturale.
Per stabilire, ai fini della individuazione dell’ente competente in materia di VIA, se una determinata opera pubblica sia di rilevanza regionale o statale, occorre verificare se tale opera incida o meno su un perimetro circoscritto del territorio.
Nella disciplina previgente al testo unico (o codice) ambientale di cui al d.lgs. 152 del 2006 -che oggi rinvia agli allegati ai fini della ripartizione di competenze tra Stato e Regioni (articolo 7 che rinvia agli allegati alla parte seconda)- sia la normativa nazionale (art. 1 DPCM 10.08.1988, n. 377) che quella regionale ligure, facevano riferimento ad un criterio ontologico strutturale e non già funzionale per stabilire la competenza sulla VIA.
VIA - Progettazione preliminare e definitiva - Opera pubblica approvata con progetto preliminare - Sensibile variazione in sede di approvazione del progetto definitivo - Nuova sottoposizione a VIA - D.lgs. n. 113/2007 - Art. 185 d.lgs. n. 163/2006.
Tra i due elaborati di progettazione preliminare e definitiva è ragionevole che emerga una differenza nella parte in cui la progettazione definitiva raccoglie i suggerimenti emersi nel corso della conferenza di servizi; si tratta di una integrazione che la normativa (artt. 18 e 25 D.P.R. 554 del 1999) e le fasi dei diversi livelli di progetto considerano fisiologica. Infatti, non avrebbe avuto significato la previsione di distinti momenti e livelli progettuali, ove fosse stato fin da subito prevedere tutta la conformazione possibile dell’opera.
La normativa successiva, in piena aderenza alla normativa comunitaria, ha previsto (con modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 113 del 31.07.2007 all’art. 185 codice dei contratti pubblici) che l’opera pubblica approvata con progetto preliminare debba essere nuovamente sottoposta a valutazione ambientale, ove vi sia stata in sede di approvazione del progetto definitivo una sensibile variazione rispetto alla valutazione effettuata al momento del progetto preliminare e vi sia stata una significativa modificazione dell’impatto globale del progetto sull’ambiente, in conformità con le direttive in materia (85/337CE e 97/11/CE) che prevede che la valutazione ambientale debba coincidere con l’atto che autorizza alla realizzazione dell’intervento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.07.2011 n. 4072 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: E’ consentito effettuare la richiesta di documentazione dei requisiti da parte dei concorrenti sia prima che dopo l’apertura delle buste.
E' sicuramente illegittimo il “modus procedendi” della commissione giudicatrice di un pubblico concorso che, dopo aver aperto le buste contenenti le domande di partecipazione, recanti l'indicazione dei nominativi e dei titoli in possesso dei partecipanti, proceda alla determinazione dei criteri di valutazione dei titoli da essi posseduti, atteso che la semplice apertura delle buste dà luogo alla conoscenza potenziale del contenuto e, quindi, all'oggettiva ed astratta possibilità che possa essere influenzata la fissazione dei criteri, con violazione della “par condicio”.

Osserva la Sezione che è sicuramente illegittimo il “modus procedendi” della commissione giudicatrice di un pubblico concorso che, dopo aver aperto le buste contenenti le domande di partecipazione, recanti l'indicazione dei nominativi e dei titoli in possesso dei partecipanti, proceda alla determinazione dei criteri di valutazione dei titoli da essi posseduti, atteso che la semplice apertura delle buste dà luogo alla conoscenza potenziale del contenuto e, quindi, all'oggettiva ed astratta possibilità che possa essere influenzata la fissazione dei criteri, con violazione della “par condicio”.
Eguale rigore non può, tuttavia, adottarsi in relazione alla fattispecie per cui è causa, atteso che la possibilità (a seguito della conoscenza della entità delle offerte, in pendenza del procedimento di verifica dei requisiti) di influenzare e determinare le sorti dell'aggiudicazione dell'appalto in dipendenza della risposta fornita o meno alla richiesta di documentazione dei requisiti da parte dei concorrenti sorteggiati appare astratta e niente affatto oggettiva.
Peraltro l’art. 48 del d.lgs. n. 163/2006 prevede, al comma 1, che le stazioni appaltanti prima di procedere all'apertura delle buste delle offerte presentate, richiedono ad un numero di offerenti non inferiore al 10 per cento delle offerte presentate scelti con sorteggio pubblico, di comprovare, entro dieci giorni dalla data della richiesta medesima, il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa, eventualmente richiesti nel bando di gara, presentando la documentazione indicata in detto bando o nella lettera di invito. Al comma 2, prevede che la richiesta di cui al comma 1 è, altresì, inoltrata, entro dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, anche all'aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi fra i concorrenti sorteggiati.
E’ quindi consentito, in base a dette disposizioni, effettuare detta richiesta sia prima che dopo l’apertura delle buste, il che esclude che il legislatore abbia voluto, con la disposizione in esame, impedire che possano essere influenzate e determinate le sorti dell'aggiudicazione dell'appalto in dipendenza della risposta fornita alla richiesta di documentazione.
Aggiungasi che deve concordarsi con il Giudice di prime cure che non è stato comunque provato che l’inversione de qua abbia compromesso la trasparenza e l’imparzialità della procedura, avendo formulato al riguardo l’appellante solo mere ipotesi ed avendo avanzato solo il “sospetto” che la conoscenza dei ribassi abbia potuto condizionare il seggio di gara, influenzandone le determinazioni in merito all’ammissione o all’esclusione delle imprese sorteggiate per la verifica.
Peraltro la stazione appaltante era tenuta a verificare secondo un criterio oggettivo i requisiti effettivamente posseduti dai partecipanti, sorteggiati ai fini del controllo, il che impediva apprezzamenti discrezionale circa il possesso degli stessi, che difficilmente avrebbero potuto essere falsati da essi partecipanti al surrettizio fine di falsare gli esiti della gara.
In ogni caso, la stazione appaltante ha asserito al riguardo che la verifica dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa era avvenuta mediante acquisizione dei dati del casellario delle imprese istituito presso l’Autorità di Vigilanza dei Lavori Pubblici con l’accertamento della sussistenza di eventuali annotazioni a carico delle imprese interessate ostative alla permanenza in gara, e che solo dopo tale verifica aveva proceduto all’apertura delle offerte economiche
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2011 n. 4053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 38, d.lgs. n. 163/2006 indica una differenza tra la regolarità contributiva richiesta al partecipante alla gara ai sensi del comma 1, lettera i), di detto articolo, e la regolarità contributiva richiesta all'aggiudicatario al fine della stipula del contratto.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta norma, può essere escluso solo in presenza di gravi violazioni, definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi, o ancora non definitive, non sono causa di esclusione.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta norma, può essere escluso solo in presenza di gravi violazioni, definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi, o ancora non definitive, non sono causa di esclusione. Invece, al fine della stipula del contratto, l'affidatario deve presentare la certificazione di regolarità contributiva ai sensi dell'art. 2, d.l. n. 210/2002.
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La disposizione di cui all'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, deve essere interpretata nel senso che il concorrente, in presenza di un bando di gara che richieda genericamente una sua dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui alla citata lett. i), possa essere escluso soltanto qualora la stazione appaltante sia oggettivamente certa che l'eventuale debito contributivo dichiarato sia grave e definitivamente accertato, e cioè non esistano in atti di gara elementi che possano condurre a diversa conclusione, autonomamente dalle risultanze del D.U.R.C., mediante accertamenti ulteriori.

Osserva il Collegio che l'art. 38, d.lgs. n. 163/2006, come correttamente dedotto con l’atto di appello, indica una differenza tra la regolarità contributiva richiesta al partecipante alla gara ai sensi del comma 1, lettera i), di detto articolo, e la regolarità contributiva richiesta all'aggiudicatario al fine della stipula del contratto.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta norma, può essere escluso solo in presenza di gravi violazioni, definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi, o ancora non definitive, non sono causa di esclusione.
Invece, al fine della stipula del contratto, l'affidatario deve presentare la certificazione di regolarità contributiva ai sensi dell'art. 2, d.l. n. 210/2002 (ex art. 38, co. 3, d.lgs. n. 163/2006, che prevede che “resta fermo, per l'affidatario, l'obbligo di presentare la certificazione di regolarità contributiva di cui all'articolo 2, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210, convertito dalla legge 22.11.2002, n. 266 e di cui all'articolo 3, comma 8, del decreto legislativo 14.08.1996, n. 494 e successive modificazioni e integrazioni”); detto art. 2 del d.l. n. 210/2002, a sua volta, prevede il rilascio del D.U.R.C., che attesta contemporaneamente la regolarità contributiva quanto agli obblighi nei confronti dell'I.N.P.S., dell'I.N.A.I.L. e delle Casse edili.
La disposizione di cui all'art. 38, comma 1, lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, deve essere interpretata nel senso che il concorrente, in presenza di un bando di gara che richieda genericamente una sua dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui alla citata lett. i), possa essere escluso soltanto qualora la stazione appaltante sia oggettivamente certa che l'eventuale debito contributivo dichiarato sia grave e definitivamente accertato, e cioè non esistano in atti di gara elementi che possano condurre a diversa conclusione, autonomamente dalle risultanze del D.U.R.C., mediante accertamenti ulteriori (Consiglio Stato, sez. V, 11.01.2011, n. 83).
Nel caso che occupa, tuttavia, la lettera di invito, sullo specifico punto non impugnata, prevedeva che la stazione appaltante avrebbe dovuto procedere alla verifica d’ufficio, ai fini degli accertamenti relativi alle cause di esclusione “ai sensi dell’art. 38, comma 3, D.Lgs. 163/2006” nei confronti dei soggetti sorteggiati, cioè sulla base della certificazione di regolarità contributiva di cui all'articolo 2, del d.l. n. 210/2002.
Non è quindi applicabile alla fattispecie l’orientamento giurisprudenziale per il quale l'art. 38, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 163 del 2006) deve essere interpretato nel senso che il principio dell'autonomia del procedimento di rilascio del D.U.R.C. impone che la stazione appaltante, pur dovendo basarsi sulle certificazioni risultanti da quest'ultimo documento (prendendole come un dato di fatto inoppugnabile), debba altresì valutare, innanzi tutto, se sussistono procedimenti diretti a contestare gli accertamenti degli enti previdenziali riportati nel DURC, o condoni, ed in secondo luogo se la violazione riportata nel DURC, in relazione all'appalto o fornitura in questione o alla consistenza economica della ditta concorrente o ad altre circostanze, risulti o no "grave” (Consiglio Stato, sez. IV, 15.09.2010, n. 6907).
Sulla base della clausola della lettera di invito, legittimamente, nel caso che occupa, la stazione appaltante ha fatto riferimento alle risultanze dei certificati di regolarità contributiva in questione, senza procedere ad ulteriori indagini.
Aggiungasi che, alla stregua di quanto chiarito con il d.m. 24.10.2007 del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, in attuazione dell'art. 1, co. 1176, l. n. 296/2006, si può affermare che il D.U.R.C. attesta solo le irregolarità contributive “definitivamente accertate”, e solo quelle che superano una “soglia di gravità”, fissata autonomamente dal citato d.m., con la conseguenza che la declaratoria di non regolarità contributiva è grave indizio, ai fini dell'art. 38, co. 1, lett. i), codice appalti, che sia stata commessa una violazione grave e definitivamente accertata.
La censura in esame non può quindi essere positivamente valutata, considerato altresì sia che al c.d. “principio sostanzialistico” non è possibile ricorrere quando una disposizione della "lex specialis", non impugnata, preveda espressamente una clausola di esclusione particolare rispetto alla normativa generale e sia che non risulta violato l’art. 29 della Direttiva del Consiglio 18.06.1992 92/50/CEE, richiamato dalla sentenza della Corte di Giustizia CE n. C-226/04 del 2006, perché (anche se il legislatore nazionale non ha previsto) la regolarizzazione successiva dell’inadempimento, tuttavia la stazione appaltante si è conformata a principi di trasparenza e par condicio, definendo in anticipo, con la clausola della “lex specialis” suddetta, le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione della gara de qua (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2011 n. 4053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sebbene la legge non qualifichi come perentorio il termine per la produzione della documentazione richiesta a comprova dei requisiti ai sensi dell'art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, l'orientamento prevalente ritiene che il termine in questione avrebbe natura perentoria perché, pur non essendo qualificato tale dalla lettera della norma, la perentorietà sarebbe insita nella automaticità della comminatoria prevista per la sua inosservanza.
Osserva il Collegio che, sebbene la legge non qualifichi come perentorio il termine per la produzione della documentazione richiesta a comprova dei requisiti ai sensi dell'art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, l'orientamento prevalente ritiene che il termine in questione avrebbe natura perentoria perché, pur non essendo qualificato tale dalla lettera della norma, la perentorietà sarebbe insita nella automaticità della comminatoria prevista per la sua inosservanza.
In conformità al principio generale per il quale il termine è perentorio solo ove sia espressamente qualificato come tale, o non sia stata apposta la specifica indicazione delle relative conseguenze, il seguente, comma 2, del citato art. 48, prevede, a differenza di quanto stabilito per il controllo a campione previsto dal comma 1 dello stesso articolo, un termine di natura ordinatoria per la presentazione dei documenti comprovanti il possesso dei requisiti di capacità economica-finanziaria e tecnico-organizzativa da parte dell'aggiudicatario provvisorio.
Identiche considerazioni vanno effettuate con riguardo al termine di dieci giorni dalla conclusione delle operazioni di gara, previsto dal comma 2 del ridetto art. 48 per l’inoltro della richiesta di prova del possesso dei requisiti anche all'aggiudicatario e al concorrente che segue in graduatoria, qualora gli stessi non siano compresi fra i concorrenti sorteggiati (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.07.2011 n. 4053 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIAffitto casa. Proprietari alleggeriti della Tia.
Sono illegittime le disposizioni di un regolamento comunale per l'applicazione della Tia nella parte in cui prevedono il pagamento della tariffa da parte dei proprietari nel caso di affitto dell'abitazione per un breve periodo.

Lo ha sancito il TAR Toscana, Sez. II con la sentenza 06.07.2011 n. 1162.
La controversia verte in merito al regolamento del Comune di Prato per l'applicazione della Tariffa di igiene ambientale – disciplinata dall'art. 49, comma 2, del dlgs n. 22/1997 (ed ora dall'art. 238 del dlgs n. 152/2006) nelle parti in cui ha addossato ai proprietari l'obbligo di pagare la tariffa stessa nelle seguenti ipotesi:
a) affitto (locazione) di abitazione per breve periodo, che si esaurisca prima del termine di ventiquattro mesi;
b) affitto (locazione) per utenze non domestiche di durata inferiore a ventiquattro mesi;
c) conduzione di immobile a titolo diverso, come ad es. il comodato, la concessione d'uso, l'usufrutto.
Il Tar per la Toscana ne dichiara l'illegittimità.
Dopo aver ricordato come la Tia rientri nella nozione di «prestazione imposta» di natura patrimoniale di cui all'art. 23 Cost., anche a seguito dell'art. 14, comma 33, del dl n. 78/2010, convertito con legge n. 122/2010, sussistendone i requisiti di coattività e di autoritatività, dispone l'annullamento della disposizione regolamentare.
Nonostante lo scopo sia quello di fronteggiare i fenomeni di diffusa morosità nel pagamento della tariffa, riscontrati in prevalenza a carico di quanti occupano locali per periodi di tempo inferiori a ventiquattro mesi, i giudici riconoscono la violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost..
Più precisamente la norma regolamentare comporterebbe un «illegittimo mutamento del presupposto della tariffa» che non viene più rinvenuto nel possesso o detenzione a qualsiasi titolo dei locali che producono rifiuti urbani, come vuole la legge: esso viene, invece, rinvenuto nella proprietà del bene, anche disgiunta dal possesso o detenzione.
È stata rilevata, infine, la violazione del principio «chi inquina, paga» secondo il quale l'obbligo di pagamento della Tia scaturisce «dall'utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti e dalla potenziale fruizione del servizio di smaltimento» (articolo ItaliaOggi del 15.07.2011).

APPALTI: Nell'ipotesi di costituenda associazione temporanea d'imprese (ATI), la cauzione provvisoria deve essere intestata a tutte le imprese associate.
In tema di contratti pubblici, vige la regola per cui, nel caso di costituenda associazione temporanea d'imprese, la cauzione provvisoria deve essere intestata a tutte le associate, che sono individualmente responsabili delle dichiarazioni rese per la partecipazione alla gara, diversamente configurandosi una carenza di garanzia per la stazione appaltante quante volte l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, ma dalle mandanti; pertanto, il fidejussore deve richiamare la natura collettiva della partecipazione alla gara di più imprese, identificandole singolarmente e contestualmente e deve dichiarare di garantire con la cauzione provvisoria non solo la mancata sottoscrizione del contratto, ma anche ogni altro obbligo derivante dalla partecipazione alla gara, obbligo prettamente solidale nell'ipotesi di partecipazione in r.t.i. e presentazione di un'unica offerta a tale centro di imputazione riconducibile.
Proprio la natura di garanzia per la stazione appaltante e la funzione aggiuntiva di risarcimento "forfetario" del maggior danno pretendibile nei confronti dell'impresa escussa non solo comportano che la responsabilità delle false dichiarazioni è ascrivibile all'intera compagine associanda sotto il profilo della garanzia prestata e della relativa escussione ma anche che non è possibile compensare il maggior danno eventualmente subito dalla stazione appaltante dall'aggiudicazione ad un'offerta potenzialmente più onerosa, come pure lamentato dalla ricorrente (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.07.2011 n. 1146 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: La qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso.
Secondo la giurisprudenza prevalente, e comunque condivisa da questo Collegio, “il terzo ha titolo ad adire il giudice amministrativo quando esista una situazione soggettiva ed oggettiva di stabile collegamento con la zona coinvolta da una costruzione che, se illegittimamente assentita, sia idonea ad arrecare pregiudizio ai valori urbanistici della zona medesima, onde la qualifica giuridica di proprietario di un bene immobile confinante deve di per sé ritenersi idonea a radicare la legittimazione e l'interesse al ricorso, non occorrendo altresì la verifica della concreta lesione di un qualsiasi altro interesse giuridicamente rilevante” (così C.d.S., IV, 29.07.2009, n. 4756; conf., ex multis, IV, 31.05.2007, n. 2849).
Non ritiene dunque il Collegio di discostarsi sul punto dalla precedente decisione della Sezione, per cui “ferma ed incontestata … la legittimazione ad impugnare della ricorrente (derivante dalla vicinitas dei due fondi), il concreto interesse all’impugnazione deriva dal pregiudizio, oggettivamente sussistente -è, peraltro, oggetto della presente causa la ricomprensione o meno del denunciato pregiudizio entro i limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vincolistiche che tutelano la specifica zona- che la costruzione concessionata comporta al paesaggio
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.07.2011 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la decorrenza del termine per l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a terzi, l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera.
Ciò normalmente accade al completamento dei lavori: vi fa peraltro eccezione il caso che venga provata una conoscenza anticipata o si deducano censure di assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso.

Orbene, la precedente sentenza, poi annullata in grado d’appello, si è già occupata dell’eccezione, osservando che “la prova della piena ed effettiva conoscenza della concessione edilizia rilasciata ad un terzo (e, quindi, anche delle corrispondenti autorizzazioni paesaggistiche) –da dimostrarsi in modo rigoroso da chi eccepisce la tardività dell’impugnazione– deve intendersi concretata, in assenza di inequivoci elementi di segno contrario, non con il mero inizio dei lavori (o con l’apposizione delle prescritte insegne), ma solo con la loro ultimazione o, almeno, quando i lavori stessi siano giunti ad uno stato di avanzamento tale che non si possa avere più alcun dubbio in ordine alla consistenza, all’entità e alla reale portata dell’intervento edilizio assentito (giurisprudenza pacifica: cfr., ex pluribus, CdS, VI, 12.02.2007 n. 540)”.
Questo Collegio condivide, in linea di principio, le precedenti considerazioni, ma deve peraltro tenere conto delle ulteriori argomentazioni e degli elementi istruttori introdotti dai controinteressati nella nuova fase del giudizio di I grado.
Anzitutto, invero, è bensì vero che, per la decorrenza del termine per l'impugnazione di una concessione edilizia rilasciata a terzi, l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera.
Ciò normalmente accade al completamento dei lavori: vi fa peraltro eccezione il caso che venga provata una conoscenza anticipata o si deducano censure di assoluta inedificabilità dell'area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell'iniziativa in corso (così, ex multis, C.d.S., IV, 10.12.2007, n. 6342) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.07.2011 n. 1142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il dovere di soccorso ex art. 46 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti) non è esercitabile in sede di offerta pena l'alterazione della par condicio.
Il DUVRI (documento valutazione rischi) presuppone che l'amministrazione abbia valutato l'esistenza di interferenze tecniche con scelta discrezionale.

L'art. 46 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei contratti) ed il relativo dovere di soccorso alle imprese non è invocabile, quando la procedura di gara è prevenuta alla fase di valutazione dell'offerta.
Invero, il perimetro applicativo del citato art. 46 resta circoscritto e contenuto alla fase della prequalificazione, atteso che la norma dispone che la stazione appaltante invita i concorrenti a chiarire il contenuto di dichiarazioni o documenti presentati in sede di offerta ed è doverosamente delimitato temporalmente e confinato alla fase nella quale l'Amministrazione deve ammettere alla gare le imprese.
Viceversa la norma non può trovare applicazione per interpretare, chiarire completare dati afferenti alla successiva fase dell'offerta in senso proprio, pena la violazione della par condicio.
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Il DUVRI presuppone che la stazione appaltante abbia previamente valutato l'esistenza di interferenze tecniche correlate all'espletamento del servizio, rientrando pertanto nella sua discrezionalità tecnica predisporre il Documento già in fase di redazione del contratto d'appalto ovvero rinviarne l'elaborazione una volta prescelto l'aggiudicatario (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 06.07.2011 n. 739 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Le indicazioni fornite dalla stazione appaltante nella modulistica "ufficiale", difformi rispetto alle prescrizioni della lex specialis, non possono pregiudicare la partecipazione alla gara del concorrente.
La circostanza che un concorrente abbia puntualmente seguito le indicazioni fornite dalla medesima stazione appaltante nella modulistica "ufficiale" non può andare in danno del medesimo, se detta modulistica risulta poi non esattamente conforme alle prescrizioni della "lex specialis” di gara; deve prevalere in tal caso, a fronte di una obiettiva incertezza ingenerata dagli atti predisposti dalla stazione appaltante e della buona fede che va riconosciuta al concorrente, il principio del “favor partecipationis”.
La carenza riscontrata non poteva pertanto comportare l'esclusione dalla procedura concorsuale del concorrente interessato (la stazione appaltante,  semmai, avrebbe potuto invitare il concorrente stesso ad integrare la documentazione carente, ferma restando, in caso di aggiudicazione, la verifica dell’effettivo possesso anche dei requisiti di cui si tratta).
Nel caso che occupa la dichiarazione relativa al possesso dei requisiti di cui all’art. 28 del d.P.R. n. 34/2000 era espressamente richiesta dal disciplinare di gara, alla voce riguardante "Modalità di presentazione e criteri di ammissibilità delle offerte", con riguardo ai documenti che dovevano essere contenuti nella busta "A", a pena di esclusione, con specifico riferimento alla ipotesi che il concorrente non fosse in possesso dell'attestato SOA.
Il modello di dichiarazione sostitutiva predisposto dalla stazione appaltante, allegato al disciplinare, e poi effettivamente utilizzato dalle società di cui trattasi, non conteneva invero alcun riferimento alla dichiarazione relativa al possesso dei requisiti ex art. 28 del citato d.P.R. (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 05.07.2011 n. 4029 - link a www.mediagraphic.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La fissazione di limiti di età per l'accesso ai pubblici impieghi è una facoltà riservata alla discrezionalità dell’Amministrazione.
L’art. 3, comma 6, della legge 15.05.1997, n. 127, prevede che la partecipazione a concorsi indetti da pubbliche amministrazioni non è soggetta a limiti di età, salvo deroghe dettate da regolamenti delle singole amministrazioni connesse alla natura del servizio o ad oggettive necessità.
Le ricorrenti con il primo ed il secondo motivo lamentano la violazione di tale norma perché il Comune di Padova avrebbe introdotto un limite d’età per la partecipazione al concorso per l’assunzione a tempo indeterminato di un insegnante di scuola dell’infanzia, senza le elevazioni previste dalla legge, direttamente in un bando, in assenza di una previsione regolamentare e di una motivazione.
L’assunto è privo di fondamento.
Sul punto va premesso che l’art. 48, comma 3, del Dlgs. 18.06.2000, n. 267, e l’art. 35, comma 7, del Dlgs. 30.03.2001, n. 165, demandano alla Giunta dell’ente locale la competenza ad adottare il regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, che comprende anche i requisiti di accesso alle procedure concorsuali.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di Padova ha depositato (cfr. doc. 8 allegato alle difese del Comune) la deliberazione della Giunta comunale n. 2003/0952 dell’01.12.2003, con cui è stato modificato il regolamento dei concorsi relativo al “limite d’età per l’accesso a particolari figure professionali” approvato con deliberazione della Giunta comunale n. 1237 del 17.11.1997.
Nella motivazione è espressamente indicato che “l’amministrazione con atto del consiglio comunale n. 156/1995 aveva già considerato la gravosità di alcuni profili, tra cui l’educatore di asilo nido, nel senso di prevedere il collocamento in profili di corrispondente categoria di area diversa dopo un periodo definito di servizio o al raggiungimento di una individuata età; in applicazione del citato atto è stato richiesto un numero sempre maggiore di cambio di profilo per età anagrafica/anzianità di servizio (infatti al 31.12.2003 il 50% del personale del comparto avrà più di 45 anni)”, e che pertanto viene ritenuto opportuno “in accordo con il dirigente del settore servizi scolastici (cfr. nota 177258 del 10.09.2003) abbassare il limite massimo di età per il reclutamento del personale con profilo di educatore di asilo nido a 40 anni, modificando così l’art. 6-bis del regolamento concorsi”.
Da quanto esposto emerge che, contrariamente a quanto dedotto, la norma invocata risulta rispettata, atteso che la fissazione di limiti di età, anche insuperabili come nel caso di specie (infatti il bando precisa che il limite d’età è comprensivo di ogni elevazione prevista e si prescinde dallo stesso solo per i candidati dipendenti a tempo indeterminato delle pubbliche amministrazioni), per l'accesso ai pubblici impieghi, è una facoltà riservata alla discrezionalità dell’Amministrazione, e non può ritenersi illegittima quando sia motivatamente esercitata con atto regolamentare e venga correlata alla probabilità, statisticamente giustificata, di una duratura conservazione dei requisiti necessari all’ottimale esercizio dell'attività relativa al posto messo a concorso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 30.05.2007, n. 2753; Tar Lazio, Roma, Sez. I-bis. Sez. I, 09.09.2002, n. 1504) (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 04.07.2011 n. 1138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Raggruppamenti temporanei di imprese, fidejussione per tutte.
Nel caso di partecipazione di un costituendo raggruppamento temporaneo di imprese ad una gara di appalto, la polizza fideiussoria, mediante la quale viene costituita la cauzione provvisoria, deve essere intestata non solo alla società capogruppo, ma anche alle mandanti.

La doglianza chiama in causa l'art. 75 d.lgs. n. 163/2006 ed il punto 5, paragrafo VI, del disciplinare, in tema di cauzione provvisoria.
In giurisprudenza si è da tempo affermato il principio per cui, nel caso di partecipazione di un costituendo raggruppamento temporaneo di imprese ad una gara di appalto, la polizza fideiussoria, mediante la quale viene costituita la cauzione provvisoria, deve essere intestata non solo alla società capogruppo, ma anche alle mandanti.
Ciò al fine di evitare il configurarsi una carenza di garanzia per la stazione appaltante con riferimento a quei casi in cui l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, ma appunto dalle mandanti (Cons. Stato, Ad.Pl.. n. 8/2005; VI, 23.07.2009, n. 4648).
La stessa giurisprudenza ha precisato, peraltro, che il fidejussore, per assicurare in modo pieno l'operatività della garanzia di fronte ai possibili inadempimenti da "coprire" con la cauzione provvisoria, deve richiamare la natura collettiva della partecipazione alla gara di più imprese, identificandole singolarmente e contestualmente, e deve dichiarare di garantire con la cauzione provvisoria non solo la mancata sottoscrizione del contratto, ma anche ogni altro obbligo derivante dalla partecipazione alla gara, pena l'esclusione dal procedimento (Consiglio Stato Ad. Pl., 04.10.2005, n. 8).
Da tale clausola si desume, invero: che il Consorzio ha stipulato la scrittura fideiussoria nella propria specifica qualità di capogruppo mandataria, in procinto di presentare offerta in gara per l'affidamento dell'appalto in discussione; di riflesso, che la garanzia prestata, che riguarda il "pagamento delle somme dovute dal contraente per il mancato adempimento degli obblighi ed oneri inerenti alla partecipazione alla gara", attiene a tutti gli obblighi discendenti dalla partecipazione del raggruppamento alla gara, e quindi non solo a quelli che gravano il predetto Consorzio in proprio, ma anche a quelli che gli si riversano quale mandatario, onde la stessa garanzia è destinata ad operare per tutte le somme che nella detta qualità possano essere pretese nei confronti del medesimo Consorzio.
Rientrano, dunque, nella portata della garanzia anche le inadempienze ascrivibili a fatti -non della capogruppo ma- di una delle imprese mandanti, di cui la mandataria dovrebbe pur sempre rispondere, per il vincolo di solidarietà che discende dalla presentazione dell'offerta congiunta, anche ai sensi dell'art. 6 del disciplinare di gara.
E questo è esattamente quanto richiesto dalla giurisprudenza dominante e dalla normativa di gara, la quale ultima, con la prescrizione per cui "la cauzione dovrà prestarsi a nome di tutte le imprese facenti parte del raggruppamento... non ancora costituito", esigeva proprio -e semplicemente- che la garanzia coprisse anche i fatti imputabili alle imprese mandanti (cfr. C.d.S., V, 21.04.2009, n. 2400).
Solo per completezza si ricorda, quindi, che nella sentenza n. 8/2005 dell'Adunanza Plenaria si è ritenuta decisiva, per pervenire al risultato dell'inidoneità della garanzia, la circostanza che nella polizza fideiussoria del caso non si facesse riferimento (contrariamente a quanto occorso nella presente vicenda) al fatto che l'impresa cui la polizza era intestata aveva partecipato all'incanto in qualità di mandataria di una costituenda ATI (nel senso dell'essenzialità di tale puntualizzazione ai fini della completezza della garanzia v. anche C.d.S., V, 28.05.2010, n. 3401).
La conclusione della regolarità della cauzione provvisoria presentata dall'attuale appellata trova ulteriore fondamento in ciò, che "la non necessità della sottoscrizione da parte dei soggetti che concorrono alla gara ai fini del perfezionamento di un contratto che può soggiacere al procedimento semplificato di formazione di cui all'art. 1333 c.c., non toglie che l'intervento della sottoscrizione... sia comunque apprezzabile, congiuntamente a tutti gli ulteriori elementi sopra specificati, al fine di individuare i soggetti beneficiari della polizza e, quindi, la perimetrazione del rischio garantito" (C.d.S., V, 07.04.2011 n. 2169) (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2011 n. 3924 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La motivazione di "non gravità" del reato è implicita nell'ammissione alla gara.
Il codice degli appalti non richiede l’esplicitazione del giudizio di ammissione di un concorrente per quanto riguarda i precedenti penali che non incidono sull’affidabilità professionale dell’impresa.
E’ questo il principio che è stato espresso con la sentenza 30.06.2011 n. 3924 dalla V sezione del Consiglio di Stato.
Il ricorso aveva origine con l’impugnazione degli atti relativi all’aggiudicazione della procedura aperta per l’affidamento della gestione integrata del patrimonio immobiliare e dei servizi per il funzionamento delle scuole d’infanzia. In particolare il ricorrente contestava come la stazione appaltante non avesse espresso alcun giudizio di affidabilità morale e professionale, relativamente ad una serie di condanne penali dichiarate dal legale rappresentante della società controinteressata, nonostante che tale giudizio fosse richiesto dal disciplinare di gara.
Il Consiglio di Stato, in conformità con la decisione del 1° grado, ha precisato come l’esigenza di un giudizio espresso di ammissione di un concorrente potrebbe al più essere imposto per quanto riguarda i precedenti penali che obiettivamente si presentino, prima facie, riconducibili ai “reati gravi in danno dello Stato o della Comunità” e che incidono sulla morale professionale; al contrario un giudizio espresso non è richiesto per tutti gli altri casi in cui i precedenti penali dichiarati non manifestino alcuna incidenza sull’affidabilità professionale dell’impresa.
In particolare è stato chiarito come “A conferma della legittimità dell’azione amministrativa si osserva che, né la disciplina speciale di gara, né il Codice degli appalti, prescrivono che il giudizio favorevole all’ammissione di un concorrente debba essere necessariamente esplicitato e formalizzato. La giurisprudenza di questo Consiglio è infatti nel senso che la Stazione appaltante, che non ritenga il precedente penale dichiarato dal concorrente incisivo della sua moralità professionale, non è tenuta ad esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche implicita o per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità, semmai, che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale (C.d.S., III, 11.03.2011, n. 1583). La stazione appaltante deve invero motivare puntualmente le esclusioni, e non anche le ammissioni, se su di esse non vi è, in gara, contestazione (C.d.S. VI, 24.06.2010, n. 4019)”.
In conclusione secondo i giudici del Consiglio di Stato la stazione appaltante non è tenuta ad esplicitare le ragioni in base alle quali ammette un concorrente alla gara ritenendo che i precedenti penali dichiarati non siano incisivi sulla moralità professionale dell’impresa (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Non basta la promozione da parte di una ONLUS a dimostrare l’interesse pubblico di un’opera.
Il carattere di interesse pubblico di una data opera va apprezzato in termini di compresenza di requisiti sia oggettivi, attinenti alle caratteristiche intrinseche della stessa, sia soggettivi, e quindi la sua promozione da parte di una ONLUS, o più genericamente, da parte di un soggetto che non agisce a fini di lucro, di per sé sola è non decisiva.
I giudici del Tribunale amministrativo di Brescia hanno formulato tale qualifica di opera di interesse pubblico, in una causa in cui si discuteva di tale peculiare stato in relazione alla particolare attribuzione soggettiva delle controinteressate in causa, che sono ONLUS, costituite rispettivamente in forma di fondazione e di cooperativa sociale. E’ infatti noto, spiegano i giudici lombardi, che le ONLUS, in base al d.lgs. 04.12.1997 n. 460, debbono svolgere appunto “attività genericamente qualificate come di utilità sociale, riconducibili all’assistenza e alla promozione dei diritti dei cittadini”.
ONLUS di tipo particolare sono poi le cooperative sociali, le quali ai sensi dell’art. 1 l. 08.11.1991 n. 381, hanno lo scopo di “perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini”, e quindi possono, come si è detto, gestire anche attività “agricole, industriali, commerciali o di servizi” purché le stesse siano “finalizzate all'inserimento lavorativo di persone svantaggiate”.
In base a tale ultima previsione normativa, è quindi indubbio che la gestione di un’opera come quella di cui si parla nella causa in commento, qualificata come complesso alberghiero e quindi funzionale ad una attività commerciale, non è ontologicamente incompatibile con la qualità di ONLUS delle controinteressate che la promuovono, a prescindere dalla possibilità, non affermata, ma nemmeno esclusa, di affidarla a terzi: essa è senz’altro consentita ad una cooperativa sociale come quella di cui si discute. Potrebbe però ipotizzarsi che detta opera, in quanto promossa da siffatto soggetto, assuma per definizione “interesse pubblico”.
Ad avviso dei giudici bresciani tale lettura non è condivisibile. Essa creerebbe infatti una sorta di “proprietà transitiva”, per cui “il carattere di interesse sociale riconosciuto in astratto dalla legge ad una certa categoria di soggetti –appunto le cooperative sociali- si trasmette senza limiti a ciascuna delle attività che tali soggetti vanno a svolgere, con un duplice risultato inaccettabile: da un lato, quello di configurare a carico dei soggetti stessi un indubbio status di privilegio, dall’altro quello di stravolgere in potenza ogni previsione limitativa che riguardi determinate attività oggettivamente considerate” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 957 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Il contenuto delle disposizioni del piano territoriale provinciale deve essere recepito nella disciplina urbanistica comunale.
Come è noto, il piano territoriale provinciale è strumento programmatorio di carattere intermedio (v., ex multis, TAR Emilia-Romagna, Parma, 10.03.2008 n. 130), onde non si può prescindere dalle norme di dettaglio adottate in sede locale per ricavare le regole da applicare al caso concreto
(TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 28.06.2011 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La consulenza tecnica d’ufficio non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire le prove di quanto assume ed è quindi legittimamente negata dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alle deficienze delle proprie allegazioni ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi di fatto o circostanze non provati.
La consulenza tecnica d’ufficio, in quanto mezzo di indagine finalizzato ad aiutare il giudice nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, non può essere disposta al fine di esonerare la parte dal fornire le prove di quanto assume ed è quindi legittimamente negata dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alle deficienze delle proprie allegazioni ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi di fatto o circostanze non provati (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 29.10.2009 n. 6688) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 28.06.2011 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATATelecomunicazioni: la disciplina dettata dal D.Lgs. 259/2003 costituisce normativa speciale e, come tale, non suscettibile di essere modificata da quella generale dettata dal T.U. dell'edilizia.
La compiutezza della suddetta disciplina speciale induce a ritenere che i titoli abilitativi da esso previsti (autorizzazione e denuncia di inizio attività) malgrado la identità del nomen con gli istituti previsti dal T.U. dell'edilizia, siano provvedimenti del tutto autonomi che assolvono integralmente le esigenze proprie delle telecomunicazioni e quelle territoriali alla cura degli enti locali, come è desumibile dalla singolarità del procedimento, dalla qualificazione di opere di urbanizzazione primaria, nonché dalla necessità cui è finalizzata la disciplina del D.Lgs. 259/2003 di semplificare l'attività edilizia relativa alle infrastrutture di comunicazione elettronica.

La materia delle telecomunicazioni è disciplinata dal Testo Unico approvato con D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, cosiddetto Codice delle Comunicazioni Elettroniche, il quale all’art. 4, tra gli obiettivi generali della disciplina, prevede la promozione della semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica.
In tale ottica l’art. 87 prevede che l’installazione di tali impianti avvenga con autorizzazione unica da richiedere all’Ente locale, conseguibile con il sistema del silenzio-assenso: procedura ritenuta conforme al parametro costituzionale con sentenza della Corte cost. n. 336 del 27.07.2005; è inoltre specificato che nel caso di installazione di impianti, con tecnologia UMTS od altre, con potenza in singola antenna uguale od inferiore ai 20 Watt, fermo restando il rispetto dei limiti di esposizione, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità indicati, è sufficiente la denuncia di inizio attività, conforme ai modelli predisposti dagli Enti locali e, ove non predisposti, al modello B di cui all'allegato n. 13.
Sempre nell’ottica della semplificazione, per evitare il proliferare di reti di telefonia, il legislatore, in sede di conversione del D.L. 25.03.2010, n. 40, è intervenuto, con la L. 22.05.2010, n. 73, aggiungendo al corpo del Decreto l’art. 5-bis, con cui è stato inserito nel Codice delle Comunicazioni Elettroniche l’art. 87-bis a mente del quale “Al fine di accelerare la realizzazione degli investimenti per il completamento della rete di banda larga mobile, nel caso di installazione di apparati con tecnologia UMTS, sue evoluzioni o altre tecnologie su infrastrutture per impianti radioelettrici preesistenti o di modifica delle caratteristiche trasmissive, fermo restando il rispetto dei limiti, dei valori e degli obiettivi di cui all'articolo 87 nonché di quanto disposto al comma 3bis del medesimo articolo, è sufficiente la denuncia di inizio attività, conforme ai modelli predisposti dagli enti locali e, ove non predisposti, al modello B di cui all'allegato n. 13. Qualora entro trenta giorni dalla presentazione del progetto e della relativa domanda sia stato comunicato un provvedimento di diniego da parte dell'ente locale o un parere negativo da parte dell'organismo competente di cui all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n. 36, la denuncia è priva di effetti”.
Detta norma è entrata in vigore, in uno con la legge di conversione n. 73/2010, il 26.05.2010.
A distanza di circa due mesi il D.L. 31.05.2010, n. 78 (Manovra economica), con l’art. 49, comma 4-bis, ha sostituito l'art. 19 della legge 07.08.1990, n. 241, con il seguente: "Art. 19. (Segnalazione certificata di inizio attività - SCIA) - 1. Ogni atto di autorizzazione, licenza, concessione non costitutiva, permesso o nulla osta comunque denominato, comprese le domande per le iscrizioni in albi o ruoli richieste per l'esercizio di attività imprenditoriale, commerciale o artigianale il cui rilascio dipenda esclusivamente dall'accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale, e non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale per il rilascio degli atti stessi, è sostituito da una segnalazione dell'interessato, con la sola esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali e degli atti rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all'immigrazione, all'asilo, alla cittadinanza, all'amministrazione della giustizia, all'amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli imposti dalla normativa comunitaria. ……2. L'attività oggetto della segnalazione può essere iniziata dalla data della presentazione della segnalazione all'amministrazione competente. 3. L'amministrazione competente, in caso di accertata carenza dei requisiti e dei presupposti di cui al comma 1, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione di cui al medesimo comma, adotta motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi di essa, salvo che, ove ciò sia possibile, l'interessato provveda a conformare alla normativa vigente detta attività ed i suoi effetti entro un termine fissato dall'amministrazione, in ogni caso non inferiore a trenta giorni. E' fatto comunque salvo il potere dell'amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies…..4. Decorso il termine per l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3, all'amministrazione è consentito intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute, per la sicurezza pubblica o la difesa nazionale e previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi mediante conformazione dell'attività dei privati alla normativa vigente…..".
L'art. 1 della L. 30.07.2010, n. 122, in sede di conversione, ha poi aggiunto il comma 4ter, il quale precisa che “Il comma 4-bis attiene alla tutela della concorrenza ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, e costituisce livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali ai sensi della lettera m) del medesimo comma. Le espressioni "segnalazione certificata di inizio attività" e "SCIA" sostituiscono, rispettivamente, quelle di "dichiarazione di inizio attività” e "DIA", ovunque ricorrano, anche come parte di una espressione più ampia, e la disciplina di cui al comma 4bis sostituisce direttamente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, quella della dichiarazione di inizio attività recata da ogni normativa statale e regionale”.
Detta norma è entrata in vigore il 31.07.2010.
Dopo alcune iniziali incertezze interpretative è intervenuto il Ministro per la Semplificazione, con la nota P.C.M. del 16.09.2010, chiarendo che la S.C.I.A. deve ritenersi applicabile al T.U. dell’edilizia n. 380/2001, mediante il meccanismo della sostituzione automatica di norme; peraltro da ultimo tale applicabilità è stata espressamente sancita dall’art. 5 del D.L. 13.05.2011 n. 70, a tenore del quale: ”1. Per liberalizzare le costruzioni private sono apportate modificazioni alla disciplina vigente nei termini che seguono: ….b) estensione della segnalazione certificata di inizio attivita' (SCIA) agli interventi edilizi precedentemente compiuti con denuncia di inizio attivita' (DIA)…”.
Osserva il Collegio come identico discorso non possa, tuttavia, farsi per il Codice delle Comunicazioni Elettroniche in quanto la disciplina in esso contenuta si pone in rapporto di specialità rispetto al Testo unico dell’Edilizia.
In proposito deve ribadirsi la sostanziale esigenza di semplificazione sottesa a tale disciplina, che risulterebbe vanificata dall’applicabilità della SCIA, richiamandosi quanto affermato dal Giudice delle Leggi nella suindicata pronuncia n. 223/2005 laddove afferma che la disposizione che ammette la formazione del titolo per silentiumprevede moduli di definizione del procedimento, informati alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità, espressivi in quanto tali di un principio fondamentale di diretta derivazione comunitaria. Del resto, l'evoluzione attuale dell'intero sistema amministrativo si caratterizza per una sempre più accentuata valenza dei "principi di semplificazione" nella regolamentazione di talune tipologie procedimentali ed in relazione a determinati interessi che vengono in rilievo (cfr. artt. 19 e 20 della legge n. 241 del 1990, come modificati dall'art. 3 del decreto-legge 14.03.2005, n. 35, recante «Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale», convertito, con modificazioni, nella legge 14.05.2005, n. 80). Nel caso di specie, la pluralità delle esigenze e dei valori di rilevanza costituzionale sottesi alle "materie" nel cui ambito rientrano le disposizioni censurate, in una con la finalità complessiva di garantire un rapido sviluppo dell'intero sistema delle comunicazioni elettroniche (cfr. sentenza n. 307 del 2003) secondo i dettami sanciti a livello comunitario, induce a ritenere che le norme in esame siano espressione di principi fondamentali….. In definitiva, le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un principio dell'urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure (sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2. del Considerato in diritto)”.
In altri termini, la disciplina dettata dal D.Lgs. 259/2003 costituisce normativa speciale e, come tale, non suscettibile di essere modificata da quella generale dettata dal T.U. dell'edilizia.
La compiutezza della suddetta disciplina speciale induce a ritenere che i titoli abilitativi da esso previsti (autorizzazione e denuncia di inizio attività) malgrado la identità del nomen con gli istituti previsti dal T.U. dell'edilizia, siano provvedimenti del tutto autonomi che assolvono integralmente le esigenze proprie delle telecomunicazioni e quelle territoriali alla cura degli enti locali, come è desumibile dalla singolarità del procedimento, dalla qualificazione di opere di urbanizzazione primaria, nonché dalla necessità cui è finalizzata la disciplina del D.Lgs. 259/2003 di semplificare l'attività edilizia relativa alle infrastrutture di comunicazione elettronica (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2010, n. 4557; v. anche TAR Lazio Roma, sez. II, 19.07.2006, n. 6056).
Da quanto precede discende l’illegittimità del provvedimento comunale impugnato per aver postulato la necessità di presentare la SCIA per l’adeguamento di un impianto radioelettrico preesistente mediante modifica della SRB per il sistema GSM, per il sistema DCS e per il sistema UMTS, laddove l’art. 87-bis del D.Lgs. 259/2003 espressamente indica come “sufficiente” la DIA (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.06.2011 n. 1660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl restauro e risanamento conservativo presuppone la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie, cosa che nel caso di specie fa difetto, in quanto l'intervento effettuato dalla ricorrente muta completamente la struttura dell'edificato sostituendo ad un edificio adibito a destinazione direzionale-commerciale un fabbricato adibito prevalentemente a residenza (per la precisione, il Comune ha riscontrato che la superficie attuale dell’immobile è ripartita in mq 5.315,51 di residenza, mq 1.472,61 di uffici, mq 517,57 di laboratori)”.
Il primo motivo del ricorso principale e dei motivi aggiunti ripropone la questione della qualificazione dell’intervento edilizio, sostenendone la natura di semplice restauro-risanamento, non oneroso.
Il motivo è infondato.
Sul punto è sufficiente richiamare la sentenza 93/2009 nella parte in cui ha ritenuto la qualificazione dell’intervento effettuata dall’Amministrazione “corretta, dal momento che il restauro e risanamento conservativo presuppone la realizzazione di opere che lascino inalterata la struttura dell’edificio e la distribuzione interna della sua superficie (Tar Lombardia, Milano, sez. II, 14.05.2007, n. 3070), cosa che nel caso di specie fa difetto, in quanto l'intervento effettuato dalla ricorrente muta completamente la struttura dell'edificato sostituendo ad un edificio adibito a destinazione direzionale-commerciale un fabbricato adibito prevalentemente a residenza (per la precisione, il Comune ha riscontrato che la superficie attuale dell’immobile è ripartita in mq 5.315,51 di residenza, mq 1.472,61 di uffici, mq 517,57 di laboratori)”.
Da tale qualificazione discende quindi l’onerosità dell’intervento
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.06.2011 n. 1627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'Amministrazione non ha l'obbligo, a fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, di escutere la fideiussione, evitando in tal modo di applicare la sanzione.
Infatti, la fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore

Sul punto si richiama l’orientamento di questa sezione, secondo cui l'Amministrazione non ha l'obbligo, a fronte del ritardato pagamento degli oneri concessori, di escutere la fideiussione, evitando in tal modo di applicare la sanzione.
Infatti, la fideiussione che accompagna la rateizzazione del pagamento degli oneri di urbanizzazione non ha la finalità di agevolare l'adempimento del soggetto obbligato al pagamento, bensì costituisce una garanzia personale prestata unicamente nell'interesse dell'amministrazione, sulla quale non incombe alcun obbligo di preventiva escussione del fideiussore (ex multis TAR Lombardia Milano, sez. II, 21.07.2009, n. 4405)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.06.2011 n. 1627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOgni procedura amministrativa volta alla liquidazione ed al pagamento di oneri edilizi in senso lato non  necessita di una specifica motivazione, dal momento che i conteggi sono la risultante di un'operazione di calcolo matematico, effettuata sulla base di taluni parametri fissati da norme legislative e sub-legislative
Ogni procedura amministrativa volta alla liquidazione ed al pagamento di oneri edilizi in senso lato attiene ad attività non autoritativa e si fonda sull'applicazione automatica di regole di calcolo previste da fonte normativa, senza alcun contenuto di discrezionalità per l'amministrazione; pertanto non è necessaria una specifica motivazione, dal momento che i conteggi sono la risultante di un'operazione di calcolo matematico, effettuata sulla base di taluni parametri fissati da norme legislative e sub-legislative (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 01.12.2009, n. 2382; TAR Emilia Romagna Parma, sez. I, 06.07.2010, n. 351)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.06.2011 n. 1627 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIL'ordinanza di ripristino del pubblico transito di una strada, nella specie nel ripristino d’un passaggio di uso pubblico su di una strada che si assume utilizzata dalla collettività, si connota sicuramente come atto gestionale di spettanza della dirigenza comunale senza che vengano in rilievo le specifiche problematiche di competenza sollevate per l’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F.
In ogni caso, anche con riguardo al potere specificamente previsto dal suddetto art. 378, è da ritenere che tale competenza si sia trasferita in capo alla dirigenza comunale a seguito del principio introdotto dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, che ha devoluto ai dirigenti l’adozione di tutti gli di gestione e dei provvedimenti amministrativi già spettanti agli organi di governo dell’ente, salvo le ipotesi ivi previste.
L’esercizio del potere di cui all’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, da un lato, difatti, si qualifica come atto gestionale, a tutela dell’uso dei beni pubblici, scevro da profili di indirizzo e controllo politico-amministrativo e come tale attribuito alla competenza generale della dirigenza comunale, dall’altro non rientra nelle ipotesi previste dagli indicati artt. 50, comma 3, e 54.
A quest’ultimo riguardo il potere attribuito dall’art. 378 non rientra tra i compiti conferiti al sindaco quale ufficiale del Governo di cui all’art. 54. Inoltre, alla luce dell’indicata natura del potere attribuito ai sensi dello stesso art. 378 -che risulta volto non alla stretta salvaguardia della circolazione stradale bensì in modo più ampio a tutela delle strade pubbliche e quindi non è limitato al profilo della loro fruibilità- si ritiene comunque che lo stesso non rientri nelle leggi in materia di ordine e sicurezza pubblica legge, di cui all’art. 54 del D.Lgs. 18-08-2000, n. 267.

Il D.Lgs. n. 267 del 2000 ha, come è noto, sancito, nell’art. 107, un criterio di ripartizione delle attribuzioni di competenza in ambito comunale che affida alla dirigenza gli atti gestionali e lascia agli organi di governo, quale il Sindaco, solo gli atti attinenti alle funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi comunali.
A norma del principio sancito dall'art. 107 del citato D.Lgs., la competenza ad adottare provvedimenti amministrativi, consistenti in atti autoritativi posti in essere dalla p.a. nell'espletamento di una potestà amministrativa e aventi rilevanza esterna, è stata devoluta ai dirigenti degli enti locali -fatti salvi solo l’esercizio dei poteri di indirizzo e controllo politico-amministrativo spettanti agli organi di governo– con l’attribuzione ai dirigenti dei compiti non compresi espressamente dalla legge o dallo statuto fra le funzioni degli organi di governo o fra quelle del segretario comunale o del direttore generale.
L’art. 107 del D.Lgs. in questione prevede altresì che, a decorrere dalla data di sua entrata in vigore, le disposizioni che conferiscono agli organi di governo dell’ente "l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall'articolo 50, comma 3, e dall'articolo 54".
L'articolo 50, comma 3, prevede che, salvo quanto previsto dall'articolo 107, il sindaco e il presidente della provincia "esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all'espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia".
L’articolo 54 descrive le attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale indicando che lo stesso sovraintende, quale ufficiale del Governo: "a) all'emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica; b) allo svolgimento delle funzioni affidategli dalla legge in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria; c) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l'ordine pubblico, informandone preventivamente il prefetto".
Alla luce di tale premessa la censura si rivela infondata, come evidenziato di recente in giurisprudenza (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia, I, 08/04/2011 n. 184).
In primo luogo, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia agito in virtù di un più ampio potere di autotutela amministrativa spettante alla stessa sui beni demaniali ex art. 823 cod. civ. (ed in forza dell’art. 825 cod. civ. anche sui diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti quando sono stati costituiti per l'utilità di beni demaniali o per il conseguimento di fini di pubblico interesse) che esula dallo stretto disposto dell’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, riallacciandosi, nel caso in esame, l’azione dell’amministrazione al più ampio potere di tutela dei beni demaniali e dei diritti reali ad uso pubblico.
In questo senso, pertanto, l’atto posto in essere si connota sicuramente come atto gestionale di spettanza della dirigenza comunale senza che vengano in rilievo le specifiche problematiche di competenza sollevate per l’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F.
In ogni caso, anche con riguardo al potere specificamente previsto dal suddetto art. 378, è da ritenere che tale competenza si sia trasferita in capo alla dirigenza comunale a seguito del principio introdotto dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, che ha devoluto ai dirigenti l’adozione di tutti gli di gestione e dei provvedimenti amministrativi già spettanti agli organi di governo dell’ente, salvo le ipotesi ivi previste.
L’esercizio del potere di cui all’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, da un lato, difatti, si qualifica come atto gestionale, a tutela dell’uso dei beni pubblici, scevro da profili di indirizzo e controllo politico-amministrativo e come tale attribuito alla competenza generale della dirigenza comunale, dall’altro non rientra nelle ipotesi previste dagli indicati artt. 50, comma 3, e 54.
A quest’ultimo riguardo il potere attribuito dall’art. 378 non rientra tra i compiti conferiti al sindaco quale ufficiale del Governo di cui all’art. 54. Inoltre, alla luce dell’indicata natura del potere attribuito ai sensi dello stesso art. 378 -che risulta volto non alla stretta salvaguardia della circolazione stradale bensì in modo più ampio a tutela delle strade pubbliche e quindi non è limitato al profilo della loro fruibilità- si ritiene comunque che lo stesso non rientri nelle leggi in materia di ordine e sicurezza pubblica legge, di cui all’art. 54 del D.Lgs. 18-08-2000, n. 267 (TAR Basilicata, sentenza 22.06.2011 n. 370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUna servitù di uso pubblico può costituirsi, oltre che con un regolare atto negoziale di costituzione da parte del proprietario del terreno, anche mediante altre forme ed in particolare, per l’effettivo uso pubblico dell’area di pertinenza stradale per un tempo immemorabile e, comunque, almeno pari ad un ventennio oppure mediante l’istituto della dicatio ad patriam.
A tale riguardo, la costituzione di una servitù di uso pubblico su un’area stradale privata per passaggio del tempo presuppone l’uso pubblico ovverosia la concreta idoneità a soddisfare (anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di interesse generale e che la stessa sia di fatto accessibile al pubblico, "jure servitutis publicae", da parte di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale..
E’ inoltre necessario dimostrare la protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile, almeno ultraventennale.
Il diritto di uso pubblico può altresì costituirsi tramite dicatio ad patriam, che consiste nel mero fatto giuridico del comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità e anche tramite condotte omissive, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima.
Per quanto riguarda una strada privata, l’assoggettamento ad uso pubblico può derivare: a) dall’inserimento, ricollegabile alla volontà del proprietario e palesatosi nel mutamento della situazione dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, come può accadere per varie ragioni e situazioni; b) da un immemorabile uso pubblico (a sua volta indice di un comportamento del proprietario verificatosi in epoca remota e imprecisabile); tale uso deve essere inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto di uso della strada.

Con i motivi nn. 1 del ricorso e 5 dei motivi aggiunti, il ricorrente espone le censure portanti del gravame, con le quali si insiste sulla proprietà privata del cortile e si nega l’esistenza d’una servitù pubblica di passaggio. In quest’ottica, pertanto, le censure inerenti il carattere abusivo o meno dei cancelli passano in secondo piano, degradando a mera variabile dipendente della questione principale.
Sul punto occorre precisare che, dagli atti dell’istruttoria procedimentale (verbale di contravvenzione n. 2 del 10/09/2010) risulta che la polizia municipale, dietro segnalazione di alcuni cittadini residenti in San Fele, effettuava un sopralluogo a seguito del quale accertava che “il tratto di strada di via Francesco Stia che si collega con Vico II La Vista è stato interdetto al transito pedonale dal signor D’Onofrio Gerardo, Michele, Pietro, mediante l’apposizione di due cancelli abusivi, di cui uno in ferro, apposto a monte del fabbricato di sua proprietà e l’altro in legno, a valle del medesimo fabbricato, ubicato al civico 4 della strada de quo, in assenza di relative autorizzazioni da parte del Comune di San Fele, trattandosi di strada pubblica come confermato dagli accertamenti eseguiti sia presso l’ufficio tecnico comunale, giusta nota di riscontro prot. n. 6748 del 23/08/2010…….sia presso i competenti Uffici Regionali del Territorio”. La difesa dell’amministrazione ha depositato quest’ultima nota alla quale sono allegate planimetrie catastali dalle quali, secondo il responsabile del procedimento, risulterebbe che l’area è di proprietà comunale.
Tutto ciò esposto occorre anzitutto rilevare che il ricorrente non fornisce prova della proprietà dell’area di cui si discute. In allegato alla perizia giurata depositata l’08.10.2010 esiste un rogito del 1926 con cui il padre dell’attuale ricorrente acquistava la proprietà e il possesso di alcune case dirute fra cui Palazzo Stia ma tale atto, di per sé, non prova in modo specifico la proprietà dell’area di cui si discute.
La restante documentazione depositata dal ricorrente mira a risalire alla prova della proprietà delle aree attraverso alcuni elementi di fatto minori (la denominazione di vico, ritenuta, ad avviso del Collegio, erroneamente equivalente a strada cieca e quindi priva di accesso sulla pubblica via, la numerazione civica posta sul piedritto destro del portale, la diversa pavimentazione presente nell’androne rispetto a quella di via Stia e dal fatto che la muratura che contiene il portale di ingresso è della stessa altezza del palazzo) palesemente insufficienti a fondare tale prova.
Quanto agli altri elementi, alla luce delle planimetrie depositate dall’amministrazione e della speculare, precisa descrizione dei luoghi riportata nella relazione in data 10/11/2010 del settore tecnico comunale (sub n. 15), va anzitutto smentita la configurazione e la definizione di “cortile” (ancorché ripresa in mappe presentate dal dante causa del ricorrente nel 1939) attribuita dall’istante a quello che invece è un vero e proprio “slargo” su cui via Francesco Stia, dopo un tratto rettilineo di circa 150 metri si apre all’interno d’uno spazio in concreto non definibile cortile (pertinenziale a Palazzo Stia) sia perché sullo stesso si affaccia non solo Palazzo Stia, ma anche Palazzo Lubrino e sia per l’evidente, fisica appartenenza dello stesso al tracciato di via Francesco Stia, come peraltro confermato dal fatto che nelle mappe catastali fornite al Comune dall’Agenzia del Territorio di Potenza la parola Stia (della dicitura Via Federico Stia), ricade proprio su detto slargo. Il transito lungo di esso introduce poi a un passaggio ricadente sotto Palazzo Stia indicato con segni tratteggiati nella mappa catastale ora citata e denominato, nel gergo locale, “supporto” e di lì, dopo breve percorso, a Vico II Luigi La Vista e, percorso quest’ultimo, si giunge a via Luigi La Vista.
Ora, secondo il Collegio, le aree “de quibus”, in quanto spazi, interni all’abitato e adiacenti e/o aperti sul suolo pubblico (vedi art. 22, co. 3, allegato F della legge 20/03/1865 n. 2248) e in comunicazione diretta con esso, sono assistiti da una presunzione legale di demanialità cioè, appunto, di appartenenza al demanio di detti spazi. Nella specie, la prova contraria, che pur potrebbe vincere la presunzione “de qua”, non risulta essere stata resa dal ricorrente dato che non è stato prodotto alcun titolo valido, certificante, per così dire, la titolarità di precisi diritti, anche di solo godimento, sulle aree in questione (e tale non potendosi ritenere neppure la documentazione allegata al ricorso).
Oltretutto, come osservato dalla difesa dell’amministrazione, nella mappa catastale allegata alla relazione tecnica (all. 2 del doc. n. 15) e in quella rilasciata dall’Agenzia del Territorio di Potenza figura il corpo principale dell’immobile nell’area di colore chiaro (particella n. 76) che presenta solo il giardino come sola pertinenza aggraffata alla particella in questione mentre l’area di collegamento fra le due strade non ha numeri identificativi a livello catastale e non appare riferibile quale pertinenza della particella 76.
Ma anche a voler prescindere da questioni inerenti la prova della proprietà e l’evidente idoneità dei sopra specificati percorsi a formare un sistema unico di circolazione pedonale che congiunge via Stia, per il tramite del passaggio a Vico II Stia e in tal modo a via Luigi la Vista, c’è da dire che lo stesso ricorrente, con la nota inviata al Sindaco di San Fele in data 27/08/2010, a pochi giorni dal sopralluogo effettuato dai vigili, dopo aver dichiarato che “il cancello” sarebbe stato apposto circa 25 anni fa, pur insistendo sulla proprietà privata del cortile antistante Palazzo Stia, fa espresso riferimento al “diritto di passaggio del popolo, che gli attuali proprietari tollerano, tant’è che i cancelli sono apribili da parte di chicchessia”.
Tali riferimenti, al di là di ogni altra considerazione, convalidano pertanto l’affermazione del Comune secondo cui i tratti di collegamento fra via Stia e Vico II sono stati da sempre o comunque da lungo tempo utilizzati per il libero passaggio pedonale (vedi relazione tecnica sub-15 della produzione comunale). Il Collegio ritiene cioè comunque esistente una servitù di uso pubblico, essendosi la stessa costituita a seguito di prolungato esercizio del diritto d’uso pubblico o, quantomeno, per dicatio ad patriam e che la stessa è, pertanto, opponibile al ricorrente.
Come di recente ricordato in giurisprudenza (cfr. TAR Friuli Venezia Giulia cit.), una servitù di uso pubblico può costituirsi, oltre che con un regolare atto negoziale di costituzione da parte del proprietario del terreno, anche mediante altre forme ed in particolare, per l’effettivo uso pubblico dell’area di pertinenza stradale per un tempo immemorabile e, comunque, almeno pari ad un ventennio oppure mediante l’istituto della dicatio ad patriam.
A tale riguardo, la costituzione di una servitù di uso pubblico su un’area stradale privata per passaggio del tempo presuppone l’uso pubblico ovverosia la concreta idoneità a soddisfare (anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di interesse generale e che la stessa sia di fatto accessibile al pubblico, "jure servitutis publicae", da parte di una collettività di persone qualificate dall'appartenenza ad una comunità territoriale (Cons. Stato, Sez. V - sentenza 24.05.2007 n. 2618; TAR Lombardia Milano, Sez. II - 18.04.2008 n. 1229 ).
E’ inoltre necessario dimostrare la protrazione dell'uso stesso da tempo immemorabile (cfr. ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 04.02.2004, n. 373; C.d.S., Sez. V, 01.12.2003, n. 7831; TAR Abruzzo, Pescara, 04.03.2006, n. 144; TAR Toscana, sez. III, 19.07.2004, n. 2637; TAR Lazio, sez. II, 29.03.2004, n. 2922; TAR Campania–Napoli, Sez. VIII - sentenza 01.06.2007, n. 5906), almeno ultraventennale (Cons. Stato, Sez. V – sentenza 04.02.2004 n. 373; Cons. Stato, Sez.. V - sentenza 04.02.2004, n. 373; TAR Puglia-Lecce, Sez. I - sentenza 09.01.2008 n. 48).
Il diritto di uso pubblico può altresì costituirsi tramite dicatio ad patriam, che consiste nel mero fatto giuridico del comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità e anche tramite condotte omissive, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima. (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 12167 del 12-08-2002; Sez. II, sent. n. 7481 del 04-06-2001; Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 10574 del 10-12-1994; Cons. Stato, Sez. V - sentenza 24.05.2007 n. 2618).
Per quanto riguarda una strada privata, l’assoggettamento ad uso pubblico può derivare: a) dall’inserimento, ricollegabile alla volontà del proprietario e palesatosi nel mutamento della situazione dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, come può accadere per varie ragioni e situazioni; b) da un immemorabile uso pubblico (a sua volta indice di un comportamento del proprietario verificatosi in epoca remota e imprecisabile); tale uso deve essere inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione -pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica- di esercitare il diritto di uso della strada (Cons. Stato, Sez. V - sentenza 09.06.2008 n. 2864).
Nel caso di specie il Collegio ritiene che sussistano tutti i requisiti affinché possa ritenersi essere venuta in esistenza una servitù di uso pubblico per uso ultraventennale o, in ogni caso, per dicatio ad patriam. Risulta cioè maturato secondo il collegio un periodo di pubblico uso ultraventennale tale da aver determinato, per quanto in precedenza indicato, la costituzione di una servitù di uso pubblico sulle aree in questione (TAR Basilicata, sentenza 22.06.2011 n. 370 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa regola generale della non necessità di un puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche, in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione: ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione in tali casi ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria.
E' stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza amministrativa che la regola generale della non necessità di un puntuale onere motivazionale delle nuove destinazioni urbanistiche conferite dallo strumento urbanistico subisce delle eccezioni in alcune situazioni specifiche, in cui il principio della tutela dell'affidamento impone che lo strumento urbanistico dia conto del modo in cui sia stata effettuata la ponderazione degli interessi pubblici e siano state operate le scelte di pianificazione (rendendole, quindi, sindacabili davanti al giudice amministrativo): ciò si verifica nei casi in cui la nuova destinazione urbanistica rispetto alla precedente va ad incidere su singole posizioni, connotate da una fondata aspettativa sulla destinazione dell'area, che per questo si differenziano dalle posizioni degli altri soggetti interessati; l'Amministrazione in tali casi ha il dovere di valutare con attenzione l'opportunità di modificare la precedente destinazione urbanistica di un'area e, se ritiene di dover diversamente disciplinare tale area e sacrificare comunque gli interessi dei soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni logiche che hanno portato a tale nuova scelta pianificatoria.
In tal senso, vengono riconosciute meritevoli di questa particolare forma di tutela quelle situazioni caratterizzate da un affidamento "qualificato", ossia nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui al d.m. 02.04.1968 - con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del privato derivante da convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, dalle aspettative nascenti da giudicati di annullamento di dinieghi di permesso di costruire o di silenzio-rifiuto su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., da ultimo e tra le tante, TAR Lazio, sez. II, 02.03.2011, n. 1950)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.06.2011 n. 1581 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICAAi sensi dell'art. 78, comma 4, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'inosservanza dell'obbligo di astensione previsto dal precedente comma 2 per i consiglieri comunali che si trovino in posizione di incompatibilità non invalida “in toto” lo strumento urbanistico oggetto della delibera consiliare, ma ne vizia le parti direttamente collegate agli interessi degli amministratori che abbiano illegittimamente concorso alla sua adozione; pertanto, la legittimazione a far valere un profilo di invalidità di tale natura va riconosciuta esclusivamente a chi dimostri un'effettiva utilità a conseguire l'annullamento "in parte qua" del piano.
Il collegio, pur consapevole di un orientamento in tal senso manifestato da una parte della giurisprudenza, aderisce alla più recente tesi espressa più volte dal giudice di appello ed anche da questo Tribunale (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3744; TAR Lombardia, sez. II, n. 1526/2010), per la quale, ai sensi dell'art. 78, comma 4, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267, l'inosservanza dell'obbligo di astensione previsto dal precedente comma 2 per i consiglieri comunali che si trovino in posizione di incompatibilità non invalida “in toto” lo strumento urbanistico oggetto della delibera consiliare, ma ne vizia le parti direttamente collegate agli interessi degli amministratori che abbiano illegittimamente concorso alla sua adozione; pertanto, la legittimazione a far valere un profilo di invalidità di tale natura va riconosciuta esclusivamente a chi dimostri un'effettiva utilità a conseguire l'annullamento "in parte qua" del piano (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 21.06.2011 n. 1581 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: VAS - Art. 6, c. 1, d.lgs. n. 152/2006 - Principio di precauzione - Idoneità potenziale ad incidere il bene ambiente - Impatti significativi sull’ambiente - Direttiva 27.06.2001, n. 42 CE.
La norma di cui all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 è da ascrivere al novero delle norme precauzionali, ispirate al principio di precauzione che nella materia ambientale ha ottenuto sanzione di diritto positivo ad opera del recepimento, da parte del d.lgs. n. 152/2006, delle varie direttive comunitarie che lo avevano elevato al rango di principio fondamentale nella materia dell’ambiente. La norma non richiede un’idoneità in atto ma solo in potenza, della singola iniziativa urbanistica, inserita in un contesto di pianificazione o programmazione, ad incidere il bene ambiente.
Invero, la lettera della legge si esprime significativamente nei termini di “possono” avere impatti significativi sull’ambiente. Il tutto sempre che gli impatti che l’iniziativa urbanistica può avere sul bene ambiente e sul patrimonio culturale siano “significativi”, ché, altrimenti, qualunque attività edificatoria connessa all’adozione di varianti strutturali al PRG, siccome un qualche impatto sull’ambiente indubbiamente possiede, dovrebbe, irragionevolmente ed in violazione del principio di proporzionalità comunitaria, essere sottoposta a valutazione ambientale strategica.
E’ la stessa direttiva 27.06.2001, n. 42 CE, cui si è data attuazione con il D.Lgs. n. 152/2006, a stabilire infatti che i piani urbanistici che determinano l’interessamento di piccole aree a livello locale o modifiche minori ai piani stessi, siano assoggettate a valutazione ambientale strategica soltanto in conseguenza dei possibili effetti ancora “significativi sull’ambiente” (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 17.06.2011 n. 657 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO - Minacce alla salute pubblica o all’ambiente - Esigenza di autonoma protezione delle persone che vivono nell’area interessata - Vicinitas - Misura della legittimazione - Elasticità del criterio.
Premesso che, in materia di minacce alla salute pubblica o all’ambiente, va riconosciuta in linea di principio l’esigenza di autonoma protezione delle persone che vivono nell’area interessata dalla fonte di pericolo, occorre tuttavia (in una giurisdizione di tipo soggettivo e in mancanza di un’espressa previsione di azione popolare) individuare un criterio atto a differenziare e qualificare la posizione dei singoli che agiscono per la tutela del bene ambiente.
La giurisprudenza di primo grado e il Consiglio di Stato hanno da tempo valorizzato, in tal senso, il criterio della vicinitas (cfr., fra le ultime, Cons. Stato, sez. VI, 13.09.2010, n. 6554). Tale criterio, peraltro, non coincide con la proprietà o con la residenza in un’area immediatamente confinante con quella interessata dall’intervento contestato, ma deve essere inteso in senso elastico e va modulato, quindi, in proporzione alla rilevanza dell’intervento e alla sua capacità di incidere sulla qualità della vita dei soggetti che risiedono in un’area più o meno vasta.
Ciò comporta, in concreto, che la “misura” della legittimazione ad agire dei singoli in materia ambientale non sia univoca, variando in relazione all’ampiezza dell’area coinvolta dalla ipotizzata minaccia ambientale.
AMIANTO - Contaminazione da amianto - Fabbricato dismesso dalla precedente attività produttiva - Riutilizzo - Misure di risanamento - Art. 6, l.r. Piemonte n. 42/2000 - Principio comunitario di precauzione.
La grave situazione di contaminazione da amianto di un fabbricato dismesso dalla precedente attività produttiva impone, ai sensi dell’art. 6 della legge regione Piemonte 07.04.2000, n. 42 (ma anche in applicazione del principio comunitario di precauzione, direttamente cogente per tutte le amministrazioni pubbliche) l’effettuazione di preliminari indagini e la conseguente adozione di tutte le necessarie misure di risanamento atte a prevenire i pericoli per l’ambiente e la salute pubblica legati al riutilizzo di tale struttura (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 16.06.2011 n. 635 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI FORNITURE: Aggiudicazione in favore di una ditta che ha offerto attrezzature non corrispondenti alla descrizione degli allegati tecnici del capitolato, ma che assicurino comunque le prestazioni richieste.
Nel caso in cui il bando di una gara di appalto per l’aggiudicazione di forniture preveda espressamente che, in sede di scrutinio delle offerte tecniche da parte della commissione di gara, "saranno comunque prese in considerazione ed opportunamente valutate proposte di prodotti in grado di garantire le medesime prestazioni delle apparecchiature specificate negli allegati al presente capitolo", è legittima l’aggiudicazione in favore di una ditta che ha offerto attrezzature che, pur non essendo corrispondenti alla descrizione degli allegati tecnici del capitolato, siano comunque idonee ad assicurare alla stazione appaltante le medesime prestazioni dei prodotti specificamente richiesti dalla lex specialis; in tal caso, infatti, il criterio utilizzato dalla P.A. è quello delle equivalenza delle prestazioni tra i diversi prodotti, con la conseguenza che, in sostanza, la stazione appaltante, pur indicando negli allegati del capitolato una certa tipologia di apparecchiature, non si è preclusa la possibilità di ottenere e valutare proposte di prodotti ulteriori, egualmente idonei ad assicurare alla amministrazione le prestazioni richieste (1).
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(1) Ha osservato la sentenza in rassegna che, nella specie, se non fosse stata apposta nel bando la riserva secondo cui alla commissione di gara era riconosciuta la possibilità di prendere in considerazione e valutare opportunamente proposte di prodotti in grado di garantire le medesime prestazioni delle apparecchiature specificate nella lex specialis, la gara per cui si controverte non avrebbe potuto che essere aggiudicata alla odierna appellante, ma ciò sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 68, co. 2, del codice degli appalti, a mente del quale le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli offerenti e non devono comportare la creazioni di ostacoli ingiustificati alla libera concorrenza.
Al riguardo la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sottolineato che nei casi in cui le specifiche tecniche risultino tutte incentrate su un prodotto già confezionato dalle imprese produttrici, il riferimento tecnico deve essere necessariamente temperato attraverso il riferimento al concetto di equivalenza (Cons. Stato, V, 24.07.2007 n. 4138; VI 19.09.2007 n. 4884). Infatti non possono essere introdotte specifiche tecniche che menzionino prodotti di una fabbricazione o di una provenienza determinata e procedimenti particolari aventi l’effetto di favorire o eliminare talune imprese in assenza del temperamento con criterio di equivalenza
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.05.2011 n. 2905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione per l'installazione di una antenna per la telefonia mobile al di sopra di un edificio sito nel centro storico.
Appare legittimo il diniego opposto da un ente locale in merito ad una istanza avanzata dalla società Wind tendente ad ottenere l’autorizzazione per la installazione di una antenna per la telefonia mobile al di sopra di un edificio situato nel centro storico, nel caso in cui sia motivato con riferimento al fatto che:
a) l’antenna è di non irrilevanti dimensioni,
b) la relativa installazione determinerebbe una grave alterazione delle caratteristiche del centro storico e delle visuali di immobili anche di interesse storico artistico; e ciò tanto più che, in considerazione della molteplicità degli interessi anche pubblici coinvolti, la questione circa la migliore sistemazione possibile dell’impianto può essere risolta individuando una possibile diversa collocazione dello stesso in un sito -che lo stesso Comune può contribuire ad individuare- che risulti compatibile sia con le esigenze di sviluppo delle comunicazioni telefoniche sia con l’interesse pubblico alla tutela del centro storico dell’ente locale (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. III, ordinanza 13.05.2011 n. 2115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, o di un terrapieno et similia mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica od altri elementi costruttivi, non costituisce intervento di manutenzione straordinaria, di restauro o pertinenziale, ma è opera già soggetta a concessione edilizia ed attualmente a permesso di costruire.
Una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà trattandosi di opera destinata, non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile. Né può sostenersi che, nella specie, il manufatto realizzato fosse destinato alla protezione dagli agenti atmosferici allorché si consideri che è stato ottenuto in concreto un nuovo vano adibito a deposito.

Si osserva che la giurisprudenza di questa Corte Suprema è costantemente orientata nel senso che la trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, o di un terrapieno et similia mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica od altri elementi costruttivi, non costituisce intervento di manutenzione straordinaria, di restauro o pertinenziale, ma è opera già soggetta a concessione edilizia ed attualmente a permesso di costruire (cfr, tra le molteplici pronunzie, Cass., Sez. n. 35011 del 2007 Rv 237532; n. 25588 del 2004, rv 230419).
Il medesimo orientamento si rinviene nelle decisioni dei giudici amministrativi (vedi Cons. Stato, Sez. 5: 08.04.1999, n. 394 e 22.07.1992, n. 675, nonché Cons. giust. Amm. Sic. Sez. riunite, 15.10.1991, n. 345).
In particolare, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà trattandosi di opera destinata, non a sopperire ad esigenze temporanee e contingenti, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile. Né può sostenersi che, nella specie, il manufatto realizzato fosse destinato alla protezione dagli agenti atmosferici allorché si consideri che è stato ottenuto in concreto un nuovo vano adibito a deposito (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2011 n. 18507 - link a www.lexambiente.it).

URBANISTICAE' configurabile il reato di lottizzazione abusiva quando la trasformazione edilizia o urbanistica dei terreni sia realizzata con difformità tipologiche, volumetriche, strutturali e di destinazione tanto rilevanti e diffuse su tutta l'area, rispetto al progetto approvato dall'autorità amministrativa, da far ritenere l'opera non più riferibile a quella pianificata e, quindi, senza autorizzazione.
Va ribadito anzitutto il principio -consolidato nella giurisprudenza di questa Corte- secondo il quale è configurabile il reato di lottizzazione abusiva quando la trasformazione edilizia o urbanistica dei terreni sia realizzata con difformità tipologiche, volumetriche, strutturali e di destinazione tanto rilevanti e diffuse su tutta l'area, rispetto al progetto approvato dall'autorità amministrativa, da far ritenere l'opera non più riferibile a quella pianificata e, quindi, senza autorizzazione (vedi Cass., Sez. 3^, 09.08.2006, n. 28683, Saggese ed altri; 06.03.1996, n. 2408, Antonioli ed altro; 17.09.1991, n. 9633, Le Pira ed altro).
Deve trattarsi, dunque, di una difformità totale rispetto all'autorizzazione, mentre irrilevanti devono considerarsi le ipotesi di difformità parziale, poiché si vuole impedire che siano vanificati il preventivo controllo ed il consenso dell'autorità comunale che la legge intende assicurare, laddove le piccole difformità e le non rilevanti violazioni dell'iter procedurale potranno essere eventualmente sanzionate ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. a) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2011 n. 17834).

URBANISTICALa anticipazione dei lavori di costruzione degli edifici residenziali, rispetto alla compiuta realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria poste a carico dei lottizzanti, integra inadempimento della convenzione di lottizzazione e non costituisce violazione di un mero obbligo civilistico, poiché le convenzioni di lottizzazione si presentano quale momento indefettibile del complesso procedimento di pianificazione urbanistica che si conclude con l'approvazione del piano di lottizzazione, sicché le stesse configurano un modulo organizzativo attraverso il quale si imprime un determinato statuto ai beni che ne formano oggetto.
L
a anticipazione dei lavori di costruzione degli edifici residenziali, rispetto alla compiuta realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria poste a carico dei lottizzanti, integra altresì inadempimento della convenzione di lottizzazione e non costituisce violazione di un mero obbligo civilistico, poiché le convenzioni di lottizzazione si presentano quale momento indefettibile del complesso procedimento di pianificazione urbanistica che si conclude con l'approvazione del piano di lottizzazione, sicché le stesse configurano un modulo organizzativo attraverso il quale si imprime un determinato statuto ai beni che ne formano oggetto (così già Cass., Sez. 3^, 09.02.1998, Svara ed altri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2011 n. 17834).

EDILIZIA PRIVATALa natura di "variante" di precedente concessione edilizia può riconoscersi soltanto al provvedimento introducente modifiche qualitative o quantitative che, in riferimento alla valutazione complessiva dell'erigendo edificio, risultino di modesta entità, in modo da potersi ritenere che la costruzione sia regolata dall'originaria concessione che conserva la sua efficacia ex tunc.
Al contrario, deve ritenersi "nuova concessione" quella che modifica, anche attraverso un'apprezzabile aumento della volumetria, elementi essenziali del progetto originariamente assentito.

Indipendentemente dal nomen iuris, la natura di "variante" di precedente concessione edilizia può riconoscersi soltanto al provvedimento introducente modifiche qualitative o quantitative che, in riferimento alla valutazione complessiva dell'erigendo edificio, risultino di modesta entità, in modo da potersi ritenere che la costruzione sia regolata dall'originaria concessione che conserva la sua efficacia ex tunc. Al contrario, deve ritenersi "nuova concessione" quella che modifica, anche attraverso un'apprezzabile aumento della volumetria, elementi essenziali del progetto originariamente assentito.
Solo ove fossero in concreto ravvisabili le caratteristiche distintive della concessione "in variante" rimarrebbero sussistenti tutti i diritti quesiti con il provvedimento originario nel caso (corrispondente a ciò che assume la difesa) di sopravvenienza di una nuova contrastante disciplina pianificatoria (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2011 n. 17834).

INCARICHI PROFESSIONALIAi fini della conclusione di un contratto d'opera professionale, che, quando ne sia parte la pubblica amministrazione, va redatto, a pena di nullità, in forma scritta, è irrilevante l'esistenza di una deliberazione dell'organo collegiale dell'ente pubblico che abbia autorizzato il conferimento dell'incarico al professionista, richiamando ed approvando anche lo schema del disciplinare, ove tale deliberazione non risulti essersi tradotta in atto contrattuale, sottoscritto dal rappresentante esterno dell'ente stesso e dal professionista.
Ai fini della conclusione di un contratto d'opera professionale, che, quando ne sia parte la pubblica amministrazione, va redatto, a pena di nullità, in forma scritta, è irrilevante l'esistenza di una deliberazione dell'organo collegiale dell'ente pubblico che abbia autorizzato il conferimento dell'incarico al professionista, richiamando ed approvando anche lo schema del disciplinare, ove tale deliberazione non risulti essersi tradotta in atto contrattuale, sottoscritto dal rappresentante esterno dell'ente stesso e dal professionista.
Detta deliberazione non costituisce, infatti, una proposta contrattuale nei confronti del professionista, ma un atto con efficacia interna all'ente pubblico, avente per destinatario il diverso organo dell'ente legittimato ad esprimere la volontà all'esterno e carattere meramente autorizzatolo (in tal senso è la massima della sentenza n. 17695 del 2003; si rammentano anche, da ultimo, Cass. n. 10299 del 2010 e, tra le altre, Cass. nn. 14570 del 2004 - 3042 del 2005 - 24296 del 2005 - 17650 del 2007 - 27407 del 2008) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 20.04.2011 n. 9080).

EDILIZIA PRIVATALa sopraelevazione, anche se di dimensioni ridotte, costituisce una nuova costruzione, con la conseguente applicazione delle distanze legali.
Con sentenza 11.04.2001 il tribunale di Como, sulla domanda proposta da ... contro ... con citazione 15.06.1992 per il rispetto delle distanze legali e sulla riconvenzionale del convenuto, ordinava la demolizione delle parti dell'edificio dell'attore realizzate in sopraelevazione a meno di 5 metri dal confine con condanna ai danni.
... la Corte di appello ha condiviso la tesi del Tribunale secondo cui la sopraelevazione, anche se di dimensioni ridotte, costituisce una nuova costruzione, con la conseguente applicazione delle distanze legali (Cass. 8954/2000, 1474/1999) ed ha richiamato il regolamento edilizio del Comune (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 08.04.2011 n. 8091).

EDILIZIA PRIVATA: VECCHI CONDONI.
È legittimo il provvedimento con il quale, in sede di rilascio di una concessione in sanatoria in base ai condoni del 1985 e del 1994 per aver mutato senza opere edilizie da commercio all'ingrosso a commercio al minuto la destinazione d'uso di un fabbricato in zona D (destinata ad «attività produttive»), è stato chiesto il pagamento del conguaglio degli oneri concessori per il mutamento della destinazione d'uso (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 07.12.2010 n. 8620 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

I.C.I.Diverse le sentenze che definiscono i requisiti della dimora principale.
Due unità immobiliari contigue, se utilizzate unitariamente come dimora abituale del contribuente e della sua famiglia, sono esenti da Ici anche se autonomamente accatastate.
L'affermazione è contenuta nella sentenza 19.05.2010 n. 12269 e nella sentenza 12.02.2010 n. 3397 della Corte di Cassazione, Sez. tributaria.
Al contrario, non può beneficiare dell'esenzione l'immobile di residenza di uno dei coniugi qualora la residenza degli altri familiari sia ubicata in un immobile diverso.
La precisazione giunge dalla sentenza 15.06.2010 n. 14389 della Cassazione.
Con l'avvicinarsi del termine del pagamento del primo acconto Ici 2011, si affollano i dubbi sulla portata dell'esenzione per l'abitazione principale, sancita nell'articolo 1 del Dl 93/2008.
La prima fattispecie riguarda il caso in cui la famiglia utilizza promiscuamente e unitariamente due distinte unità immobiliari contigue, situate ad esempio sullo stesso piano o su piani comunicanti. In tale situazione –secondo la Cassazione– non rileva la circostanza che le stesse siano autonomamente accatastate: infatti, l'articolo 8, Dlgs 504/1992, che contiene la definizione di abitazione principale, richiede solo la destinazione d'uso a dimora abituale del contribuente, senza alcun riferimento alla situazione catastale degli immobili.
Su questo punto, peraltro, il Dlgs 23/2011, attuativo del federalismo municipale, all'articolo 8, contiene una disposizione specifica riferita alla futura Imu, l'imposta municipale che sostituirà l'Ici a partire dal 2014. Si precisa infatti che l'abitazione principale esente dovrà essere «l'immobile iscritto o iscrivibile in catasto come unica unità immobiliare». È evidente che la previsione ha la funzione di superare l'orientamento di Cassazione favorevole ai contribuenti.
Di segno opposto è invece la statuizione che riguarda il caso di residenza disgiunta dei due coniugi. Il caso esaminato dalla Corte riguardava un coniuge residente, per ragioni di lavoro, in un Comune diverso da quello di residenza dell'altro coniuge e dei figli. Secondo la sentenza, la definizione legislativa di abitazione principale richiede la compresenza della dimora abituale del contribuente e dei suoi familiari. Tanto, a meno che il contribuente non provi la frattura del rapporto coniugale. Nella situazione in esame, pertanto, l'unica abitazione principale è quella di residenza dell'altro coniuge e dei figli. Nella futura Imu, il requisito della dimora congiunta dei contribuenti e dei familiari sembra invece superato.
Un altro tema critico relativo all'esenzione riguarda l'esatta individuazione delle ipotesi di assimilazione all'abitazione principale. La disposizione del Dl 93/2008 estende infatti l'esenzione alle assimilazioni legali (si veda la «Parola chiave» qui a fianco) e alle assimilazioni regolamentari adottate alla data del 29.05.2008. Secondo l'interpretazione fornita nella risoluzione n. 2/2009 delle Finanze, le assimilazioni regolamentari sono solo quelle tipizzate in disposizioni di legge. Tali sono, dunque, gli immobili concessi in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale e gli immobili non locati posseduti da anziani o disabili residenti in istituti di ricovero.
Ne consegue che sarebbero, al contrario, soggetti ad Ici, ad esempio, i fabbricati dei cittadini italiani non residenti, iscritti all'Aire. Lo stesso dicasi per le delibere comunali che avessero equiparato all'abitazione principale gli immobili affittati a soggetti che vi dimorano. Ugualmente irrilevanti sono le clausole regolamentari di assimilazione adottate dopo il 29.05.2008 (data di entrata in vigore del Dl 93/2008).
Tra l'altro, nella futura imposta municipale del federalismo l'esenzione sembra applicabile solo per l'abitazione principale in senso stretto, senza più estensioni ad assimilazioni di sorta (06.06.2011 - commento tratto da www.casa24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, messo a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che ne ricava la nuova costruzione.
La sua disciplina è dettata dalla legge e il giudice non può configurare ipotesi di esenzione diverse da quelle di legge.

E’ ben vero che, secondo la maggioritaria giurisprudenza amministrativa, dalla quale il Collegio non ha ragione di discostarsi, il contributo per oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (tra le molte, per tutte, Cons. St., sez. V, 23.05.1997, n. 529).
Siffatta peculiare forma di “corrispettività” trova d’altronde indiretta conferma nelle tassative previsioni (come l’abrogato art. 11 della L. n. 10/1977 e il vigente art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001) che contemplano ipotesi di scomputabilità totale o parziale del suddetto contributo (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.04.2009 n. 2359 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Varianti in corso d'opera - Non incidenza sulla sagoma dell'edificio - Necessità - Concetto di sagoma - Individuazione.
In tema di disciplina edilizia, rientrano nel concetto di sagoma di una costruzione tutte le strutture perimetrali come gli aggetti e gli sporti, restandone escluse le sole aperture che non prevedono superfici sporgenti, soltanto per le quali è consentita la procedura della denunzia di inizio attività per varianti in corso d'opera.
Pertanto, a quanto già previsto nella L. n. 47 del 1985, art. 15 e L. n. 662 del 1999, art. 2, comma 60, art. 7, lett. g), anche il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2, continua a prevedere l'assoggettabilità a DIA unicamente per le varianti che non incidono sui parametri urbanistici e sulle volumetrie, che non modificano la destinazione d'uso e la categoria edilizia, non alterano la sagoma dell'edificio e non violano le eventuali prescrizioni contenute nel permesso di costruire.
Di conseguenza, si è escluso, ad esempio, che possano rientrare nella categoria delle c.d. varianti di opera, la realizzazione di una scala esterna di accesso al primo piano, di una mensola su entrambi i lati con riguardo ai solai di calpestio, di sottotetto del primo piano, di uno sporto al solaio del sottotetto, (Sez. 3^, Sentenza n. 3849 del 09/02/1998 Rv. 210647) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.03.2006 n. 8303 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Relazioni dei tecnici - Falsità ideologica in certificato - Ingegnere o tecnico tenuto a disporre gli atti necessari per il rilascio di una concessione edilizia - Tipologia degli atti.
In tema del reato di falsità ideologica in certificato commesso da persona esercente in servizio di pubblica necessità, che, l'ingegnere e, comunque, il tecnico tenuto a disporre gli atti necessari per il rilascio di una concessione edilizia, devono considerarsi esercenti. Un servizio di pubblica necessità.
Infatti sia il progetto quanto la relazione sono atti professionali che per legge richiedono un titolo di abilitazione e che sono vietati a chi non sia autorizzato allo esercizio della professione specifica (sez. 5^, sentenza n. 9821 del 07/05/1986 rv. 173807).
Avuto riguardo alla tipologia degli atti si è talora esclusa la natura di "certificato" nel caso della relazione tecnica allegata alla comunicazione prevista dalla Legge 28.02.1985 n. 47, art. 26, sul rilievo che la sua funzione è quella di rendere nota alla P.A. l'intenzione di realizzare le opere in essa descritta, al momento ancora inesistenti. (Sez. 5^, Sentenza n. 24562 del 03/05/2005 Rv. 231505; Sez. 5^, Sentenza n. 23668 del 26/04/2005 Rv. 231906).
Si è ritenuta, per contro, la sussistenza del reato in esame nei casi in cui le relazioni dei tecnici riguardavano, invece, opere già eseguite (così Sez. 5^, Sentenza n. 21639 del 24/02/2004 Rv. 229184 che ha ravvisato il reato in relazione alla presentazione di DIA, pur essendo le opere previste già materialmente eseguite) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.03.2006 n. 8303 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione edilizia - Ristrutturazione edilizia - Area di sedime originaria - Necessità - Fondamento.
Per sagoma deve intendersi la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, così che solo le aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma.

In tema di ristrutturazione edilizia, la necessità della costruzione dell'edificio demolito nell'area di sedime originaria è un requisito insito nella nozione stessa di ristrutturazione, atteso che tale nozione deve essere oggetto di interpretazione restrittiva poiché la sua disciplina costituisce un'eccezione al principio generale secondo il quale ogni trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, che ne comporti una rilevante modifica nel suo assetto, necessita di essere assentita con il permesso di costruire.
Al fine di ricomprendere nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione di un fabbricato con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, per sagoma deve intendersi la conformazione planovolumetrica della costruzione ed il suo perimetro considerato in senso verticale ed orizzontale, così che solo le aperture che non prevedano superfici sporgenti vanno escluse dalla nozione stessa di sagoma.
Gli interventi effettuati su immobili sottoposti a vincolo paesistico e ambientale vanno considerati in variazione essenziale dalla normativa urbanistica e vanno sanzionati ai sensi dell'art. 20, lett. c), della legge 28.02.1985 n. 47 (ora sostituito dall'art. 44, comma primo, lett. c), del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con riferimento all'art. 32 stesso testo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.04.2004 n. 19034 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Concessione - Contributo di urbanizzazione - Esenzione ex art. 9, lett. f, L. 10/1977 - Presupposti.
2. Concessione - Convenzione - Connotazione soggettiva della società istante - Irrilevanza.
3. Concessione - Contributo di urbanizzazione - Esenzione ex art. 9, lett. f, L. 10/1977 - Edifici di proprietà privata - Inapplicabilità.
4. Concessione - Contributo di costruzione - Esenzione ex art. 10, comma 1, L. 10/1977 - Immobile destinato a residenza per anziani - Inapplicabilità.

1. Ai fini dell'esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, prevista dall'art. 9, lett. f, L. 10/1977, occorre il concorso di due presupposti, e cioè l'ascrivibilità del manufatto oggetto di concessione edilizia alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale (nel senso che deve trattarsi di impianti o attrezzature che, quantunque non destinati direttamente a scopi dell'amministrazione, siano idonei a soddisfare bisogni della collettività anche se realizzati e gestiti da privati) e l'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire da parte di soggetti cui sia demandata in via istituzionale la realizzazione di opere di interesse generale, come nel caso di concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie.
2. Lo schema di convenzione, presentato dalla società concessionaria ed approvato dal Consiglio Comunale, contenente la disciplina dei servizi che dovranno essere prestati agli utenti di una residenza per anziani, non riguarda la connotazione soggettiva della società proprietaria dell'immobile e gerente della medesima struttura, che rimane, a tutti gli effetti, una società di diritto privato; pertanto, deve escludersi che la società chiamata a gestire l'immobile secondo gli indirizzi della convenzione, assuma la veste di concessionaria di un pubblico servizio alla quale possa applicarsi l'ipotesi di esenzione prevista dall'art. 9, lett. f, L. 10/1977.
3. Per quanto riguarda la seconda ipotesi di esenzione prevista dall'art. 9, lett. f, L. 10/1977 che riguarda "le opere di urbanizzazione eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici", si osserva che le attrezzature sanitarie, ancorché rientranti nel tassativo elenco previsto dalla L. 847/1964, qualora siano di proprietà privata non possono comunque essere annoverate tra le opere di urbanizzazione secondaria, difatti in esse non possono rientrare edifici di proprietà privata sol perché utilizzati per finalità simili a quella propria degli edifici pubblici, considerato che il fine dell'esenzione è quello di evitare una contribuzione intimamente contraddittoria (quale sarebbe quella per opere costruite a carico della collettività) e non quella di esonerare gli imprenditori dai costi di impresa; in ogni caso l'opera di urbanizzazione, ai fini dell'applicazione dell'esonero del contributo concessorio, deve essere qualificata come tale nello strumento urbanistico dell'ente locale, anche attuativo.
4. L'immobile adibito a residenza per anziani, con destinazione di tipo prevalentemente ricettivo, sia pure in parte con funzioni sanitarie che non costituiscono la connotazione principale dell'attività svolta nella struttura, non può essere assimilato ad un insediamento di tipo industriale-artigianale per il quale l'art. 10, comma 1, prevede che non sia da corrispondere il contributo connesso al costo di costruzione.
_______________________
1. In questa rassegna: Tar Toscana, sez. II, 18.04.2001 n. 757; inoltre confronta: Cons. Stato, sez. V, 17.10.2000 n. 5558; Cons. Stato, sez. V, 06.12.1999 n. 2061; Cons. Stato, sez. V, 10.05.1999 n. 536; Cons. Stato, sez. V, 19.05.1998 n. 617; Cons. Stato, sez. V, 04.05.1998 n. 492; Cons. Stato, sez. V, 07.09.1995, n. 1280; Cons. Stato, sez. V, 10.12.1990 n. 857; Tar Toscana, sez. III, 09.06.2000 n. 1149; Tar Lombardia - Brescia, 20.06.2000 n. 554; Tar Lombardia-Brescia, 18.03.1999 n. 217; Tar Toscana, sez. III, 19.02.1999 n. 17; Tar Piemonte, sez. I, 17.12.1998 n. 746; Tar Piemonte, sez. I, 10.04.1997 n. 206.
3. Cons. Stato, sez. V, 19.05.1998 n. 617; Cons. Stato, sez. V, 21.01.1997 n. 69
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 06.12.2001 n. 1819 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanzioni - Ingiunzione a demolire - Mancata notifica al comproprietario - Illegittimità - Esclusione - Successivo provvedimento di acquisizione gratuita ex art. 7 L. 47/1985 - Necessità della previa notifica dell'ordinanza di demolizione al comproprietario.
L'ingiunzione di demolizione di immobile abusivo, essendo improduttiva di effetti diretti ed immediati sul patrimonio del soggetto cui è intimata, ha sostanzialmente carattere di diffida rivolta ad assegnare un termine all'intimato, al fine di consentirgli lo spontaneo ripristino della legalità, e di evitargli in tal modo di subire la definitiva sanzione all'uopo prevista dalla legge.
Di conseguenza, l'ingiunzione a demolire non è viziata da illegittimità per il solo fatto di non essere stata notificata a tutti i comproprietari, fermo restando che il successivo provvedimento di acquisizione al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 7 della L. 47/1985, non è legittimamente adottato nei confronti del comproprietario al quale non sia stata notificata la diffida.
________________
1. - Nello stesso senso TAR Campania-Napoli, Sez. V, 10.11.1994 n. 415, in Rass. TAR, 1995, pag. 289; cfr. inoltre Consiglio di Stato, Sez. V, 20.04.1994 n. 333, in Rass. Cons. di Stato, 1994, pag. 574, entrambe citate in motivazione (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 25.07.2001 n. 1253 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI:  1. Bando - Onere di immediata impugnazione - Quando sussiste.
2. - Bando - Mancata tempestiva impugnazione di una clausola che prevede la contaminazione tra fase di qualificazione e fase di valutazione delle offerte - Eccezioni di tardività e inammissibilità del ricorso - Infondatezza.
3. - Servizi - Progettazione - Procedura ex art. 23 D.Lgs 157/1995 - Sommatoria dei punteggi ottenuti in sede di prequalificazione ed in sede di gara vera e propria - Illegittimità.
4. - Servizi - Progettazione - Procedura ex art. 23 D.Lgs 157/1995 - Definizione dei criteri di individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa - Previsioni del D.P.C.M. 27.02.1997 n. 116 - Dubbia compatibilità con il diritto comunitario.
5. - Servizi - Progettazione - Determinazioni dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici - Efficacia - Determinazione n. 6 dell'08.11.1999 dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici - Conferma del principio giuridico ivi affermato.
6. - Servizi - Progettazione - Annullamento del bando nella parte in cui suddivide il concorso in due fasi - Domanda di risarcimento del danno in forma specifica proposta dal ricorrente secondo classificato, ex art. 35 D.Lgs 80/1998, mediante l'accertamento e la dichiarazione del suo diritto all'aggiudicazione della gara d'appalto - Insussistenza.

1. - Il tradizionale principio per cui il bando di gara non è autonomamente lesivo e, quindi, non è impugnabile se non unitamente ai provvedimenti concreti che ne facciano applicazione, soffre di alcune eccezioni, ricorrendo le quali il bando deve essere tempestivamente impugnato.
In particolare, il bando di gara deve essere tempestivamente impugnato qualora:
a) le clausole censurate impediscano la partecipazione alla gara fissando particolari requisiti soggettivi dei concorrenti;
b) le clausole siano ritenute irragionevoli al punto da non consentire la stessa formulazione dell'offerta e, quindi, rendano impossibile quel calcolo di convenienza tecnica ed economica che ogni concorrente deve poter effettuare all'atto in cui decide se partecipare o meno ad una gara;
c) le prescrizioni del bando impongano determinati oneri formali alle imprese partecipanti, a pena di esclusione (es.: esibizione di documenti o certificati);
d) le clausole censurate siano relative al modus operandi fissato per il funzionamento della commissione giudicatrice (es.: operazioni da svolgere in seduta pubblica o segreta).
Più in generale, come anche affermato dalla più recente giurisprudenza (sentenze 2884/2000 e 2990/2000 del Consiglio di Stato), l'immediata impugnazione del bando di gara è subordinata ad un'accurata analisi della singola fattispecie che metta in luce, fra l'altro, i seguenti aspetti:
a) il contenuto della clausola del bando sospetta di illegittimità;
b) il tipo di vizio dedotto dalla parte ricorrente;
c) l'interesse manifestato dall'impresa;
d) l'attitudine della partecipazione alla procedura selettiva a manifestare univocamente l'acquiescenza alle regole della gara;
e) l'influenza della regola fissata dal bando sui comportamenti dei concorrenti e sulla condotta della stazione appaltante;
f) l'incidenza della clausola sullo svolgimento concreto della gara e sui suoi esiti.
2. - L'asserita illegittimità di una clausola del bando di gara nella parte in cui dispone la valutazione dei titoli di ammissione attraverso la scissione della procedura di gara in due fasi distinte, indica una lesione solo potenziale al momento dell'adozione dell'atto che può divenire attuale, eventualmente, all'esito della gara.
Pertanto l'interesse all'impugnazione del bando, in relazione alla suddetta clausola, è strettamente connesso alla non irragionevole possibilità -valutabile solo ex post, all'esito della gara- che il ricorrente, secondo una procedura legittima, avrebbe ottenuto l'affidamento dell'incarico nell'ambito di una selezione incentrata sulla valutazione dell'offerta (II fase), senza rilievo determinante dei requisiti di idoneità soggettiva (I fase).
Ne consegue l'ammissibilità e la tempestività del ricorso ritualmente proposto contro il bando e contro l'atto di affidamento dell'incarico.
3. - E' illegittimo il bando di gara nella parte in cui viene prevista, ai fini della formazione della conclusiva graduatoria dei partecipanti alla selezione, la sommatoria dei punteggi agli stessi attribuiti nella fase di prequalificazione con quelli conseguiti in sede di procedura ristretta vera e propria, in quanto la valutazione del percorso professionale dei concorrenti (compiuta nella prima fase di preselezione), proprio perché preordinata alla qualificazione nell'ambito della gara, non può legittimamente riflettersi anche sull'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa (effettuata nella seconda fase).
Una volta riconosciuta l'astratta idoneità dei concorrenti che abbiano superato la prima fase di prequalificazione, questi sono posti in posizione di assoluta parità, in applicazione dei principi concorrenziali del diritto comunitario ed il contratto (o il servizio) deve essere affidato al soggetto che presenta l'offerta economicamente migliore, non rilevando il precedente curriculum professionale, salvo l'apprezzamento del merito tecnico, il quale peraltro rappresenta solo uno degli elementi valutabili e non può mai assumere rilievo eccessivo almeno in relazione alle pregresse esperienze professionali dei concorrenti.
4. - Pur se allo stato il contenzioso comunitario non è definito, appare di dubbia compatibilità con il diritto comunitario (come già rilevato dalla Commissione nell'atto del 27.09.1998 che ha avviato una procedura di infrazione contro lo Stato Italiano) la scelta del legislatore interno (D.P.C.M. 27.02.1997 n. 116) di attribuire rilevanza -sia pure parziale- ai fini dell'individuazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ad elementi già valutati in sede di prequalificazione.
5. - Le determinazioni dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici, di cui all'art. 4 della L. 109/1994, relative all'illegittimità di atti e provvedimenti dell'Amministrazione, non spiegano alcuna efficacia vincolante nei giudizi in corso aventi ad oggetto detti provvedimenti, né determinano sul piano sostanziale un obbligo di adeguamento a carico della stessa Amministrazione, ma costituiscono comunque un contributo utile a delineare alcuni aspetti della questione all'esame dell'organo giurisdizionale.
Va confermato il principio indicato nell'atto di determinazione n. 6 dell'08.11.1999 di separatezza tra la fase della qualificazione e quella di valutazione dell'offerta; principio tanto più valido per la procedura del concorso di progettazione la quale è diretta alla scelta della migliore tra le prestazioni già rese e offerte alla valutazione dell'Amministrazione, anziché all'individuazione del concorrente più idoneo a rendere, alle migliori condizioni, la futura prestazione.
6. - Le clausole del bando di gara concernenti la suddivisione del concorso in due distinte fasi assumono un rilievo essenziale nell'ambito della intera procedura, per cui l'accertamento dell'illegittimità delle suddette clausole non può determinare, in nessun caso, una sorta di integrazione della lex specialis di gara, imponendo invece all'Amministrazione di rivalutare ex novo tutti i presupposti della gara, anche in relazione alla fissazione di nuovi criteri di ammissione e di valutazione delle offerte.
Pertanto, non può trovare accoglimento la domanda di risarcimento in forma specifica prospettata dal secondo classificato, mediante l'accertamento del suo diritto all'aggiudicazione dell'appalto (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.06.2001 n. 3187 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Concessione - Contributi - Esenzione ex art. 9, lett. f, L. 10/1977 - Presupposti.
2. Concessione - Contributi - Esenzione ex art. 9, lett. f, L. 10/1977 - Opere finalizzate all'espletamento dell'attività istituzionale dell'E.N.E.L. - Spetta.
3. Concessione - Contributo urbanizzazione ex art. 15 L. 393/1975 - Centrale geotermoelettrica - Non è dovuto.
4. Concessione - Contributi - Determinazione - Procedimento.

1. Ai fini dell'esenzione dal contributo di urbanizzazione, previsto dall'art. 9, lett. f, L. n. 10 del 28.01.1977, occorre un duplice requisito e cioè che l'opera rivesta interesse di carattere generale e che essa sia realizzata da un ente pubblico, ovvero da un soggetto privato che agisca per conto dell'ente pubblico, come nel caso di concessione di opera pubblica o di altre analoghe figure organizzatorie; peraltro, non ricade nell'esenzione l'opera costruita da un imprenditore per la propria attività di impresa considerato altresì che il fine dell'esenzione è quello di evitare una contribuzione intimamente contradditoria (quale sarebbe quella per opere costruite a carico della collettività) e non quella di esonerare gli imprenditori dai costi di impresa.
2. L'esenzione, prevista dall'art. 9, lett. f, L. n. 10 del 28.01.1977, dal pagamento del contributo per oneri di urbanizzazione è applicabile alle opere edilizie, impianti ed attrezzature progettate dall'E.N.E.L. in quanto dirette al raggiungimento dei suoi fini istituzionali e strettamente collegate all'indefettibile esigenza di assicurare e garantire, in ogni tempo, la continuità e la regolarità del servizio di erogazione dell'energia elettrica.
3. L'E.N.E.L. non è tenuta alla corresponsione del contributo previsto dall'art. 15 della L. 02.08.1975 n. 393, sostitutivo degli obblighi previsti dalla L. 17.08.1942 n. 1150 e successive modificazioni, allorché abbia realizzato una "centrale geotermoelettrica", in quanto la norma ex art. 15 citata si riferisce alle sole opere di urbanizzazione secondaria eseguite dal Comune con riferimento alla realizzazione di "centrali termiche di qualsiasi tipo" ed alle "centrali elettriche di accumulazione mediante pompaggio".
4. Ai fini dell'incidenza degli oneri di urbanizzazione, l'art. 5 della L. n. 10 del 28.01.1977 fissa una procedura nella quale devono necessariamente intervenire, con diverse finalità e con diverso ambito di autonomia e discrezionalità, atti normativi della Regione e dei Comuni, pertanto solo con l'adozione degli atti di competenza dei Comuni si realizza la concerta determinazione e quantificazione degli oneri di urbanizzazione; deve quindi ritenersi che la diretta individuazione dell'obbligo di corresponsione degli oneri di urbanizzazione esuli dalle attribuzioni legittimamente esercitabili dall'Amministrazioni regionale, atteso che le competenze ad essa in subiecta materia rimesse si limitano all'individuazione dei relativi parametri di riferimento, e non già alla successiva individuazione dell'obbligazione avente ad oggetto il contributo di che trattasi.
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1. Cons. Stato, sez. V, 17.10.2000 n. 5558; Cons. Stato, sez. V, 06.12.1999 n. 2061; Cons. Stato, sez. V, 10.05.1999 n. 536; Cons. Stato, sez. V, 19.05.1998 n. 617; Cons. Stato, sez. V, 07.09.1995 n. 1280; Cons. Stato, sez. V, 10.12.1990 n. 857; TAR Toscana, sez. III, 09.06.2000 n. 1149; TAR Lombardia-Brescia, 20.06.2000 n. 554; TAR Toscana, sez. III, 19.02.1999 n. 17; TAR Piemonte, sez. I, 10.04.1997 n. 206.
2. TAR Lazio, sez. II-bis, 26.10.2000 n. 8678; TAR Lombardia-Milano, 23.11.1979 n. 374.
4. TAR Lazio, sez. II, 13.02.1995 n. 165; TAR Toscana, 06.11.1987 n. 1338
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 18.04.2001 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Concessione - Diniego - Sanatoria ex art. 39 L. 724/1994 - Domanda dolosamente infedele - Presupposti.
2. - Concessione - Diniego - Sanatoria ex art. 39 L. 724/1994 - Domanda dolosamente infedele - Formazione del silenzio assenso - Impossibilità - Diniego disposto oltre 24 mesi dalla presentazione del condono - Legittimità.

1. - Il rigetto della domanda di condono ex art. 40 L. 28.02.1985 n. 47, siccome ritenuta dolosamente infedele, si verifica allorché le inesattezze od omissioni siano preordinate a trarre in errore il Comune su elementi essenziali dell'abuso, quali la data della sua commissione e la qualificazione giuridica dell'illecito.
2. - La inesatta rappresentazione della realtà contenuta nella istanza di concessione in sanatoria su un presupposto essenziale per l'accoglibilità della medesima (nella fattispecie la data di ultimazione dell'opera abusiva), configurando l'ipotesi di domanda dolosamente infedele ai sensi dell'art. 40 L. 47/1985 impedisce il formarsi del c.d. silenzio-assenso e pertanto deve ritenersi legittimo il diniego assunto oltre i 24 mesi dalla data di presentazione della domanda di condono.
____________________
1. - Cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 31.10.1991 n. 1263 e n. 1277, in Rass. TAR, 1991, pag. 4261 e seg.
2. - Conforme TAR Puglia-Bari, Sez. II, 03.05.1994 n. 652, in Rass. TAR, 1994, pag. 2817 citata in motivazione; si veda altresì TAR Piemonte, Sez. I, 21.10.1999 n. 614, in Rass. TAR, 1999, pag. 4679 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.12.2000 n. 2724).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Vincolo paesaggistico - Motivazione - Fattispecie - Sufficienza.
1. Deve ritenersi legittimo il provvedimento di diniego di condono edilizio ove sia precisato che le opere al piano terra non sono autorizzate "in quanto esse sottraggono porzioni di vegetazione all'ambiente e allungano il fronte edificato costituendo ingombro panoramico".
Poiché siffatta motivazione reca una esatta descrizione delle opere ritenute non condonabili e soprattutto un giudizio di disvalore paesaggistico che appare congruo proprio in relazione al tipo e alla consistenza delle opere edilizie eseguite.
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1. Confronta TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2667, n. 2671, n. 2675 e n. 2681; 28.12.2000 n. 2707 e 07.04.2000 n. 602 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.12.2000 n. 2720).

EDILIZIA PRIVATA:  Concessione - Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Vincolo paesaggistico - Motivazione - Fattispecie - Sufficienza.
1. - Non sussiste il difetto di motivazione del diniego di condono edilizio ove tale provvedimento sia giustificato per l'incompatibilità del bene da sanare con il vincolo ambientale e, in specie testualmente, perché: "le tettoie per tipologia e precarietà dei materiali costituiscono grave danno ambientale", una più puntuale motivazione è infatti richiesta in caso di accoglimento di sanatoria nonostante la presenza del vincolo ambientale anziché in caso di diniego.
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1. - Confronta TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2675, n. 2671 e n. 2667; 28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n. 602 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.12.2000 n. 2707).

EDILIZIA PRIVATA1. - Processo amministrativo - Domanda di accertamento dell'obbligo di rilascio della concessione edilizia in sanatoria - Posizione di interesse legittimo - Inammissibilità.
2. - Concessione - Decadenza - Espressa dichiarazione - Necessità - Esclusione.

1. - Deve ritenersi inammissibile la domanda di accertamento dell'obbligo del rilascio della concessione edilizia in sanatoria dal momento che una pronuncia di accertamento è possibile solo in presenza di un diritto soggettivo e non di un interesse legittimo, posizione rivestita in ordine alle concessioni edilizie.
2. - La decadenza della concessione edilizia si determina anche in assenza di un'espressa dichiarazione poiché, in riferimento alla lettera della legge questa non dipende da un atto amministrativo, costitutivo o dichiarativo, ma dal semplice fatto dell'inutile decorso del tempo, ovvero del termine di un anno senza che sia dato inizio ai lavori; diversamente la decadenza si farebbe dipendere non solo da un comportamento dei titolari della concessione ma anche della pubblica amministrazione, con probabili disparità di trattamento tra situazioni identiche (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.12.2000 n. 2704).

ATTI AMMINISTRATIVIOrdinanza sindacale contingibile e urgente - Presupposti - Individuazione - Tutela di un singolo soggetto - Illegittimità.
1. - Presupposto per la misura contingibile è anche che il pericolo che si intende fronteggiare minacci un interesse di natura generale, in qualche modo diffusa, o che comunque trascende la posizione del singolo nominativamente individuato cittadino (al quale l'ordinamento offre peraltro la tutela privatistica del codice civile); deve quindi considerarsi illegittima l'ordinanza contingibile ed urgente espressamente emanata a protezione da un rischio particolare (nella specie a rischio allergico di "choc anafilattico" da puntura di api) gravante su di un unico soggetto, posizione senza dubbio meritevole di considerazione ma che in quanto tale non assurge però al rango di emergenza pubblica.
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1. - Cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.03.1993, n. 443, in Rass. Cons. Stato, 1993, 368, citata nel testo (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.12.2000 n. 2695).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIAppalti e forniture - Servizi - Concorso di progettazione - Divieto ex art. 23, IV comma, D.lgs. 157/1995 - Applicabilità - Ambito.
La disposizione di cui all'art. 23, IV comma, del D.lgs. 17.03.1995, n. 157 -secondo la quale l'affidamento della progettazione non è compatibile con l'aggiudicazione, a favore dello stesso affidatario, degli appalti pubblici relativi ai lavori e ai servizi progettati- deve intendersi riferito alla sola ipotesi in cui l'Amministrazione decida di fare ricorso ai concorsi di progettazione previsti e disciplinati dall'art. 26 del citato decreto legislativo al fine di garantire, così, la par condicio dei concorrenti (che risulterebbe violata nel caso in cui alla gara per l'affidamento del servizio potesse partecipare anche il soggetto che aveva precedentemente redatto il progetto ritenuto più meritevole dall'amministrazione appaltante) (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.12.2000 n. 2689).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIOfferte anomale ex art. 25 D.lgs. 157/1995 - Giustificazioni verbali - Aggiudicazione - Illegittimità - Giustificazioni scritte - Necessità - Conseguenza - Rinnovo della verifica.
1. - Poiché l'art. 25 del D.lgs. 17.03.1995, n. 157 prevede espressamente che le giustificazioni riguardo alle offerte anomale debbano essere richieste e rese per iscritto, deve ritenersi nullo il provvedimento di aggiudicazione alla ditta che in tale sede abbia espresso meri chiarimenti verbali dovendo, pertanto, essere rinnovato il sub-procedimento per la verifica dell'eventuale anomalia dell'offerta.
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1. - In tema, cfr. TAR Veneto, 02.07.1996, n. 1257 in Rass. TAR, 1996, 3161 e Cons. Stato, sez. V, 26.06.1993, n. 753, in Rass. Cons. Stato, 1993, 702, citate nel testo (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.12.2000 n. 2686).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Vincolo paesaggistico - Motivazione - Fattispecie - Insufficienza.
1. - Il dovere di una adeguata motivazione a sostegno di un diniego di concessione non può ritenersi osservato ove si faccia riferimento soltanto al fatto che l'opera "non si inserisce nel contesto ambientale" ma occorre che l'amministrazione individui specificamente, anche se in modo succinto, oltre che il vincolo esistente, anche le caratteristiche costruttive che, eventualmente collegate alla specifica localizzazione nel territorio, sono di ostacolo ad un idoneo inserimento dell'immobile nella bellezza paesaggistica tutelata.
_____________________
1. - Conformi TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2671 e 2667; confronta inoltre per i casi di motivazione sufficiente TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2675, 28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n. 602 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.12.2000 n. 2681).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Vincolo paesaggistico - Motivazione - Fattispecie - Sufficienza.
1. - E' infondata la censura di difetto di motivazione dell'atto ove dallo stesso si ricavi agevolmente l'iter logico seguito dall'amministrazione, che abbia sufficientemente assolto all'onere di motivare in ordine alla concreta incompatibilità dell'intervento con i valori tutelati ed abbia coerentemente richiamato i motivi per i quali le opere non devono ritenersi adeguate alle caratteristiche ambientali predette, che si sostanziano nell'individuazione di specifiche caratteristiche costruttive e di localizzazione che impediscono l'idoneo inserimento di tali opere nella bellezza paesaggistica tutelata.
Deve pertanto ritenersi legittimo il provvedimento di diniego di sanatoria relativo a manufatti insistenti in area vincolata motivato sul fatto che tali opere "per la loro dimensione sottraggono una porzione rilevante al giardino storico oggetto di vincolo" e sono "realizzati con caratteristiche e materiali non compatibili con quelli degli edifici storici circostanti".
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1. - Confronta TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2667, n. 2671 e n. 2681; 28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n. 602 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.12.2000 n. 2675).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Sanatoria ex art. 31 e ss. l. 47/1985 - Diniego - per omessa produzione di ulteriore documentazione - Legittimità.
1. Il potere previsto dall'art. 35, comma 15, della L. n. 47/1985, di invitare il soggetto che richiede il condono edilizio a produrre ulteriore documentazione, risponde all'esigenza di supplire al mancato adempimento dell'onere formale di allegazione di cui al comma 3, art. cit., onere che la legge pone inderogabilmente a carico del richiedente il condono stesso; pertanto, a fronte del persistere dell'inadempimento a tale onere formale, legittimamente l'amministrazione respinge la domanda di concessione edilizia in sanatoria per difetto dei necessari elementi conoscitivi e perché la domanda "per la rilevanza delle omissioni" deve ritenersi dolosamente infedele.
Nel caso di specie debbono indubbiamente ritenersi "rilevanti" le omissioni documentali della domanda protrattesi per oltre nove anni, posto che il ricorrente non aveva allegato alcun atto, malgrado vari solleciti dell'amministrazione.
____________________
1. - Conforme TAR Toscana, Sez. II, 24.08.1998 n. 752, in Rass. TAR, 1998, pag. 3763; in tema di domanda dolosamente infedele cfr. TAR Toscana, Sez. III, 28.12.2000 n. 2668 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.12.2000 n. 2668).

EDILIZIA PRIVATA1. Concessione - Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Zona vincolata dopo l'abuso - Obbligo di pronuncia da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo - Sussistenza.
2. Concessione - Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Vincolo paesaggistico - Motivazione - Fattispecie - Insufficienza.

1. - In sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, l'obbligo di acquisire il parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza dello stesso vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono, a prescindere dall'epoca della sua introduzione, e quindi, anche per le opere eseguite anteriormente alla imposizione del vincolo stesso.
2. - Il dovere di una adeguata motivazione a sostegno di un diniego di condono, non può ritenersi osservato ove si faccia riferimento soltanto al fatto che l'opera "non si inserisce nel contesto ambientale", ma occorre che l'amministrazione individui specificamente anche se, in modo succinto, le caratteristiche costruttive che, eventualmente collegate alla specifica localizzazione nel territorio, sono di ostacolo ad un idoneo inserimento dell'immobile nella bellezza paesaggistica tutelata e ciò per far sì che il privato possa agevolmente dedurre, dall'atto, l'iter logico seguito dall'amministrazione e le ragioni poste a fondamento del diniego.
__________________
1. - Conforme Consiglio di Stato, Ad. pl., 22.07.1999 n. 20, in Rass. Cons. di Stato, 1999, citata in motivazione; confronta inoltre TAR Toscana, Sez. III, 09.11.2000 n. 2322.
2. - Conformi TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2671 e 2681, in questa raccolta; confronta inoltre per i casi di motivazione sufficiente TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2675, 28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n. 602
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.12.2000 n. 2667).

EDILIZIA PRIVATAParcheggio - Art. 9. l. n. 122/1989 - Disciplina eccezionale - Applicabilità ad aree extraurbane - Esclusione.
1. - La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari "anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti", consentita dall'art. 9 legge n. 122/1989 (c.d. "Legge Tognoli"), costituisce disposizione a carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia.
_____________________
1. - In tal senso TAR Toscana, Sez. II., 16.07.1992, n. 322, in Rass. TAR, 1992, pag. 4038 e TAR Lazio, Sez. II, 15.12.1992, n. 2357, in op. cit., 1993, pag. 23 citate nel testo; v. ancora in particolare TAR Puglia-Bari, Sez. II, 12.10.1995, n. 953, in Rass. TAR, 1995, pag. 4987 e in Foro amm., 1996, pag. 2063; TAR Sicilia-Catania, 30.10.1997, n. 2152, in Rass. TAR, 1997, pag. 4602; TAR Calabria-Catanzaro, 06.02.1995, n. 142, in op. cit., 1995, pag. 1975. La sentenza del TAR Toscana è ampiamente motivata anche con riferimento alla sentenza Corte Costituzionale 19-27.07.1989 n. 459 in Rass. Cons. di Stato, 1989, II, pag. 1076 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.12.2000 n. 2533).

ATTI AMMINISTRATIVIVizi - Mancata apposizione della firma - Individuazione dell'autore del provvedimento e imputabilità della determinazione - Invalidità dell'atto - Esclusione.
1. - La mancata apposizione della firma non può considerarsi causa di invalidità dell'atto ove questo contenga gli elementi sufficienti (quali, ad esempio, la qualifica del funzionario) idonei ad individuare l'autore del provvedimento e a consentire, in ogni caso, l'imputabilità della determinazione stessa ad un soggetto ben preciso dell'Amministrazione procedente.
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1. - In merito alla illeggibilità della firma si vedano TAR Campania-Napoli 21.01.2000 n. 199, in Rass. TAR, 2000, pag. 1458; TAR Toscana, Sezione III, 19.03.1999 n. 42, in Rass. TAR, 1999, pag. 1967, citate in motivazione e TAR Veneto, Sezione II, 07.12.1999 n. 2413, in Rass. TAR, 2000, pag. 689.
Afferma invece l'inesistenza del provvedimento col quale si ordina la demolizione di un'opera abusiva che risulti privo della sottoscrizione da parte dell'organo che lo ha adottato, Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche 04.05.1999 n. 64, in Rass. Cons. Stato, 1999, pag. 912; cfr. inoltre Consiglio di Stato, Ad. gen., parere 1438/1993 del 24.02.1994, in Rass. Cons. Stato, 1995, pag. 147; TAR Sicilia-Catania 30.04.1996 n. 703, in Rass. TAR, 1996, pag. 2868; TAR Lazio, Sezione I, 01.02.1995 n. 132, Rass. TAR, 1995, pag. 957
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2000 n. 2346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Necessità - Precarietà del manufatto - Esclusione - Presupposti.
1. - La precarietà di un manufatto, tale per cui la sua realizzazione non necessiterebbe di concessione edilizia, non dipende dai materiali utilizzati o dal sistema di ancoraggio al suolo, bensì dall'uso cui è destinato sicché la stessa precarietà va esclusa allorché si tratti di un manufatto destinato a dare un'utilità prolungata nel tempo e ciò indipendentemente dalla sua eventuale rimozione.
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1. - Conforme Corte di Cassazione, Sezione III penale, 12.07-19.10.1999 n. 11839, in Rass. Cons. Stato, 2000, parte II, pag. 989 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2000 n. 2346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanzioni - Ingiunzione a demolire - Motivazione - Abuso risalente nel tempo - Necessità - Esclusione.
1. - L'ordinanza di ingiunzione a demolire non deve essere sorretta da alcuna specifica motivazione in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico a disporre la sanzione anche quando l'abuso sia risalente nel tempo perché non può ammettersi la sussistenza di alcun legittimo affidamento del contravventore a veder conservata una situazione di fatto che il tempo non può aver legittimato.
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1. - Nello stesso senso Consiglio di Stato, Sezione IV, 08.07.1998 n. 1015, in Rass. Cons. di Stato, 1998, pag. 1141 citata in motivazione. Si segnalano invece di contrario avviso, tra le altre recentemente, Consiglio di Stato, Sezione V, 19.03.1999 n. 286 e 11.02.1999 n. 144, in Rass. Cons. di Stato, 1999 pagg. 403 e 225; nonché TAR Piemonte, Sezione I, 25.02.1999 n. 105, in Rass. TAR, 1999, pag. 1267 e Consiglio di Stato, Sezione IV, 03.02.1996 n. 95, in Rass. Cons. Stato, 1996, pag. 130 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2000 n. 2346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Sanzioni - Ingiunzione a demolire - Proprietario estraneo all'abuso - Responsabilità - Sussistenza.
2. - Atto amministrativo - Comunicazione di avvio del procedimento - Ingiunzione a demolire - Non occorre.

1. - Le misure repressive per l'attività edilizia risultano legittimamente irrogate nei confronti del proprietario dell'immobile anche se non è l'autore dell'abuso: in tale materia infatti il proprietario del fondo, ancorché estraneo all'illecito, deve essere ritenuto responsabile dei manufatti eseguiti su di esso, posto che le sanzioni amministrative e in primo luogo l'ingiunzione a demolire, mirano, prima ancora che ad irrogare una sanzione afflittiva, ad eliminare una situazione obiettivamente antigiuridica ed inoltre, in base ai principi contenuti nella legge n. 689 del 1991, sussisterebbe una solidarietà passiva tra il proprietario e l'autore dell'abuso, nei cui confronti egli può sempre agire sulla base dei rapporti privatistici intercorrenti.
2. - Le disposizioni di tipo garantistico recate dagli artt. 7 e ss. della legge n. 241/1990 non trovano applicazione in materia di abusi edilizi dove il procedimento sanzionatorio è rigorosamente scandito da disposizioni normative che escludono qualsiasi valutazione discrezionale della P.A. e il provvedimento viene emesso sulla scorta di un mero accertamento tecnico.
Pertanto, in presenza di atti dovuti e vincolati, quali l'ordinanza di ingiunzione a demolire, il principio della partecipazione al procedimento si rivela inutile posto che alcun concreto contributo è possibile apportare alla formazione del provvedimento finale da parte del privato interessato.
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1. - Conformi TAR Campania-Napoli, 24.06.1998 n. 2102, in Rass. TAR, 1998, pag. 3343 e TAR Toscana, Sezione II, 18.09.1997 n. 608, in Rass. TAR, 1997, pag. 4012, citate in motivazione.
2. - Conformi TAR Toscana, III Sezione, 19.05.2000 n. 924 e 18.02.2000 n. 301 in questa raccolta; nonché TAR Campania - Napoli 22.02.2000 n. 457, in Rass. TAR, 2000, pag. 1999 e 23.11.1999 n. 2996, in op. cit., 2000, pag. 304; TAR Lazio, Sezione II-ter 14.03.2000 n. 1776, in op. cit., 2000, pag. 1714.
Di diverso avviso Consiglio di Stato V Sezione, 23.02.2000 n. 948, in Urbanistica e Appalti, 2000, n. 11, pag. 1237, e Rass. Cons. di Stato, 2000, pag. 360 (fattispecie relativa al procedimento per l'adozione di un provvedimento sanzionatorio per lottizzazione abusiva ex art. 18, comma 1, L. 47/1985) e TAR Marche 11.02.2000 n. 173, in Rass. TAR, 2000, pag. 1934; sulla necessità della comunicazione di avvio del procedimento in caso di atti di natura vincolata si vedano Consiglio di Stato, Sezione VI, 20.04.2000 n. 2443, in Rass. Cons. di Stato, 2000, pag. 1038, Ministero interno (ricorso straordinario) 05.04.2000 n. 286/2000, in op. cit., 2000, pag. 1934, Consiglio di Stato, Sezione V, 23.02.2000 n. 956, in op. cit., 2000, pag. 363, Consiglio di Stato, Sezione V, 23.04.1998 n. 474, in Rass. Cons. di Stato, 1998, pag. 609, nonché TAR Piemonte 02.03.2000 n. 223, in Rass. TAR, 2000, pag. 2408, TAR Emilia Romagna-Bologna, 25.11.1996 n. 401, in Rass. TAR, 1997, pag. 188 e TAR Sicilia-Palermo, 05.11.1996 n. 1383, in op. cit., 1997, pag. 361. Si veda anche Consiglio di Stato, Sezione IV, 27.11.2000 n. 6305
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 21.11.2000 n. 2345 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAutorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Zona vincolata dopo l'abuso - Obbligo di pronuncia da parte dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo - Sussistenza.
1. - In ordine alla domanda di condono presentata ex art. 31 e ss. L. 47/1985, deve riconoscersi come dovuto l'esercizio del potere di controllo dell'Autorità statale sull'autorizzazione rilasciata dal Comune ex art. 7 legge 1497/1939 anche ove si tratti di opere edilizie abusive realizzate prima dell'imposizione del vincolo ambientale.
La disposizione di portata generale di cui all'art. 32, comma 1, legge 47/1985 relativa ai vincoli limitativi dell'edificazione deve infatti interpretarsi nel senso che l'obbligo di pronuncia da parte dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo sussiste in relazione all'esistenza del vincolo al momento in cui deve essere valutata la domanda di sanatoria a prescindere dall'epoca della sua introduzione e ciò proprio al fine di consentire di vagliare l'attuale compatibilità con il vincolo dei manufatti abusivamente realizzati.
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1. - Conforme Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 22.07.1999 n. 20 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 1080 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.11.2000 n. 2322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAutorizzazione art. 7 L. 1497/1939 - Annullamento ministeriale - Termine di 60 giorni - Applicabilità alla comunicazione o alla notificazione - Esclusione.
1. - Il termine di sessanta giorni stabilito dalla legge 08.08.1985 n. 431 entro il quale il Ministero dei Beni Culturali e Ambientali può disporre l'annullamento delle autorizzazioni regionali (o comunali) in materia di costruzioni in zone soggette a vincolo paesistico di cui all'art. 7 della legge 29.06.1939 n. 1497, ancorché perentorio, attiene solo all'esercizio del potere di annullamento restando estranea alla previsione normativa l'ulteriore fase della comunicazione o notificazione.
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1. - Conforme TAR Toscana, I Sezione, 17.07.2000 n. 1691, in questa raccolta; Consiglio di Stato, sez. VI, 22.11.1999 n. 1909 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 1935. Cfr. inoltre sulla decorrenza del termine di 60 giorni TAR Toscana, II Sezione, 15.05.2000 n. 838 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 09.11.2000 n. 2322 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Impianti pubblicitari - Amministrazione comunale - Sospensione e rinvio delle determinazioni - Riferimento a futura adozione del Piano Generale degli Impianti - Violazione dell'art. 41 Cost. - Illegittimità.
2. - Impianti pubblicitari - Regolamento ex art. 3 D.lgs. 15.11.1993 n. 507 - Ambito di applicazione.
3. - Impianti pubblicitari - Silenzio assenso ex art. 20 L. 241/1990 - Applicabilità.

1. - Incorre nella violazione del principio costituzionale di tutela della libertà di iniziativa economica privata, del principio di stretta legalità, nonché dei principi di certezza e di buon andamento dell'azione amministrativa, l'amministrazione comunale che sospenda ogni decisione riguardo alle richieste di autorizzazione all'installazione di impianti pubblicitari in attesa dell'adozione del Piano Generale degli Impianti non essendo tale rifiuto a provvedere supportato da una disposizione (legislativa o regolamentare) idonea a denegare quanto richiesto.
2. - Il regolamento previsto dall'art. 3 del D.lgs. 15.11.1993, n. 507 -con il quale il comune disciplina le modalità di effettuazione della pubblicità, la tipologia e la quantità degli impianti pubblicitari nonché le modalità per ottenere l'autorizzazione all'installazione- deve intendersi riferito non solo agli impianti comunali di affissione ma anche all'installazione di impianti posti in essere da privati su aree private.
3. - In virtù del D.P.R. 09.05.1994, n. 407, deve ritenersi pienamente applicabile l'istituto del silenzio-assenso previsto dall'art. 20 della legge n. 241/1990 per le domande intese ad ottenere l'autorizzazione all'installazione di impianti pubblicitari.
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1. - Nello stesso senso, cfr. TAR Toscana, sez. III, 27.10.2000, n. 2210. Cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. IV, 10.01.1990, n. 9, in Rass. Cons. Stato, 1990 e TAR Lazio, sez. II, 05.12.1991, ord. n. 1865, in Rass. TAR, 1992, 50, secondo il quale, tra l'altro, l'art. 41 della Costituzione "pur affermando la libertà dell'iniziativa economica privata, autorizza l'apposizione di vincoli al suo esercizio subordinatamente al verificarsi di una duplice condizione: sotto l'aspetto sostanziale, che detti limiti corrispondano all'utilità sociale e, sotto quello formale, che la relativa disciplina sia effettuata ad opera della legge" (ivi, 53).
2. - Per il principio secondo il quale la disciplina di dettaglio deve avere per oggetto tutti gli aspetti di tutela del territorio coinvolti nell'attività economica in questione e, in particolare, considerare le problematiche relative alla compatibilità degli impianti pubblicitari con la cornice storico - ambientale del centro storico, cfr. TAR Toscana, sez. III, 27.10.2000, n. 2210 e TAR Lazio, sez. II, 24.07.1997, n. 1179, in Rass. TAR 1997, 2946, citata nel testo.
3. - Nello stesso senso, cfr. TAR Toscana, sez. III, 27.10.2000, nn. 2204, 2206 e 2208; nonché TAR Calabria, 16.07.1999, nn. 900 e 901, in Rass. TAR, 1999, 4132
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 27.10.2000 n. 2205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAggiudicazione - Offerta economicamente più vantaggiosa - Identificazione - Valutazioni dell'Amministrazione procedente - Sindacato del G.A. - Merito - Esclusione - Risarcimento del danno - Impossibilità.
1. - In sede di aggiudicazione di un appalto, ai fini dell'identificazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, non è consentito al giudice amministrativo (una volta rilevata la non correttezza della metodologia seguita dall'organo di gara ai fini dell'attribuzione dei citati "punteggio di preferenza" e aver disposto l'annullamento delle operazioni di gara) sindacare nel merito i singoli apprezzamenti effettuati dall'organo di gara -nella specie, l'attribuzione dei punteggi nel cd. "confronto a coppie"- né rinnovarne così la valutazione; sarà l'Amministrazione interessata che dovrà procedere alla rinnovazione della procedura di selezione dei partecipanti (con il carattere vincolante conseguente alla valenza "conformativa" insita nella pronuncia di legittimità accanto al suo contenuto più propriamente "demolitorio") e la complessiva graduazione delle offerte, in difetto della quale (e, quindi, della attuale individuabilità dell'offerta concretamente "preferibile" ai fini dell'aggiudicazione dell'appalto in questione) non è possibile, allo stato, procedere alla positiva disamina della formulata istanza di risarcimento del danno.
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1. - In merito al criterio del "confronto a coppie" cfr. TAR Veneto, sez. I, 21.10.1997, n. 1480, in Rass. TAR, 1997, 4384 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 25.10.2000 n. 2185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEVincolo indiretto ex art. 21 L. 1089/1939 di inedificabilità assoluta - Decreto di esproprio - Illegittimità.
Deve ritenersi illegittimo il provvedimento col quale è stata disposta l'espropriazione e l'occupazione definitiva di immobile già destinato alla realizzazione di un'opera pubblica, ma nelle more sottoposto a vincolo di inedificabilità assoluta derivante dall'adozione di decreto ministeriale di vincolo indiretto ai sensi dell'art. 21 legge 1089/1939, poiché detta inedificabilità ne esclude in radice la capacità di divenire oggetto di acquisizione allo specifico fine di essere destinato alla realizzazione dell'intervento edificatorio progettato (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 02.10.2000 n. 2052 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIGara - Termine per la presentazione delle domande di partecipazione - Natura decadenziale - Termine di ricezione e non di spedizione - Art. 10 del d.lgs n. 157 del 1995.
Il termine fissato per la presentazione delle domande di partecipazione a una gara pubblica ha natura decadenziale, anche in caso di assenza di espressa comminatoria, a garanzia della par condicio e della trasparenza dell'azione amministrativa.
E' legittima quindi l'esclusione da una gara ove la domanda sia pervenuta, tramite raccomandata espresso, alla sede della stazione appaltante con il ritardo di un giorno; il fatto che nel bando sia stato previsto come unico mezzo quello della raccomandata espresso e che il plico sia stato consegnato alle poste sette giorni prima della data di scadenza non induce a diverse conclusioni (anche in relazione all'art. 10 del d.lgs n. 157 del 1995 che prevede un "termine di ricezione" e non di spedizione), salva comunque l'attivazione, nelle sedi competenti, delle forme di responsabilità del servizio postale in ipotesi di colpevole ritardo (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 02.10.2000 n. 2045 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE1. - Bando - Adempimenti formali - Indagine sulle finalità - Inammissibilità.
2. - Risarcimento del danno - Liquidazione - Criteri - Art. 345 della L. n. 2248 del 1865 All. F.

1. - Una volta che una determinata clausola o prescrizione sia inserita nella lettera d'invito, l'Amministrazione non può esimersi dal rispettarla, né può modificarla nel corso della gara stessa successivamente alla presentazione delle offerte.
Pertanto nel caso in cui nella lettera d'invito si richiedano adempimenti formali, pena in contrario l'inammissibilità dell'offerta, non appare possibile, attraverso un'indagine sulla finalità di detti adempimenti, accertare se l'ottemperanza a questi ultimi sia o meno essenziale per il corretto svolgimento della gara; infatti il giudizio sull'essenzialità ed inderogabilità delle modalità di presentazione è già stato effettuato a priori dalla stessa p.a. nel momento in cui predispone la disciplina di gara.
2. - Ritenuto ininfluente in relazione al petitum sostanziale il formale annullamento degli atti impugnati (non essendo state contestate nella fattispecie le scelte e le valutazione tecniche operate dalla commissione bensì l'attività pregressa finalizzata all'ammissione dei plichi pervenuti e nella ragionevole previsione che la fornitura sia stata ormai eseguita), il risarcimento dei danni per l'illegittima conduzione della gara, richiesto e dovuto ai sensi dell'art. 35 del d.lgs del 1998, è liquidato facendo riferimento per la sua concreta quatificazione all'art. 345 della legge generale sui lavori pubblici (n. 2248 del 1865, All. F) e cioè nella misura di un decimo del valore dell'appalto negli importi quantificati per i singoli lotti al momento della relativa aggiudicazione (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 02.10.2000 n. 2041 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALISanzioni - Ingiunzione a demolire - Competenza - Art. 2, comma 12, L. 191/1998 - Dirigente.
1. - L'attribuzione ai dirigenti comunali della generale competenza ad emanare atti di gestione è stata definita dall'art. 6 della legge 15.05.1997 n. 127 con un'elencazione che comprendeva i provvedimenti di rilascio della concessione edilizia, ma non quelli repressivi degli abusi edilizi.
Deve considerarsi legittima l'ordinanza di ingiunzione a demolire adottata dal Dirigente anziché dal Sindaco successivamente all'art. 2, comma 12, della l. 16.06.1998 n. 191 che, completando il nuovo assetto sancito dall'art. 45, comma primo, del D.lgs. 80/1998, ha espressamente affidato ai dirigenti anche i compiti di vigilanza e di applicazione delle sanzioni edilizie.
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1. - cfr. TAR Toscana, III Sez. 17.01.2000 n. 7, in questa raccolta (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 01.09.2000 n. 1895 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Beni pubblici - Beni storici e artistici - Vincolo indiretto ex art. 21 L. 1089/1939 - Congrua motivazione e adeguata istruttoria - Necessità.
2. - Beni pubblici - Beni storici e artistici - Vincolo indiretto ex art. 21 L. 1089/1939 - Censura concernente l'estensione del vincolo - Inammissibilità.
3. - Beni pubblici - Beni storici e artistici - Vincolo indiretto ex art. 21 L. 1089/1939 - Finalità.

1. - Il vincolo indiretto previsto dall'art. 21 della legge 01.06.1939 n. 1089 (oggi sostituito dall'art. 49 D.Lgs. n. 490/1999) non ha un contenuto prescrittivo tipico, essendo rimesso all'apprezzamento discrezionale dell'amministrazione e potendo variare in funzione della protezione del bene, ed è legittimo anche se comporta l'inedificabilità assoluta dell'area cui si riferisce; infatti, tale articolo prevede che possono essere imposte anche misure non tipizzate dirette ad evitare che sia messo in pericolo l'integrità dei beni tutelati, purché il provvedimento impositivo del vincolo sia congruamente motivato e sorretto da un'adeguata istruttoria (nella fattispecie la necessità di tutelare i terreni attorno al bene monumentale sottoposto a vincolo diretto si ricava dalla relazione tecnico scientifica allegata al provvedimento impugnato, dalla quale sebbene espressa in forma sintetica, emerge l'importanza del collegamento fra la conservazione della situazione ambientale e la fruizione dell'immobile di interesse storico-artistico, tutelato in via diretta).
2. - In sede di impugnativa del decreto impositivo del vincolo di interesse storico o artistico di un immobile non è consentita la censura concernente l'estensione del vincolo stesso oltre i limiti strettamente necessari allo scopo che la legge si propone di realizzare, in quanto detta censura implica una valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità.
3. - La finalità prevista dall'art. 21 L. 1089/1939 è di evitare che siano danneggiate la prospettiva e la luce degli immobili vincolati o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro; pertanto, le misure previste dalla norma citata sono stabilite con riguardo alla globale consistenza della c.d. cornice ambientale, che si estende fino a comprendere ogni immobile, anche non contiguo, ma pur sempre in prossimità del bene monumentale, che sia con esso in relazione tale che la sua manomissione sia idonea, secondo una valutazione ampiamente discrezionale dell'Amministrazione, ad alterare il complesso di condizioni e caratteristiche fisiche e culturali che connotano lo spazio circostante.
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1. - Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14.10.1999 n. 1379 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 1668 e Consiglio di Stato, sez. VI, 01.02.1999 n. 122 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 245.
2. - Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 01.02.1999 n. 122 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 245.
3. - Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 02.03.1999 n. 233 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 430
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 17.07.2000 n. 1693 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Concessione - Sanatoria art. 39 L. 724/1994 - Vincolo storico artistico L. 1089/1939 - Opere eseguite dopo l'imposizione del vincolo - Parere - Necessità.
2. - Concessione - Sanatoria art. 39 L. 724/1994 - Vincolo storico artistico L. 1089/1939 - Parere - Condizione - Legittimità.

1. - La ratio della disposizione contenuta all'art. 32 legge 47/1985 -ai sensi del quale la sanatoria di opere abusivamente realizzate su aree sottoposte a vincolo è subordinata al parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso- è quella di consentire la valutazione della situazione edilizia al fine di accertare se la costruzione stessa sia che sia precedente o successiva all'imposizione del vincolo, non comprometta quei valori artistici, naturalistici e paesaggistici tutelati con lo strumento vincolativo, pertanto deve logicamente dedursi che l'acquisizione del parere dell'Amministrazione è necessaria in ogni caso e non solo quindi per l'ipotesi di opere abusive eseguite successivamente all'imposizione del vincolo stesso.
2. - Il parere della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici che ponga, ai fini del rilascio di nulla osta alla richiesta di sanatoria, la condizione del ripristino integrale dell'intonaco su un fabbricato ex frantoio "da realizzare a mestola, a grana fina di colore da concordare con questo Ufficio, posto direttamente nell'intonachino di finitura" non appare né illogico, né privo di coerenza e neppure rivela l'esistenza di rilevanti errori di fatto e cioè nessuno degli elementi riscontrabili ed eventualmente inficianti la legittimità di giudizi del genere di quello espresso a mezzo del provvedimento impugnato.
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1. - Conforme Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 22.07.1999 n. 20 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 1080; TAR Toscana, I Sezione, 06.11.2000 n. 2265 e TAR Toscana, III Sezione, 09.11.2000 n. 2322 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 19.05.2000 n. 929 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Concessione - Diniego - Sanatoria artt. 31 e segg. L. 47/1985 - Vincolo cimiteriale - Vincolo assoluto di inedificabilità - Opere strumentali all'attività di rimessaggio di roulottes - Legittimità del diniego.
2. Concessione - Diniego - Sanatoria artt. 31 e segg. L. 47/1985 - Vincolo cimiteriale - Valutazione discrezionale dell'Amministrazione - Esclusione.
3. Concessione - Diniego - Sanatoria artt. 31 e segg. L. 47/1985 - Vincolo cimiteriale - Opere pertinenziali - Compatibilità - Esclusione.

1. Non possono essere ammesse al condono le opere strumentali all'attività di rimessaggio di roulottes ricadenti in zona sottoposta a vincolo cimiteriale in quanto la salvaguardia dell'area di rispetto di 200 metri prevista dall'art. 338 del t.u. 1265 del 1934 si pone alla stregua di un vincolo assoluto di inedificabilità che non consente in alcun modo l'allocazione sia di edifici che di opere incompatibili con il vincolo medesimo.
Ciò in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto in questione intende tutelare e che possono enuclearsi nelle esigenze di natura igienico-sanitaria, nella salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati all'inumazione e sepoltura, nel mantenimento di un'area di possibile espansione della cinta cimiteriale (fattispecie nella quale erano state ammesse al condono le opere di livellamento della superficie del terreno sul quale vengono lasciate in deposito le roulottes ma non le opere strumentali all'attività di rimessaggio di roulottes).
2. L'assolutezza del divieto derivante dal vincolo cimiteriale non consente all'Amministrazione comunale di esprimere valutazioni discrezionali sulla compatibilità delle opere realizzate con il vincolo suddetto essendo già la legge a determinare la priorità degli interessi pubblici da salvaguardare.
3. Il vincolo di inedificabilità assoluta all'interno dell'area di rispetto cimiteriale non può in alcun modo consentire la condonabilità di opere edilizie di natura pertinenziale (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 09.05.2000 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAComunicazione di avvio del procedimento – Mancanza - Ordine di trasferimento di esercizio di attività artigiana in altra zona – Illegittimità.
E’ illegittimo l’ordine di trasferimento di esercizio di attività artigiana di vendita e di ricambi di pneumatici per autoveicoli in altra zona urbanisticamente consona, non preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L. 241/1990 posto anche che i presupposti accertamenti di ordine tecnico-sanitario non sono stati disposti in contraddittorio con la ricorrente (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 29.02.2000 n. 394 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalto concorso - Rinnovazione della gara - Precedente aggiudicataria non invitata - Intervenuta esecuzione dei lavori da parte di altra ditta aggiudicataria - Carenza d’interesse.
Deve ritenersi inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso proposto, avverso la delibera di rinnovo della procedura di appalto concorso, dalla precedente ditta aggiudicataria non invitata dato che, essendo l’appalto in questione già stato eseguito da altra ditta aggiudicataria, non è ravvisabile un interesse di carattere sostanziale allo svolgimento dei lavori o di carattere strumentale alla ripetizione della gara né, tantomeno, un interesse di natura morale - ideale all’annullamento dell’atto impugnato (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.02.2000 n. 328 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. - Appalto concorso - Aggiudicazione - Revoca - Rinnovazione - Precedente aggiudicataria non invitata - Intervenuta esecuzione dei lavori da parte di altra ditta aggiudicataria - Interesse morale - Sussiste.
2. - Capitolato programma – Eventuale contenuto vessatorio - Interpretazione - Criterio.

1. - Ancorché sia già intervenuta l’esecuzione dell’appalto da parte di altra ditta risultata aggiudicataria nella procedura rinnovata, ben può la precedente ditta aggiudicataria ricorrere avverso la delibera di revoca dell’aggiudicazione in quanto è innegabile la persistenza (oltre che dell’interesse materiale alla restituzione della cauzione incamerata) di un interesse "morale" alla definizione della causa, anche sotto l’aspetto della tutela dell’"immagine" della ditta, atteso che il provvedimento chiaramente preludeva a possibili misure sanzionatorie (eventuale perdita dei requisiti per l’iscrizione all’Albo Nazionale Costruttori).
2. - Poiché nell’interpretazione dell’atto amministrativo si deve privilegiare quella che ne consenta il riconoscimento di legittimità, ne deriva che le disposizioni del capitolato di programma che prevedano la possibilità di modifiche progettuali e conseguenti maggiori oneri a carico dell’aggiudicataria, devono intendersi riferite ad ipotesi di accorgimenti tecnici e di modifiche compatibili col progetto originario (e non a varianti sostanziali o rilevanti) oppure a variazioni concordate ed accettate o, al limite, a modifiche che risultino necessarie in sede esecutiva; ciò per evitare di avallare la prospettazione di un Capitolato d’appalto illegittimo e vessatorio che, costringendo la parte privata a subire qualsiasi richiesta modificativa dell’Amministrazione senza avere la possibilità di concordare il relativo corrispettivo o di ritirare l’offerta, incorrerebbe nella violazione del principio di libertà contrattuale nonché delle caratteristiche di corrispettività e commutatività del contratto di appalto (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.02.2000 n. 327 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. - Processo amministrativo - Giurisdizione e competenza - Ordinanza sindacale contingibile e urgente per manutenzione degli argini e dell'alveo di un corso d'acqua - Giurisdizione T.S.A.P. - Esclusione.
2. - Ordinanza sindacale contingibile e urgente - Presupposti - Individuazione.
3. - Ordinanza sindacale contingibile e urgente - Accertamenti - Istruttoria specifica e approfondita - Necessità.
1. - I provvedimenti con i quali il Sindaco ordina ai proprietari frontisti di un corso d'acqua -ai sensi dell'art. 38, 2° comma, L. 142/1990- di provvedere alla manutenzione degli argini e dell'alveo di un corso d'acqua rientrano nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo e non in quella del T.S.A.P.
2. - Il potere sindacale di emanare ordinanze contingibili e urgenti, ai sensi dell'art. 38 L. 142/1990 è riconosciuto ove sussistano diversi e concorrenti presupposti individuati:
a) nella necessità di intervenire in alcune materie espressamente previste (sanità ed igiene, edilizia, polizia locale);
b) nella attualità o imminenza di un fatto eccezionale, quale causa da rimuovere con urgenza;
c) nel previo accertamento, da parte di organi competenti, della situazione di pericolo o di danno che si intende fronteggiare;
d) nella mancanza di strumenti alternativi, previsti dall'ordinamento, stante il carattere extra ordinem del potere sindacale di ordinanza.
3. - In tema di ordinanze contingibili e urgenti l'accertamento della situazione di fatto e la sua idoneità a determinare un pericolo concreto ed imminente devono essere sufficientemente valutati e documentati in esito a specifica e approfondita istruttoria da parte dell'Amministrazione (nella specie oltre che al difetto di valutazione e documentazione sia sotto il profilo igienico-sanitario che sotto quello della pubblica incolumità, era stata ravvisata l'insussistenza del carattere eccezionale desunta sia dalla natura dell'intervento di tipo manutentivo sia dalla reiterazione dei provvedimenti sindacali) (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.02.2000 n. 323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATABeni pubblici - Demanio idrico - Opere di manutenzione degli argini e dell'alveo di un corso d'acqua - Spettano alla P.A.
Ai proprietari dei fondi latistanti incombe l'obbligo (ex art. 12 R.D. n. 523/1904) solo della costruzione delle opere a difesa dei loro beni, mentre spetta all'autorità amministrativa (ex art. 2 T.U. n. 523/1904) di provvedere al mantenimento delle condizioni di regolarità dei ripari degli argini, sicché fa carico alla pubblica autorità provvedere alla manutenzione dell'argine di un torrente, appartenente al demanio, con conseguente responsabilità della stessa per i danni derivanti dall'omissione di tale manutenzione (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.02.2000 n. 323 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  1. - Concessione – Contributi – Determinazione – Riferimento alla data di rilascio della concessione.
2. - Concessione – Contributi – Determinazione – Procedimento - Autonomia - Conseguenze - Rideterminazione - Possibilità.
3. – Concessione – Contributi – Determinazione - Variante essenziale concernente l'intera opera – Tariffe vigenti alla data del rilascio della variante - Applicabilità all'intero intervento edilizio.

1 - La determinazione degli oneri relativa alla concessione edilizia va effettuata con riferimento alle norme vigenti alla data del rilascio della concessione medesima, che è il momento in cui sorge l’obbligazione contributiva.
2. - Il procedimento di rilascio della concessione edilizia è autonomo da quello di imposizione dei conseguenti oneri; pertanto, gli oneri contributivi possono essere determinati successivamente al rilascio della concessione e rideterminati nella loro entità ogni qualvolta il calcolo effettuato dal Comune si sia rivelato errato per qualsiasi ragione.
3 – Il principio secondo il quale il contributo concessorio è commisurato, in caso di variante, al quid novi insito nella variante medesima, non è applicabile nell’ipotesi in cui sia stata richiesta una nuova concessione edilizia riferita non ad una parte residua ben identificata, non completata in tempo utile, ma all’intera opera, riprogettata sulla base di un diverso disegno, che non si limita ad aggiungere un quid pluris a ciò che è stato già assentito, ma investe globalmente l’intervento edilizio, integrandone una variante essenziale (ipotesi di generale riorganizzazione degli spazi interni già assentiti con la realizzazione di ulteriori ampliamenti e relativo aumento di superficie, nonché di volumi, ancorché non rilevanti sotto il profilo urbanistico, trattandosi di spazi interrati); conseguentemente devono essere applicate le tariffe vigenti per l’anno cui si riferisce tale ultima concessione anche alle parti edilizie già assentite, tenuto ovviamente conto di quanto già corrisposto in sede di contributo provvisorio (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,  sentenza 23.02.2000 n. 321 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIComunicazione di avvio del procedimento - Dichiarazione di pubblica utilità implicita nell’approvazione del progetto - Occorre comunicazione.
1. - Incorre nella violazione dell'art. 7 della L. 241/1990 il Comune che, in caso di approvazione di un progetto che equivale a dichiarazione di pubblica utilità e di urgenza ed indifferibilità dell’opera ai sensi dell’art. 1, I comma, della L. 1/1978, omette di comunicare agli interessati espropriandi l’avvio del procedimento; data l’idoneità della dichiarazione di pubblica utilità ad incidere direttamente sulla sfera giuridica del destinatario determinandone la lesione immediata, deve essere assicurato il contraddittorio con gli interessati fin dal momento in cui la pubblica amministrazione si determina alla realizzazione di un’opera pubblica e quindi prima della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera e dell’approvazione del progetto (tanto più quando la previsione e la localizzazione dell’opera pubblica è contestuale al progetto medesimo).
____________________
1. - Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 15.09.1999 n. 14 in Rass. Cons. Stato 1999, pag. 1297 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I, sentenza 23.02.2000 n. 319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. - Atto amministrativo – Comunicazione di avvio del procedimento - Ingiunzione a demolire – Non occorre.
2. - Sanzioni – Ingiunzione a demolire art. 7 L. 47/1985 – In pendenza di sequestro penale sull'opera abusiva – Legittimità della sanzione.

1. - L’avviso dell’avvio del procedimento previsto dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n. 241 non è dovuto (e senza necessità di motivazione espressa sulla mancanza dello stesso) nel caso di procedimento volto alla irrogazione della demolizione edilizia di costruzione, eseguita senza alcun titolo ed attinente ad abusi che non necessitano di particolari valutazioni discrezionali ma comportino un mero accertamento di natura tecnica sulla consistenza delle opere.
2. - E' legittima l'ingiunzione a demolire emessa in pendenza di un sequestro penale sul manufatto abusivo dal momento che è possibile motivatamente domandare all'autorità giudiziaria il dissequestro dell'immobile.
________________
1. – Cfr. Tar Lazio, II Sez., 26.10.1999 n. 2004 in Rass. TAR 1999, pag. 4252; si segnala Cons. Stato, Sez. V, 23.04.1998 n. 474 in Riv. Foro Amm. 1998, pag. 1085 ed in Rass. Cons. Stato 1998, I, pag. 609 e Cons. Stato, sez. V, 23.02.2000 n. 948 con riguardo agli atti vincolati (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 18.02.2000 n. 301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIMotivazione - Per relationem – Art. 3 legge n. 241/1990 – Allegazione atto richiamato – Non occorre – Condizioni.
1. Il concetto di disponibilità cui si richiama l’art. 3 della l. 241/1990 non comporta che l’atto amministrativo richiamato per relationem debba essere unito imprescindibilmente al documento, bensì che il documento sia reso disponibile a norma della stessa legge, vale a dire che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi.
________________
1. Nel senso che comunque nell’atto impugnato debba essere indicato l’ufficio presso cui è disponibile l’atto richiamato in motivazione, si segnalano: TAR Toscana, sez. II, 18.03.1993, n. 106 in Riv. Foro Amm. 1993, pag. 1339; cfr. anche TAR Toscana, sez. II, 15.04.1992 n. 90 in Rass. TAR 1992, pag. 2107 e Cons. di Stato, sez. IV, 16.03.1994 n. 255 in Riv. Foro Amm. 1994, pag. 394 (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 18.02.2000 n. 301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione - Sanatoria ex artt. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Esistenza dei manufatti all'01/10/1983 - Rapporto informativo Vigili Urbani accertativo della realizzazione in data successiva - Contestazione del privato - Insufficienza - Onere della prova dell’anteriorità - Necessità.
Ai fini del rilascio della concessione in sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985, l’accertamento da parte dei Vigili Urbani dell’epoca dell’abuso, sulla base di sopralluogo in data posteriore al primo ottobre 1983, determina l'onere a carico dell'interessato di provare che i lavori sono stati ultimati entro la data indicata dalla legge, non potendo limitarsi a contestare gli elementi posti a base dell’accertamento effettuato (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 18.02.2000 n. 293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIProcesso amministrativo - Notifiche - Atto emesso dal Dirigente con specifica competenza - Provincia - Notificazione al Presidente dell’Ente locale - Ritualità.
La notifica del ricorso, proposto contro la Provincia, al Presidente della Giunta Provinciale quale legale rappresentante dell’Ente, e non nei confronti dell’Autorità emanante, dirigente dell’Amministrazione con competenza nella specifica materia, determina la perfetta ritualità del gravame, non incidendo, la ripartizione di competenza fra organi di indirizzo politico e dirigenza, introdotta dalla L. 15.05.1997, n. 127, sull’imputazione all’Ente degli atti posti in essere dai dirigenti in base a competenze proprie (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 15.02.2000 n. 185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAggiudicazione con il criterio del prezzo più basso da indicare in percentuale - Indicazione in valore assoluto invece che in percentuale - Mera irregolarità.
Il mancato rispetto della clausola del bando che richiede l’espressa indicazione del ribasso in percentuale, ancorché prescritta a pena di esclusione, costituisce mera irregolarità, allorché il ribasso sia stato indicato nel suo preciso ammontare (ancorché non percentualmente espresso), emergendo comunque il dato richiesto da un semplice calcolo matematico e quindi perfettamente conoscibile e percepibile dall’Amministrazione e dovendosi interpretare il bando secondo il comune canone di ragionevolezza, con esclusione di valutazioni formalistiche che non rispondano ad alcun interesse pubblico, né all’esigenza di garantire la par condicio (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 15.02.2000 n. 185 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIProcesso amministrativo - Impugnazione - Decorrenza del termine - Opere pubbliche - Approvazione progetto - Persone direttamente contemplate - Dies a quo - Notificazione - Soggetti non destinatari del provvedimento - Decorrenza dalla pubblicazione.
Il termine per impugnare la delibera di approvazione di un progetto di opera pubblica decorre per le persone direttamente interessate dal procedimento di espropriazione dal momento della notifica dell'atto, mentre nei confronti di tutti gli "altri soggetti" -ossia per quelli che non sono destinatari del provvedimento e per i quali, conseguentemente, non occorra la comunicazione individuale del medesimo- il termine per la proposizione del ricorso decorre dalla pubblicazione dell'atto, a condizione che questa sia espressamente prevista ed avvenga nei modi indicati (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 14.02.2000 n. 174 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. - Offerta con costo orario della manodopera inferiore ai minimi salariali - Aggiudicazione - Illegittimità - Ragioni.
2. - Risarcimento danni - Utilità ancora astrattamente conseguibile – Esclusione.

1. - E’ illegittima l’aggiudicazione, a seguito di licitazione privata per affidamento di servizi di pulizia di immobili comunali, alla ditta che abbia presentato un’offerta evidenziante un costo orario della manodopera inferiore ai minimi salariali fissati dalla contrattazione collettiva.
Costituiscono, infatti, norme inderogabili quelle poste da leggi o da contratti collettivi in materia di minimi retributivi, nonché in materia di obblighi previdenziali ed assistenziali, con la conseguenza che la violazione di tali disposizioni ha rilevanza diretta sui contratti di appalto pubblici, non solo in forza di clausole specifiche delle norme di gara, ma anche della normativa di settore; inoltre il carattere inderogabile della normativa in questione rileva anche con riferimento alle prescrizioni sulle offerte anormalmente basse, dalle cui giustificazioni sono esclusi elementi i cui valori minimi sono stabiliti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, ovvero i cui valori risultano da atti ufficiali.
2. - E’ esclusa la risarcibilità del danno quando l’utilità materiale perseguita (nella specie: aggiudicazione della gara e svolgimento del servizio) è tuttora astrattamente suscettibile di conseguimento in relazione all’adozione da parte dell’Amministrazione di eventuali successive effusioni provvedimentali conseguenti alla pronuncia giurisdizionale di annullamento degli atti della procedura di gara (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 14.02.2000 n. 173 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASanità – Attività insalubri – Ubicazione in zona industriale – Ordinanza per interventi di bonifica acustica – A tutela di zona residenziale – Illegittimità – Ratio.
È illegittima l’ordinanza sindacale di esecuzione di idonei interventi di bonifica acustica degli impianti che -pur adottata a tutela degli abitanti di una contigua zona residenziale- ponga limitazioni all’attività di uno stabilimento situato in zona appositamente destinata all’industria e le cui emissioni si collochino all’interno dei valori all’uopo appositamente previsti; gli inconvenienti provocati da difetti o lacune dello strumento urbanistico (contiguità di zone destinate allo svolgimento di attività industriali con insediamenti abitativi) devono essere ascritti all'esclusiva responsabilità dell'Autorità preposta alla disciplina urbanistica del territorio (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 14.02.2000 n. 170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  Contratti – Gara per l’acquisto di proprietà immobiliare - Aggiudicazione – Rinuncia – Aggiudicazione alla seconda migliore offerta - Diniego - Nuova procedura di gara – Legittimità.
In caso di rinuncia da parte dell’aggiudicatario originario è legittimo il provvedimento con il quale la P.A., avvalendosi dei suoi poteri discrezionali, decide di non procedere all’aggiudicazione alla seconda migliore offerta e di indire una nuova gara, piuttosto che procedere allo scorrimento della graduatoria, previsto espressamente come semplice facoltà dal bando (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2000 n. 160 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Concessione - Garages seminterrati – Realizzazione - Rimozione dei vizi della procedura ex art. 11 L. 47/1985 - Art. 9, IV comma, L. 122/1989 – Applicabilità in caso di compatibilità con la destinazione dell’area - Ammissibilità.
E’ legittima la delibera con la quale il Comune, in applicazione del principio di cui all’art. 11 della L. 28.02.1985, n. 47, dispone la sanatoria dei vizi di una concessione edilizia rilasciata ai sensi dell’art. 9, I comma, della L. 24.03.1989, n. 122 (avente per oggetto la realizzazione di garages seminterrati pertinenziali in area destinata a parcheggio pubblico) mediante la procedura prevista dal IV comma dello stesso articolo 9 (con stipula di apposita convenzione con il soggetto privato), quando la realizzazione dei garages risulti compatibile con la destinazione dell’area (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2000 n. 158 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. - Processo amministrativo - Impugnazione - Interesse - Urbanistica - Piano regolatore - Originaria destinazione edificatoria dell’area - Approvazione parziale - Natura provvisoria - Lesività ab origine - Esistenza.
2. - Piano regolatore - Impugnazione - Legittimazione attiva - Piano approvato - Preclusioni - Insussistenza.
3. - Processo amministrativo - Intervento in giudizio - Ad opponendum - Urbanistica - Piano regolatore - Legittimazione - Proprietari di aree vicine - Esistenza.
4. - Piano regolatore - Osservazioni, opposizioni e richieste atipiche dei privati - Utilizzazione della P.A. - Possibilità.
5. - Piano regolatore - Approvazione parziale (stralcio) - Motivazione per relationem - Riferimento alle osservazioni di privati - Sufficienza.

1. - Il proprietario di un’area, originariamente destinata ad intervento edificatorio, ben può impugnare la delibera con la quale -a seguito delle modifiche apportate in conseguenza dell’accoglimento delle osservazioni ai sensi dell’art. 10, II comma, della L. 17.08.1942, n. 1150-, è stata disposta l’approvazione parziale (stralcio) del piano regolatore atteso che questo, pur conservando la sua tipica natura provvisoria, è, tuttavia, in grado di generare situazioni lesive sin dall’inizio.
2. - La mancata impugnazione della deliberazione comunale di adozione del piano regolatore generale non esclude l’impugnabilità del piano definitivamente approvato anche per vizi propri della fase di adozione, da parte di ogni interessato, non escluso chi abbia già acquisito conoscenza del piano adottato.
3. - I proprietari (intervenienti ad opponendum) di aree vicine a quella interessata da una previsione del piano regolatore generale, che nella fase procedimentale abbiano presentato osservazioni ai sensi dell’art. 10, II comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, poi accolte in sede di approvazione, sono titolari di un interesse autonomo e qualificato, sia sostanziale che procedimentale, e, pertanto, sono pienamente legittimati a partecipare al giudizio.
4. - Nel quadro di una procedura (quale quella di variante al p.r.g.) volta alla realizzazione di un interesse pubblico ed aperta ai contributi di tutti coloro che vi abbiano interesse, la P.A., ove le giungano suggerimenti o proposte dalla stessa ritenute meritevoli di accoglimento, per ciò solo se ne appropria, siano esse osservazioni ovvero opposizioni ovvero richieste atipiche o quant’altro, a nulla rilevando la posizione soggettiva di coloro che intervengono.
5. - Deve intendersi resa per relationem la motivazione della P.A. che, in sede di approvazione parziale (stralcio) del piano regolatore generale in seguito dell’accoglimento di osservazioni presentate da privati, abbia fatto riferimento a queste ultime, dal momento che la P.A., per il solo fatto di averle accolte, se ne è appropriata (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 11.02.2000 n. 156 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Concessione - Diniego - Sanatoria art. 13 L. 47/1985 - Motivazione - Indicazione generica di contrasto con le norme tecniche di attuazione - Insufficienza - Illegittimità.
2. Concessione - Pertinenza - Nozione - Piscina in zona agricola di dimensioni contenute e ridotto impatto urbanistico - Costituisce pertinenza - Autorizzazione.

1. E' illegittimo per carenza di motivazione il diniego di concessione edilizia in sanatoria, richiesta ai sensi dell'art. 13 L. 47/1985, recante la generica affermazione che "la costruzione di piscina in zona agricola non è conforme alle Norme Tecniche di Attuazione dello strumento urbanistico vigente - P.R.G. comunale".
I provvedimenti di diniego di concessione di costruzione in sanatoria devono essere congruamente motivati con l'indicazione delle ragioni che ostano al suo rilascio e con particolare riferimento alle norme urbanistiche violate, in modo da consentire all'interessato da un lato, di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla realizzazione del suo progetto e di poterlo adeguare alle esigenze pubbliche che l'Amministrazione ha inteso tutelare; dall'altro, di confutare in maniera esaustiva la legittimità del provvedimento davanti al giudice competente.
E' quindi carente di motivazione, il diniego di concessione in sanatoria fondato su un generico contrasto del progetto edilizio con norme legislative e regolamentari in materia edilizia, dovendo, invece, diffondersi il provvedimento di diniego in ordine alle disposizioni che si assumono ostative al rilascio del provvedimento concessorio.
2. La nozione di pertinenza di cui all'art. 7 L. 94/1982 (che non coincide con quella più ampia descritta dall'art. 817 c.c.) è ancorata non solo alla necessarietà ed oggettività del rapporto pertinenziale, ma anche alla consistenza dell'opera, la quale deve contenersi entro misure minime, sì da non alterare in modo significativo l'assetto del territorio; né la localizzazione in zona agricola impedisce l'applicazione della citata norma che non distingue tra edifici residenziali o meno, agricoli ovvero urbani.
Pertanto, nella fattispecie di piscina di contenuto rilievo dimensionale e di ridotto impatto dal punto di vista urbanistico, si verte in ambito di manufatto avente rilievo pertinenziale ed in quanto tale assoggettato a regime autorizzatorio (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II, sentenza 31.01.2000 n. 22 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATA:  Sanzioni – Ingiunzione a demolire – Competenza – Ante D.Lgs. n. 80 del 1998 – Sindaco – Dopo art. 45 D.Lgs. n. 80 cit. – Dirigente.
Il principio sancito dal comma 2 dell’art. 51 della legge 142/1990 in merito alla distinzione di competenze tra organi di Governo e Dirigenti è stato reso concretamente operativo solo dall’art. 45, comma primo, del D.Lgs. 80/1998.
Deve pertanto considerarsi legittima l’ordinanza sindacale di ingiunzione a demolire adottata prima della sua entrata in vigore (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.01.2000 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASanzioni – Ingiunzione a demolire art. 7 L. 47/1985 – In pendenza di domanda di sanatoria – Illegittimità.
Dopo la presentazione di una domanda di sanatoria ex art. 13 L. 47/1985, i termini per l’esecuzione di una sanzione edilizia e, a maggior ragione, la potestà di emanare la sanzione stessa devono ritenersi, anche in assenza di una esplicita disposizione normativa, sospesa "ope legis"; deve pertanto considerarsi illegittima l’ingiunzione sindacale di demolizione emanata in pendenza dell’esame della domanda di sanatoria, ove neppure siano trascorsi i 60 giorni di cui al ripetuto art. 13 per la formazione del silenzio–rifiuto (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.01.2000 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Interventi sul patrimonio esistente – Ristrutturazione in caso di demolizione e totale ricostruzione – Limite.
2. Concessione - Diniego – Parere favorevole Commissione Edilizia - Inesatta qualificazione del richiedente – Legittimità del diniego.

1. Pur essendo configurabile l’ipotesi di ristrutturazione edilizia in caso di totale ricostruzione di un fabbricato, è indispensabile la "fedele" ricostruzione del medesimo, sì che non vi siano difformità di posizione dell’area di sedime o del volume o dell’altezza o della forma.
2. Non può essere considerato, anche in presenza di un previo parere favorevole della Commissione Edilizia, meritevole di particolare tutela l’affidamento di chi qualifica inesattamente un intervento edilizio di cui chiede all’Amministrazione l’assenso.
_______________________
1. – vedi inoltre per il concetto di ristrutturazione in caso di demolizione e fedele ricostruzione Consiglio di Stato, sez. V, 01.12.1999 n. 2021 e art. 4, comma 2, lett. d), L.R. 52/1999 secondo il quale: "Gli interventi di ristrutturazione edilizia…….. comprendono altresì: ……….1) le demolizioni con fedele ricostruzione degli edifici, intendendo per fedele ricostruzione quella realizzata con identici materiali e con lo stesso ingombro planivolumetrico, fatte salve esclusivamente le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica;…" (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 17.01.2000 n. 3 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAConcessione – Diniego – Annullamento – Modificabilità della normativa applicabile – Possibilità – Limiti.
1. – La notificazione della sentenza di annullamento del provvedimento di diniego della concessione edilizia non impedisce all’Amministrazione Comunale la successiva modifica della disciplina urbanistica in senso più sfavorevole al ricorrente (anche con ripristino della disciplina già annullata in sede giurisdizionale) qualora il diniego sia stato riconosciuto illegittimo per vizi meramente formali, vantando il tale ipotesi il ricorrente una mera aspettativa di fronte alla quale prevale il motivato interesse pubblico il quale, viceversa, recede allorché l’annullamento si fondi su motivi sostanziali con prevalenza del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
________________
1. – La sentenza risulta di particolare interesse poiché, seppure nella diversità della fattispecie, interpreta con innovative precisazioni la portata della decisione del Cons. Stato, Ad. Plen. n. 1 del 18.01.1986 (in Riv. Giur. Ed. 1986, I, 162 con nota di M.A.S.) (massima tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III, sentenza 10.01.2000 n. 1 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 13.07.2011 (ore 16,00)

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UTILITA'

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Il "decreto sviluppo" è legge!!
Sulla Gazzetta Ufficiale 12.07.02011 n. 160 è stato pubblicato il "Testo del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, coordinato con la legge di conversione 12.07.2011, n. 106, recante: «Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia.»
La legge di conversione ha apportato numerose modifiche/integrazioni al testo originario ma non ha interessato la parte che più ci stava a cuore ovverosia la Scia (Segnalazione certificata di inizio attività).
Già lo scorso 06.06.2011 dicevamo la nostra (in maniera più esaustiva che non in questo contesto) sulle novità in materia di permesso di costruire e di Scia pervenendo alla conclusione che in Lombardia:
1- fintantoché la Regione non modificherà/integrerà (semmai lo volesse fare ...) la L.R. n. 12/2005 per recepire la novità del "silenzio-assenso" nazionale (e non solo), si dovrà continuare ad applicare l'art. 38 della medesima legge regionale in relazione alla procedura di istruttoria delle istanze di permesso di costruire;
2- in Lombardia NON si può applicare l'istituto della Scia già dal 31.07.2010.

La norma è chiara (miracolo!!), scritta in maniera leggibile e comprensibile, sicché non occorre alcuna interpretazione di sorta.
Ma se non si è ancora convinti, risulta allora utile leggere il dossier n. 299/I del giugno 2011 approntato dal Senato della Repubblica recante "Disegno di legge A.S. n. 2791 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, concernente Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia" - Vol. I - Schede di lettura" laddove a pag. 227 si legge, nero su bianco, quanto segue:
"
Comma 2, lett. b) e c) – Modifiche alla SCIA nella legge 241/1991.
Le lettere b) e c) recano alcune modifiche all’art. 19 della legge n. 241/1990 relativo alla disciplina della SCIA (Segnalazione certificata di inizio attività) che viene estesa anche alla DIA in edilizia, ad esclusione della DIA alternativa o sostitutiva del permesso di costruire.
".
E ad oggi, a distanza di 60 gg. dall'entrata in vigore del decreto-legge, la Regione Lombardia non si è ancora pronunziata in merito fornendo l'autorevole contributo interpretativo agli addetti ai lavori (comuni e liberi professionisti) ... ma va da sé che "chi tace acconsente" !!
13.07.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

DOTTRINA E CONTRIBUTI

EDILIZIA PRIVATA: W. Fumagalli, Il risarcimento dei danni subiti dai titolari di titoli edilizi illegittimi (AL n. 05-06/2011).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U. 12.07.2011 n. 160 "Testo del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, coordinato con la legge di conversione 12.07.2011, n. 106, recante: «Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia.».
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N.B.: le modifiche apportate dalla legge di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella G.U. e cioè dal 13.07.2011.
Per comodità, si veda e si legga a confronto il testo del Decreto Sviluppo prima e dopo la conversione (link a www.leggioggi.it).

NEWS

ENTI LOCALI - VARIAutovelox anche in centro città. Un parere del Ministero dei trasporti.
I manufatti colorati predisposti per alloggiare al loro interno i misuratori elettronici di velocità possono essere installati liberamente dai comuni anche in centro abitato, previo nullaosta dell'ente proprietario della strada. Solo il loro uso resta limitato, segnalato e con la necessaria presenza degli organi di polizia.

Lo ha evidenziato il Ministero dei Trasporti con il parere 27.06.2011 n. 3518.
Dopo la riforma stradale dello scorso anno risulta difficile attivare nelle strade ordinarie una postazione fissa per il controllo elettronico della velocità. E questa limitazione è particolarmente evidente nei centri abitati dove di fatto l'autovelox oggi può essere posizionato solo con la presenza costante della polizia stradale. Nulla impedisce però ai comuni di installare nuovi manufatti idonei sia all'alloggiamento degli autovelox che al semplice messaggio preventivo.
Per ottenere ulteriori chiarimenti il comando della polizia municipale di Roma ha richiesto delucidazioni al ministero dei trasporti. I box colorati porta autovelox, specifica la nota centrale, «non sono inquadrabili in alcuna delle categorie previste dal nuovo codice della strada e dal connesso regolamento di esecuzione ed di attuazione e dunque per essi non risulta concessa alcuna approvazione, ai sensi dell'art. 45/6° del codice e dell'art. 192/3° del regolamento, da parte di questa direzione generale».
Siamo ancora in attesa di uno specifico provvedimento, prosegue la nota, che dovrà uniformare, ai sensi dell'art. 60 della legge 120/2010, le modalità di impiego e funzionamento dei sistemi elettronici per il controllo della velocità dei veicoli. Questi manufatti però non saranno disciplinati neppure con questo nuovo decreto perché di fatto lo stesso sarà rivolto solo all'uso degli impianti autovelox e non ai box di alloggiamento. Ma non si tratta neppure di segnaletica stradale da sottoporre a preventiva valutazione ministeriale, prosegue il ministero.
Allo stato attuale a parere del Mit l'unico impiego consentito per questi manufatti creativi «è quello che prevede l'installazione al loro interno di misuratori di velocità di tipo approvato».
In buona sostanza i box porta autovelox possono essere regolarmente installati, con le dovute precauzioni a tutela della sicurezza stradale e con i necessari nulla osta da parte degli enti proprietari delle strade (articolo ItaliaOggi del 13.07.2011).

APPALTITracciabilità, risparmiati i legali. Per affidare il patrocinio non va acquisito il codice gara. La determinazione 4/2011 dell'Authority rischia di confondere gli operatori.
Rischio caos sugli incarichi di patrocinio legale conferiti dalle pubbliche amministrazioni agli avvocati.
La determinazione 07.07.2011 n. 4, dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, dedicata alla tracciabilità dei flussi finanziari in applicazione dell'articolo 3 della legge 136/2010, ha creato non poca confusione tra gli operatori nella parte in cui afferma che «il patrocinio legale, cioè il contratto volto a soddisfare il solo e circoscritto bisogno di difesa giudiziale del cliente, sia inquadrabile nell'ambito della prestazione d'opera intellettuale, in base alla considerazione per cui il servizio legale, per essere oggetto di appalto, richieda qualcosa in più, “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa”».
Coerentemente con tale affermazione, la determina considera non necessario acquisire il Codice identificativo gara (Cig) per affidare l'incarico di patrocinio, che così risulterebbe sottratto alle regole sulla tracciabilità.
L'Authority basa il proprio avviso sul parere della Corte dei conti, Sezione regionale di controllo per la Basilicata 03.04.2009, n. 19. Tale parere sostiene che «non sembra sufficiente l'aver qualificato “servizio” la prestazione libero professionale resa dall'avvocato per ritenerla senz'altro compresa nella categoria dei “servizi legali”, di cui all'allegato II B richiamato dall'art. 20 del Codice dei contratti pubblici».
Secondo la Sezione, si tratta di un contratto di prestazione d'opera intellettuale vero e proprio, anche perché così non può che essere qualificato il rapporto intercorrente tra un legale e un privato. Aggiunge la Sezione che una medesima prestazione non può mutare la propria natura giuridica a seconda della personalità giuridica del committente. Sarebbe, invece, appalto di servizi «il conferimento di incarico per prestazioni che prevedano, oltre al patrocinio legale delle vertenze che sorgeranno entro un arco di tempo determinato, anche l'attività di consulenza legale a favore dell'ente».
L'assunto cui giunge l'Authority passando per il parere della Sezione Basilicata presta però il fianco a qualche rilievo.
Da un lato va dato conto del fatto che la magistratura contabile non è per nulla così univoca sul merito della questione. Infatti, di opinione diametralmente opposta è il parere della Sezione regionale di controllo per il Veneto 21.01.2009, n. 7, il quale ha affermato che «la categoria dei “servizi legali”, a causa del suo carattere residuale, ricomprenda tutti i “contratti” pubblici (locuzione questa utilizzata dal legislatore, all'art. 1 del codice in luogo di quella più ristretta di appalto) aventi per oggetto l'acquisizione di servizi, prodotti, lavori e opere che non siano assoggettati ad una più rigorosa disciplina pubblicistica sotto diversi aspetti, compreso quello della trasparenza, pubblicità e rispetto della libera concorrenza».
In secondo luogo, è facile affermare come sia arbitraria la distinzione tra l'incarico di patrocinio «isolato», qualificabile come prestazione intellettuale, ed un insieme programmato di attività legali. Quest'ultimo altro non sarebbe che un contratto «quadro», cioè una programmazione tra le parti di più prestazione del medesimo genere e tipologia, resa concreta da singole contrattazioni attuative, le quali, se il ragionamento proposto dall'Authority e dalla Sezione Basilicata fosse corretto, sarebbero tante prestazioni intellettuali.
La qualificazione giuridica del committente è, invece, fondamentale per determinare la natura giuridica di un contratto: esso assume la configurazione di appalto e deve obbedire alle regole del dlgs 163/2006 e delle direttive Ue in materia appunto quando il committente è pubblico. Per i rapporti tra i privati esistono altre discipline, che esentano dal configurare come «appalti» le prestazioni di servizi, proprio perché i rischi di ripercussioni negative per la concorrenza sono di gran lunga inferiori nel caso di committenza privata.
In ogni caso, l'articolo 8 del dlgs 59/2010 (attuativo della direttiva «Bolkestein») ai sensi del quale è servizio «qualsiasi prestazione anche a carattere intellettuale svolta in forma imprenditoriale o professionale, fornita senza vincolo di subordinazione e normalmente fornita dietro retribuzione» aiuta a qualificare le attività dei legali esattamente come servizio. Né il decreto legislativo esclude dal suo ambito di applicazione i servizi svolti avvocati. Pertanto, se nel mercato interno l'attività dei legali è considerata servizio anche tra privati, non si vede come si possa escludere la natura di appalto di servizio se il committente è una pubblica amministrazione (articolo ItaliaOggi del 12.07.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Ecco il portale del federalismo. Tra gli obiettivi, integrare i dati fiscali.
Debutta in rete il Portale del federalismo fiscale, luogo di incontro e collaborazione tra gli operatori del ministero dell'economia e delle finanze, delle Agenzie fiscali, delle regioni e delle autonomie locali, uniti nell'obiettivo di creare valore e innovazione nell'erogazione dei servizi istituzionali.
Ieri l'avvio del Portale (www.portalefederalismofiscale.gov.it) che, spiega il Mineconomia, è uno strumento che intende favorire, attraverso lo scambio di conoscenze ed esperienze, le sinergie tra operatori che possono ridurre i tempi delle attività e semplificarne lo svolgimento.
«L'interfaccia web semplice e intuitiva e una home page pubblica con informazioni disponibili per tutti gli utenti rendono facile e veloce la consultazione e l'approfondimento, mentre una sezione riservata, a cui accedere tramite autenticazione», prosegue la nota, «consente di:
• integrare il maggior numero di informazioni pubbliche di rilevanza fiscale;
• utilizzare e promuovere servizi di cooperazione amministrativa a supporto della governance del territorio;
• condividere informazioni e documenti sul tema del federalismo fiscale;
• proporre aree di discussione e temi di confronto attraverso servizi di interoperabilità evoluta (forum e Wiki) che consentiranno alle amministrazioni centrali e locali lo scambio di informazioni, la condivisione di “buone pratiche”, la formazione e l'informazione sui principali temi del federalismo fiscale
» (articolo ItaliaOggi del 12.07.2011).

VARISquilla il telefono. E non smette. Segnalate più di mille chiamate fuori legge, sanzioni in arrivo. Telemarketing: a quattro mesi dall'introduzione stenta a decollare il Registro delle opposizioni.
A quattro mesi dall'introduzione del Registro delle opposizioni al telemarketing, i consumatori che hanno chiesto di non essere interpellati per proposte commerciali lamentano di ricevere ancora telefonate pressanti.
Sono più di mille le segnalazioni ricevute finora dal Garante per la privacy (su un totale di circa 618 mila aderenti al Registro), ma secondo una stima dell'Adoc il fenomeno riguarderebbe il 60% degli iscritti. Una situazione che suggerisce un cambio di rotta nell'applicazione della normativa, anche se le aziende interessate invitano ad attendere che il sistema entri a regime.
Associazioni dei consumatori: il Registro solo uno spreco di soldi. Di soluzione costosa e farraginosa, che salvaguardia le aziende e non i cittadini, parlano le associazioni dei consumatori.
«Gli utenti dovrebbero essere tutelati dalle chiamate moleste del telemarketing», afferma Mauro Novelli, segretario nazionale Adusbef, «ma la procedura presenta troppe lacune: in primo luogo, è praticamente impossibile iscriversi al Registro se non si è presenti nelle Pagine Bianche (l'elenco telefonico, ndr). Inoltre le aziende possono aggirare facilmente il divieto di telefonata sfruttando altri elenchi, come l'iscrizione a servizi online, in cui il consumatore ha fornito precedentemente il proprio assenso ad essere contattato».
Secondo Novelli la soluzione più sensata ed economica sarebbe stata l'introduzione di un sistema in cui solo chi vuole ricevere le telefonate di telemarketing si iscrive a un registro ad hoc e non il contrario.
Parere quest'ultimo condiviso da Pietro Giordano, segretario generale di Adiconsum: «Ormai la norma è stata introdotta, anche se eravamo contrari e quindi nell'interesse dei consumatori bisogna rendere il sistema il più possibile efficiente». Per esempio, secondo il segretario, un punto critico è la ridotta conoscenza del Registro tra i consumatori: «Andrebbe implementata una campagna informativa più efficace e puntuale di quella già promossa negli scorsi mesi», precisa.
In secondo luogo, bisognerebbe partire con le sanzioni nei confronti delle aziende che operano una violazione sistematica della privacy.
Sulla stessa linea Federconsumatori secondo cui è indispensabile modificare radicalmente questa norma, adottando misure più in linea con le esigenze dei cittadini e con le indicazioni del Garante per la privacy, piuttosto che privilegiare i bisogni delle aziende.
Garante, al via le sanzioni. Nel Rapporto annuale presentato al Parlamento, anche il Garante ha criticato duramente l'istituzione del Registro, che anziché essere uno strumento di semplificazione si è dimostrato un sistema per invertire l'ottica a favore delle aziende. «Tra febbraio e giugno 2011», afferma, «sono pervenute più di mille segnalazioni da parte di utenti che, anche se iscritti al Registro, hanno ricevuto lo stesso telefonate pubblicitarie; più del doppio del 2010, anno in cui, pur senza l'istituzione del nuovo sistema, le segnalazioni sul telemarketing erano state invece circa 300». Le telefonate fuori legge sarebbero arrivate soprattutto dagli operatori di telefonia fissa e mobile.
Sembra, inoltre, che molte aziende di telemarketing continuino a utilizzare liste di numeri telefonici vecchie senza confrontarle con i dati contenuti nell'elenco. Una comparazione che le costringerebbe a decurtare i nominativi degli iscritti.
Un'operazione dispendiosa che potrebbe spiegare l'insofferenza di alcune società verso le nuove regole.
Per far fronte alla situazione, il Garante conferma di aver già avviato le istruttorie cui seguiranno le relative sanzioni che potrebbero oscillare tra i 10 mila e i 120 mila euro e che ... (articolo ItaliaOggi del 11.07.2011 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: Il promissario acquirente dell’area e dell’immobile ivi costruito ha diritto di accedere agli atti di cui alla pratica edilizia depositata in comune.
La legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.

La ricorrente riveste una posizione che la legittima a richiedere l’accesso agli atti, dal momento che, per giurisprudenza pacifica, la legittimazione all'accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell'accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l'autonomia del diritto di accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all'impugnativa dell'atto.
Nel caso di specie la domanda di accesso è volta ad ottenere l'esibizione degli atti necessari per tutelare la posizione del richiedente, di promissario acquirente dell’area e dell’immobile ivi costruito: la ricorrente ha infatti interesse ad accertare non solo la causa del mancato rilascio dei titoli edilizi entro il termine del 30.10.2010, ma anche la ragione per cui successivamente l’attività edificatoria sia stata assentita.
Si configura quindi in capo alla ricorrente un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata alla documentazione di cui è chiesto l'accesso (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.07.2011 n. 1857 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIE' illegittima la previsione del bando di gara che prevede, a pena di esclusione, la produzione per due volte, in due buste diverse, del medesimo documento (copia del capitolato tecnico, timbrato e firmato).
La legge lascia alla stazione appaltante un ampio margine discrezionale per conformare il procedimento concorsuale alle proprie esigenze, disciplinando nella maniera più opportuna i requisiti e gli adempimenti posti a carico dei concorrenti che aspirano a partecipare alla gara.
Tali determinazioni, se non risultano in contrasto con norme particolari di rango superiore, non sono censurabili nel merito, fatto salvo il sindacato di legittimità quando si manifesti una palese irragionevolezza o ingiustizia o incongruità delle disposizioni di gara (cfr. Cons. St., sez. V, 22/09/2009, n. 5653).
Nella specie è fondata la censura dedotta dalla società ricorrente, sotto questi profili, contro la clausola che prevede, a pena di esclusione, la produzione per due volte, in due buste diverse, del medesimo documento (copia del capitolato tecnico, timbrato e firmato).
Infatti non vi è alcuna ragionevole giustificazione di questo onere, posto a carico dei concorrenti, che peraltro si pone in contrasto con i principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa e con i principi di adeguatezza, proporzionalità e non aggravamento delle procedure concorsuali (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.06.2011 n. 3259 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINonostante l’art. 41 d.lgs. n. 163/2006 consenta alla P.A. appaltante di inserire nel bando di gara la richiesta della prova della capacità economica e finanziaria mediante una dichiarazione che riguardi sia il fatturato globale, sia il fatturato del settore oggetto dell’appalto, solamente la dichiarazione del primo dato è indispensabile per la legittimità del bando, nell’ambito della scelta discrezionale dei documenti più opportuni al fine di dimostrare il requisito in esame, mentre la richiesta del secondo dato è rimessa alla discrezionalità della P.A..
La più recente giurisprudenza ha chiarito che, nonostante l’art. 41 d.lgs. n. 163/2006 consenta alla P.A. appaltante di inserire nel bando di gara la richiesta della prova della capacità economica e finanziaria mediante una dichiarazione che riguardi sia il fatturato globale, sia il fatturato del settore oggetto dell’appalto, solamente la dichiarazione del primo dato è indispensabile per la legittimità del bando, nell’ambito della scelta discrezionale dei documenti più opportuni al fine di dimostrare il requisito in esame, mentre la richiesta del secondo dato è rimessa alla discrezionalità della P.A. (C.d.S., Sez. V, 23.02.2010, n. 1040).
Più specificamente, la giurisprudenza ora citata, cui il Collegio ritiene di aderire, ha evidenziato che i documenti ritenuti idonei dal Legislatore, ai sensi dell’art, 41, comma 1, cit., a dar prova della capacità economica e finanziaria delle imprese concorrenti, sono di tre tipi: le idonee dichiarazioni bancarie, finalizzate ad attestare l’affidabilità dell’impresa con riferimento al credito; i bilanci o gli estratti di bilanci dell’impresa, finalizzati a dimostrare la situazione (interna) contabile e finanziaria dell'impresa e, così, le sue effettiva capacità imprenditoriali; la dichiarazione riguardante il fatturato globale e l’importo relativo ai servizi e forniture oggetto della gara, realizzati negli ultimi tre anni, il cui scopo è, piuttosto, quello di dimostrare le concrete capacità operative dell’impresa concorrente.
Poiché tali autonome categorie di documenti, malgrado l’ora vista diversità di contenuto e funzioni, sono state giudicate dal Legislatore tutte ugualmente idonee, anche isolatamente prese, a dimostrare la capacità economica e finanziaria di un’impresa concorrente, tanto che spetta alla P.A. appaltante, nella sua discrezionalità, di scegliere tra uno o più dei documenti stessi, la giurisprudenza in parola ha concluso che non occorre che la dichiarazione ex art. 41, comma 1, lett. c), debba indicare sia il fatturato globale dell’impresa, sia l’importo relativo ai servizi o forniture oggetto di gara, realizzati negli ultimi tre anni, bastando, per la legittimità del bando, che la P.A. pretenda la dichiarazione di uno solo di tali dati.
Ed anzi, la direttiva n. 18/2004/CE prevede (art. 47) che la capacità economica e finanziaria dell’operatore economico possa essere provata tramite una serie di elementi, tra i quali “una dichiarazione concernente il fatturato globale e, se del caso, il fatturato del settore di attività oggetto dell’appalto, al massimo per gli ultimi tre esercizi disponibili….”: donde la conclusione che solamente la dichiarazione del primo dato, concernente il fatturato globale, è indispensabile, mentre, come già detto, l’imposizione della dichiarazione concernente (anche) il secondo dato, sul fatturato specifico, è rimessa alla scelta discrezionale della P.A., il cui concreto esercizio sfugge al sindacato di legittimità quando non risulti essere manifestamente illogica, arbitraria, irragionevole, irrazionale (cfr. C.d.S., Sez. V, n. 1040/2010, cit.) (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 16.06.2011 n. 1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati antisismici e loro natura giuridica: quid iuris?
I reati di violazione delle norme tecniche in zona sismica e di esecuzione dei lavori in zona sismica senza la direzione di un tecnico abilitato sono da qualificarsi come reati permanenti; ne consegue che, in particolare, che gli stessi perdurano oltre l'inizio della costruzione e per tutto lo svolgimento dell'attività costruttiva.
Particolarmente interessante la decisione in commento con cui la Suprema Corte affronta “funditus”, tra le altre, una questione invero non molto approfondita nella giurisprudenza di legittimità, ossia il tema della natura giuridica dei reati dettati dalla disciplina antisismica.
La questione appare vieppiù interessante in quanto, sulla natura giuridica di alcuni di essi, è recentemente emerso un contrasto di giurisprudenza (tema che sarà affrontato in altra nota di prossima pubblicazione sul Quotidiano), che verosimilmente renderà necessaria a breve la sua sottoposizione alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Il fatto.
La vicenda processuale posta a fondamento della decisione in esame vedeva imputati due soggetti di violazioni urbanistiche ed antisismiche per aver, in particolare, realizzato abusivamente, in aderenza ad un immobile preesistente ed in ampliamento del medesimo, un fabbricato in duplice elevazione su una superficie di mq. 50 per piano nonché, inoltre, per aver realizzato tali interventi edilizi in zona sismica senza aver dato il richiesto preavviso scritto, senza l’autorizzazione preventiva dell’ufficio tecnico regionale e senza la direzione di un tecnico abilitato.
In sede di merito, gli imputati venivano condannati sia in primo che in secondo grado, rigettando la richiesta difensiva di proscioglimento per prescrizione delle violazioni antisismiche contestate.
Il ricorso.
Avverso la sentenza di merito, resa dai giudici d’appello, proponevano ricorso per Cassazione gli imputati, affidando, per quanto qui di interesse, le loro doglianze al mancato riconoscimento della prescrizione dei reati in materia antisismica, ritenendo gli stessi reati istantanei e non permanenti.
La decisione della Cassazione.
La terza sezione penale della Corte Suprema, investita del ricorso, lo ha dichiarato inammissibile con una decisione che, ineccepibilmente, da una lato, opera una coerente applicazione di un principio giurisprudenziale consolidato sulla natura giuridica del reato di violazione delle norme tecniche in zona sismica e, dall’altro, afferma per la prima volta “expressis verbis” il principio di diritto secondo cui ha natura permanente il reato di direzione lavori da parte di tecnico non abilitato.
Al fine di meglio comprendere il ragionamento della Corte è utile focalizzare il quadro normativo di riferimento. L’attuale disciplina in materia antisismica è contenuta del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (c.d. Testo Unico dell’edilizia) che ha integralmente sostituito, con riferimento alla disciplina sul punto, la “vecchia” legge n. 64/1974, ormai in pensione dall’entrata in vigore del T.U. edilizia.
E’ ben vero, infatti, che l’art. 137, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede che la legge 02.02.1974, n. 64 resta in vigore, per tutti i campi di applicazione originariamente previsti dal relativo testo normativo e non applicabile alla parte I del nuovo testo unico; è altrettanto vero, però, che –per quanto concerne la disciplina sostanziale e quella sanzionatoria oggi introdotta dal nuovo Testo Unico– non v’è dubbio che le relative disposizioni non sono da considerarsi più attualmente vigenti.
Quali sono dunque le norme applicabili?
Per quanto concerne il reato di violazione delle norme tecniche, vengono in rilievo gli artt. 83 e 95 del d.P.R. n. 380/2001, che hanno preso il posto delle abrogate previsioni di cui agli artt. 3 e 20 della legge n. 64/1974. Le attuali disposizioni prevedono, in particolare, che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, da realizzarsi in zone dichiarate sismiche, sono disciplinate, oltre che dalle disposizioni di cui all’art. 52 (rubricato “tipo di strutture e norme tecniche”) anche da “specifiche norme tecniche” emanate, anche per i loro aggiornamenti, con decreti del Ministro per le infrastrutture ed i trasporti, di concerto con il Ministro per l'interno, sentiti il Consiglio superiore dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale delle ricerche e la Conferenza unificata.
Spetta, peraltro, alle regioni, sentite le province e i comuni interessati, provvedere all’individuazione delle zone dichiarate sismiche, alla formazione e all’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone e dei valori attribuiti ai gradi di sismicità, nel rispetto dei criteri generali dettati con apposto decreto, previsto dall’art. 83, comma 2. La violazione delle norme tecniche trova la sua sanzione nell’art. 95 che punisce con l'ammenda da lire 400.000 (pari ad € 206) a lire 20.000.000 (pari ad € 10.329) “Chiunque violi le prescrizioni contenute nel presente capo e nei decreti interministeriali di cui agli articoli 52 e 83”.
Per quanto, invece, concerne, invece, il reato di direzione lavori in zona sismica da parte di tecnico non abilitato, la norma di riferimento è attualmente contenuta all’art. 94 d.P.R. n. 380/2001, secondo cui nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità, non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione, lavori che (comma 4) “devono essere diretti da un ingegnere, architetto, geometra o perito edile iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive competenze”. La relativa sanzione è contemplata dall’art. 95, applicabile alla fattispecie del comma 4 dell’art. 94 per il richiamo alla violazione delle “prescrizioni contenute nel presente capo”.
Infine, ultima disposizione di interesse, sulla cui natura giuridica sono sorte le maggiori discussioni, è quella contemplata dal combinato disposto degli artt. 93 e 94 del nuovo T.U. edilizia, che puniscono l’edificazione in zona sismica senza previo preavviso allo sportello unico, ovvero omettendo la sottoposizione del progetto al vaglio della pubblica autorità, nonché di inizio dei lavori in assenza dell’autorizzazione dell’autorità competente. La norma sanzionatoria è sempre costituita dall’art. 95 citato, per le medesime ragioni in precedenza sottolineate.
Rinviando alla nota di prossima pubblicazione sul Quotidiano l’approfondimento sul contrasto giurisprudenziale venutosi a manifestare nella giurisprudenza di legittimità quanto alla natura giuridica, permanente od istantanea, del reato di cui al combinato disposto degli artt. 93 3 94, in relazione all’art. 95 del T.U. edilizia, è sufficiente qui soffermarsi sulla soluzione offerta sul tema della natura giuridica delle altre due fattispecie.
Sul punto, la soluzione della Corte è assolutamente condivisibile.
Non può, infatti, discutersi, anzitutto, sulla natura permanente del reato di violazione delle norme tecniche (v., da ultimo, in senso conforme: Cass. pen., Sez. 3, n. 41617 del 02/10/2007, dep. 13/11/2007, imp. I., in Ced Cass. 238008), peraltro dovendosi precisare che, secondo la Cassazione, la relativa consumazione perdura fino al momento di cessazione dell'attività vietata (v., sul punto, Cass. pen., Sez. U, n. 17178 del 27/02/2002, dep. 08/05/2002, imp. Cavallaro, in Ced Cass. 221398, principio espresso con riferimento reato di esecuzione, senza autorizzazione, di opere in zona distante meno di trenta metri dal demanio marittimo, c.d. fascia di rispetto, previsto dagli artt. 55 e 1161 del codice della navigazione).
Per quanto, poi, concerne, il reato di esecuzione dei lavori in zona sismica senza la direzione di un tecnico abilitato, parimenti nessun dubbio può sussistere quanto alla natura giuridica di reato permanente della fattispecie penale in questione.
Ed invero, nonostante la mancanza di giurisprudenza di legittimità sul punto, la Corte, ineccepibilmente, per la prima volta pronunciandosi sulla questione, ne afferma la natura permanente basandosi sulla ratio legis sottesa all’art. 94, comma 4, T.U. edilizia, rivolta ad evitare che la realizzazione di interventi edilizi venga affidata a soggetti sprovvisti delle necessarie competenze tecnico–scientifiche, sicché “il reato perdura oltre l’inizio della costruzione e per tutto lo svolgimento dell’attività costruttiva” (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.05.2011 n. 17217 - link a www.lexambiente.it).

AGGIORNAMENTO ALL'11.07.2011

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SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: problematiche applicative del d.lgs. 150/2009 negli enti locali e accordo 04.02.2011 (CISL-FP di Bergamo, nota 30.06.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: Il foglio dei lavoratori della Funzione Pubblica (CGIL-FP di Bergamo, giugno 2011).

UTILITA'

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Guida pratica per i contratti pubblici di servizi e forniture (a cura del Dipartimento per le Politiche di Gestione e di Sviluppo delle Risorse Umane):
- Vol. 3° - Il contratto ed il contenzioso.
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I primi due volumi sono stati qui pubblicati lo scorso 17.01.2011 e precisamente:
- Vol. 2° - L’evidenza pubblica;
- Vol. 1° - Il mercato degli appalti (N.B.: la stesura del volume è precedente all’approvazione del Regolamento di attuazione del Codice dei contratti da parte del Consiglio dei Ministri il 18.06.2010. Il testo pertanto sarà aggiornato a cura degli autori nelle parti interessate dalle disposizioni di dettaglio contenute nel Regolamento).

SICUREZZA LAVOROArrivano le regole sulla valutazione del rumore in edilizia: Circolare del Ministero del Lavoro.
L'art. 190 del D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico sulla Sicurezza) stabilisce che l'emissione sonora delle attrezzature e delle macchine di lavoro in campo edile può essere stimata in fase di progetto facendo riferimento a livelli di rumore standard, individuati da studi e misurazioni attendibili.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con apposita Lettera Circolare, ha approvato la nuova Banca dati CPT Torino, al fine di rispondere alle richieste dell'art. 190.
Nella Lettera Circolare viene riportato il documento “Aggiornamento della banca dati del C.P.T. Di Torino”, che fornisce le metodologie, le procedure e i riferimenti alle norme di settore per la misurazione dei livelli sonori e di potenza.
La Circolare contiene già alcune schede di esempio della banca dati del CPT con informazioni relative a tipologia, modello e analisi in frequenza di alcune attrezzature (07.07.2011 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia serie ordinaria n. 27 del 07.07.2011 "Approvazione del «Prezzario dei lavori forestali» - Aggiornamento 2011" (decreto D.S. 01.07.2011 n. 6061).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 07.07.2011 n. 155 "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria" (D.L. 06.07.2011 n. 98).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, Ancora sul Sistri: dualità, l’apparente potenza del produttore, disposizioni rilevanti, il sistema informatico e le sanzioni (parte 2^ e 3^) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, Ancora sul Sistri: dualità, l’apparente potenza del produttore, disposizioni rilevanti, il sistema informatico e le sanzioni (parte 1^) (link a www.lexambiente.it).

APPALTI SERVIZI: V. Avaltroni, L’assetto della disciplina del S.I.I. (Servizio Idrico Integrato) dopo il referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011 - note d’approfondimento (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Decreto Legge 13.05.2011, n. 70 - Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia - Analisi e commenti (06.06.2011 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Lavatelli, Le distanze tra i fabbricati e dai confini in materia edilizia (nota 05.06.2010 - tratto da www.cameramministrativacomo.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La questione della doppia conformità nella sanatoria edilizia. Un falso problema? (link a www.lexambiente.it).

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIServitù di uso pubblico.
Domanda.
In quali modi può costituirsi la servitù di uso pubblico?
Risposta.
La servitù di uso pubblico può costituirsi con un regolare atto negoziale di costituzione da parte del proprietario del terreno, ma anche mediante l'effettivo uso pubblico dell'area di pertinenza stradale per un tempo immemorabile e, comunque, almeno pari ad un ventennio, oppure mediante l'istituto della c.d. dicatio ad patriam.
Orbene, siffatto istituto, quale titolo costitutivo di una servitù di uso pubblico, consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità e non di precarietà e tolleranza, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale od ablatorio, al fine di soddisfare un'esigenza comune ai membri di tale collettività quali cittadini (07.07.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

SICUREZZA LAVOROStress lavoro-correlato. Qual è la data di decorrenza dell'obbligo di valutazione del rischio?
Domanda.
Per quanto attiene la cogenza dell'obbligo di valutazione del rischio da stress lavoro correlato: l'obbligo decorre a partire dal 31.12.2010 o entro quella data le aziende devono aver concluso tale valutazione?
Risposta.
La domanda trova la sua fondatezza nel clamore suscitato da alcuni autorevoli commentatori all'indomani della pubblicazione della circolare del ministero del lavoro del 18.11.2010, contenente le indicazioni in materia di stress lavoro-correlato definite dalla Commissione consultiva permanente di cui all'art. 6 del D.Lgs. n. 81/2008.
Nell'ultimo paragrafo della Circolare in questione, intitolato "Disposizioni transitorie e finali", si legge infatti:
"La data del 31.12.2010, di decorrenza dell'obbligo previsto dall'articolo 28, comma 1-bis, del d.lgs. n. 81/2008, deve essere intesa come data di avvio delle attività di valutazione ai sensi delle presenti indicazioni metodologiche".
Il testo è sufficientemente chiaro nel definire il 31/12/2010 come data di partenza e non di scadenza, ma alcuni autorevoli interpreti della norma hanno tuttavia obiettato che la circolare in questione non avrebbe alcun potere di modificare la scadenza dell'obbligo di valutazione che il legislatore aveva fissato, ai sensi dell'articolo 28, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 81/2008, al 31.12.2010 (termine al quale si era giunto dopo un paio di modifiche alla norma ad opera di successivi decreti).
Si ritiene, tuttavia, di non poter concordare con tali, pur autorevoli, commentatori.
Difatti, il testo dell'articolo 28, comma 1-bis, recita:
"La valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 è effettuata nel rispetto delle indicazioni di cui all'articolo 6, comma 8, lett. 4-quater) e il relativo obbligo decorre dalla elaborazione delle predette indicazioni e comunque, anche in difetto di tale elaborazione a far data dall'01.08.2010 (NdA: termine, come si è detto, prorogato al 31.12.2010)".
Dunque, come si può leggere chiaramente, il legislatore ha demandato alle indicazioni della commissione consultiva permanente la definizione delle modalità con le quali procedere alla valutazione del rischio da stress lavoro-correlato ("è effettuata nel rispetto...") le quali, nel fissare la data del 31.12.2010 quale data di avvio delle attività di valutazione, hanno fornito un'indicazione sufficientemente chiara alla quale Organi di vigilanza ed aziende debbono attenersi (06.07.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione in sanatoria nella fascia di rispetto di mt. 10 dei corsi d'acqua.
Secondo quanto enunciato nella richiesta di parere del Comune XXX, i termini della questione sono i seguenti:
= in data 23.02.2004 è stato rilasciato un permesso di costruire (n. 543/2004) avente ad oggetto l’intervento di ristrutturazione edilizia di un fabbricato ad uso civile abitazione;
= iniziati i lavori, a causa delle condizioni dell’immobile, la costruzione è pressoché integralmente crollata;
= la proprietà ha proceduto nei lavori di ristrutturazione, ormai concretatisi nella sostanziale ricostruzione dell’immobile, senza acquisire dal Comune un titolo abilitativo edilizio che approvasse i lavori predetti, divenuti diversi da quelli originariamente assentiti;
= tali lavori, con ordinanza del 09.10.2004, sono stati conseguentemente sospesi;
= la proprietà ha quindi presentato al Comune domanda di rilascio di permesso di costruire in sanatoria;
= l’immobile ricade in area sottoposta a vincolo paesaggistico, ai sensi del D.Lvo 42/2004; il 05.04.2007 è stata accertata e dichiarata la compatibilità paesaggistica dell’intervento, così come previsto dall’articolo 167 del citato decreto;
= il fabbricato risulta però ricadere anche all’interno della fascia di rispetto di cui al R.D. 523/1904, essendo posto a ridosso di un corso d’acqua denominato Rio XXX.
In relazione a quest’ultimo dato, viene richiesto se sia legittimo rilasciare il permesso di costruire in sanatoria, stante il fatto che la ricostruzione del fabbricato non rispetta la distanza prevista dall’articolo 96, lettera f), del citato regio decreto.
In termini ancora più espliciti, il dubbio che si pone è se alla luce dell’intervenuto crollo del fabbricato si possa procedere alla riedificazione sul medesimo sedime, e quindi ad una distanza dall’argine del corso d’acqua inferiore a quella prevista dalla legge, o se –invece- la costruzione debba essere arretrata a dieci metri dall’argine stesso
(Regione Piemonte, parere n. 107/2007 - link a www.regione.piemonte.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:  Contrattazione, caccia ai fondi. Ma sull'individuazione delle fonti la Corte conti si spacca. Dal Veneto e dalla Liguria due deliberazioni sulla valenza del tetto massimo di spesa.
La Corte dei conti si spacca. Per l'individuazione di eventuali fonti di finanziamento della parte variabile dei fondi della contrattazione decentrata sottratti al rispetto del tetto massimo di spesa dell'anno 2010, la magistratura contabile fornisce interpretazioni diametralmente opposte, che stanno finendo per sconcertare gli operatori.
Il problema, per gli enti locali, riguarda l'applicazione dell'articolo 15, comma 1, lettera k) del Ccnl 01.04.1999 che consente di finanziare la parte variabile del fondo destinato alla produttività con “le risorse che specifiche disposizioni di legge finalizzano alla incentivazione di prestazioni o di risultati del personale”. Tra queste rientrano
gli incentivi per la progettazione di opere pubbliche e di piani urbanistici, l'incentivo al recupero dell'evasione dell'Ici, gli incentivi per le attività del condono edilizio, le spese di giudizio rimborsate agli enti per le vertenze vittoriosamente condotte dai propri legali.
C'è da ricordare che proprio la Corte dei conti, Sezione Autonomie, con la delibera 16/2009 ha espressamente ritenuto di non doversi considerare tra le spese di personale oltre agli incentivi per la progettazione ed il recupero dell'Ici, anche i diritti di rogito spettanti al segretario comunale.
Una prima posizione restrittiva è stata espressa dalla Corte conti Sezione regionale di controllo del Veneto con il parere 03.05.2011 n. 285.
La Sezione ha ritenuto che le voci di finanziamento viste prima debbano essere necessariamente computate nel fondo delle risorse decentrate, così da garantire che esso non superi mai il tetto del 2010. Per estrema esemplificazione, ponendo che nel 2010 un fondo complessivo di 1.000.000 fosse composto per 400.000 euro da risorse variabili, delle quali 200.000 derivanti dagli incentivi di cui all'articolo 15, comma 1, lettera k), poiché nel 2011 il fondo non potrà mai essere superiore ad 1.000.000 le risorse per incentivi previsti da specifiche norme di legge non potrebbero mai superare i 200.000 euro del 2010 o, se lo facessero, eroderebbero i restanti 200.000 euro di parte variabile. E questo nonostante nel 2011 le opere pubbliche fossero in numero e di importo maggiore rispetto all'anno precedente, oppure l'ufficio legale vincesse molte più cause o l'ufficio tributi recuperasse il doppio dell'Ici rispetto ad un anno prima.
Posizione diametralmente opposta ha espresso la Sezione regionale di controllo della Liguria, con il parere 16.05.2011 n. 16.
In merito alle incentivazioni per i progettisti e gli avvocati, il parere afferma: “un'interpretazione irragionevolmente restrittiva finirebbe, astrattamente, per essere contraria all'intento del Legislatore che, favorendo il ricorso a professionisti interni, intende perseguire l'uso ottimale delle risorse secondo canoni di efficienza, efficacia ed economicità, anche alla luce dei principi ispiratori del D. Lgs.vo 27.10.2009 n. 150 (c.d. Riforma Brunetta)”.
Il parere della Sezione Veneto appare preoccupato di dare effettività alla volontà del legislatore di contenere le spese di personale. Quello della Sezione Liguria allarga lo sguardo e non pone ostacoli all'applicazione anche in aumento dell'articolo 15, comma 1, lettera k), indicando, condivisibilmente, che esso consente di ottenere risparmi di spesa corrente anche più consistenti.
Intanto le Linee guida e relativi questionari per gli Organi di revisione economico-finanziaria ai fini del bilancio di previsione 2011 della Corte conti sottraggono espressamente dal complesso delle spese i diritti di rogito e gli incentivi per la progettazione (mancano riferimenti ad altre tipologie di incentivi: recupero Ici, condono e attività di legali) (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2011 - tratto da www.corteconti.it).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTIDeterminazione dell'Authority contratti pubblici. Non sfuggono i servizi d'ingegneria. Tracciabilità dei flussi alleggerita. Esclusi concessionari di finanziamenti pubblici e sanità.
Esclusi dalla tracciabilità dei flussi finanziari i concessionari di finanziamenti pubblici, anche europei, i patrocini legali, le prestazioni socio-sanitarie e di ricovero rese in regime di accreditamento; confermata la tracciabilità per i servizi di ingegneria e architettura; precisazioni e chiarimenti sul concetto di «filiera delle imprese».
È quanto prevede la nuova e articolata determinazione 07.07.2011 n. 4 emessa dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici che contiene le linee guida sulla tracciabilità dei flussi finanziari degli appalti e contratti pubblici e riprende i contenuti delle due precedenti determinazioni (la 8/2010 e la 10/2010) con alcuni chiarimenti ulteriori dettati da questi mesi di applicazione della nuova normativa entrata in vigore il 07.09.2010 e successivamente modificata dal decreto legge 187/2010.
La determina, per la maggiore parte dei suoi contenuti, riprende le due precedenti ma introduce alcuni chiarimenti di rilievo.
Per quanto riguarda, ad esempio, la cosiddetta «filiera delle imprese», cioè i soggetti tenuti agli obblighi di tracciabilità (fra cui quello di utilizzo dei conti dedicati e di richiesta del Cig, Codice identificativo gare), appare di interesse la precisazione in ordine alle forniture, ove si precisa che «l'ultimo rapporto contrattuale rilevante dovrebbe essere quello relativo alla realizzazione del bene oggetto della fornitura principale con esclusione dalla filiera di tutte le sub-forniture destinate a realizzare il prodotto finito» (componentistica, materie prime necessarie per lo svolgimento dell'attività principale).
Si chiarisce inoltre che sono esclusi i contratti «finalizzati all'acquisto di beni che confluiscono nelle scorte di magazzino dell'operatore economico se i contratti precedono l'affidamento della commessa pubblica e prescindono da quest'ultima», mancando in questo caso l'elemento della dipendenza economica. Era un punto particolarmente delicato, nell'interpretazione della normativa, quello concernente i concessionari di finanziamenti pubblici anche europei interessati a lavori, forniture e servizi.
La determina opta per l'esclusione della normativa per questi casi dal momento che, si legge nella determina, essi «non risultano immediatamente riconducibili alla prestazione di forniture, servizi o lavori pubblici strettamente intesi»; in sostanza ad avviso dell'Autorità manca una correlazione diretta con l'esecuzione di tali tipologie contrattuali. Se invece i soggetti beneficiari dei finanziamenti pubblici siano «a qualsiasi titolo interessati ai lavori, forniture e servizi», rientreranno nell'ambito di applicazione della norma.
La determina prevede inoltre l'esclusione dagli obblighi della legge 136 per il patrocinio legale, inquadrabile nella prestazione d'opera professionale e non nell'appalto; ugualmente esclusi dalla normativa vengono ritenute anche le prestazioni socio-sanitarie e di ricovero erogate da soggetti privati in regime di accreditamento, dal momento che «la peculiarità della disciplina non consente di ricondurre agevolmente tali fattispecie al contratto di appalto». Confermata invece la tracciabilità per tutti i soggetti che rendono servizi di ingegneria e architettura (professionisti, studi associati, società di ingegneria e di professionisti, consorzi stabili).
Vengono ritenute escluse dalla normativa sulla tracciabilità i contratti con i fornitori esteri, anche in considerazione del diniego dell'operatore straniero all'accettazione delle clausole di tracciabilità, anche per gli appalti «a valle». Mancando un accordo con lo stato straniero, il principio di territorialità esclude che l'operatore straniero possa essere assoggettato.
Altre importanti novità riguardano gli appalti per i buoni pasto ed i contratti stipulati dalle stazioni appaltanti con le agenzie di viaggio, e poi le carte carburante, i servizi legali, il pagamento delle utenze da parte delle pubbliche amministrazioni, le cessioni dei crediti e le spese giudiziarie (articolo ItaliaOggi del 09.07.2011).

APPALTI: Appalti e contratti, istruzioni per l'uso. Parere dell'autorità di vigilanza.
In un appalto la stazione appaltante non può imporre alle cooperative l'applicazione di contratti collettivi nazionali di lavoro di altre categorie.
È quanto afferma (in un parere sulla normativa 06.07.2011 n. AG 15-2011) l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, di cui è stato relatore il Consigliere Giuseppe Borgia, che segue l'istanza di Confcooperative in merito alla legittimità di clausole che impongono agli operatori economici, ai fini dell'ammissione alla gara, l'applicazione di specifici contratti collettivi nazionali di lavoro, indipendentemente dalla natura e dal settore contrattuale di appartenenza.
Il problema si poneva in ragione della facoltà, riconosciuta anche dalla giurisprudenza amministrativa, di prevedere requisiti anche più restrittivi rispetto a quelli previsti dalla legge (ancorché con il limite della ragionevolezza e proporzionalità).
Nello specifico, quindi, all'organismo di vigilanza presieduto da Giuseppe Brienza, si chiedeva di chiarire se l'applicazione a una cooperativa di un diverso contratto collettivo potesse risultare legittima.
Il caso posto all'attenzione dell'Autorità da Confcooperative era peculiare perché riguardava contratti collettivi che si distinguono, non perché attinenti ad attività diverse da quelle oggetto della gara (come in tutti i casi esaminati dalla giurisprudenza), ma perché rientranti in un comparto diverso di contrattazione collettiva che si qualifica per la particolare natura giuridica –impresa avente scopo mutualistico– dei soggetti coinvolti.
Secondo la giurisprudenza del lavoro, osta all'imposizione (anche indiretta) dell'applicazione di differenti contratti collettivi una ragione di rilievo costituzionale quale la non efficacia erga omnes (ma inter partes) dei contratti collettivi di lavoro (per effetto della mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione) i quali, data la loro natura privatistica, vincolano solo gli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti.
L'Autorità ha quindi sottolineato che le società cooperative rientrano tra gli operatori economici partecipanti alle gare di appalto, e che ad esse si applicano i contratti collettivi del comparto delle imprese aventi scopo mutualistico. Ha, quindi, ritenuto che risulterebbero sproporzionate e discriminatorie clausole che impongano a tali società l'adesione a contratti collettivi di altre categorie (articolo ItaliaOggi del 07.07.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI SERVIZISocietà in house frenate. Affidamenti diretti limitati. E un solo servizio. Il chiarimento giunge dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Una società in house di un comune non può essere affidataria diretta di lavori, se non entro i ristretti limiti previsti per i lavori in economia e, comunque, entro i 100 mila euro; se la società in house ha in affidamento anche il servizio farmaceutico, non può svolgere altre attività.
È quanto afferma l'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici nella deliberazione 18.05.2011 n. 51, resa nota in questi giorni.
Il caso prendeva le mosse da una richiesta di parere inviata da un comune in ordine alla legittimità dell'affidamento in via diretta di lavori a una società in house da esso costituita che ha, in via generale, ma non esclusiva, il compito statutario di provvedere alla gestione del patrimonio immobiliare del comune. La società, partecipata al 100% dal comune, nel 2007 aveva acquisito i rami di azienda di due imprese operanti nel settore edile e, con essi, le relative attestazioni Soa per progettazione e costruzione in diverse categorie OG.
La peculiarità del caso esaminato dall'organismo di vigilanza risiedeva nel fatto che alla società il comune aveva affidato negli anni una pluralità di attività disomogenee, inquadrabili sia nella categoria dei servizi pubblici di rilevanza economica (farmacia, gestione impianti sportivi, servizio idrico, igiene urbana, pubblica illuminazione), sia in quella dei servizi strumentali alla pubblica amministrazione (manutenzione immobili e strade, gestione del verde pubblico).
Un primo elemento che l'Autorità ritiene particolarmente critico attiene all'affidamento alla società dell'esercizio del servizio farmaceutico, anche perché sul punto si era già espressa la Corte dei conti, escludendo la possibilità che un comune potesse procedere alla costituzione di società che, unitamente alla gestione di farmacia comunale, svolgesse un'altra attività di natura del tutto diversa e non finalizzata alla tutela della salute.
Peraltro, secondo l'Autorità, la connotazione commerciale del servizio farmaceutico e, più in generale, della gestione societaria, può compromettere irrimediabilmente anche la sussistenza del requisito del «controllo analogo», presupposto indispensabile per ritenere legittimo l'affidamento in via diretta a società in house.
Venendo invece al profilo dello svolgimento di lavori tramite società in house, l'Autorità si esprime in senso negativo, evidenziando che «è da escludersi la praticabilità dello schema dell'in house providing nel settore dei lavori, in quanto come rilevato anche dalla giurisprudenza, non si rinvengono nell'ordinamento norme che ne legittimino l'utilizzo».
Per l'organismo di vigilanza, quindi, l'istituto dell'in house providing concerne, infatti, l'autoproduzione di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni in deroga ai principi generali che prevedono il ricorso al mercato attraverso procedure di evidenza pubblica ed è pertanto insuscettibile di applicazione estensiva. Rimane soltanto la possibilità per le società in house di realizzare in affidamento diretto lavori di importo contenuto eseguibili in economia, ove ricorrano le condizioni già indicate nella deliberazione n. 109 del 05/04/2007.
Infine, l'Autorità ricorda che per gli affidamenti di servizi pubblici di rilevanza economica, con l'ultima riforma del settore il legislatore ha previsto che la relativa gestione avvenga in via ordinaria attraverso il conferimento a favore di imprenditori o di società private, oppure a società a partecipazione mista pubblica e privata; la gestione «in house» è, invece, consentita soltanto in deroga «per situazioni eccezionali» e previo parere dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2011 - tratto da www.corteconti.it).

NEWS

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOManovra correttiva/ Non c'è alcun blocco delle assunzioni per gli enti locali. Scatta invece lo stop alla contrattazione collettiva.
Non vi è alcun blocco delle assunzioni per gli enti locali; anche per il personale delle regioni, dei comuni e delle province potranno invece scattare il blocco della contrattazione collettiva per l'anno 2014 e il prolungamento per tale anno anche del tetto al trattamento economico individuale. E ancora, le amministrazioni sono impegnate ad adottare piani di razionalizzazione e una parte dei risparmi potrà essere destinata al finanziamento della contrattazione decentrata integrativa; diventa più flessibile il vincolo a disporre visite fiscali nei confronti dei dipendenti assenti per malattia per un solo giorno; si estende a quello delle società l'ambito di applicazione della spesa del personale.
Possono essere così riassunte le principali disposizioni dettate dal decreto legge 98 del 2011 che contiene la manovra correttiva, in tema di pubblico impiego.
La possibilità di introdurre con decreto del ministro dell'economia da emanare di concerto con quello della pubblica amministrazione misure di blocco delle assunzioni è dettata espressamente per le amministrazioni statali e inoltre si parla di una proroga delle disposizioni attualmente in vigore in questa materia, mentre per le amministrazioni regionali e locali i vincoli alle assunzioni non hanno carattere provvisorio, ma costituiscono una norma a regime.
Allo stesso decreto è rinviata la possibilità di prorogare per tutto il 2014 i tetti attualmente in vigore in materia di trattamento economico individuale, nonché la disciplina della indennità di vacanza contrattuale per il triennio 2015/2017. La disposizione si applica, espressamente, a tutte le pubbliche amministrazioni. Essa ipotizza quindi la possibilità che il regime di blocco della contrattazione collettiva previsto dal dl n. 78/2010 per il triennio 2010/2012 sia esteso anche al 2014; tale blocco può avere anche un carattere selettivo, escludere cioè amministrazioni e/o comparti virtuosi. Si rinvia a questo provvedimento la definizione della misura della indennità di vacanza contrattuale per il triennio 2015/2017. Da sottolineare che questo provvedimento dovrà anche disciplinare la possibilità di prolungare a tutto il 2014 il tetto al trattamento economico individuale, tetto che il dl n. 78/2010 impone per il triennio 2011/2013.
Con lo stesso provvedimento dovranno inoltre essere rafforzate e snellite le disposizioni che impongono a tutte le pubbliche amministrazioni, prima della indizione di concorsi pubblici, il ricorso alla mobilità individuale (articolo 30 dlgs n. 165/2001). E inoltre si potranno dettare regole più stringenti e di immediata attuazione per le regioni e gli enti locali dei vincoli dettati dall'articolo 6 del dl n. 78/2010, cioè i vincoli alle consulenze, alle sponsorizzazioni, alla spesa per pubblicità, a quella per la formazione ecc.
Da sottolineare il rilievo che assume il vincolo rivolto a tutte le pubbliche amministrazioni di dettare, entro il 31 marzo di ogni anno, dei piani di «razionalizzazione e riqualificazione della spesa, di riordino e ristrutturazione amministrativa, di semplificazione e digitalizzazione, di riduzione dei costi della politica e di funzionamento, ivi compresi gli appalti di servizio, gli affidamenti alle partecipate e il ricorso alle consulenze attraverso persone giuridiche». Nonché la possibilità di destinare fino alla metà di tali risparmi al finanziamento della contrattazione integrativa, con almeno la metà di tali risorse che deve essere finalizzato alla incentivazione della performance.
Assai importanti sono anche le disposizioni che impongono di recuperare le spese aggiuntive determinate da eventuali provvedimenti giurisdizionali, con l'eccezione delle sentenze della Corte Costituzionale. E ancora la retroattività delle sentenze della Consulta che dispongono l'annullamento di norme di stabilizzazione, con conseguente nullità dei relativi provvedimenti e obbligo per i dirigenti di recupero.
Le amministrazioni dispongono le visite fiscali tenendo conto dei seguenti tre fattori: la condotta complessiva del dipendente, gli oneri connessi e l'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo. Per cui la visita fiscale non è più un obbligo dal primo giorno, salvo quando l'assenza sia collegata a un giorno non lavorativo. Dell'eventuale assenza dal domicilio durante le fasce di reperibilità, la cui durata è fissata dal ministro della pubblica amministrazione, bisogna dare preventiva comunicazione all'ente e la relativa giustificazione può essere costituita anche dalla effettuazione di analisi cliniche, visite mediche ecc..
La spesa del personale comprende anche quelle sostenute dalle società cosiddette in house, nonché a quelle che svolgono funzioni «volte a soddisfare esigenze di interesse generale» e inoltre a quelle «che svolgono attività nei confronti della pubblica amministrazione a supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica». In tal modo si vuole precludere ogni possibilità di aggiramento del tetto alla spesa di personale (articolo ItaliaOggi dell'08.07.2011).

EDILIZIA PRIVATAAppalti, unica regia. Ecco la stazione su base regionale. Firmato il decreto. E le p.a. locali sosterranno i costi.
Al via la stazione unica appaltante, su base regionale, cui potranno fare riferimento le amministrazioni statali, le regioni e gli enti locali come centrale di committenza per l'affidamento di appalti di lavori, forniture e servizi; alla stazione unica appaltante (SUA) gli enti rimborseranno i costi sostenuti e il rapporto fra l'ente e la SUA sarà definito da apposita convenzione.
È quanto prevede il dpcm firmato dal presidente del consiglio dei ministri e dai ministri Maroni, Alfano, Romani, Matteoli, Sacconi, Fitto e Brunetta sulla stazione unica appaltante previsto dall'art. 13 della legge 13.08.2010, n. 136 (Piano straordinario contro le mafie approvato dal consiglio dei ministri il 28.01.2010).
Il decreto è finalizzato a promuovere l'istituzione in ambito regionale di una o più stazioni uniche appaltanti con l'obiettivo di rendere più penetrante l'attività di prevenzione e contrasto ai tentativi di condizionamento della criminalità mafiosa, favorendo la celerità delle procedure, l'ottimizzazione delle risorse e il rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.
Il ricorso alla stazione unica appaltante (una o più su base regionale) non rappresenterà un obbligo per le amministrazioni ma una facoltà; potranno aderire alla SUA lo stato, le regioni, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni, unioni e concorsi di enti pubblici, le imprese pubbliche e i soggetti che operano in virtù di un diritto speciale o di esclusiva.
Nello svolgimento della funzione di centrale di committenza (che in base al Codice dei contratti pubblici si esplica nell'acquisizione di forniture, lavori e servizi destinati ad altre amministrazioni e nell'aggiudicazione di appalti o nella conclusione di accordi quadro) rientra in generale l'attività di «gestione della procedura di gara», ma anche la collaborazione con l'ente che ha aderito alla SUA per la messa a punto dello schema di contratto, la scelta della procedura di gara, la predisposizione dei capitolati speciali e generali, l'applicazione dei criteri di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa, quale criterio di aggiudicazione utilizzare e per predisporre tutti gli atti di gara (bando, disciplinare e lettere di invito).
La SUA dovrà inoltre prendersi carico dello svolgimento della procedura di gara, curando anche la fase di pubblicità e le comunicazioni agli interessati, oltre a effettuare anche le verifiche in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione; sempre alla SUA spetta il compito di nominare la commissione giudicatrice (in caso di aggiudicazione con offerta economicamente più vantaggiosa), curare gli eventuali contenziosi e infine collaborare con l'ente per la stipula del contratto.
Il decreto definisce i contenuti essenziali della convenzione facendo particolare riferimento, all'ambito di applicazione della convenzione (cioè la o le procedure interessate), ai profili attinenti il rimborso dei costi sostenuti della SUA, alla suddivisione degli oneri relativi ai contenziosi, all'obbligo di trasmissione, da parte dell'ente aderente, alla SUA e alla prefettura, dei contratti stipulati e delle varianti intervenute nel corso dell'esecuzione dei contratti.
Per quel che riguarda le forme di monitoraggio e di controllo sugli appalti il dpcm prevede un serrato collegamento fra prefetture, soggetto cui dovranno affluire tutte le informazioni e i dati utili alla prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata, e SUA, alla quale le prefetture metteranno a disposizione le informazioni sulle imprese partecipanti alla gara.
Chi aderisce alla SUA potrà invece delegare la verifica dei progetti e l'esame delle varianti al provveditorato interregionale per le opere pubbliche. L'ente interessato ad avvalersi della SUA dovrà stipulare una convenzione per disciplinare la collaborazione (articolo ItaliaOggi del 05.07.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTI: Ricorsi appalti, contributo unificato doppio.
Ritocco all'aumento del contributo unificato per i ricorsi sugli appalti: è (solo) raddoppiato. Per tutte le controversie, a prescindere dal valore.
Questa la versione della manovra Tremonti nel testo inviato al Quirinale, che non contiene la novella alla legge Pinto sull'indennizzo per processi troppo lunghi e neppure la sospensione dei processi agli irreperibili. Anche se spunta una sospensione d'ufficio delle sentenze civili esecutive, dietro pagamento di cauzione.
Sul contributo unificato il testo della manovra, nell'ultima versione, prevede che per i ricorsi sugli appalti (articolo 119, comma 1, lettere a) e b) del codice del processo amministrativo, dlgs 104/2010), il contributo dovuto è di 4 mila euro. Si tratta del raddoppio rispetto all'importo attualmente dovuto, pari a 2 mila euro. Insomma un incremento deciso, anche se di importo più basso rispetto a una versione antecedente del decreto-legge.
Scorrendo i testi precedenti si trovava, infatti, un incremento progressivo per fasce di valore: si prevedeva il contributo dovuto di 3 mila euro per le controversie è pari o inferiore ad euro 200 mila; di euro 4 mila per quelle di importo compreso tra 200 mila euro e un milione; di euro 5 mila per le controversie di valore superiore a un milione.
Peraltro il risultato finale non dovrebbe pesare sulla finanza pubblica, considerato che l'aumento a 4 mila euro si applica anche alle controversie per cui si prevedeva solo un aumento a 3 mila euro.
Il risultato peserà di certo sulle spalle di chi vuole difendersi in giudizio; anche le pubbliche amministrazioni dovranno fare molta attenzione al contenzioso. Una eventuale soccombenza comporterà un potenziale rimborso di somme molto alte: anche il solo rimborso del contributo unificato può raggiungere cifre salate: si pensi al rimborso del contributo pagato per il ricorso e per un successivo atto di motivi aggiunti e la restituzione tocca già 8 mila euro.
La manovra contiene, infine, due novità per il codice di procedura civile e, in particolare, per il regime della sospensione delle sentenze esecutive nella pendenza di giudizi di impugnazione. Con una aggiunta all'articolo 283 del codice di procedura civile si prevede che la sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza di primo grado è in ogni caso concessa per condanne di ammontare superiore a dieci milioni di euro se la parte che ne fa istanza presta idonea cauzione.
Allo stesso modo all'articolo 373 si prevede che la sospensione della sentenza impugnata in cassazione è in ogni caso concessa per condanne di ammontare superiore a venti milioni di euro dietro idonea cauzione (articolo ItaliaOggi del 05.07.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni private avanti tutta. Silenzio-assenso sul rilascio dei permessi. Estesa la Scia. Gli interventi nel settore dell'edilizia contenuti nel dl sviluppo, ispirati alla sburocratizzazione.
Silenzio-assenso sui permessi di costruire, definitivo sdoganamento della Scia in edilizia e piano città. Sono i tre punti dell'intervento nel comparto dell'edilizia privata del decreto sviluppo, tutti ispirati alla sburocratizzazione delle procedure amministrative e a consentire una edificazione più libera e incentivata.
Con il silenzio-assenso si avrà certezza sui tempi di conclusione del procedimento per ottenere il titolo abilitativo (ma si scarica la responsabilità dell'istruttoria sul progettista privato e si rischiano contestazioni su un titolo, che non è documentale). Con la Scia in edilizia si potranno realizzare subito gli interventi minori. Con il piano città, infine, si cerca di dare al settore quell'impulso che non è arrivato dai famosi «piani casa» con premi di cubatura, permessi in deroga ai piani regolatori e applicabilità della legge statale in mancanza di adeguamento da parte delle regioni.
In dettaglio, in materia di permessi, il procedimento cambia per il progettista di fiducia del privato o dell'impresa che vuole edificare una nuova costruzione. Il professionista avrà maggiori oneri: deve integrare la documentazione da allegare alla domanda per il rilascio del permesso con una sua dichiarazione che asseveri la conformità del progetto non solo agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi, ma anche alle altre normative di settore (norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie e quelle sull'efficienza energetica). Si tratta di una asseverazione sottoscritta a pena di responsabilità penali e disciplinari.
Il decreto, a questo proposito, prevede la sanzione penale della reclusione da uno a tre anni per false dichiarazioni o attestazioni oltre la segnalazione al competente ordine professionale per l'irrogazione delle sanzioni disciplinari.
Cambiano, poi, i tempi del procedimento e le prerogative degli uffici tecnici comunali. Innanzi tutto è esteso da 15 a 30 giorni, decorrenti dalla presentazione della domanda, il periodo in cui il responsabile del procedimento può interrompere il termine entro il quale è tenuto a formulare la proposta di provvedimento, esclusivamente allo scopo di richiedere documenti integrativi.
Medesima estensione da 15 a 30 giorni, decorrenti dalla proposta di provvedimento o dall'esito della conferenza di servizi, è prevista per il termine entro il quale deve essere adottato il provvedimento finale da parte del responsabile del procedimento. Tale termine può arrivare a 40 giorni nel caso il responsabile del procedimento abbia comunicato al richiedente i motivi che ostano all'accoglimento della domanda.
Tenuto conto dei termini intermedi il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo è di 90 giorni per i centri urbani con meno di 100 mila abitanti e di 150 giorni per i comuni con oltre 100 mila abitanti o per i progetti particolarmente complessi, sempreché l'amministrazione non richieda delle integrazioni documentali.
Ma la novità più importante è l'introduzione del silenzio-assenso al posto del silenzio-rifiuto, sulla domanda di rilascio del permesso di costruire qualora sia decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo e il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbiano opposto motivato diniego.
Se non viene adottato un provvedimento di diniego, il permesso si intende tacitamente rilasciato. Tranne alcuni casi: e cioè i casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. È mantenuto il silenzio-rifiuto per gli immobili sottoposti a un vincolo la cui tutela compete all'amministrazione comunale o ad altro soggetto preposto alla tutela, qualora manchi l'assenso di tali soggetti.
Il decreto sviluppo, poi, prolunga, da 60 a 75 giorni, decorrenti dalla data di presentazione della domanda, il termine per il rilascio del permesso di costruire quando esso sia stato richiesto in alternativa alla Dia (e cioè per gli interventi edilizi minori) e fa salve le norme regionali che prevedono misure di ulteriore semplificazione e riduzioni di termini procedimentali.
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Sanzioni, tolleranza del 2% sugli abusi
Nessuna demolizione se l'abuso edilizio è mantenuto nel limite del 2% rispetto al progetto originario. Con un comma aggiunto all'articolo 34 del Testo unico per l'edilizia (dpr 380/2001), che regola gli interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire, il decreto sviluppo stabilisce che vengono considerati non parzialmente difformi dal titolo abilitativo edilizio le violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta fino al 2% delle misure progettuali per singola unità immobiliare. L'inserimento della percentuale del 2% consente, pertanto, a questo tipo di violazioni la non applicazione delle sanzioni più gravi, quali la rimozione o la demolizione a cura e a spese dei responsabili degli abusi.
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Resta invariata la disciplina della SuperDia.
La disciplina della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) è applicabile anche alla Dia in edilizia, a esclusione della Dia alternativa o sostitutiva del permesso di costruire. Quindi la Scia non può sostituire la SuperDia (prevista per gli interventi edilizi di nuova costruzione o comunque maggiori).
La Scia è diversa dalla Dia perché con la prima i lavori si possono iniziare subito, mentre con la seconda i lavori devono iniziare dopo 30 giorni (per dar tempo all'ufficio tecnico di verificare la conformità dei progetti). Quindi poter usare la Scia costituisce una indubitabile semplificazione. Il decreto sviluppo interviene, dunque, con una norma di interpretazione autentica, che precisa in modo definitivo la sostituzione della Dia con la Scia anche in edilizia. Con esclusione, però, dei casi in cui la Dia, in base alla normativa statale o regionale, sia alternativa o sostitutiva del permesso di costruire.
Inoltre le disposizioni sulla Scia in edilizia, chiarisce il decreto, si interpretano nel senso che non sostituiscono le leggi regionali che hanno ampliato l'ambito applicativo della Dia alternativa al permesso di costruire (la SuperDia). E la Scia non sostituisce neanche le autorizzazioni o i nulla osta che devono comunque essere rilasciati in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. Nel caso di immobili vincolati, la Scia può operare, ma solo una volta acquisito l'assenso dell'ente competente alla relativa tutela. Il decreto sviluppo, inoltre, aggiunge ai casi già previsti di esclusione dall'applicabilità della Scia anche quelli relativi alla normativa antisismica.
Circa le modalità di presentazione, la Scia deve essere sempre corredata dalle dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni nonché dai relativi elaborati tecnici, ma può essere presentata a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento e, in tal caso, si considera presentata al momento della ricezione da parte dell'amministrazione. Prevista anche la modalità di trasmissione telematica. Vengono dimezzati i tempi per i controlli delle amministrazioni sugli interventi realizzati con la Scia in materia edilizia: si passa da 60 a 30 giorni. Vengono comunque fatte salve le disposizioni relative alle sanzioni.
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Il Piano casa cambia pelle e diventa Piano città.
Dopo il Piano casa scatta il Piano città. Le coordinate sono le stesse: rivitalizzare il settore edilizio, elargendo premi di cubatura e interventi in deroga con l'obiettivo di razionalizzare il patrimonio edilizio e riqualificare le aree urbane.
Il decreto prevede una staffetta stato-regioni. Le autonomie regionali avranno 60 giorni per approvare proprie leggi con la possibilità di riconoscere volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale, di disporre la delocalizzazione delle relative volumetrie in aree diverse, di disciplinare il cambio di destinazione d'uso, e modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con le strutture esistenti.
Tutto ciò con esclusione degli immobili abusivi o situati nei centri storici o in aree a inedificabilità assoluta, mentre vengono compresi gli immobili abusivi se condonati.
Gli interventi potranno essere realizzati in deroga, ma con rispetto degli standard urbanistici, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, delle norme relative all'efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, nonché delle disposizioni del Codice dei beni culturali.
Con altra disposizione si prevede che, trascorsi 120 giorni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto sviluppo, il piano città sarà immediatamente applicabile alle regioni a statuto ordinario che non hanno provveduto ad approvare proprie leggi. Il decreto fissa il tetto dei premi di cubatura: 20% del volume dell'edificio se destinato a uso residenziale; 10% della superficie coperta per edifici adibiti a uso diverso.
Viene inoltre precisato che le volumetrie e le superfici di riferimento devono essere calcolate sulle distinte tipologie edificabili e pertinenziali esistenti e devono essere asseverate dal tecnico abilitato in sede di presentazione della documentazione relativa al titolo abilitativo previsto (articolo ItaliaOggi del 04.07.2011).

ENTI LOCALI: Sui servizi torna il freno a nuove società partecipate.
Gli effetti del referendum sui servizi pubblici locali non vanno tutti nella direzione di dare mano libera ai Comuni né di un moltiplicarsi delle società partecipate. Anzi, l'abrogazione della norma rischia di costringere più di un comune alla messa in liquidazione delle sue controllate e comporta il divieto di aprirne nuove. Infatti, il venire meno dell'articolo 23-bis ha l'effetto di ampliare la portata dell'articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010, che vieta ai comuni sotto i 30mila abitanti di costituire nuove società (e ne ammette una per i comuni da 30 a 50mila abitanti).
La norma si muove in due direzioni. Anzitutto vieta da subito la costituzione di nuove società da parte dei comuni minori, a meno che questi non riescano a costituire una società a cui partecipino comuni che messi insieme non superino la soglia di popolazione prevista e nelle quali le quote siano paritetiche o proporzionali agli abitanti (per evitare l'escamotage di costituire società al 99% di un ente soltanto). Ancora, costringe questi comuni a chiudere le partecipate che alla data del 31.12.2013 non siano collocate con continuità nell'area del l'utile, e quindi a condizione che abbiano avuto utili negli ultimi tre bilanci e, soprattutto, che non sia mai stato ridotto il capitale (anche se poi ricostituito) «negli esercizi precedenti».
Fino ad oggi l'orientamento generale era stato quello di ritenere che i servizi a rilevanza economica non rientrassero in questa previsione di legge, perché soggette a una disciplina speciale (Sezione Puglia, del. 56/Par/2010) che in alcuni casi obbligava alla loro istituzione (Sezione Lombardia, del. Lombardia/861/2010/par). Pertanto, "vittime" di questa norma sembravano soltanto le società strumentali previste dall'articolo 14 del decreto Bersani, in quanto frutto di una scelta del l'ente locale.
Venute meno oggi le «forme obbligatorie di gestione» previste dall'articolo 23-bis, è però possibile la gestione in economia e, con essa, diventa applicabile il vincolo previsto dal Dl 78/2010. Si preannunciano perciò temporali per quelle società di servizi pubblici che non godono di una disciplina speciale (come accade per acqua, rifiuti, gas, trasporto pubblico, ecc.).
Come effetto indotto, forse, avremo la crescita dimensionale di alcune società altrimenti a rischio chiusura, evitabile se i piccoli comuni si coalizzano. Accanto a questo risultato se ne avrà probabilmente un secondo, quello cioè di stimolare l'immaginazione di chi vuole eludere la norma.
Ma la strada della trasformazione eterogenea in aziende speciali è preclusa per legge. Infatti, resta a tutti gli effetti in vigore il comma 8 dell'articolo 35 della Finanziaria 2002 (legge 448/2001) che istituisce l'obbligo di gestire i servizi pubblici esternalizzati, di cui al comma 1 dell'articolo 113 del Tuel (anch'esso sopravvissuto alla mannaia del 23-bis), solo nella forma di società di capitali, obbligando alla trasformazione delle aziende speciali ancora esistenti.
Se però il legislatore vuole davvero ridurre il numero di società degli enti locali, dovrà occuparsi anche di rendere le loro liquidazioni concretamente possibili. È necessario introdurre delle agevolazioni fiscali sui trasferimenti degli immobili e, soprattutto, pensare a qualche forma di neutralizzazione degli effetti di tali operazioni ai fini del patto, almeno per quanto riguarda indebitamento e personale.
Solo così avremo l'effetto di una concreta riduzione delle società in essere. Altrimenti si assisterà a costose elusioni, che rischiano di diventare ancora più ardite alla luce delle previste modifiche che la manovra in via di approvazione prevede di fare al comma 7 dell'articolo 76 del Dl 112/2008 in materia di computo del tetto alle spese di personale negli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI SERVIZI: Ai sensi dell'art. 24, c. 4, del D.Lgs. n. 93/2011, fino al 28.06.2011, sono legittime le gare bandite dai comuni per l'affidamento del servizio di distribuzione di gas naturale.
L'art. 24, c. 4, del D.Lgs. n. 93/2011, stabilisce che nel caso in cui gli enti locali, alla data di entrata in vigore del medesimo decreto (28.06.2011), abbiano pubblicato bandi di gara per l'affidamento del servizio di distribuzione di gas naturale e non siano pervenuti all'aggiudicazione dell'impresa vincitrice, possono procedere all'affidamento del servizio di distribuzione di gas naturale secondo le procedure applicabili alla data di indizione della relativa gara, senza dover attendere la determinazione degli ambiti, come invece richiesto dal D.M. del 19.01.2011.
Fatto salvo ciò, a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (29.06.2011) le gare per l'affidamento del servizio di distribuzione sono effettuate unicamente per ambiti territoriali di cui all'art. 46-bis, c. 2, del d.l. 01.10.2007, n. 159, convertito, con modificazioni, dalla l. 29.11.2007, n. 222 (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, ordinanza 07.07.2011 n. 1104 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'esclusione di un concorrente da una gara, per il mancato rispetto di semplici irregolarità formali, agevolmente percepibili come tali.
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale, il mancato rispetto delle formalità richieste dal bando di gara, ancorché a pena di esclusione, deve essere interpretato alla luce del comune canone di ragionevolezza, ed in ossequio all'esigenza di assicurare la massima partecipazione alla gara, non legittima l'esclusione del concorrente ogniqualvolta questi sia incorso, come nel caso di specie, in una semplice irregolarità formale, immediatamente percepibile come tale ed insuscettibile di compromettere il regolare corso della procedura, avuto riguardo agli interessi pubblici presidiati dalla previsione invocata dalla stazione appaltante.
Nel caso di specie, l'impresa esclusa, contrariamente alle disposizioni del bando di gara, aveva contrassegnato i plichi contenenti la documentazione amministrativa, mediante la medesima numerazione. La corretta identificazione delle buste non investe elementi sostanziali dell'offerta, ma ha la funzione di permetterne l'apertura nel corretto ordine; né detta funzione può dirsi pregiudicata dall'erronea numerazione dei plichi, grazie alla corretta indicazione del contenuto riportata sui plichi stessi.
Peraltro, in siffatta ipotesi, l'amministrazione procedente avrebbe dovuto richiedere chiarimenti alle imprese interessate, esercitando quella facoltà, di carattere generale, che si collega proprio all'esigenza di evitare che la massima partecipazione alle gare sia compromessa da carenze meramente formali (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 06.07.2011 n. 1155 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

VARI: Valida la multa fatta con autovelox anche senza numero di matricola sul verbale.
Non può essere annullata una multa fatta con l'autovelox perché nel verbale non viene indicato il numero di matricola dell'apparecchio.

Lo ha precisato la II Sez. civile della Corte di Cassazione con la sentenza 04.07.2011 n. 14564.
La decisione dei giudici di legittimità ha ribaltato quanto deciso in primo e secondo grado. In entrambe i gradi di giudizio il verbale era stato annullato proprio per l'assenza dell'indicazione del numero di matricola sul verbale.
I giudici di piazzale Clodio colgono l'occasione per enunciare il seguente principio di diritto: "la mancata indicazione del numero di matricola dell'apparecchiatura, non prevista dal codice quale contenuto necessario del verbale, non può mai essere motivo di nullità della sanzione per violazione del diritto di difesa" (tratto e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'ammissione ad una gara di un concorrente che abbia dichiarato di voler ricorrere al subappalto, senza tuttavia indicare il subappaltatore, né i requisiti di partecipazione da quest'ultimo posseduti.
Ai sensi dell'art. 118 del d.lgs. n. 163/2006, le dichiarazioni relative al subappalto possono essere rese in fase esecutiva, ma solo qualora l'appaltatore abbia i requisiti per eseguire in proprio l'opera senza ricorrere al subappalto.
Infatti, in mancanza del possesso dei requisiti da parte dell'appaltatore, il ricorso al subappalto si configura alla stregua di un avvalimento, con conseguente obbligo delle dichiarazioni al momento dell'offerta, così come previsto dall'art. 49 del d.lgs. n. 163/2006.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittimo il provvedimento di ammissione ad una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di un concorrente che, essendo privo dei requisiti necessari per partecipare alla procedura, abbia dichiarato di voler ricorrere al subappalto, senza tuttavia indicare il subappaltatore, né i requisiti di partecipazione da quest'ultimo posseduti (TAR Lazio-Sez. III, sentenza 01.07.2011 n. 5806 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Subappalto e dichiarazioni obbligatorie.
Il concorrente, qualora sprovvisto dei requisiti necessari per la partecipazione alla gara, ha l’obbligo di indicare espressamente il soggetto subappaltatore ed il possesso dei requisiti da quest’ultimo posseduti.

Così ha deciso il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la sentenza 01.07.2011 n. 5806, nell’ambito di una gara per l’affidamento dei lavori di manutenzione di edifici universitari.
Nel caso in esame l’aggiudicatario aveva proposto ricorso incidentale nei confronti di una delle concorrenti che a sua volta aveva impugnato dinanzi ai Giudici di primo grado l’avvenuta aggiudicazione.
Oggetto del ricorso incidentale era in particolare l’illegittimità dell’ammissione alla gara perché nella domanda di partecipazione non sarebbero stati indicati i subappaltatori oltre al fatto che il ricorrente principale sarebbe stato sprovvisto dei requisiti per assumere direttamente le opere per cui aveva dichiarato il subappalto.
I Giudici di prime cure ritengono fondata la domanda proposta dall’aggiudicatario sull’assunto che “L'affidamento in subappalto o in cottimo è sottoposto alle seguenti condizioni:
1) che i concorrenti all'atto dell'offerta o l'affidatario, nel caso di varianti in corso di esecuzione, all'atto dell'affidamento, abbiano indicato i lavori o le parti di opere ovvero i servizi e le forniture o parti di servizi e forniture che intendono subappaltare o concedere in cottimo;
2) che l'affidatario provveda al deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni;
3) che al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante l'affidatario trasmetta altresì la certificazione attestante il possesso da parte del subappaltatore dei requisiti di qualificazione prescritti dal presente codice in relazione alla prestazione subappaltata e la dichiarazione del subappaltatore attestante il possesso dei requisiti generali di cui all'articolo 38;
4) che non sussista, nei confronti dell'affidatario del subappalto o del cottimo, alcuno dei divieti previsti dall'articolo 10 della legge 31.05.1965, n. 575, e successive modificazioni
.”
Su quale debba essere l’esatta interpretazione dell’art. 118 del D.Lgs. 163/2006, la giurisprudenza ha più volte sostenuto che la mancata o incompleta dichiarazione non incide sulla partecipazione ma esclusivamente sulla possibilità di ricorrere al subappalto (Consiglio di Stato n. 3969/2009; Consiglio di Stato 9577/2010).
Questa interpretazione presuppone tuttavia che l’appaltatore possegga i requisiti per eventualmente eseguire l’opera, viceversa si correrebbe il rischio che possa realizzare l’opera un soggetto sprovvisto dei requisiti necessari, “con inutilità di tutto il sistema di qualificazione dei lavori pubblici.”
In conclusione, tali considerazioni derivano dal prevalente orientamento giurisprudenziale secondo il quale in caso di mancanza dei requisiti da parte dell’appaltatore il ricorso al subappalto è sostanzialmente un avvalimento, con la conseguente applicazione del regime delle dichiarazioni previste dall’art. 49 del Codice dei contratti (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn caso di vincolo sopravvenuto, la Soprintendenza deve puntualmente indicare le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento sia incompatibile con i valori tutelati.
Con il ricorso in commento il ricorrente aveva impugnato il decreto della Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio di Roma con cui era stato espresso parere negativo alla concessione edilizia in sanatoria per un immobile di sua proprietà.
Tra i motivi di ricorso era stata dedotta l’illegittimità la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 L. n. 47/1985: la ricorrente sostiene, in particolare, che la Soprintendenza -e, conseguentemente, il Comune nel provvedimento di rigetto della istanza di condono- nel riportare le ragioni giustificative del parere negativo non avrebbe in alcun modo comparato l’interesse privato al mantenimento del manufatto con l’interesse pubblico al rispetto del vincolo anche in relazione alla circostanza secondo cui il vincolo archeologico sarebbe solo indiretto ed imposto circa quindici anni dopo la realizzazione del manufatto.
Nello stabilire che le censure sono infondate i giudici del Tribunale amministrativo di Roma spiegano che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, anche in caso di vincolo successivo, è comunque necessario il parere dell'Autorità preposta alla gestione del vincolo, in quanto la compatibilità dell'opera con il contesto ambientale deve essere valutata con riferimento al momento in cui deve essere esaminata la domanda di sanatoria (Cons. Stato Sez. V 22/12/1994 n. 1574; Cons. Stato A.P. 22/07/1999 n. 20; Cons. Stato Sez. VI 22/08/2003 n. 4765; ecc.).
I giudici capitolini aggiungono che la giurisprudenza ha, peraltro, precisato che, nel caso di vincolo assoluto di inedificabilità, lo stesso non può considerarsi del tutto inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all'edificazione (e ritenere quindi che l'abuso sia sanabile solo perché l'art. 33, comma 1, della L. 47/1985 si riferisce ai vincoli di inedificabilità assoluta imposti prima dell'esecuzione delle opere): in questi casi deve essere applicato lo stesso regime indicato nella previsione generale di cui all'art. 32, comma 1, della L. 47/1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere sottoposte a vincolo, al parere favorevole dell'autorità preposta alla sua tutela (cfr. Cons. Stato A.P. n. 20/1999).
In pratica, il vincolo da assoluto diviene relativo, ed è necessario il rilascio del parere di conformità. Occorre però rilevare che, secondo la giurisprudenza, nel compiere il giudizio di compatibilità, l'Amministrazione non può non tener conto delle prescrizioni recate dal vincolo stesso, così come accade nel caso di vincolo relativo sopravvenuto (Cons. Stato, Sez. V, 07/10/2003 n. 5918), con l'effetto, quindi, di poter ritenere non sanabile il manufatto quando contrasti con le prescrizioni recate dal provvedimento di vincolo.
D’altra parte, occorre anche osservare, quanto alla motivazione del provvedimento della Soprintendenza in ipotesi di vincolo successivo, che il parere negativo al rilascio della sanatoria non può ritenersi atto vincolato, da adottarsi in via automatica solo per effetto dell'esistenza del vincolo di inedificabilità, dovendo la Soprintendenza svolgere i necessari accertamenti in concreto per valutare la compatibilità del manufatto con il provvedimento di vincolo.
In altre parole, concludono gli stessi giudici, in caso di vincolo sopravvenuto, l'accertamento della Soprintendenza deve essere concreto ed approfondito e nella motivazione dell'atto devono essere puntualmente indicate le ragioni per le quali la conservazione dell'intervento (conseguente al rilascio della sanatoria) sia incompatibile con i valori tutelati (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 01.07.2011 n. 5800 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di accertamento di conformità ai sensi dell'articolo 13 della l. n. 47/1985 rende illegittima l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile non preceduta da una nuova ordinanza di demolizione.
Allorché dopo la notifica dell'ordinanza di demolizione il privato presenti istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, il Comune, prima di adottare l'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio indisponibile del comune delle opere in questione deve emanare una nuova ingiunzione a demolire, con l’assegnazione di un nuovo termine per adempiere (cfr., altresì, Cons. Stato, sez. V, 26.06.2007, n. 3659; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 21.12.2005, n. 7814; 08.07.2009, n. 1220; TAR Sicilia Catania, sez, I, 04.11.2008, n. 1911; TAR Campania, sez. VII, 19.02.2009, n. 975) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.07.2011 n. 1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAVa qualificato come inadempimento ex art. 2 L. 241/1990 il comportamento dell'Amministrazione regionale che ometta di pronunciarsi nei 180 giorni dall'istanza sulla richiesta di autorizzazione unica alla costruzione e gestione di un impianto fotovoltaico.
In relazione al procedimento preordinato al rilascio dell'autorizzazione unica per la costruzione e gestione di un impianto fotovoltaico, l'art. 12, comma 4, del decreto legislativo 29.12.2003, n. 387, stabilisce che "Il termine massimo per la conclusione del procedimento di cui al presente comma non può comunque essere superiore a centottanta giorni".
La fissazione di un termine procedimentale di durata massima, con evidenti finalità acceleratorie, ancorché non perentorio comporta la qualificazione come inadempimento del fatto stesso dell'inutile spirare di tale termine, posto a presidio della certezza dei tempi dell'azione amministrativa, qualora sull'istanza della parte non sia stato emesso alcun provvedimento, positivo o negativo.
Anche la Corte Costituzionale, con sentenza n. 364 del 09.11.2006, ha rinvenuto la "ratio" del citato termine nel principio di semplificazione amministrativa e di celerità che, con riferimento alla fondamentale materia della produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia, garantisce, in modo uniforme sul territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, sentenza 01.07.2011 n. 1280 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente da una gara, per omessa allegazione di un CD, contenente i files dell'offerta in formato pdf, nel caso in cui ciò sia prescritto dal bando.
E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di una ditta concorrente, che abbia omesso di allegare il CD contenente i files dell'offerta in formato pdf, in quanto, nel caso di specie, la clausola del bando è chiara ed inequivoca nel comminare l'esclusione dalla gara, nell'ipotesi di mancata adempimento della suddetta previsione, pertanto non vi è spazio per una qualsiasi interpretazione di tipo teleologico in relazione al principio del favor partecipationis.
Peraltro, la richiesta di produrre il CD, inserita nella lex specialis, non risulta illogica né sproporzionata, in quanto trattasi del deposito di supporti informatici di facile e corrente utilizzo, soprattutto per una società che si occupa proprio di elaborazione dati, e che appare funzionale allo scopo di rendere la procedura di gara celere e sicura, concretizzando, in tal modo, una delle direttive ispiratrici della disciplina sostanziale e processuale in materia di appalti pubblici, senza comportare alcun aggravio a carico della concorrente (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 01.07.2011 n. 1007 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

SICUREZZA LAVORO: Responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. - Natura contrattuale - Riparto degli oneri probatori - Art. 1218 c.c..
La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e costituisce una norma di chiusura del sistema infortunistico che obbliga il medesimo datore di lavoro a tutelare l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti imponendogli l’adozione di tutte le cautele necessarie a preservare il bene della salute nell’ambiente ed in costanza di lavoro.
La natura contrattuale dell’obbligo in esame esige che il riparto degli oneri probatori nella domanda risarcitoria da infortunio sul lavoro si ponga sullo stesso piano di quello previsto dall’art. 1218 c.c. in ordine all’adempimento delle obbligazioni.
Pertanto il lavoratore che agisce per il risarcimento del danno deve allegare e provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’esistenza del danno e il nesso causale tra quest’ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile, ossia da caso fortuito o da forza maggiore e di avere adempiuto interamente all’obbligo di sicurezza apprestando tutte le misure per evitare il danno (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 01.07.2011 n. 560 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo di rispetto ferroviario - Art. 49 DPR n. 753/1980 - Natura - Vincolo di inedificabilità relativo.
Il vincolo di rispetto ferroviario di cui all'art. 49 del DPR 753/1980, rappresenta un vincolo di inedificabilità relativa e non assoluta.
Infatti, ai sensi dell'art. 60 del DPR citato, gli uffici compartimentali di F.S. possono autorizzare riduzioni delle distanze fissate dagli art. 49 e 55; inoltre l'art. 50, comma 1°, dello stesso DPR stabilisce espressamente che il divieto ex art. 49 "si applica a tutti gli edifici e manufatti i cui progetti non siano stati approvati in via definitiva dai competenti organi" alla data di entrata in vigore del DPR 753/1980, mentre i vincoli di inedificabilità assoluta, ai sensi dell'art. 33 della legge 47/1985, sono tali solo "se siano stati imposti prima dell'esecuzione delle opere".
Ne segue che il vincolo ex art. 49 del DPR n. 753/1980, in quanto relativo, si applica anche agli abusi preesistenti e quindi alla odierna fattispecie, come ritenuto dalla giurisprudenza oramai consolidata dopo la pronuncia in tal senso della Adunanza Plenaria n. 20/1999 del Consiglio di Stato (TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. II, 04.08.2008, n. 3593) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 01.07.2011 n. 552 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATALa richiesta di voltura di un’insegna produce una semplice novazione soggettiva dell’intestatario dell’autorizzazione già rilasciata.
Con il ricorso in rassegna il ricorrente aveva impugnato la determinazione dirigenziale del Comune di Roma con la quale era stata rigettata l’istanza tesa ad ottenere la voltura dei tassabili apposti all’esterno di un locale.
Sostiene la società ricorrente che il Comune di Roma sarebbe incorso in un grossolano errore, respingendo l’istanza proposta sulla scorta di un solo asserito contrasto tra le dimensioni dell’insegna di cui alla richiesta di voltura e le prescrizioni normative comunali applicate in quanto attualmente in vigore, senza tenere in alcun conto la memoria presentata dalla medesima Società istante nel corso del procedimento, nella quale si chiariva che “il disco luminoso in questione era rimasto nella struttura assolutamente immutato per dimensioni e collocazione e che non poteva avere rilevanza la sopravvenienza di un presunto limite” normativamente creato da una deliberazione comunale varata successivamente rispetto al momento del rilascio dell’autorizzazione originaria.
Osservano i giudici del Tribunale amministrativo di Roma che la richiesta di voltura di una autorizzazione già rilasciata provoca l’avvio di una procedura ove l’esercizio del potere da parte dell’Amministrazione competente è di tipo vincolato, non potendosi confondere tale intervento modificativo del titolare dell’autorizzazione (già a suo tempo rilasciata) con l’esercizio del potere di rilascio di (una nuova) autorizzazione che costituisce tipicamente attività discrezionale.
Analogamente per quel che avviene nell’ambito dell’edilizia -ambito nel quale la giurisprudenza ha chiarito come la voltura di un permesso di costruire non dà luogo ad altro che a una novazione soggettiva del rapporto, in particolare essa non implica il rilascio di un nuovo e autonomo titolo edilizio e non richiede né presuppone pertanto una nuova verifica in ordine alla compatibilità del progetto con la normativa urbanistico-edilizia ma solo una verifica, a contenuto non discrezionale, in ordine alla trasferibilità del titolo ai successori (cfr., tra le altre, TAR Lazio, Latina, 12.01.2010 n. 3 e TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 15.02.2007 n. 276); e infatti, ai fini della validità e efficacia della concessione edilizia è persino irrilevante che si proceda a voltura nel senso che l'attività edificatoria può essere realizzata sia dal proprietario del suolo, titolare della relativa concessione, sia dai suoi successori od aventi causa, onde non è necessaria la voltura del titolo concessorio per legittimare la realizzazione delle opere autorizzate da questi ultimi (cfr., in tal senso, TAR Marche, 14.05.2008 n. 266)– anche in materia di rilascio di titoli abilitativi inerenti l’attività di commercio la richiesta della voltura dell’autorizzazione non implica il riesercizio del potere discrezionale attivato al momento del rilascio dell’atto autorizzativo, ma solo un accertamento, di natura vincolata, avente ad oggetto l’individuazione del nuovo intestatario dell’autorizzazione e la verifica del possesso in capo ad esso dei requisiti soggettivi per poter svolgere l’attività descritta nell’autorizzazione a suo tempo rilasciata ad altro intestatario.
Del resto, qualora la disposizione, anche regolamentare che stabilisce nuove prescrizioni per il rilascio dell’autorizzazione in un determinato settore (nella specie commerciale), intenda imporre l’applicazione delle nuove regole alle autorizzazioni già rilasciate, dovrebbe prevedere tale retrodatazione normativa espressamente, motivando puntualmente ed attentamente tale grave ed eccezionale portata retroattiva, imputandone peraltro le adeguate ragioni a motivi di sopravvenuto superiore interesse pubblico (rispetto al buon diritto degli autorizzati di far valere la posizione acquisita con il rilascio, a suo tempo, dell’autorizzazione) pena l’indiscutibile illegittimità della norma.
Sotto il profilo normativo, d’altronde il sopra esposto indirizzo interpretativo trova piana aderenza alle prescrizioni contenute, proprio in materia di attività commerciale, nelle disposizioni dell’art. 64 del decreto legislativo 26.03.2010 n. 59 (decreto recante le norma di attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 30.06.2011 n. 5733 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISul potere rappresentativo del procuratore stabile dell'impresa e sull'individuazione dei soggetti tenuti a rendere le dichiarazioni ex articolo 38.
1. In assenza di un' espressa comminatoria di esclusione, il potere rappresentativo del procuratore stabile dell'impresa risultante dal certificato camerale, non deve essere dimostrato attraverso la produzione della procura, richiesta solo in caso di procuratore occasionale.
2. I procuratori della società non sono tenuti a rendere le dichiarazioni di cui all'articolo 38 del d.lgs. n. 163/2006.
3. L'articolo 84 del d.lgs. 163/2006 non si applica agli appalti di servizi di cui all'Allegato II B (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2011 n. 3926 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALIE' attribuita ai dirigenti la responsabilità delle procedure d’appalto, dall'indizione della gara alla stipulazione del contratto.
All’interno del sistema di cui al d.lgs. n. 267 del 2000, ma, ancor prima, già con l’avvento dell’art. 6 della legge 15.05.1997, n. 127, modificativo dell’art. 51 della legge 06.06.1990, n. 142, esiste una netta separazione di ruoli tra organi di governo locale e relativa dirigenza, dove ai primi spettano i compiti di indirizzo (la fissazione delle linee generali cui attenersi e degli scopi da perseguire), e alla seconda quelli di gestione.
Più in particolare, alla Giunta competono gli atti rientranti nelle funzioni “di indirizzo e controllo politico-amministrativo” che non siano assegnati agli altri organi di governo (artt. 48-107 T.U. cit.), e per converso ai dirigenti è attribuita tutta la gestione, amministrativa, finanziaria e tecnica, comprensiva dell’adozione di tutti i provvedimenti, anche discrezionali, ed in particolare proprio la responsabilità delle procedure d’appalto e la stipulazione dei contratti, e sugli stessi dirigenti incombe la diretta ed esclusiva responsabilità della correttezza amministrativa della medesima gestione (art. 107 cit., commi 3 e 6).
Lo stesso art. 107 del T.U. impone specificamente agli statuti di uniformarsi al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.
Tale sistema normativo supera le eventuali distribuzioni di competenza in senso diverso contenute nelle disposizioni di secondo grado, ivi compresi gli statuti, che gli enti locali possano avere emanato con efficacia generale, sia sotto il profilo della gerarchia delle fonti, che sotto l'aspetto sistematico (C.d.S. V, n. 7488 del 16.11.2004) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2011 n. 3925 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La necessità di una formalizzazione del giudizio di ammissione va esclusa in tutti i casi in cui si manifesti subito la non incidenza delle condotte emerse sull'affidabilità professionale dell'impresa.
Nel caso di partecipazione di un RTI ad una gara di appalto, la polizza fideiussoria deve essere intestata non solo alla società capogruppo, ma anche alle mandanti.

Il Codice degli appalti (d.lgs. n. 163/2006) non prevede che il giudizio favorevole all'ammissione di un'impresa ad una gara d'appalto debba essere necessariamente formalizzato.
Pertanto, nel caso di specie, la stazione appaltante qualora non ritenga il precedente penale dichiarato dal concorrente incisivo della sua moralità professionale, non è tenuta ed esplicitare in maniera analitica le ragioni di siffatto convincimento, potendo la motivazione di non gravità del reato risultare anche per facta concludentia, ossia con l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre è la valutazione di gravità che richiede l'assolvimento di un particolare onere motivazionale. La stazione appaltante deve invero motivare puntualmente le esclusioni, e non anche le ammissioni, se su di esse non vi è contestazione.
Pertanto, se può ammettersi che un'esigenza di motivazione espressa si imponga al cospetto di precedenti penali che obiettivamente si presentino, prima facie, riconducibili all'area dei "reati gravi in danno dello Stato o della Comunità" ed incidenti sulla morale professionale, sì da esigere una specifica valutazione amministrativa al riguardo, la necessità di una formalizzazione del giudizio di ammissione va invece esclusa in tutti i casi, in cui si manifesti subito la non incidenza delle condotte emerse sull'affidabilità professionale dell'impresa.
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In giurisprudenza si è da tempo affermato il principio secondo cui, nel caso di partecipazione di un RTI ad una gara di appalto, la polizza fideiussoria, mediante la quale viene costituita la cauzione provvisoria, deve essere intestata non solo alla società capogruppo, ma anche alle mandanti. Ciò al fine di evitare il configurarsi una carenza di garanzia per la stazione appaltante, con riferimento a quei casi in cui l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo designata, bensì dalle mandanti.
Peraltro, il fideiussore, al fine di assicurare l'operatività della garanzia di fronte ai possibili inadempimenti da "coprire" con la cauzione provvisoria, deve richiamare la natura collettiva della partecipazione alla gara di più imprese, identificandole singolarmente e contestualmente, e deve dichiarare di garantire, mediante la cauzione provvisoria, non solo la mancata sottoscrizione del contratto, ma ogni altro obbligo derivante dalla partecipazione alla gara, pena l'esclusione dal procedimento.
Rientrano, dunque, nella portata della garanzia, anche le inadempienze ascrivibili a fatti di una delle imprese mandanti, di cui la mandataria dovrebbe pur sempre rispondere, in virtù del vincolo di solidarietà che discende dalla presentazione dell'offerta congiunta (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2011 n. 3924 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIPrima del d.m. 24.10.2007, il solo fatto che il d.u.r.c. non fosse regolare non costituiva di per sé prova di una grave violazione contributiva definitivamente accertata, atteso che, secondo le circolari 26.07.2005, n. 92 Inps e 25.07.2005, n. 38 Inail, era ostativo alla dichiarazione di regolarità contributiva qualsivoglia inadempimento, a prescindere da qualsivoglia soglia di gravità.
Una irregolarità contributiva può ritenersi definitivamente accertata solo quando, alla data di scadenza del termine di proposizione delle domande di partecipazione alla gara, siano scaduti i termini per la contestazione dell’infrazione ovvero siano stati respinti i mezzi di gravame proposti avverso la medesima.

Rileva la sezione che le tesi poste a base del provvedimento di autotutela e quelle poste a sostegno dell’impugnata sentenza non sono suscettibili di favorevole esame alla luce dei principi giurisprudenziali diffusamente illustrati da questo Consiglio (cfr. le fondamentali decisioni sez. VI, 04.08.2009, nn. 4905, 4906 e 4907, da ultime espressamente riprese da sez. IV, n. 1228 del 2011 e sez. V, n. 789 del 2011, cui si rinvia a mente dell’art. 74 c.p.a.), e delle peculiari circostanze di fatto che contraddistinguono la presente vicenda; in particolare:
a) nella vicenda in trattazione non può trovare applicazione il d.m. 24.10.2007, entrato in vigore successivamente al termine di presentazione delle domande di partecipazione alla gara, alla aggiudicazione definitiva ed all’emanazione del primo ed unico d.u.r.c. negativo;
b) prima del d.m. 24.10.2007, il solo fatto che il d.u.r.c. non fosse regolare non costituiva di per sé prova di una grave violazione contributiva definitivamente accertata, atteso che, secondo le circolari 26.07.2005, n. 92 Inps e 25.07.2005, n. 38 Inail, era ostativo alla dichiarazione di regolarità contributiva qualsivoglia inadempimento, a prescindere da qualsivoglia soglia di gravità;
c) l’art. 38 cit., prima del d.m. del 2007 in questione e del regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici, crea una differenza tra la regolarità contributiva richiesta al partecipante alla gara e la regolarità richiesta all’aggiudicatario al fine della stipula del contratto; infatti il concorrente può essere escluso solo in presenza di gravi violazioni definitivamente accertate, sicché le violazioni non gravi e quelle non definitivamente accertate non sono causa di esclusione; invece, al fine della stipula del contratto, l’affidatario deve presentare la certificazione di regolarità ai sensi dell’art. 2, d.l. n. 210 del 2002 (art. 38, co. 3, cit.); tale disposizione, a sua volta, prevede il rilascio del d.u.r.c. che attesta contemporaneamente la regolarità contributiva quanto agli obblighi nei confronti del’Inps, dell’Inail e della Cassa edili;
d) una irregolarità contributiva può ritenersi definitivamente accertata solo quando, alla data di scadenza del termine di proposizione delle domande di partecipazione alla gara, siano scaduti i termini per la contestazione dell’infrazione ovvero siano stati respinti i mezzi di gravame proposti avverso la medesima (circostanza questa che non ricorre nel caso di specie) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2011 n. 3912 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti fotovoltaici a terra - Previsioni urbanistiche - Generalizzata preclusione in area agricola - Illegittimità.
Contrasta con la normativa nazionale e comunitaria una generalizzata preclusione urbanistica di repulsione di impianti fotovoltaici a terra da tutte le aree agricole classificate in classe I, II e III (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 30.06.2011 n. 717 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Commissione giudicatrice - Variazione della consistenza numerica dell’organo successiva all’apertura delle buste - Illegittimità.
E’ illegittima l’integrazione della Commissione giudicatrice avvenuta in un momento successivo a quello dell’apertura delle buste delle offerte tecniche.
Va precisato, al riguardo, che la giurisprudenza amministrativa ha escluso l’immanenza nell’ordinamento di un principio di immodificabilità delle commissioni di gara, ammettendo che i loro membri possano essere sostituiti quando ciò sia reso necessario da esigenze di rapidità e continuità dell’azione amministrativa (Cons. Stato, sez. V, 03.12.2010, n. 8400).
Viceversa, deve ritenersi preclusa la variazione della consistenza numerica dell’organo, intervenuta in un momento in cui i membri originari dello stesso avevano già potuto prendere conoscenza dei contenuti delle offerte tecniche presentate dai concorrenti.
Evidenti esigenze di trasparenza e di rispetto della parità di trattamento dei concorrenti (nonché di garanzia di continuità delle operazioni valutative) impongono di individuare in tale momento il limite invalicabile oltre il quale non può essere variata la consistenza numerica della Commissione.
Commissione di gara - Sedute - Principi di concentrazione e continuità.
Le finalità di imparzialità, pubblicità, trasparenza e speditezza dell’azione amministrativa impongono che le sedute delle commissioni di gara si ispirino al principio di concentrazione e continuità, tendendo a concentrare, ove possibile, l’esame delle offerte tecniche ed economiche in una sola seduta o, comunque, evitando soluzioni di continuità che favoriscano possibili influenze esterne idonee a minare l’assoluta indipendenza di giudizio dell’organo incaricato della valutazione (Cons. Stato, sez. V, 23.11.2010, n. 8155).
Comunicazione di aggiudicazione definitiva - Omissione - Conseguenze.
L’omissione della comunicazione di aggiudicazione definitiva non incide sulla legittimità dell’aggiudicazione medesima, ma solo sulla decorrenza del termine per l’impugnazione (cfr., fra le ultime, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 11.03.2011, n. 1441) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 30.06.2011 n. 711 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIIl termine per l'impugnazione dell'aggiudicazione decorre dalla comunicazione anche nel caso in cui l'Amministrazione abbia omesso di indicare nella stessa i vantaggi dell'offerta vincitrice.
Qualora l'appalto sia stato aggiudicato con il criterio del prezzo più basso, il termine per impugnare l'aggiudicazione decorre dalla comunicazione anche nel caso in cui tale comunicazione risulti priva degli elementi indicati all’art. 79, comma 2°, del D. Lgs. n. 163/2006 (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 29.06.2011 n. 1244 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: È possibile discostarsi, in sede di giustificazione dell’anomalia, dalle tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa.
La Sezione reputa che le censure svolte dall’appellante non scalfiscano la ragione di anomalia data dal ridotto tasso di assenteismo utilizzato per la formulazione dell’offerta, ragione che, nell’economia del provvedimento gravato in prime cure, risulta idonea a sorreggere, in via autonoma, il giudizio finale negativo evidenziando l’inaffidabilità complessiva dell’offerta.
Va osservato, in punto di fatto, che la stazione appaltante ha riscontrato l’eccessivo scostamento del “costo orario medio del lavoro” posto a base dell’offerta rispetto al corrispondente parametro delle apposite tabelle ministeriali, e ciò in quanto la misura del tasso di assenteismo del personale era stato indicato dalla ditta nel 3,4% a fronte del ben più alto 6,5% (per assenze dovute a malattia, infortuni e maternità) risultante dai valori tabellari. Secondo l’Amministrazione, in particolare, ai fini della determinazione delle “ore annue mediamente lavorate”, la mera produzione di un dato riepilogativo delle assenze del personale nel triennio 2006/2008 avrebbe rappresentato uno strumento in sé inidoneo a superare il vincolo, ancorché non inderogabile, derivante dalle tabelle ministeriali.
La Sezione, a confutazione dei motivi di appello all’uopo formulati, deve rimarcare che se è vero che le tabelle ministeriali recanti il costo della manodopera espongono dati non inderogabili, si deve altresì convenire che le medesime assolvono ad una funzione di parametro di riferimento dal quale è possibile discostarsi, in sede di giustificazione dell’anomalia, solo sulla scorta di una dimostrazione puntuale e rigorosa. E tanto specie se si considera che il dato delle “ore annue mediamente lavorate” dal personale coinvolge eventi (malattie, infortuni, maternità) che non rientrano nella disponibilità dell’impresa e che quindi, per definizione, necessitano di stima di carattere prudenziale.
Nel caso di specie detto onere probatorio non risulta assolto in modo adeguato.
Infatti, la semplice produzione dei modelli di pagamento INPS relativi ai dati dell’ultimo triennio non è idonea ad assolvere a detta funzione dimostrativa in quanto, per un verso, reca dati aziendali indistinti e disaggregati che non tengono nel debito conto del personale specifico da adibire all’appalto, per altro verso non introduce dati significativi in relazione all’esecuzione di un contratto per il quale, ai sensi del contratto collettivo di settore, è prevista l’assunzione del personale in servizio presso la società precedentemente deputata all’espletamento del servizio. L’inadeguatezza di detta documentazione risulta ancor più significativa in rapporto alla rilevante misura dello scostamento, che avrebbe richiesto una dimostrazione particolarmente rigorosa.
Si deve, in definitiva, convenire che il giudizio individuale sull’inaffidabilità dell’offerta in ragione del non giustificato scostamento del tasso di assenteismo dalla tabella ministeriale non meritevole di costituisce espressione di discrezionalità valutazione tecnica che non appare inficiata da profili di illogicità e sviamento suscettibili di sindacato in sede giurisdizionale. Non risulta apprezzabile neanche la comparazione con l’offerta dell’aggiudicataria, posto che le giustificazioni delle offerte vanno apprezzate in relazione alle posizioni ed alle prospettazioni individuali delle singole imprese (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.06.2011 n. 3865 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAE' inammissibile il ricorso, ovvero del singolo motivo di esso, volto a censurare previsioni di piano che non abbiano rilievo alcuno per i beni del ricorrente.
- In generale, non spetta al piano urbanistico, ma direttamente alla legge, di stabilire l’indennizzo dovuto per l’espropriazione di un bene.
- Le scelte operate in sede di pianificazione urbanistica sono espressione di una discrezionalità molto ampia di cui l’ente territoriale dispone in materia, e pertanto non sono sindacabili in sede giurisdizionale di legittimità al di fuori dei casi di illogicità ovvero incoerenza manifeste.
E' illegittimo il nuovo PRG se la relativa evoluzione demografica è illogica con l'andamento demografico negli ultimi 40 anni.

E’ noto al Collegio l’orientamento giurisprudenziale, allo stato minoritario, secondo il quale ogni cittadino residente in un dato Comune potrebbe per ciò solo impugnare gli atti di adozione e approvazione del relativo strumento urbanistico generale, indipendentemente da un diretto e immediato pregiudizio da essi derivante per un bene a lui riconducibile.
Tale orientamento viene giustificato, in sintesi, con due autonomi ordini di ragioni, nessuno dei quali però appare convincente, sulla scorta delle argomentazioni, che il Collegio sin da ora dichiara di condividere, esposte da C.d.S. sez. IV 13.07.2010 n° 4542 e da TAR Sardegna sez. II 06.10.2008 n° 1815, che si citano per tutte in quanto particolarmente approfondite.
Sotto un primo profilo, si è sostenuto che, sulla scorta di quanto affermato –pur per inciso non senza contrasti- per le fattispecie di impugnazione di una gara ovvero di una graduatoria, il cittadino residente sarebbe comunque titolare di un interesse alla riedizione dell’attività amministrativa, nel senso che ove il suo ricorso fosse accolto l’amministrazione sarebbe tenuta a riapprovare il piano annullato, con possibilità di un risultato più favorevole.
E’ però agevole replicare, sulla scorta della citata C.d.S. 4542/2010, che poter trarre dall’accoglimento del ricorso una qualche utilità non significa automaticamente essere titolari di una posizione legittimante che consenta di proporlo: se i due concetti si identificassero, si finirebbe per consentire il ricorso stesso anche ai portatori di interessi di mero fatto e lo si configurerebbe, in ultima analisi, come un’azione popolare.
Sotto un secondo profilo, si è anche affermato che ciascun residente per effetto di previsioni modificative del territorio di portata ampia come quelle previste da uno strumento urbanistico generale subirebbe comunque una modifica alla propria qualità di vita, e quindi dovrebbe sempre ritenersi legittimato ad impugnare l’atto che le produce.
Tale affermazione però, se può esser vera per il caso, di rilievo ma comunque particolare, degli atti che prevedano singole opere particolarmente impattanti su ampie porzioni di territorio, nella sua assolutezza è a sua volta non condivisibile. Come osservato dalla pure menzionata TAR Sardegna 1815/2008, dalla cui motivazione si cita, infatti, essa contraddice la natura stessa dello strumento urbanistico generale, costituito “essenzialmente da un insieme di prescrizioni valevoli per le singole zone omogenee del territorio comunale o per singole aree o fabbricati… scindibili ai fini del loro eventuale annullamento in sede giurisdizionale”, annullamento che va “circoscritto alle aree o ai lotti interessati dalle prescrizioni giudicate illegittime”.
Opinando diversamente, prosegue la sentenza citata, sarebbero contraddetti sia il principio di buon andamento dell’amministrazione, perché si potrebbe annullare l’intero piano per far conseguire al privato un’utilità solo strumentale, sia il principio dell’interesse processuale, perché si configurerebbe, ancora una volta, un’azione popolare ignota al nostro ordinamento.
Va quindi ribadita l’inammissibilità del ricorso, ovvero del singolo motivo di esso, volto a censurare previsioni di piano che non abbiano rilievo alcuno per i beni del ricorrente.
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In generale, non spetta al piano urbanistico, ma direttamente alla legge, di stabilire l’indennizzo dovuto per l’espropriazione di un bene.
Nello specifico, va poi rilevato che è corretto quanto afferma la difesa del Comune: la relazione al piano dei servizi (cfr. doc. 1-sexies ricorrenti) si riferisce, invero in termini abbastanza generici, agli indennizzi dovuti non per gli espropri in quanto tali, ma per i vincoli ad essi preordinati, che secondo quanto affermato in giurisprudenza –per tutte, C.d.S. a.p. 24.05.2007 n° 7- potrebbero comunque essere legittimamente imposti anche se lo strumento urbanistico non prevedesse indennizzo alcuno, fermo il diritto del proprietario a pretenderlo in base alla legge.
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E’ invece fondato e va accolto il quarto motivo di ricorso, approfondito nella seconda censura dei motivi aggiunti e imperniato su un presunto errore nel dimensionamento del piano, ovvero in termini correnti sulla stima del futuro numero di abitanti, al servizio dei quali le previsioni di piano sono predisposte. In proposito, è evidente, sulla scorta dei principi sopra affermati, la legittimazione dei ricorrenti, dato che, come detto in narrativa, parte dei loro terreni ha visto mutare la relativa destinazione d’uso da agricola a residenziale: come è ovvio la correttezza di tale previsione di nuovi insediamenti sta e cade con la corretta stima di un incremento della popolazione da insediare.
In proposito, va richiamato il noto e costante orientamento della giurisprudenza, secondo il quale le scelte operate in sede di pianificazione urbanistica sono espressione di una discrezionalità molto ampia di cui l’ente territoriale dispone in materia, e pertanto non sono sindacabili in sede giurisdizionale di legittimità al di fuori dei casi di illogicità ovvero incoerenza manifeste: per tutte, in tal senso, da ultimo C.d.S. sez. IV 24.02.2011 n. 1222. Nel caso di specie, il Collegio ritiene però che tale illogicità sussista.
In proposito, e in sintesi estrema, due sono i dati di fatto indiscutibili. Da un lato, come evidenziano i ricorrenti, nel documento del piano per il quale è causa il Comune prevede un considerevole aumento della popolazione residente, che dovrebbe accrescersi di 2.979 nuovi abitanti, di cui 2.530 da insediare, in aggiunta agli attuali 7.566. Si tratta di un incremento superiore al 30% e considerevole anche in valore assoluto, previsto secondo logica nell’arco dei cinque anni che ai sensi dell’art. 8, quarto comma, della l.r. 12/2005 costituiscono il termine di validità del documento di piano (v. doc. 1-octies ricorrenti, cit.; dati non dissimili evidenzia la relazione al piano dei servizi prodotta come doc. 16 dal Comune a p. 18).
Dall’altro lato, l’evoluzione demografica del Comune di Soncino, addirittura negli ultimi quarant’anni, è caratterizzata da una sostanziale stabilità: con un’alternanza di piccoli incrementi ovvero decrementi, si passa dai 7265 abitanti del 1971 ai 7586 risultanti nel 2007: si tratta di dati da considerare notori, in quanto desunti dalle statistiche nazionali, ma anche nello specifico noti al Comune, che non ha mancato di inserirli in un proprio documento, senz’altro posteriore al 2007 i cui dati riporta, ovvero nella relazione sulla farmacia comunale prodotta in copia sub 11 dai ricorrenti.
Ciò posto, né nella relazione al piano né altrove negli elaborati dello stesso si spiega come conciliare la suddetta discrasia, ovvero da quali fatti concreti si è ritenuto di desumere un mutamento così marcato nell’evoluzione demografica del territorio comunale: si tratta senza dubbio di una illogicità manifesta, che nella presente sede è sindacabile, e comporta l’annullamento del piano: nel riesaminare la fattispecie, l’amministrazione dovrà quindi dare debito conto delle proprie stime in proposito e delle scelte che ne sono conseguite
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo paesaggistico - Progetti originariamente assentiti - Modificazioni - Nuova verifica di compatibilità - Presupposti.
Non ogni modificazione del progetto edilizio originariamente assentito richiede in via automatica un’ulteriore formale verifica di compatibilità con i valori tutelati dal vincolo paesaggistico; quando, in relazione alla tipologia del manufatto e alle valutazioni già compiute dall’Autorità investita del potere di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, emerge la modestia della consistenza delle opere aggiuntive o la obiettiva inidoneità delle stesse a mutare il quadro di riferimento a suo tempo oggetto di valutazione, la reiterazione del procedimento ex art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 si risolve in un superfluo accertamento dell’irrilevanza paesaggistica della “variante” al permesso di costruire e quindi in un’inutile duplicazione di attività amministrativa, incompatibile con il fondamentale principio di economicità codificato nell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 223 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Prevenzione incendi - Impianto di distribuzione di carburanti - Procedimento relativo all’autorizzazione petrolifera in itinere - Rilascio del permesso di costruire - Legittimità - Art. 1, c. 2, d.lgs. n. 32/1998.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 32 del 1998, è l’autorizzazione petrolifera, non il permesso di costruire, l’atto subordinato al rispetto delle prescrizioni di “prevenzione incendi”; d’altra parte, nel sistema normativo di cui agli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 32 del 1998 l’autorizzazione all’installazione e all’esercizio dell’impianto e il permesso di costruire costituiscono gli elementi di una fattispecie complessa a formazione progressiva, al cui completarsi -secondo una scansione temporale non tipizzata- si realizzano le condizioni di legge per il legittimo esercizio della relativa attività, onde è legittimo il rilascio della concessione edilizia per la realizzazione di un impianto di distribuzione di carburanti ancorché il procedimento relativo alla richiesta dell’autorizzazione petrolifera sia ancora in itinere (v. TAR Lazio, Latina, 18.09.2008 n. 1177) (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 223 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Titolo edilizio in sanatoria - Carenza della dichiarazione di conformità di cui all’art. 17, c. 4, l.r. Emilia Romagna n. 23/2004 - Mera irregolarità.
L’eventuale carenza della dichiarazione di conformità di cui all’art. 17, c. 4, l.r. Emilia Romagna n. 23/2004 assume i caratteri della mera irregolarità, nel senso che -fermo restando l’onere del richiedente di provvedere in merito- il titolo edilizio in sanatoria rilasciato senza la preventiva produzione di detto atto non risulta per ciò solo illegittimo, ma lo diviene unicamente in presenza di un’effettiva inosservanza di norme urbanistiche o tecniche cui l’intervento avrebbe dovuto attenersi (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 223 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO - Bonifica - Art. 17 d.lgs. n. 22/1997 - Inquinamento prodotto in epoca precedente all’entrata in vigore - Applicabilità della norma - Fondamento.
L’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, che peraltro presenta profili di continuità sostanziale con le disposizioni pregresse, trova applicazione a qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica, posto che l’inquinamento dà luogo ad una situazione di carattere permanente che perdura fino a che non ne vengano rimosse le cause ed i parametri ambientali alterati siano riportati entro i limiti normativamente accettabili.
La formulazione della norma collega infatti la pena non al momento in cui viene cagionato l’inquinamento o il relativo pericolo ma alla mancata realizzazione, da parte del responsabile, della bonifica, ai sensi dell’art. 17.
Non si tratta quindi di portata retroattiva della norma ma dell’applicazione ratione temporis della legge onde fare cessare gli effetti di una condotta omissiva a carattere permanente, che possono essere elisi solo con la bonifica; detto altrimenti, non viene sanzionato l’inquinamento in epoca precedente prodotto ma la mancata eliminazione degli effetti che permangono nonostante il fluire del tempo. (Cons. Stato, Sez. VI, 09.10.2007 n. 5283).
INQUINAMENTO - Prova - P.A. - Presunzioni semplici ex art. 2727 c.c..
L’esigenza di effettività della protezione dell’ambiente consente all’Amministrazione di avvalersi di prove dirette e indirette, ossia di presunzioni semplici ex art. 2727 cod.civ., prendendo in considerazione elementi di fatto dai quali possano trarsi indizi gravi precisi e concordanti, che inducano a ritenere verosimile, secondo l’id quod plerumque accidit, che si sia verificato un inquinamento e che questo sia attribuibile a determinati autori (v. Cons. Stato, Sez. V, 16.06.2009 n. 3885) (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 218 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Liquami zootecnici - Spandimento - Materiale detenzione dei terreni - Necessità - Formale disponibilità giuridica - Insufficienza.
In tema di attività di spandimento dei liquami zootecnici, allorché sorga un contrasto tra privati in ordine all’uso di date aree, l’Amministrazione deputata al rilascio del titolo abilitativo deve necessariamente tenere conto dello stato di materiale detenzione del bene e non già della formale disponibilità giuridica dello stesso, giacché è dal suo effettivo impiego che deriva il presupposto perché sia riconosciuta, in quella fase storica, all’uno anziché all’altro soggetto la capacità di operarvi. (Nella specie, la ditta affittuaria delle aree interessate si era opposta allo spandimento dei liquami della ricorrente: la mera pretesa di quest’ultima a che la ditta che aveva la materiale detenzione dei terreni si attenesse all’impegno assunto in sede contrattuale risultava carente del requisito dell’«effettività», acquisibile solo con una pronuncia del giudice civile che desse concreta attuazione al diritto asseritamente disatteso, così rendendolo effettivo) (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 217 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Consorzi - Requisiti di natura tecnica singolarmente posseduti dalle imprese consorziate - Cumulo - Requisiti generali di partecipazione - Ordine pubblico e moralità - Singole imprese - Possesso e documentazione.
Con riferimento alle aggregazioni consortili cui l’ordinamento riconosce la qualità di soggetti con propria abilitazione a concorrere per l’affidamento di commesse pubbliche, sono le singole imprese consorziate, dotate di autonoma personalità e di distinta organizzazione di impresa, i soggetti chiamati ad assumere in concreto le opere o i servizi oggetto dell’appalto, onde, se è in astratto ammissibile cumulare i requisiti di natura tecnica singolarmente posseduti dalle imprese consorziate, tale principio non implica affatto che i requisiti generali di partecipazione, relativi alla regolarità della gestione delle singole imprese sotto il profilo dell’ordine pubblico, anche economico, e della moralità, possano ritenersi accertati con esclusivo riferimento al consorzio e non debbano invece essere posseduti e documentati dalle singole imprese designate quali esecutrici del servizio o dell’opera. (Cons. Stato, Sez. V, 30.01.2002 n. 507; Cons. St., sez. IV, 07.04.2008 n. 1485; Cons. St., sez. VI, 24.11.2009 n. 7380; Cons. Stato, Sez. VI, 15.06.2010 n. 3759).
Modello GAP - Mancata specifica previsione nel bando di gara - Sanzione dell’esclusione - Inapplicabilità - Ragioni.
Nel caso in cui la disciplina di gara per l’affidamento di un appalto nulla disponga circa la produzione del modello GAP, nessuna sanzione, tanto meno di esclusione dalla gara, può essere disposta a carico dell’impresa concorrente che abbia fatto legittimo affidamento sul tenore del bando e del disciplinare di gara e ad essi si sia attenuta, anche perché il modello GAP non rappresenta un requisito aggiuntivo per la partecipazione alle gare, vincolante immediatamente sia le stazioni appaltanti che i concorrenti in sede di espletamento delle procedure selettive, e risponde piuttosto a finalità di polizia, onde la sua compilazione costituisce adempimento di un obbligo che, pur sorgendo per l’ente appaltante e per il privato in occasione della indizione della gara di appalto, non attiene al contenuto della gara, rimanendo estraneo al rapporto che sorge da questa (v. TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 11.03.2010 n. 2807) (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 216 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOAttenti al litigio, se il collega si sente male sono guai. Sussiste il reato di lesioni per i danni subiti a causa di un comportamento ingiurioso. La suprema corte ribalta la decisione del gup.
In una lite fra docenti, se uno dei litiganti si sente male, l'altro collega rischia una condanna per lesioni.
Lo ha stabilito la V Sez. penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 27.06.2011 n. 25611.
La Suprema corte ha ritenuto plausibile la tesi della docente offesa, secondo la quale il giudice dell'udienza preliminare (Gup) non avrebbe dovuto dichiarare il non luogo a procedere.
E quindi ha annullato la sentenza impugnata rinviando gli atti al tribunale di Tivoli per un nuovo esame. Una sentenza interessante, visto che il clima nella scuola è sempre più rovente, anche nei rapporti tra docenti.
I fatti contestati all'imputato si erano svolti in una scuola, in cui tanto entrambi i litiganti prestavano servizio come insegnanti. Secondo l'ipotesi di accusa si erano verificati in due diverse circostanze: una prima volta durante il collegio dei docenti dell'01.10.2007 e poi il 31 ottobre successivo, nell'ambito di un vivace diverbio. In tale occasione un altro collega era stato testimone e si era anche interposto tra i due per evitare che la discussione sfociasse in atti di violenza fisica. Peraltro, all'ultima fase del litigio aveva assistito la stessa preside. In occasione dei litigi intercorsi tra i due docenti, erano volate parole grosse e l'imputato aveva apostrofato la collega con espressioni del tipo: «prevaricatrice>», «maleducata», «priva di dignità», che però, secondo il Gup, non costituivano ingiuria.
Infine, per quanto riguarda un ulteriore epiteto, rivolto sempre dall'imputato alla collega («necrofila fallica») il giudice aveva argomentato il non doversi procedere con il fatto che non risultava proposta querela. Quanto alle minacce lamentate dalla docente, il magistrato aveva ritenuto che non ve ne fossero state. Pur dando atto che la lite si era svolta in due fasi, e che nella seconda fase l'imputato aveva fatto irruzione nello studio della preside, dove l'antagonista aveva trovato riparo, tentando di aggredirla fisicamente. Tentativo non riuscito grazie all'interposizione di un altro docente, che già aveva evitato pochi minuti prima che la lite trascendesse a vie di fatto.
La querelante, peraltro, aveva anche lamentato le lesioni volontarie, perché lo stress emotivo le aveva cagionato un rialzo brusco della pressione, che aveva indotto un'emorragia cerebrale a sinistra con esiti protrattisi per oltre 40 giorni. Ma il Gup aveva osservato che si era trattato di esito del litigio del tutto imprevedibile, non ascrivibile all'imputato neppure a titolo di colpa. Insomma, il giudice monocratico le aveva dato torto su tutta la linea. La docente, però, non si era rassegnata e aveva presentato ricorso per Cassazione. E i giudici di legittimità le hanno dato ragione, annullando la sentenza e rinviandola al mittente.
Secondo la Cassazione il Gup aveva affermato, senza dimostrarlo, che le invettive rivolte dall'imputato alla docente ricorrente non avevano valenza denigratoria. Il tutto «nonostante la loro evidente portata ingiuriosa», si legge nella sentenza, «risultante anche dal contesto e dalla pluralità delle espressioni offensive, indubbiamente e chiaramente lesive del prestigio professionale, della dignità e del decoro della parte offesa».
In più il Gup aveva dichiarato che l'imputato non aveva tenuto un atteggiamento minaccioso nei confronti dell'antagonista, contraddicendo la stessa ricostruzione del fatto esposta in sentenza.
E infine aveva escluso l'applicazione dell'articolo 586 del codice penale, che peraltro, punisce proprio le lesioni derivanti da altro comportamento illecito «con affermazione meramente assertiva, sostanzialmente immotivata» (articolo ItaliaOggi del 05.07.2011).

APPALTI: La giurisdizione del giudice amministrativo in materia di appalti pubblici è limitata alle controversie concernenti la fase pubblicistica di scelta del contraente e non comprende le vicende successive alla stipulazione del contratto.
Sulle questioni relative alla fase di esecuzione dei contratti pubblici (vicenda alla quale non sfugge l'esecuzione dell'oggetto di una concessione con riferimento ai rapporti tra il concessionario ed un sub-appaltatore, come nel caso di specie), la giurisprudenza è stata sempre chiarissima e ferma nell'affermare che la giurisdizione del giudice amministrativo in materia di appalti pubblici è limitata alle controversie concernenti la fase pubblicistica di scelta del contraente e non comprende le vicende successive alla stipulazione del contratto, afferendo queste ultime alla fase paritetica di esecuzione che è riservata al giudice ordinario.
Infatti, per pacifica opinione giurisprudenziale, le disposizioni recanti devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di tutte le controversie relative alle procedure di affidamento di appalti pubblici riguardano il solo segmento pubblicistico dell'appalto, inclusi i provvedimenti di non ammissione alla gara o di esclusione dei concorrenti, e non anche la fase concernente l'esecuzione del rapporto, ove resta operante la competenza giurisdizionale del giudice ordinario, come giudice dei diritti, al quale spetta verificare la conformità alla normativa positiva delle regole attraverso cui i contraenti hanno disciplinato i loro contrapposti interessi e delle relative condotte attuative (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 27.06.2011 n. 5662 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La procedura per la constatazione del silenzio-rifiuto non può essere utilizzata per rimettere in discussione provvedimenti ormai divenuti inoppugnabili.
Come ha costantemente affermato la giurisprudenza, non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e lo strumento di tutela giurisdizionale offerto, costituendo l'esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitare detto potere (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 01.03.2010 n. 1156 e Sez. VI, 16.12.2008 n. 6234). Stante, dunque, il carattere altamente discrezionale della potestà di autotutela amministrativa da parte della P.A., ne deriva che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio, per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da ritenersi inammissibile.
Ed invero, la possibilità di ricorrere alla procedura del silenzio è condizionata alla esistenza di due presupposti distinti e cioè un obbligo rispetto al quale l'Amministrazione risulti inadempiente e la insussistenza di ragioni giustificative. Tale obbligo è costantemente ritenuto insussistente con riferimento alle istanze di autotutela, alle riproposizioni di istanze già esaminate dall'Amministrazione, alle istanze del tutto prive di fondamento ed alle istanze non dotate dei requisiti minimi di ammissibilità secondo la legislazione di settore.
Pertanto, nel caso in cui venga proposta una istanza del privato intesa a sollecitare l'esercizio del potere di autotutela della Amministrazione, non è dato ravvisare un obbligo di provvedere a carico della stessa in ragione della discrezionalità dell'attività della P.A. in tema di atti di ritiro cui il riesame è di norma finalizzato, della sussistenza rispetto all'esercizio di tale potere non di una posizione di interesse legittimo, ma di mero interesse di fatto, nonché dell'esigenza di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono a base dell'agire della pubblica amministrazione e che verrebbero a trovare detrimento da una ritenuta doverosità del riesame.
Il che impone di ricordare che il giudizio in materia di silenzio inadempimento si ricollega, sul piano logico-sistematico, al dovere imposto a tutte le amministrazioni pubbliche di concludere tutti i procedimenti mediante l'adozione di provvedimenti espressi nei casi in cui essi conseguano obbligatoriamente ad una istanza ovvero debbano essere iniziati d'ufficio, secondo la previsione dell'articolo 2 della legge 07.08.1990 n. 241, il che postula pur sempre l'esercizio di una potestà amministrativa rispetto alla quale la posizione del privato si configuri come un interesso legittimo, trovando solo in tale prospettiva razionale giustificazione la ratio del predetto giudizio, volto ad accertare se l'amministrazione abbia, con il silenzio, violato il predetto obbligo di provvedere (cfr., ex multis, Cons. Stato, Ad. pl. 09.01.2002 n. 1 e Sez. IV, 24.03.2003 n. 1521), essendo lo scopo del ricorso avverso il silenzio rifiuto quello di ottenere un provvedimento esplicito dell'Amministrazione che elimini lo stato di inerzia e assicuri al privato una decisione che investe la fondatezza o meno della sua pretesa.
Sulla scorta di tali principi va, dunque, escluso che la procedura per la constatazione del silenzio-rifiuto possa essere utilizzata per ottenere la riapertura di procedimenti già definiti in sede amministrativa ovvero per rimettere in discussione provvedimenti ormai divenuti inoppugnabili, non sussistendo l'obbligo dell'Amministrazione di provvedere -e, di conseguenza, non sussistendo un'ipotesi di silenzio-rifiuto- allorquando l'interessato, attraverso la procedura del silenzio rifiuto, abbia sollecitato l'esercizio del potere di autotutela, rispetto al quale è ravvisabile una posizione, non di interesse legittimo, ma di mero interesse di fatto, anche in ragione della mancanza di un obbligo dell'Amministrazione di attivarsi in via di autotutela.
Con particolare riguardo ai provvedimenti di autotutela, va difatti precisato che essi sono manifestazione dell'esercizio di un potere tipicamente discrezionale della Pubblica amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo, in quanto subordinato alla sussistenza della attualità e della concretezza dell'interesse pubblico, che solo può giustificare l'emanazione del provvedimento di autotutela e che, in ogni caso, non può concretarsi nel mero ripristino della legalità violata, e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell'atto, valutazione di cui essa sola è titolare e che non può ritenersi dovuta nel caso di una situazione già definita, salvo l'obbligo generale di buona amministrazione che, tuttavia, non si concreta nel dovere giuridico di rispondere alla richiesta del privato, se non in presenza di procedimenti per i quali sussista l'obbligo di conclusione con provvedimento espresso.
Ciò, d'altra parte, non può ritenersi contrastante con esigenze di diritto sostanziale, perché la certezza delle situazioni giuridiche definite è essa stessa un bene irrinunciabile posto a tutela dei cittadini e non può essere elusa mediante l'impugnazione del silenzio-rifiuto formatosi su un'istanza diretta a sollecitare l'adozione di provvedimenti di annullamento o di modifica di precedenti determinazioni, non impugnate nei termini e nelle forme di rito.
Sicché, in conclusione, la Pubblica amministrazione, nell'ambito della generale potestà di autotutela, può in ogni momento rivedere discrezionalmente gli atti e provvedimenti adottati, ma non ha alcun obbligo di pronunziarsi sulle istanze volte ad ottenere un provvedimento favorevole da parte di coloro che non abbiano tempestivamente impugnato l'atto la cui legittimità pongono in contestazione.
Ne consegue che su dette istanze non si forma il silenzio rifiuto impugnabile e quindi che è inammissibile il ricorso proposto avverso il predetto comportamento omissivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 27.06.2011 n. 5661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa clausola escludente della lex specialis deve essere immediatamente impugnata a pena di irricevibilità del ricorso.
Secondo i noti princìpi sanciti dalla decisione n. 1/2003 dell’A.P. del Consiglio di Stato, ribaditi –dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo- dalla sentenza n. 4/2011 della stessa A.P., quando venga contestata una clausola del bando “escludente”, in relazione alla illegittima previsione di determinati requisiti di qualificazione, sorge in capo alla parte un onere di immediata impugnazione della clausola medesima (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 27.06.2011 n. 1222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La destinazione a verde pubblico attrezzato costituisce vincolo conformativo e non espropriativo.
La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che la destinazione a verde pubblico attrezzato costituisce vincolo conformativo e non espropriativo, in quanto incidente su categorie di beni aventi caratteristiche omogenee e non comportante l’azzeramento delle facoltà proprietarie sui medesimi (C.d.S. IV, 12.05.2010 n. 2843) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 27.06.2011 n. 1111 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il concorrente che intenda far ricorso all'istituto dell'avvalimento deve produrre in sede di gara il relativo contratto.
In caso di ricorso all'istituto dell'avvalimento, ai sensi dell'art. 49, c. 2, del d.lgs. n. 163/06, il concorrente deve produrre una dichiarazione sottoscritta dall'impresa ausiliaria, con cui quest'ultima si obbliga verso il primo e nei confronti della stazione appaltante a mettere a disposizione le risorse necessarie di cui è difetta il concorrente, nonché in originale o copia autentica il contratto in virtù del quale l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti del concorrente a fornire i requisiti e a mettere a disposizione le risorse necessarie per tutta la durata dell'appalto.
La cognizione in sede di gara di tale contratto è importante per poter esaminare in concreto le pattuizioni stabilite tra le parti, ed appurare se, dalle stesse, emerga una concreta cessione di mezzi e risorse tra ausiliaria e concorrente. La necessaria produzione in giudizio del contratto di avvalimento è quindi ragionevole, e comporta che gli accordi tra le parti in tale materia dovranno senz'altro rivestire una forma scritta, tale da poter essere prodotti nella documentazione di gara.
Inoltre, la necessità che l'utilizzo dell'avvalimento sia accompagnato dalla produzione in atti del relativo contratto, non è in contrasto con la normativa europea in materia, trattandosi di un onere probatorio che può essere facilmente assolto e che riveste, peraltro, una chiara funzione di certezza delle relazioni giuridiche (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 27.06.2011 n. 1110 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Le scelte relative alla destinazione dei suoli operate dagli strumenti urbanistici generali necessitano di specifica motivazione quando sussista, in capo al privato, un'aspettativa qualificata.
E' pertinente il richiamo al consolidato orientamento giurisprudenziale (a cui questa Sezione ha fatto recentemente riferimento nella sentenza 14.02.2011 n. 304) secondo cui le scelte relative alla destinazione dei suoli operate dagli strumenti urbanistici generali non necessitano, in linea di massima, di specifica motivazione, salvo i casi in cui non sussista, in capo al privato, un’aspettativa qualificata, che tuttavia non può derivare dalla diversa destinazione urbanistica precedentemente attribuita alla medesima area, rispetto alla quale l'amministrazione conserva ampia discrezionalità, potendo anche modificare in peius la destinazione stessa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 29.12.2009 n. 9006).
Nell'elaborazione giurisprudenziale posizioni di aspettativa qualificata, tali da imporre all'amministrazione di motivare le proprie scelte pianificatorie, sono state riconosciute in relazione alle seguenti situazioni:
a) superamento degli standards minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la motivazione ulteriore va riferita esclusivamente alle previsioni urbanistiche complessive di sovradimensionamento, indipendentemente dal riferimento alla destinazione di zona di determinate aree;
b) convenzioni di lottizzazione, accordi di diritto privato intercorsi tra il Comune e i proprietari delle aree, giudicati di annullamento di dinieghi di un titolo edilizio o di silenzio-rifiuto su una domanda edilizia;
c) modificazione in zona agricola della destinazione di un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.05.2010 n. 2843 e 22.06.2006 n. 3880; TAR Firenze, Sez. I, 06.07.2010 n. 2307; TAR Napoli, Sez. II, 20.04.2010 n. 2034; TAR Milano, Sez. II, 24.02.2010 n. 452) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 27.06.2011 n. 1092 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla ratio del divieto di all'art. 13 del D.L. 223/2006 (decreto Bersani) e sull'interpretazione della locuzione "oggetto esclusivo".
Sul periodo transitorio per la cessazione degli affidamenti diretti e divieto di partecipazione alle gare.

L'art. 13 del D.L. 223/2006, convertito in l. 248/2006 (c.d. decreto Bersani) trova fondamento nel fatto che l'U.E. ha reiteratamente previsto la necessità che gli Stati membri provvedano alla regolamentazione dell'accesso al mercato degli appalti pubblici da parte di organismi di proprietà o partecipati da Enti pubblici (IV considerando della Direttiva 2004/18/CE).
Lo scopo del divieto di cui al citato art. 13 è quello di evitare le distorsioni alla concorrenza provocate dalle Società che fruiscono dei vantaggi connessi all'affidamento senza gara: esse potrebbero partecipare alle procedure comparative sfruttando le posizioni privilegiate acquisite senza il previo confronto concorrenziale.
Se dunque la ratio è quella di tutelare i principi di concorrenza e di trasparenza nonché quello di libertà di iniziativa economica -che risulterebbero turbati dalla presenza (diretta o indiretta) della mano pubblica la quale provoca un'elusione del rischio d'impresa- devono considerarsi partecipate da amministrazioni pubbliche regionali o locali anche le Società partecipate da Società intermedie controllate da dette amministrazioni: il divieto previsto dall'art. 13, in altri termini, deve ritenersi applicabile ad un'impresa partecipata da un'altra impresa, che a sua volta è controllata da amministrazioni pubbliche locali.
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La locuzione "oggetto esclusivo" contemplata all'art. 13 del D.L. 223/2006, va riferita al rapporto con l'Ente territoriale di riferimento in senso rafforzativo del legame con lo stesso, che non consente proiezioni "extra ambito": diversamente opinando si perviene ad un'interpretazione sostanzialmente abrogatrice della disposizione, in quanto è sufficiente contemplare nello Statuto un oggetto sociale plurimo -peraltro consueto nell'odierna realtà delle Società partecipate- per scongiurare la sua applicazione, in contrasto con la ratio già diffusamente descritta.
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La data del 31/12/2010, per la cessazione degli affidamenti diretti sancisce la definitiva scadenza del periodo transitorio, oltre la quale nessuna deroga all'apertura alla concorrenza può essere consentita. Il temperamento costituito dalla possibilità di partecipare alle "prime gare" ha esaurito la sua funzione con la conclusione della fase transitoria e non può più essere ritenuto ammissibile, in quanto estenderebbe ulteriormente nel tempo un beneficio già garantito agli affidatari diretti per 8 anni.
Il sistema delineato con la stratificazione normativa (art. 113 del D.Lgs. 267/2000, c. 15-bis e art. 23-bis del D.L. 112/2008), ha infatti garantito a sufficienza i soggetti beneficiari di affidamenti diretti, legittimando il prolungamento o comunque il mantenimento dell'efficacia dei contratti in corso fino al 31/12/2010, pur in costanza del sacrificio della logica aspirazione degli operatori del settore al rispetto del principio comunitario della parità di trattamento, attraverso l'assegnazione dei servizi pubblici mediante un confronto comparativo aperto a tutte le imprese interessate (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 24.06.2011 n. 939 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: I bandi di gara d'appalto per gli affidamenti dei servizi pubblici, possono prevedere requisiti di capacità più rigorosi di quelli indicati dalla legge, purché non discriminanti rispetto alle regole proprie del settore.
I bandi di gara, quali atti generali, si sottraggono all'obbligo di motivazione.

Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, i bandi di gara d'appalto per gli affidamenti dei servizi pubblici, possono prevedere requisiti di capacità più rigorosi di quelli indicati dalla legge, purché non discriminanti rispetto alle regole proprie del settore, rientrando nel potere discrezionale della P.A. la fissazione di requisiti di partecipazione superiori a quelli previsti dalla legge, e di conseguenza, può pretendere l'attestazione di requisiti di capacità tecnica, diversi ed ulteriori dalla semplice iscrizione in albi od elenchi.
L'esercizio di tale potere discrezionale costituisce attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost., sostanziandosi nell'apprestamento degli strumenti e misure più adeguati, efficienti ed efficaci, al fine di un corretto ed effettivo perseguimento dell'interesse pubblico concreto, in relazione all'oggetto dell'appalto da affidare, laddove le previsioni contenute nelle relative disposizioni normative di settore sono volte a stabilire una semplice presunzione di possesso dei requisiti minimi e, pertanto, ben possono essere derogati dall'amministrazione.
Di conseguenza le scelte così operate dalla P.A. sono ampiamente discrezionali, e si sottraggono, pertanto, al sindacato del G.A..
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I bandi di gara, quali atti generali, si sottraggono all'obbligo di motivazione, così che il sindacato sulla scelta di fissare requisiti ulteriori e più rigorosi di quelli previsti dalla legge, riguarda il corretto esercizio del potere amministrativo sotto il profilo della ragionevolezza e non arbitrarietà, in relazione all'oggetto del contratto e all'interesse pubblico perseguito.
La clausola contestata, nel caso di specie, è diretta all'accertamento in concreto del requisito di capacità tecnica, al fine del corretto espletamento del delicato servizio di accertamento e riscossione dell'imposta comunale sulla pubblicità.
D'altra parte, l'iscrizione nell'Albo dei soggetti abilitati ad effettuare attività di accertamento e riscossione dei tributi degli enti locali, costituisce una presunzione del possesso dei requisiti di capacità tecnica ed economico-finanziaria, non potendo tuttavia escludersi, in mancanza di un'apposita norma in tal senso, il potere dell'amministrazione di fissare ulteriori requisiti, tenuto conto dell'effettivo oggetto del contratto, al fine di rendere il servizio quanto più efficiente ed efficace possibile (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2011 n. 3809 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Opere mobili - Assenza del prescritto permesso di costruire - Reato di costruzione edilizia abusiva - Zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 - Artt. 44, lett. c) e 3, 1° c. - lett. e.5), T.U. n. 380/2001.
Ai sensi dell'art. 3, 1° comma, lett. e.5), del T.U. n. 380/2001, è configurabile il reato di costruzione edilizia abusiva anche nell'ipotesi di installazione di roulotte, camper e case mobili, sia pure montati su ruote e non incorporati al suolo, aventi una destinazione duratura per soddisfare esigenze abitative.
Pertanto, devono ritenersi, pienamente equiparate alle "nuove costruzioni", ai fini della necessità del rilascio del permesso di costruire, le strutture abitative mobili (quali quelle che caratterizzano la vicenda in esame: descritte negli stessi documenti di acquisto come furgoni attrezzati per uso abitazione) che, pure avendo la parvenza della mobilità, hanno caratteristiche obiettive di stabilità e capacita di trasformare in modo durevole l'area occupata ed utilizzata definitivamente a scopo edilizio.
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Distruzione o l'alterazione delle bellezze protette - Natura di reato di danno - Presupposto per la configurabilità del reato - Art. 734 cod. pen..
La contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. si configura come un reato di danno, e non di pericolo (o di danno presunto), richiedendo per la sua punibilità che si verifichi in concreto la distruzione o l'alterazione delle bellezze protette.
Non è sufficiente, pertanto, per integrare gli estremi del reato, né l'esecuzione di un'opera né la semplice alterazione dello stato naturale delle cose sottoposte a vincolo, ma occorre che tale alterazione abbia effettivamente determinato la distruzione o il deturpamento della bellezza naturale (Cass., Sez. Unite, 12.01.1993, n. 248) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.06.2011 n. 25015 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il potere di autotutela, di per sé esercitabile anche dopo un considerevole lasso di tempo purché contemperato con il principio di ragionevolezza, in presenza di una superiore esigenza di legalità, quale la rilevata nullità radicale del provvedimento, fa sì che l'interesse pubblico al suo esercizio sia in re ipsa, dovendosi identificare nella cessazione di ulteriori effetti contra legem.
La firma in calce al provvedimento amministrativo è tanto più necessaria in quanto solo in base ad essa è possibile verificare se l'agente firmatario sia dotato della competenza ad emettere quel determinato tipo di atti o provvedimenti e, ancora prima, se l'emissione di quella data categoria di atti rientri nella sfera di attribuzione dell'organo o dell'ente.

Il potere di autotutela, di per sé esercitabile anche dopo un considerevole lasso di tempo (in applicazione dell'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990) purché contemperato con il principio di ragionevolezza, in presenza di una superiore esigenza di legalità, quale la rilevata nullità radicale del provvedimento, fa sì che l'interesse pubblico al suo esercizio sia in re ipsa, dovendosi identificare nella cessazione di ulteriori effetti contra legem (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 18.08.2009, n. 4958).
Per gli atti amministrativi la firma in calce al provvedimento è tanto più necessaria in quanto solo in base ad essa è possibile verificare se l'agente firmatario sia dotato della competenza ad emettere quel determinato tipo di atti o provvedimenti e, ancora prima, se l'emissione di quella data categoria di atti rientri nella sfera di attribuzione dell'organo o dell'ente (cfr. in termini: TAR Veneto, sez. II, 13.11.2009, n. 2883) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.06.2011 n. 1606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: L’atto con cui il competente organo comunale affida a un professionista l'incarico della redazione di un progetto per un'opera pubblica è valido e vincolante nei confronti dell'ente soltanto qualora contenga la previsione dell'ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte, con la conseguenza che l'inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della determinazione in parola, che si estende al contratto di prestazione d'opera poi stipulato col professionista.
L’atto con cui il competente organo comunale affida a un professionista l'incarico della redazione di un progetto per un'opera pubblica è valido e vincolante nei confronti dell'ente soltanto qualora contenga la previsione dell'ammontare del compenso dovuto al professionista e dei mezzi per farvi fronte, con la conseguenza che l'inosservanza di tali prescrizioni determina la nullità della determinazione in parola, che si estende al contratto di prestazione d'opera poi stipulato col professionista (cfr. TAR Campania Salerno, sez. II, 15.04.2010, n. 3908) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.06.2011 n. 1606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla scelta normativa di non estendere l'art. 12 del DPR n. 252/1998 anche agli appalti di servizi.
La scelta normativa di non estendere l'art. 12 del DPR 252/1998 anche agli appalti di servizi, pur se opinabile, non risulta irragionevole alla luce delle più cospicue garanzie ratione temporis predisposte in tema di appalti di lavori (si pensi all'albo costruttori e, quindi, all'Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici ed al sistema di qualificazione SOA), idonee a garantire un controllo sull'affidabilità delle imprese operanti in questo settore, più penetrante rispetto al campo degli appalti di servizi e di forniture.
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L'art. 10, c. 2, del D.p.r. 252/1998, laddove dispone il divieto il divieto per le Amministrazioni destinatarie di informazioni di infiltrazioni mafiose di: "stipulare, approvare o autorizzare i contratti o i subcontratti, autorizzare, rilasciare o comunque consentire le concessioni o le erogazioni", persegue un'esigenza di tutela dell'ordine pubblico, al fine di anticipare la soglia di difesa sociale nel campo della lotta alla criminalità organizzata, rispetto alla quale l'art. 12 del medesimo D.p.r. 252/1998 si pone quale eccezione ad una manipolazione analogica.
Il citato art. 12 del D.p.r. 252/1998, ponendosi come eccezione, si riferisce espressamente ai lavori pubblici e non anche agli appalti di servizi, tuttavia l'appalto in oggetto, trattandosi di una concessione di costruzione e gestione, si qualifica sia come appalto di lavori che di servizi pertanto, va esclusa un'applicazione in via analogica del precetto anzidetto, nonché dell'art. 37, c. 19, del Codice dei Contratti, che fa riferimento al subentro di un diverso mandante nella fase di esecuzione del contratto e non in quella dell'affidamento, nella quale un'intervenuta interdittiva antimafia impedisce al concorrente la possibilità di aggiudicarsi l'appalto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.06.2011 n. 3697 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Spedizione illecita di rifiuti - Ritagli di materiali tessili - Sottoprodotto - Esclusione - Trattamento diverso dalla normale pratica industriale - Fattispecie: Verifica della perdita della qualifica di rifiuto - Artt. 184-bis e ter, 259, c. 1, 260, c. 1, D.Lgs. n. 152/2006 - Art. 483 c.p. - Art. 2, c. 1, punto 35 lett. e) Reg. 259/1993 CEE e s.m. Reg. CE 1013/2006 - Art. 9-bis, c. 1, lett. a), D.L. n. 172/2008 conv. con mod. L. n. 210/2008 - D.L.vo n. 205/2010 in att. Dir. n. 2008/98/CE.
I ritagli di materiali tessili, non possono rientrare nella nozione di sottoprodotto, sia pure come novata dall'art. 184-bis del D.Lgs. n. 152/2006, trattandosi di materiali già sottoposti ad un ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale (art. 184 bis, comma 1 lett. c) (Fattispecie: verifica della sussistenza del fumus dei reati con riferimento ai criteri specificati nel vigente art. 184-ter del D. Lgs n. 152/2006, concernenti la perdita della qualifica di rifiuto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.06.2011 n. 24427 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione della sede di un sindacato dei lavoratori non è esente dal versamento del contributo di costruzione (oo.uu. + costo di costruzione).
La sede sindacale palesemente non è riconducibile ad alcuno degli interventi elencati dall’art. 16, commi VII e VII-bis (urbanizzazione primaria: “strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato… cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni") e VIII (urbanizzazione secondaria: “asili nido e scuole materne, scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie”).

Procedendo da alcune considerazioni generali, è da osservare come l'art. 17, III comma, lett. c), dpr 380/2001, disponga che il contributo di costruzione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”; la norma riproduce il previgente art. 9, lett. f), della l. 28.01.1977 n. 10, cui, nelle successive citazioni giurisprudenziali, si farà parimenti riferimento.
Anzitutto, è indubbio che la disposizione deve ritenersi di stretta interpretazione, in quanto introduce ipotesi di deroga alla previsione generale, di cui all’art. 16, I comma, del d.lgs. 380/2001, la quale assoggetta a contributo tutte le opere che comportino trasformazione del territorio.
È poi evidente che lo speciale regime di gratuità richiede il concorso di due requisiti, l'uno di carattere soggettivo e l'altro di carattere oggettivo (così, da ultimo, C.d.S. IV, 02.03.2011, n. 1332).
Il primo di questi, per vero, consiste nell'esecuzione delle opere da parte di enti istituzionalmente competenti, vale a dire “da parte di soggetti ai quali la realizzazione dell'opera sia demandata in via istituzionale” (così, in motivazione, C.d.S., V, 12.07.2005, n. 3774).
Secondo un orientamento particolarmente rigoroso l’opera, per conseguire il beneficio, deve allora essere necessariamente realizzata “da un ente pubblico, non competendo la stessa ad opere eseguite da soggetti privati, quale che sia la rilevanza sociale dell'attività dagli stessi esercitata nella o con l'opera edilizia alla quale la concessione si riferisce” (C.d.S.. V, 15.12.2005, n. 7140).
In ogni caso, ammettendo possa trattarsi anche di un privato, questo deve operare “per conto di un ente pubblico (come nella figura della concessione di opera pubblica o in altre analoghe figure organizzatorie ove l'opera sia realizzata da soggetti che non agiscano per scopo di lucro o che accompagnino tale lucro ad un legame istituzionale con l'azione dell'amministrazione per la cura degli interessi della collettività)” (così C.d.S., IV, 10.05.2005, n. 2226).
Il secondo requisito, come detto, è rappresentato dalla riconduzione del manufatto alla categoria delle opere pubbliche o di interesse generale.
Orbene, nonostante parte ricorrente offra sul punto una ponderosa ricostruzione, è anzitutto da escludere che la C.I.S.L. sia qualificabile come un “ente istituzionalmente competente”,
Invero, non v’è dubbio che la ricorrente rientri tra le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative, ma non per questo cessa di essere un’associazione privata non riconosciuta che, appunto, rappresenta e tutela, anche nelle sedi istituzionali, gli interessi categoriali dei lavoratori ad essa iscritti, senza per questo acquistare uno status ed una qualifica che presupporrebbe l’attuazione, mai operata, dell’art. 39 della Costituzione (ex multis, Cass. lav., 06.07.2000, n. 9043: “Le organizzazioni sindacali dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro sono tradizionalmente inquadrate tra le associazioni non riconosciute, in considerazione della loro natura di gruppi -di lavoratori o datori di lavoro- organizzati in modo stabile e provvisti di strumenti finanziari e organizzativi adeguati per lo svolgimento di una attività comune di autotutela” ed “in assenza di una legislazione di attuazione dell'art. 39, parte II, cost. per la relativa disciplina occorre far riferimento alla normativa dettata dagli art. 36, 37 e 38 c.c.”).
La sede dell’associazione sindacale, a sua volta, non può essere qualificata come un’opera pubblica, o d’interesse generale, ma soltanto come un bene strumentale, mediante il quale l’associazione persegue i propri compiti statutari.
Ciò non esclude che all’interno di tale edificio possano svolgersi attività che realizzano scopi di utilità collettiva, ma ciò si realizza per la destinazione concretamente impressa sull’edificio –o parte di esso- dal suo proprietario, e non in relazione alle caratteristiche intrinseche dell’opera, che la destinano direttamente alla fruizione collettiva, come per una strada o un edificio pubblico.
Infine, va altresì escluso che una sede sindacale possa costituire un’opera di urbanizzazione eseguita da privato in attuazione di strumenti urbanistici, come pure la ricorrente in subordine sostiene.
È bensì vero che il Comune di Vicenza ha variato la destinazione dell’area, consentendone l’attuale destinazione, ma ciò non basta ad assimilare l’edificio costì realizzato ad un’opera d’urbanizzazione, primaria o secondaria.
Invero, la sede sindacale palesemente non è riconducibile ad alcuno degli interventi elencati dall’art. 16, commi VII e VII-bis (urbanizzazione primaria: “strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell'energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato… cavedi multiservizi e i cavidotti per il passaggio di reti di telecomunicazioni") e VIII (urbanizzazione secondaria: “asili nido e scuole materne, scuole dell'obbligo nonché strutture e complessi per l'istruzione superiore all'obbligo, mercati di quartiere, delegazioni comunali, chiese e altri edifici religiosi, impianti sportivi di quartiere, aree verdi di quartiere, centri sociali e attrezzature culturali e sanitarie”).
D’altra parte, lo strumento generale comunale non ha qualificato l’intervento de quo come opera d’urbanizzazione (cfr., per tale ipotesi, C.d.S.. V, 7140/2005 cit.), mentre la convenzione 30.03.2007 si riferisce genericamente ad “attrezzature d’interesse collettivo”, oltre a prevedere, giova nuovamente ricordarlo, che il sindacato è tenuto alla corresponsione degli “oneri dovuti relativamente all’intervento” (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 16.06.2011 n. 1047 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Decorrenza del termine per impugnare il permesso a costruire.
Certamente il termine decadenziale per l'impugnazione del permesso di costruire decorre dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o dal contenuto specifico del progetto edilizio (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
Tuttavia il principio della certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati deve far ritenere che il soggetto concessionario non si possa lasciare nella perpetua incertezza sulla sorte del proprio titolo edilizio.
Ai fini della decorrenza del termine di impugnazione di un permesso di costruire il requisito della piena conoscenza non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 12.07.2010, n. 4482).
Ciò posto, in ossequio al vecchio brocardo “diligentibus jura succurrunt”, una volta che l’interessato viene informato dall’amministrazione degli estremi del provvedimento, aveva il preciso dovere di tutelare senza indugio i propri interessi legittimi (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2011 n. 3583 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Impugnazione del permesso di costruire: i termini per il ricorso al TAR decorrono dalla conoscenza degli elementi essenziali del provvedimento.
Con la sentenza 13.06.2011 n. 3583 la IV sezione del Consiglio di Stato precisa un importante principio in tema di decorrenza dei termini per impugnare un permesso di costruire.
Il Collegio ribadisce il presupposto -pacifico in giurisprudenza- che “il termine decadenziale per l'impugnazione decorre dalla piena conoscenza dell'esistenza e dell'entità delle violazioni urbanistiche o dal contenuto specifico del progetto edilizio (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n. 8705; Consiglio Stato, sez. V, 24.08.2007, n. 4485).
Ma precisa che il concetto di “piena conoscenza” “non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo (omissis)”.
I Giudici di Palazzo Spada, nel decidere il caso concreto, confermano la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l’irricevibilità del ricorso in quanto notificato ben oltre il termine decadenziale di 60 giorni ritenendo che il ricorrente di fatto avesse avuto “un’adeguata cognizione dei dati lesivi del Permesso di Costruire” ben prima della materiale disponibilità del permesso di costruire stesso.
Precisando che “il principio della certezza delle situazioni giuridiche e di tutela di tutti gli interessati deve far ritenere che il soggetto concessionario non si possa lasciare nella perpetua incertezza sulla sorte del proprio titolo edilizio” il Collegio sottolinea lo specifico dovere in capo all’interessato di “tutelare senza indugio i propri interessi legittimi” “una volta informato (omissis) dall’amministrazione degli estremi del provvedimento” e ribadisce come –in ossequio al vecchio borcardo “diligenti bus iura succurrunt”- resti sempre “salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità (cfr. Consiglio Stato , sez. V, 12.07.2010, n. 4482).”
La conoscenza di fatto dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistiche e del contenuto specifico del progetto edilizio integra quindi una “piena conoscenza” che può anche prescindere dalla materiale disponibilità dell’atto stesso e ne impone la tempestiva impugnazione con riserva di motivi aggiunti (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio assenso equivale a rilascio di concessione solo per l’edilizia residenziale.
L’art. 8 del d.l. 23.01.1982, nr. 9, convertito con modificazioni nella legge 25.03.1982, nr. 94, che prevede il formarsi della c.d. concessione tacita per il silenzio-assenso, decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione della domanda senza che sia intervenuto e comunicato il provvedimento motivato con cui viene negato il rilascio, costituisce uno strumento eccezionale rispetto alla disciplina generale e, pertanto, ha un campo di applicazione ben definito ai soli interventi di edilizia residenziale, diretti alla costruzione di abitazione ed al recupero del patrimonio abitativo esistente.

Giova richiamare i pregressi orientamenti di questo Consiglio di Stato, secondo cui:
a) l’art. 8 del decreto legge 23.01.1982, nr. 9, convertito con modificazioni nella legge 25.03.1982, nr. 94, che prevede il formarsi della c.d. concessione tacita per il silenzio-assenso, decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione della domanda senza che sia intervenuto e comunicato il provvedimento motivato con cui viene negato il rilascio, costituisce uno strumento eccezionale rispetto alla disciplina generale e, pertanto, ha un campo di applicazione ben definito ai soli interventi di edilizia residenziale, diretti alla costruzione di abitazione ed al recupero del patrimonio abitativo esistente ed ha avuto in origine carattere transitorio con efficacia temporale, dapprima limitata al 31.12.1984 e con successive leggi prorogata al 31.12.1991, sino all’entrata in vigore della legge 17.02.1992, nr. 179, con cui la disciplina della concessione tacita è stata definitivamente acquisita nell’ordinamento con norma di regime (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.12.2001, nr. 6438; id., 28.02.1995, nr. 295);
b) quanto al citato art. 79, l.r. nr. 61 del 1985, nella parte in cui prescrive l’attestazione del progettista per la formazione del silenzio-assenso su domanda di concessione di costruzione, esso va letto in sintonia col citato art. 8, d.l. nr. 9 del 1982, le cui disposizioni sono state qualificate “norme fondamentali di riforma economico-sociale”, sicché la previsione va a sua volta limitata ai soli interventi di edilizia residenziale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 19.02.1997, nr. 173; id., 01.02.1995, nr. 156) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.06.2011 n. 3582 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Esecuzione di giudicato in tema di annullamento di concessione edilizia.
L'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali. Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, il citato art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380.

Come è noto, l'annullamento giurisdizionale del permesso di costruire provoca la qualificazione di abusività delle opere edilizie realizzate in base ad esso, per cui il Comune, stante l'efficacia conformativa della sentenza del giudice amministrativo, oltre che costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a dare esecuzione al giudicato adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro, avere ad oggetto necessariamente la demolizione delle opere realizzate, il citato art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in caso di annullamento del permesso di costruire, una nuova valutazione da parte del dirigente del competente ufficio comunale riguardo la possibilità di restituzione in pristino; qualora la demolizione non risulti possibile, il Comune dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2011 n. 3571 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici è legittimata a proporre appello.
Il Collegio ritiene che l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici sia legittimata a proporre appello avverso la sentenza del Tar che abbia annullato la segnalazione della stazione appaltante circa i provvedimenti di esclusione di un’impresa da una gara pubblica.
Tale segnalazione, invero, pur provenendo da una diversa Amministrazione (il soggetto che bandisce la gara) è, comunque, un atto strumentale e necessario per l’esercizio, da parte dell’Autorità di vigilanza, di una sua specifica competenza provvedimentale, quella, appunto, di procedere alla relativa iscrizione nel Casellario informatico.
Tra la segnalazione della stazione appaltante e la successiva iscrizione nel Casellario ad opera dell’Autorità vi è, certamente, un rapporto di presupposizione, con la conseguenza che l’annullamento del provvedimento presupposto (l’atto di segnalazione) va ad incidere inevitabilmente sulla validità del provvedimento presupponente (l’iscrizione).
Il nesso di presupposizione che avvince questi due provvedimenti radica in capo all’Autorità di vigilanza una posizione differenziata e giuridicamente rilevante, togliendo ogni dubbio in ordine all’esistenza di una sua legittimazione processuale che le consente di difendere in giudizio, anche mediante la proposizione di un autonomo appello, il provvedimento di segnalazione adottato dalla stazione appaltante.
Dall’annullamento giurisdizionale del provvedimento di segnalazione deriva, infatti, un ostacolo giuridico all’esercizio del potere di iscrizione nel Casellario informatico. E l’Autorità, che di tale potere di iscrizione è titolare, ha senz’altro un interesse giuridicamente rilevante alla rimozione di quell’ostacolo, al fine di poter curare l’interesse pubblico, particolare e concreto, in vista del quale la legge le attribuisce il potere di iscrizione.
Né si può obiettare che in questo modo il processo amministrativo diventi uno strumento a tutela di un astratto interesse alla legittimità dell’azione amministrativa.
Nel caso di specie, infatti, l’Autorità di vigilanza non agisce a tutela di un astratto interesse pubblico. Al contrario, essa si fa portatrice di un interesse che certamente è pubblico, ma che, a livello processuale, si traduce in un interesse “personale” e “concreto”.
Si tratta, infatti, dell’interesse al corretto esercizio del potere amministrativo specificamente attribuito all’Autorità di vigilanza per la cura di un interesse pubblico particolare e concreto: quello di assicurare, tramite l’aggiornamento del Casellario informatico, la conoscibilità delle notizie che possono incidere corretta conduzione delle procedure di affidamento dei contrati pubblici.
Sotto questo profilo, è evidente la differenza che esiste tra la legittimazione e l’interesse del privato ricorrente e quella del soggetto pubblico titolare del potere. Mentre il primo, eccettuate le ipotesi tassative di azione popolare, può agire in giudizio solo a tutela di interessi “privati”, la Pubblica Amministrazione agisce, anche in tramite gli strumenti processuali, a tutela di interessi pubblici, che non sono però astratti interessi alla legalità, ma quegli interessi pubblici particolari e concreti che essa, di volta in volta, è chiamata a perseguire, ed in vista dei quali l’ordinamento le attribuisce il potere amministrativo.
Ne discende che l’Amministrazione, quando ritiene che quegli interessi pubblici particolari siano ostacolati o compromessi, può senz’altro intraprendere le opportune iniziative giurisdizionali ritenute opportune o necessarie alla loro difesa. Può ad esempio costituirsi in giudizio per difendere la legittimità di atti che essa stesso ha adottato (ed è questa l’ipotesi normale, in cui è in contestazione proprio il provvedimento emanato al fine di soddisfare l’interesse pubblico); ma può anche intraprendere iniziative giurisdizionali per difendere la legittimità di provvedimenti adottati da altri soggetti pubblici, nei casi in cui l’annullamento di tali provvedimenti possa avere l’effetto di impedire l’esercizio del potere di cui è titolare. In entrambi i casi, la legittimazione e l’interesse all’iniziativa giurisdizionale derivano dalla necessità di curare, anche nel processo, l’interesse pubblico particolare alla cui cura quella Pubblica Amministrazione è preposta.
Nel caso di specie è evidente che l’annullamento giurisdizionale della segnalazione della stazione appaltante incide sul potere dell’Autorità appellante, impedendone ab origine l’esercizio. Annullando la segnalazione di un provvedimento di esclusione legittimamente adottato, il Tar, infatti, accerta, ex ante, che non vi sono i presupposti per l’esercizio del potere di iscrizione da parte dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, la quale, quindi, è il soggetto maggiormente inciso da tale decisione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2011 n. 3567 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Istituto dell’avvalimento e limiti alla garanzia della libertà di concorrenza.
La finalità dell’avvalimento non è "quella di arricchire la capacità (tecnica o economica che sia) del concorrente, ma quella di consentire a soggetti che ne siano privi di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti”, se e in quanto da questi integralmente e autonomamente posseduti, in coerenza con la normativa comunitaria sugli appalti pubblici che è volta in ogni sua parte a far sì che la massima concorrenza sia anche condizione per la più efficiente e sicura esecuzione degli appalti.

Nelle Direttive CE in materia di appalti pubblici n. 18 (articoli 47 e 48) e n. 17 (articolo 54), del 2004, l’istituto dell’avvalimento è previsto con formulazione sostanzialmente identica per la quale “Un operatore economico può, se del caso, e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a prescindere dai suoi legami con questi ultimi. In tal caso deve dimostrare alla amministrazione che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio mediante presentazione dell’impegno a tal fine di questi soggetti.” (art. 47, comma 2, della direttiva n. 18 citata); alla luce di questa previsione è corretto affermare che l'istituto, in quanto così ampiamente definito (altresì nell’art. 49, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006), ha “portata generale nel diritto comunitario, al fine di garantire il principio di libertà di concorrenza” (Cons. Stato, Sez. V, 19.03.2009, n. 1624), poiché, se ciascun soggetto può avvalersi dei requisiti di altri, viene così posto in grado di concorrere il più vasto numero di soggetti, non essendo perciò consentite limitazioni nell’applicazione dell’istituto che possano inficiare tale scopo.
La massima concorrenza deve però dispiegarsi entro il limite (e al fine) della garanzia per la stazione appaltante di ricevere la migliore prestazione, che non è a sua volta assicurata se nessuno dei soggetti concorrenti possiede i requisiti preventivamente identificati in relazione all’oggetto e agli importi di gara, essendo questi richiesti come presupposto della capacità del partecipante di formulare una offerta congrua e valutabile e di fornire quindi, se aggiudicatario, la migliore prestazione; non si comprenderebbe, altrimenti, la ratio della preordinazione di un sistema di requisiti di qualificazione per categorie di lavori e classifica (per importi nel loro ambito) se nessuno dei concorrenti o dei soggetti ausiliari fosse poi, in concreto, vincolato a possederli, non potendo in tal caso il candidato/offerente “dimostrare alla amministrazione che disporrà dei mezzi necessari” a provare le capacità richieste per l’esecuzione dell’appalto.
La finalità dell’avvalimento non è perciò “quella di arricchire la capacità (tecnica o economica che sia) del concorrente, ma quella di consentire a soggetti che ne siano privi di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti” (Cons. Stato: Sez. V, 17.03.2009, n. 1589; Sez. IV, 20.11.2008, n. 5742), se e in quanto da questi integralmente e autonomamente posseduti (cfr. anche Cons. Stato, Sez. V, 23.02.2010, n. 1054), in coerenza con la normativa comunitaria sugli appalti pubblici che è volta in ogni sua parte a far sì che la massima concorrenza sia anche condizione per la più efficiente e sicura esecuzione degli appalti.
Non contrasta con tale conclusione la normativa di cui al vigente art. 49, comma 6, per il quale “Per i lavori, il concorrente può avvalersi di una sola impresa ausiliaria per ciascuna categoria di qualificazione. Il bando di gara può ammettere l'avvalimento di più imprese ausiliarie in ragione dell'importo dell'appalto o della peculiarità delle prestazioni, fermo restando il divieto di utilizzo frazionato per il concorrente dei singoli requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi di cui all'articolo 40, comma 3, lettera b), che hanno consentito il rilascio dell'attestazione in quella categoria.”.
Non può essere accolta, infatti, una interpretazione per cui il divieto di utilizzo frazionato dei requisiti varrebbe soltanto nel caso dell’avvalimento di più imprese ausiliarie (ai sensi della seconda parte del comma) e non anche in quello di una sola impresa ausiliaria (di cui alla prima parte), essendo evidente che il legislatore si è occupato di vietare espressamente l’utilizzo frazionato per la fattispecie in cui tale utilizzo è in concreto ipotizzabile, proprio in ragione della pluralità delle imprese ausiliarie, e non per quella in cui ci si avvalga di una sola impresa ausiliaria, non essendo altrimenti giustificato un divieto posto soltanto per un caso e non per l’altro.
Ciò è confermato dalla intervenuta abrogazione del comma 7 del medesimo art. 49, ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2008, in cui era anche previsto “che l’avvalimento possa integrare un preesistente requisito tecnico o economico già posseduto dall’impresa avvalente in misura o percentuale indicata nel bando stesso”, nonché dall’osservazione che la somma delle classifiche risulta espressamente prevista soltanto per i consorzi stabili (art. 36, comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Tale ricostruzione non contrasta con quanto indicato dalla citata nota C(2008)0108 della Commissione europea, relativa a limitazioni all’avvalimento riscontrate nel testo previgente dei commi 6 e 7 dell’art. 49 del d.lgs. n. 163 del 2006, cui sono seguite le modifiche disposte con il d.lgs. n. 152 del 2008 (essenzialmente restringendo ai lavori, nel comma 6, la previsione dell’avvalimento di una sola impresa ausiliaria, e abrogando il comma 7 che recava la possibilità del bando di gara di limitare l’avvalimento per tipo di requisiti e di prevedere la loro integrazione); per effetto delle modifiche intervenute la normativa di cui all’art. 49 non risulta infatti prevedere, come sopra visto, la possibilità dell’integrazione dei requisiti parziali né è interpretabile in tal senso.
In tale quadro si deve concludere che non vi è ragione per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 del TFUE, trattandosi di un caso in cui la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con evidenza tale da non dare adito a nessun ragionevole dubbio interpretativo sulla soluzione da dare alla questione sollevata (Cons. Stato Sez. VI, 09.02.2011, n. 896); scopo della normativa comunitaria è infatti chiaramente quello far concorrere alle gare anche i soggetti che non hanno i requisiti se li ha l’impresa ausiliaria ma non quello di consentire che chi non ha i requisiti possa comunque presentare offerte, così impegnandosi ad eseguire prestazioni per cui non ha i presupposti, poiché, in questo caso, non sarebbero contestualmente assicurate la libera concorrenza e l’uso efficiente delle risorse pubbliche, ciò che costituisce, invece, la finalità ultima della stessa normativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2011 n. 3565 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONEEspropriazione per pubblica utilità ed avviso pubblico.
Una forma di pubblicità, priva dell’indicazione delle particelle catastali interessate dall’approvazione del progetto dell'opera e dell’elenco delle ditte espropriande, non è idonea a far conoscere ai proprietari quali terreni di loro proprietà siano interessati alla realizzazione dell’opera e di poter conseguentemente partecipare al procedimento amministrativo.

E’ fondata la censura di violazione dell’art. 16, d.P.R. n. 327/2001, sotto il profilo dell’inosservanza delle formalità da rispettare in caso di pubblicità di massa in luogo dell’avviso individuale di avvio del procedimento.
Dispone, infatti, l’art. 16, co. 2, d.P.R. n. 327/2001, che lo schema dell'atto di approvazione del progetto deve richiamare gli elaborati contenenti la descrizione dei terreni e degli edifici di cui è prevista l'espropriazione, con l'indicazione dell'estensione e dei confini, nonché, possibilmente, dei dati identificativi catastali e con il nome ed il cognome dei proprietari iscritti nei registri catastali.
Aggiunge il co. 4 del medesimo articolo che al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso dell'avvio del procedimento, mentre il co. 5 dispone che allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50 si osservano le forme di cui all'art. 11, co. 2.
A sua volta l’art. 11, co. 2, d.P.R. n. 327/2001 dispone che l'avviso di avvio del procedimento è comunicato personalmente agli interessati alle singole opere previste dal piano o dal progetto. Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è effettuata mediante pubblico avviso da affiggere all'albo pretorio dei Comuni nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della Regione o Provincia autonoma nel cui territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali modalità può essere consultato il piano o il progetto.
Vero è che tali previsioni non erano applicabili, ratione temporis, al procedimento espropriativo per cui è processo, atteso che il d.P.R. n. 327/2001 è entrato in vigore il 30.06.2003, laddove l’avviso di massa nel caso di specie è stato pubblicato il 28.04.2003, in applicazione dell’art. 8, l. n. 241/1990.
Ma anche in applicazione dell’art. 8, l. n. 241/1990, l’avviso pubblico sostitutivo dell’avviso individuale non può limitarsi alla generica descrizione dell’opera pubblica e alle generica indicazione del Comune in cui ricade, ma deve anche descrivere i terreni o edifici espropriandi, e ove possibile indicare i dati catastali degli immobili e i nomi dei proprietari catastali.
Se si può consentire che nella pubblicità di massa siano omessi i dati catastali degli immobili e i nomi dei proprietari catastali, non può invece acconsentirsi all’omissione della descrizione delle immobili, quanto meno con indicazione del relativo indirizzo o zona.
Diversamente infatti, gli interessati non sono posti in condizione di comprendere, dalla pubblicità di massa contenuta nell’albo pretorio e sulla stampa quotidiana, che sono proprio le loro proprietà ad essere oggetto del procedimento espropriativo.
La giurisprudenza di questo Consesso ha già affermato, con principi che il Collegio condivide, che le richiamate disposizioni facoltizzano l’amministrazione ad avvalersi di forme di pubblicità diverse dalla comunicazione personale, ma tale scelta non può incidere sull’onere dell’individuazione del soggetto destinatario della comunicazione, né sul contenuto della stessa comunicazione, come definito dalla normativa richiamata.
Diversamente opinando, non si tratterebbe più di scegliere una forma di comunicazione, individuale o collettiva, bensì di consentire o meno l’effettiva partecipazione dell’interessato al procedimento.
Pertanto, anche la forma di pubblicità, prescelta in luogo della comunicazione personale, deve essere idonea allo scopo di assicurare l’effettiva partecipazione del privato al procedimento amministrativo, in primo luogo, mediante l’identificazione dei soggetti incisi dalla procedura ablativa, in quanto proprietari del terreno, secondo le risultanze catastali.
Per converso, una forma di pubblicità, priva dell’indicazione delle particelle catastali interessate dall’approvazione del progetto dell'opera e dell’elenco delle ditte espropriande, non è idonea a far conoscere ai proprietari quali terreni di loro proprietà siano interessati alla realizzazione dell’opera e di poter conseguentemente partecipare al procedimento amministrativo (Cons. giust. sic. 04.11.2008 n. 902; Cons. St., sez. IV, 22.06.2006 n. 3885; Cons. St., sez. VI, 08.03.2004 n. 1077; Cons. giust. sic., 20.01.2003 n. 25) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2011 n. 3561 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’esclusione dalla gara d’appalto radica l’interesse ad agire.
L’esclusione è idonea di per sé a radicare l’interesse al ricorso, indipendentemente dall’esito della gara stessa e dalla circostanza che in caso di ammissione l’imprenditore comunque non sarebbe risultato aggiudicatario, e dunque dalla prova che l’esito della gara sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole; l’interesse al ricorso in tema di procedure di gara, infatti, è un interesse strumentale a rimettere in discussione il rapporto, provocando la rinnovazione della gara con il vantaggio per l’interessato di parteciparvi.
L’esclusione lede l’interesse dell’imprenditore a vedersi valutare la propria offerta, indipendentemente dall’esito della gara, di talché l’interesse a ricorrere contro l’esclusione è configurabile ex se e non occorre che sia dimostrato che l’esito della gara sarebbe sicuramente o probabilmente favorevole, anche perché siffatta dimostrazione implicherebbe, da un lato, una disvelazione di dati relativi ad un’offerta ancora segreta e, dall’altro lato, l’anticipazione da parte del giudice di verifiche caratterizzate da un significativo tasso di discrezionalità tecnica, riservate alla stazione appaltante.

Secondo consolidata giurisprudenza, l’esclusione è idonea di per sé a radicare l’interesse al ricorso, indipendentemente dall’esito della gara stessa e dalla circostanza che in caso di ammissione l’imprenditore comunque non sarebbe risultato aggiudicatario, e dunque dalla prova che l’esito della gara sarebbe stato sicuramente o probabilmente favorevole; l’interesse al ricorso in tema di procedure di gara, infatti, è un interesse strumentale a rimettere in discussione il rapporto, provocando la rinnovazione della gara con il vantaggio per l’interessato di parteciparvi [Cons. giust. sic., 22.04.2002 n. 203; Cons. St., sez. VI, 28.04.1998 n. 576; Cons. St., sez. VI, 17.06.1998 n. 972].
Si è anche ritenuto che l’esclusione lede l’interesse dell’imprenditore a vedersi valutare la propria offerta, indipendentemente dall’esito della gara, di talché l’interesse a ricorrere contro l’esclusione è configurabile ex se e non occorre che sia dimostrato che l’esito della gara sarebbe sicuramente o probabilmente favorevole, anche perché siffatta dimostrazione implicherebbe, da un lato, una disvelazione di dati relativi ad un’offerta ancora segreta e, dall’altro lato, l’anticipazione da parte del giudice di verifiche caratterizzate da un significativo tasso di discrezionalità tecnica, riservate alla stazione appaltante [Cons. St., sez. VI, 28.04.1998 n. 576].
Tale orientamento trova la sua giustificazione nella circostanza che quando viene disposta l’esclusione, normalmente non sono ancora note le offerte degli altri concorrenti, sicché è impossibile per il ricorrente escluso provare che in caso di ammissione avrebbe vinto la gara.
Tale soluzione incontra un temperamento solo nel caso in cui il sistema di gara sia quello del prezzo più basso, e al momento dell’impugnazione dell’esclusione o successivamente siano noti i ribassi offerti, sicché può evincersi con certezza se il ricorrente escluso, in caso di ammissione, avrebbe o no vinto.
Diverso discorso va fatto per il caso di sistema di gara con metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, in cui il concorrente escluso non è oggettivamente in grado di dimostrare che la propria offerta sarebbe risultata aggiudicataria, atteso che l’esito della gara dipende dalla valutazione delle offerte tecniche da parte della Commissione, e l’offerta dell’escluso non è stata, per definizione, valutata.
Pertanto, in siffatta evenienza, è inesigibile da parte del ricorrente la prova che avrebbe vinto la gara.
E’ quanto si verifica nel caso di specie, in cui il metodo di aggiudicazione è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Il ricorrente di primo grado non era tenuto a dimostrare che avrebbe vinto la gara, se ammesso, perché la sua offerta non è stata mai valutata dalla Commissione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.06.2011 n. 3555 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’accesso ai documenti non compendia anche l’obbligo di un facere a carico dell’Amministrazione.
Occorre avere presente, in punto di diritto, che l’obbligo dell’Amministrazione di garantire l’accesso documentale presuppone che questa sia in possesso degli atti richiesti per averli formati e/o perché li detiene, sempre che, però, la domanda formulata dall’interessato attenga soltanto alla visione di tali atti ed eventualmente all’estrazione di copie, ma non anche all’adozione di provvedimenti.
Nella specie, invece, la richiesta di accesso, come deducibile dagli atti di causa, si collegava alla presupposta richiesta fatta dall’Associazione appellata ad ANAS di adottare, sia un provvedimento di declassamento delle due arterie da autostrade a strade extraurbane, sia un provvedimento che esonerasse gli automobilisti dall’obbligo del pagamento del pedaggio nelle tratte interessate dalla costruzione della terza corsia.
Per giurisprudenza della Sezione, l’accesso ai documenti non compendia anche l’obbligo di un facere a carico dell’Amministrazione (cfr. ad es., n. 6326 del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.06.2011 n. 3529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La tutela del terzo leso è possibile mediante l’esperimento (nei confronti del soggetto pubblico titolare del potere di vigilanza edilizia e in contraddittorio con il denunciante) di un’azione atipica di accertamento volta a stabilire l’insussistenza dei presupposti per svolgere l’attività edilizia sulla base di una semplice d.i.a.; azione il cui fondamento va trovato nel principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. e da esercitare comunque nel termine di gg. 60 dalla conoscenza del sostanziarsi del titolo edilizio.
E' nota, a proposito della natura della d.i.a., l’esistenza di due differenti impostazioni giurisprudenziali, l’una delle quali individua nella fattispecie la sussistenza di un provvedimento autorizzatorio implicito derivante da una valutazione legale tipizzata (Cons. Stato, IV, 13.01.2010 n. 72, 24.05.2010, n. 3263, 10.12.2009, n. 7730, nonché, in precedenza, Cons. Stato, sez. IV, 25.11.2008 , n. 5811; Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3742; Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; Cons. Stato, sez. VI, 05.04.2007, n. 1550): la d.i.a., per tale impostazione, non sarebbe uno strumento di liberalizzazione dell'attività, ma rappresenterebbe una semplificazione procedimentale che consente al privato di conseguire un titolo abilitativo tacito, rispetto al quale ultimo la tutela del terzo che si pretenda leso non incontrerebbe limiti diversi da quelli ordinariamente previsti in riferimento a provvedimenti espressi.
Diversamente, altra impostazione (Cons. Stato, IV, 13.05.2010, n. 2919, 12.03.2009, n. 1474 e 19.09.2008, n. 4513) afferma essere la d.i.a. un atto di natura privata, inserito in un nuovo schema ispirato alla liberalizzazione delle attività economiche private, con la conseguenza che, per l'esercizio delle stesse, viene a non essere più necessaria l'emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione: il potere di verifica di cui dispone l'Amministrazione, a differenza di quanto accade nel regime a previo atto amministrativo, non sarebbe finalizzato all'emanazione dell'atto amministrativo di consenso all'esercizio dell'attività, bensì al controllo, privo di discrezionalità, della corrispondenza di quanto dichiarato dall'interessato rispetto ai canoni normativi stabiliti per l'attività in questione.
Appunto quest’ultimo orientamento appare al Collegio più convincente, in particolare sulla scorta di due considerazioni.
La prima è che, diversamente opinando, non si spiegherebbe per quale ragione il legislatore tiene distinto l’istituto in commento (disciplinato dall’art. 19 L. 241/1990) da quello del silenzio assenso (disciplinato dal successivo art. 20 e costituente una mera semplificazione procedimentale, in forza della quale si perviene ad una autorizzazione tacita, del tutto equipollente ad un provvedimento esplicito di accoglimento); la seconda è che tale impostazione appare in linea con l’evoluzione dell’ordinamento, caratterizzata dall’aumentare delle fattispecie in cui un esercizio del potere amministrativo non si ha sempre e necessariamente, bensì solo eventualmente (all’esito di un procedimento di verifica di quanto dichiarato ed attestato dal privato interessato, per il quale vi sono perciò ambiti sempre più ampi entro cui viene a presentare rilevanza l’assunzione diretta di responsabilità da parte sua, come appunto dimostrato dall’introduzione della s.c.i.a.).
Diversi sono poi i mezzi di tutela riconosciuti al terzo controinteressato in detta fattispecie da chi opta per quest’ultima ricostruzione.
Alcuni ritengono che il terzo possa agire con lo strumento del silenzio-rifiuto, ovvero che egli, decorso il termine per l'esercizio del potere inibitorio senza che la P.A. sia intervenuta, abbia legittimazione a richiedere all'Amministrazione, nell’esercizio dei poteri di vigilanza e controllo sul territorio, di porre in essere i provvedimenti di "autotutela" adottabili ai sensi degli artt. 21-quinquies e 21-nonies L. 241/1990, attivando in caso di inerzia il rimedio di cui all'art. 21-bis L. 1034/1971 (oggi art. 117 codice del processo amministrativo).
Altri ritengono invece che la tutela del terzo leso sia possibile mediante l’esperimento (nei confronti del soggetto pubblico titolare del potere di vigilanza edilizia e in contraddittorio con il denunciante) di un’azione atipica di accertamento volta a stabilire l’insussistenza dei presupposti per svolgere l’attività edilizia sulla base di una semplice d.i.a.; azione il cui fondamento va trovato nel principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost. e da esercitare comunque nel termine di gg. 60 dalla conoscenza del sostanziarsi del titolo edilizio (posto che il suo regime va strutturato in modo analogo all’azione di annullamento che vi sarebbe stata qualora l’intervento fosse stato assentito a mezzo di permesso di costruire; e ciò onde assicurare la certezza dei rapporti di diritto pubblico). La cognizione di detta azione risulta oggi devoluta al G.A. nell’ambito della giurisdizione esclusiva a lui attribuita ai sensi dell’art. 133, commi 1, lett. a), n° 3, e 1, lett. f), del codice del processo amministrativo.
Appunto a quest’ultima impostazione (cfr. Cons. di Stato sez. VI, n° 717 del 09.02.2009; Cons. di Stato sez. VI, n° 2139 del 15.04.2010; TAR Campania-Salerno n° 1291 dell’08.02.2010; TAR Calabria-Reggio Calabria n° 915 del 23.08.2010; TAR Lombardia–Milano n° 4886 del 23.10.2009; TAR Puglia–Bari n° 4242 del 17.12.2010) ritiene di aderire il Tribunale, stante la possibilità di assicurare all’interessato, in tal modo, una tutela effettiva e tempestiva pur in assenza di un provvedimento amministrativo suscettibile di essere impugnato secondo lo schema ordinario della tutela degli interessi legittimi.
A tal proposito, va evidenziato come l’esperibilità di un’azione di accertamento atipica anche con riferimento a posizioni di interesse legittimo appaia coerente con il sistema giuridico nei casi in cui l’attività amministrativa sia di tipo vincolato o comunque allorché determinati effetti siano collegati al ricorrere di specifici presupposti, e in particolare quando vi sia un oggettivo interesse alla verifica della sussistenza della posizione sostanziale stessa (ad es. per stabilire se, per la presenza dei necessari elementi, si sia o meno sostanziato un provvedimento tacito).
In tal senso appare invero deporre la considerazione che, qualora la P.A. sia venuta meno all’obbligo di concludere il procedimento e l’interessato si sia attivato ai sensi dell’art. 31 del codice del processo amministrativo, il G.A., a mente del comma 3 di quest’ultimo, “può pronunziare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio” appunto “solo quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’Amministrazione”: risulterebbe infatti incongruo che l’ordinamento consentisse al giudice di effettuare accertamenti sulla fondatezza della pretesa del privato soltanto in presenza di una inerzia della P.A., e limitasse invece il suo potere d’intervento all’annullamento del provvedimento nel caso di adozione di un provvedimento (espresso o tacito che sia) di diniego
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.06.2011 n. 3099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La struttura in questione [struttura costituita da travi di legno di abete posti sia verticalmente (con spessore di cm. 20 x 15 e fissati al suolo con barre filettate e bulloni in ferro), che orizzontalmente (con spessore di cm. 10 x 15, ancorati con barre filettate e bulloni in ferro ai travi lamellari posizionati in modo verticale), nonché da travicelli sempre di legno di abete piallati e squadrati, aventi spessore di cm. 5 x 5. Con posizionamento delle travi e dei travicelli, la presenza di un ordito a doppia falda in legno nella parte superiore della struttura, e un ingombro complessivo per una superficie coperta di mq. 30 (mt. 6 x 5). La base del manufatto è costituita da una platea di cemento armato, e lo stesso è dotato di una copertura precaria (forse pagliarelle) posta sull’ordito a doppia falda] non può essere ricondotta alla tipologia del “pergolato” e deve qualificarsi quale "nuova costruzione" che, in zona vincolata, presuppone il preventivo rilascio dell'autorizzazione paesaggistica.
Ritiene il Collegio che la struttura in questione [struttura costituita da travi di legno di abete posti sia verticalmente (con spessore di cm. 20 x 15 e fissati al suolo con barre filettate e bulloni in ferro), che orizzontalmente (con spessore di cm. 10 x 15, ancorati con barre filettate e bulloni in ferro ai travi lamellari posizionati in modo verticale), nonché da travicelli sempre di legno di abete piallati e squadrati, aventi spessore di cm. 5 x 5. Con posizionamento delle travi e dei travicelli, la presenza di un ordito a doppia falda in legno nella parte superiore della struttura, e un ingombro complessivo per una superficie coperta di mq. 30 (mt. 6 x 5). La base del manufatto è costituita da una platea di cemento armato, e lo stesso è dotato di una copertura precaria (forse pagliarelle) posta sull’ordito a doppia falda] non possa essere ricondotta alla tipologia del “pergolato”, definibile come manufatto realizzato in struttura leggera di legno che funge da sostegno per piante rampicanti o per teli, il quale realizza in tal modo una ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni durante la bella stagione, destinato ad un uso del tutto provvisorio e costituente altresì un elemento ornamentale, e perciò assentibile con d.i.a. (cfr. TAR Emilia Romagna–Bologna n° 36 del 19.01.2011; TAR Puglia–Bari n° 222 del 06.02.2009).
Al contrario, dev'essere qualificato intervento di nuova costruzione, ai sensi dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001, la realizzazione di un’opera costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni, atti a rendere la struttura solida e robusta e a far desumere una sua permanenza prolungata nel tempo (cfr. Cons. di Stato sez. IV, n° 4793 del 02.10.2008; TAR Campania–Napoli n° 1438 del 12.03.2010): proprio in quest’ultima ipotesi è inquadrabile invero la fattispecie in discussione, posto che le rilevanti dimensioni e consistenza delle travi utilizzate, il loro stabile collegamento (a mezzo di bulloni e perni metallici) con una platea cementizia appositamente realizzata, la notevole estensione superficiaria ricoperta e la presenza di una copertura (ancorché precaria) risultano chiaro indice dell’essere preordinata l’opera ad un utilizzo prolungato nel tempo e non certo provvisorio
Peraltro, appunto l’imponenza della costruzione (da valutare comunque nella sua totalità e complessità –cfr. TAR Lazio–Latina n° 259 del 10.05.2004)- conferisce alla stessa caratteristiche di rilevanza edilizia, ambientale, estetica e funzionale, pur in assenza di opere in muratura e di chiusure perimetrali, con conseguente necessità di una sua abilitazione a mezzo di permesso di costruire, in ogni caso previo assenso dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesistico gravante in zona (non potendo farsi rientrare l’opera in alcuna delle ipotesi in cui l’art. 149 Decr. Leg.vo 42/2004 esclude la necessità dell’autorizzazione paesaggistica)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.06.2011 n. 3099 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIA e violazione articolo 481 cod.pen..
La relazione di accompagnamento alla DIA edilizia (che costituisce parte integrante ed essenziale della dichiarazione stessa di inizio dell’attività) ha natura di “certificato” per quanto riguarda: sia la descrizione dello stato attuale dei luoghi, sia la ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, sia la rappresentazione delle opere che si intende realizzare e l’attestazione della conformità delle stesse agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio (fattispecie relativa al reato di cui all'articolo 481 c.p. commesso da architetto direttore dei lavori) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2011 n. 23072 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere in cemento armato e responsabilità del direttore dei lavori.
Il Direttore dei lavori, in quanto primo garante della sicurezza, è certamente tenuto all’osservanza delle prescrizioni imposte dall’art. 75 del D.P.R. 380/2001 attraverso lo specifico obbligo di inibire l’utilizzazione dell’edificio prima del rilascio del certificato di collaudo.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, il reato di cui all'art. 75, D.P.R. 380/2001 è configurabile -tra gli altri- anche a carico del costruttore, del committente o del proprietario (da ultimo Cass. Sez. 3^ 24.11.2010 n. 1802, Marrocco, Rv. 249133).
Tale tesi giustifica anche -pur in assenza di una affermazione esplicita- l'estensione della responsabilità a soggetti quali il direttore dei lavori, non espressamente indicati nel testo normativo: tanto, in correlazione con la ratio incriminatrice della norma urbanistica la quale mira a salvaguardare la sicurezza pubblica in modo assoluto.
Ne consegue che il Direttore dei lavori, in quanto primo garante della sicurezza, è certamente tenuto all'osservanza delle prescrizioni imposte dall'art. 75 del D.P.R. 380/2001 attraverso lo specifico obbligo di inibire l'utilizzazione dell'edificio prima del rilascio del certificato di collaudo (rilascio avvenuto, come ricordato dalla difesa dei due ricorrenti, il 29.10.2004) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2011 n. 22291 - link a www.lexambiente.it).

PUBBLICO IMPIEGOAssistenza ai portatori di handicap e diniego dell’Amministrazione? Il TAR dispone il trasferimento del poliziotto per consentirgli di assistere il genitore disabile.
Il TAR della Lombardia-Milano, Sez. I, con sentenza 08.06.2011 n. 1428 ha ordinato all’Amministrazione che aveva rigettato l’istanza, di trasferire un agente di polizia presso qualsiasi ufficio o reparto della Polizia di Stato la cui prossimità sia tale da consentire allo stesso l’assistenza nei confronti del genitore portatore di handicap grave.
Il TAR Lombardia, con la sentenza n. 1428/2011, si è occupato di un caso relativo ad un agente di polizia che aveva presentato domanda di trasferimento ad altra sede per gravi ed eccezionali situazioni familiari la quale era stata rigettata dall’Amministrazione.
Già con ordinanza del 10.06.2010, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, aveva accolto il ricorso del poliziotto, rilevando che il provvedimento impugnato non conteneva una motivazione adeguata ad evidenziare perché i fatti dedotti dal ricorrente fossero stati ritenuti non sufficienti ad integrare il requisito delle gravissime ed eccezionali situazioni personali contemplato dalla fattispecie sul trasferimento ad altra sede ai sensi dell’art. 55 D.P.R. 24.04.1982, n. 335.
Tuttavia, in esecuzione della suddetta ordinanza l’Amministrazione ha nuovamente negato il trasferimento ed il ricorrente ha impugnato anche questo secondo provvedimento.
A questo punto il TAR Lombardia ha verificato che era stato accertato che il genitore del ricorrente fosse portatore di handicap in situazione di gravità, con impedimento permanente delle capacità motorie, ai sensi della legge 104/1992 -come attestato dalla Commissione di prima istanza della ASL- nonché che il ricorrente fosse figlio unico e che sua madre soffrisse di disturbi depressivi connessi ai disagi giornalieri conseguenti alla predetta situazione familiare, come risultante da documentazione medica prodotta.
Inoltre il Tribunale ha ritenuto del tutto generica l’affermazione dell’Amministrazione di avere valutato gli elementi addotti a sostegno dell’istanza e dell’insussistenza dei presupposti per il suo accoglimento, senza indicare concrete ragioni di fatto o giuridiche a supporto della determinazione adottata e senza spendere alcuna parola per evidenziare per quale motivo i fatti dedotti dal ricorrente a sostegno della sua domanda sarebbero non sufficienti ad integrare il requisito delle gravissime ed eccezionali situazioni personali contemplato dalla fattispecie sul trasferimento ad altra sede ai sensi dell’art. 55 D.P.R. 24.04.1982, n. 335.
Quindi il diniego è stato ritenuto illegittimo ed il TAR, acclarata la fondatezza della pretesa del ricorrente ad ottenere il trasferimento di riavvicinamento (non essendo stata evidenziata nel corso del procedimento e del successivo processo alcuna valida causa ostativa), ha ricordato che di recente il Consiglio di Stato, nella sua più autorevole composizione, ha affermato (sia pure in obiter dictum) che il codice del processo amministrativo ha introdotto, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23.03.2011 n. 3).
Stante quanto sopra, il Tribunale ha ordinato all’amministrazione di disporre il trasferimento del ricorrente presso qualsiasi ufficio o reparto della Polizia di Stato la cui prossimità rispetto al luogo di residenza del disabile sia tale da consentire allo stesso l’assistenza nei confronti del genitore (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARIUsare abusivamente il permesso ''invalidi'' non e' reato.
Non integra ne' il delitto di sostituzione di persona, ne' quello di truffa ai danni dell'ente territoriale che esercita la vigilanza della viabilità la condotta di colui che esponga sul parabrezza dell'auto un contrassegno per invalidi, rilasciato ad altra persona che non si trova a bordo del veicolo, al fine di accedere all'interno di una zona a traffico limitato.
Secondo la Corte di cassazione, infatti, l’uso abusivo del permesso invalidi su un’autovettura, per il parcheggio nelle zone riservate o per il transito in una ZTL, realizzato esibendo il relativo contrassegno sul parabrezza del veicolo in assenza del titolare del permesso, integra [solo] l’illecito amministrativo di cui all’articolo 188, commi 4 e 5, del codice della strada.
Non integra, quindi, integra il reato di sostituzione di persona punito dall’articolo 494 c.p. [in termini, Cassazione, Sezione II, 08.06.2010, PM in proc. Zangheri; nonché, Sezione V, 02.02.2010, PM in proc. Righi].
Infatti, la semplice esibizione del contrassegno importa soltanto il presupposto perché il veicolo possa sostare o circolare nelle zone altrimenti interdette, ma non attribuisce al conducente, neppure indirettamente, la qualifica soggettiva di accompagnatore del disabile, né comporta una dichiarazione di attestazione della presenza del titolare a bordo del veicolo.
In realtà, precisa il giudice di legittimità, in virtù del principio di specialità di cui all’articolo 9 della legge 24.11.1981 n. 689, applicabile quando il medesimo fatto sia punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, è nella previsione normativa dell’articolo 188, commi 4 e 5, del codice della strada che sono contemplate “tutte” le ipotesi di abuso delle strutture stradale riservate agli invalidi, dalla loro utilizzazione in assenza di autorizzazione, o fuori delle condizioni e dei limiti dell’autorizzazione, all’uso improprio dell’autorizzazione.
Nella condotta suddetta non è neppure ravvisabile il reato di truffa [in termini, oltre alla citata sentenza Zangheri, cfr. Cassazione, Sezione II, 30.04.2009, Albani, relativa alla ravvisata insussistenza della truffa aggravata ai danni dello Stato in caso di falsificazione materiale del contrassegno assicurativo esposto sul parabrezza dell'autoveicolo].
Infatti, osserva la Corte, l’atto di disposizione patrimoniale [qui, in ipotesi, di carattere omissivo], necessario per fondare la fattispecie della truffa, non potrebbe configurarsi nel fatto che gli organi di polizia addetti al controllo della circolazione stradale, indotti in errore, non abbiano contestato le infrazioni amministrative, né nel fatto che l’ente pubblico [normalmente il comune] destinatario dell’importo delle sanzioni abbia subito l’inadempienza dell’agente: in tal caso, per poter ravvisare il reato, e non le sole violazioni amministrative previste dall’articolo 188 del codice della strada, mancherebbe la necessaria cooperazione della vittima e mancherebbe, quindi, la sequenza, necessaria per la sussistenza della truffa, “artificio/induzione in errore/profitto”, perché il profitto per l’agente discende direttamente dall’elusione al controllo e dal mancato versamento delle somme che sarebbero dovute a titolo delle violazioni amministrative in materia di circolazione stradale, senza che sia ipotizzabile alcuno “spostamento” di risorse economiche dal soggetto in ipotesi “truffato” all’autore della condotta (Corte di Cassazione, Sez. I penale, sentenza 07.06.2011 n. 24454 - commento tratto da www.ipsoa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici vincolati, anche il fotovoltaico sconta l'autorizzazione paesaggistica.
La
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19328, infligge un nuovo colpo al fotovoltaico negando la semplificazione ex art. 28, Allegato 1, del D.P.R. 139/2010 in materia di procedure semplificate e autorizzazione paesaggistica.
La Corte ha, infatti, affermato che per l'installazione di pannelli fotovoltaici su un edificio vincolato è comunque necessario il rilascio della prescritta autorizzazione paesaggistica dato che si tratta "inequivocabilmente" di un intervento idoneo a incidere negativamente sull'assetto paesaggistico.
Molti sono ancora gli ostacoli burocratici e amministrativi che si oppongono allo sviluppo del fotovoltaico in Italia ed in Europa. Di recente, ne ha offerto una nuova accurata “fotografia” il progetto del Consorzio PV LEGAL con la pubblicazione dell’aggiornamento del proprio database, grazie al quale viene offerta una panoramica delle procedure amministrative di 12 paesi europei.
Tale iniziativa è finanziata dal programma Intelligent Energy Europe e vede riunite alcune tra le maggiori associazioni di categoria europee del settore, tra cui Assosolare per l’Italia. Proprio con riferimento al nostro paese, come molti osservatori hanno dichiarato, dopo la chiusura del Terzo Conto energia decisa dal c.d. “Decreto Romani” (D.Lgs. 03.03.2011, n. 28 – G.U. 28.03.2011, n. 71) e l’introduzione del Quarto Conto Energia (D.M. 05.05.2011 – G.U. 12.05.2011, n. 109), in vigore dal 6 maggio e operativo dall'01.06.2011, si sta attraversando una fase di transizione caratterizzata da una grande incertezza apportata da tali provvedimenti i quali, lungi dal rassicurare gli operatori, hanno invece portato ad un vero e proprio deleterio blocco del mercato.
È dopo questa premessa, pertanto, che si potrà comprendere meglio lo stato d’animo di quegli operatori che non avranno accolto di buon grado la recente sentenza n. 19328 del 17.05.2011 della Cassazione.
Nell’occasione la Corte è stata chiamata ad esaminare l’ordinanza del Tribunale di Gorizia con cui è stata rigettata la domanda di riesame di un decreto del G.I.P. di sequestro preventivo di un fabbricato abusivo.
Nella specie, il ricorrente deduceva che le opere realizzate consistevano nell'installazione sul tetto del manufatto di un pannello fotovoltaico di ridotte dimensioni, avvenuta peraltro in sostituzione di pannelli precedentemente installati. Il ricorrente, in pratica, spiegava che l'attività svolta non richiedeva alcuna autorizzazione, dato che a suo dire rientrava in ipotesi di normale manutenzione e che non era comunque modificativa dell'originario assetto del territorio.
La Cassazione ha riconosciuto parzialmente fondato in ricorso con riferimento alla motivazione relativa alla violazione urbanistica che risulta carente, e non già, quindi, per gli aspetti inerenti alla normativa paesaggistica, con riferimento ai quali risulta ineccepibile. È proprio su tali ultimi profili che ci soffermeremo.
La Corte osserva, innanzitutto, che il provvedimento impugnato l'installazione di pannelli fotovoltaici era avvenuta su un immobile integralmente abusivo ed oggetto di diverse ordinanze di demolizione (l'ultima delle quali risalente al 14.11.2007) e che l'installazione dei pannelli sul tetto risultava aver modificato l'aspetto esteriore dell'edificio.
Da ciò il corretto rilievo, da parte dei giudici del riesame, della piena sussistenza del fumus dei reati ipotizzati e del periculum in mora, poiché l’installazione dei pannelli solari appare funzionale all’utilizzazione dell'immobile abusivo (aggravando le conseguenze dell'attività edilizia eseguita senza titolo abilitativo).
Secondo la Corte:
- “l'installazione di pannelli solari è inequivocabilmente un intervento idoneo ad incidere negativamente sull'assetto paesaggistico e richiede l'autorizzazione dell'ente preposto alla tutela del vincolo”;
- la necessità di tale autorizzazione è esplicitamente prevista dal D.P.R. 09.07.2010 n. 139 (“Regolamento recante procedimento semplificato di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, a norma dell'art. 146, comma 9, del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e successive modificazioni”) il quale, nell'Allegato 1, indica tra gli interventi soggetti ad autorizzazione semplificata, al punto 25, i "pannelli solari, termici e fotovoltaici fino ad una superficie di 25 mq", specificando che la disposizione non si applica nelle zone territoriali omogenee “A” di cui all’art. 2 del D.M. n. 1444/1968 ed in quelle ad esse assimilabili e nelle aree vincolate ai sensi dell'art. 136, comma 1, lettere b) e c), del D.Lgs. n. 42/2004 (c.d. “Codice del paeaggio”), ferme restando le diverse e più favorevoli previsioni del D.Lgs. 30.05.2008, n. 115 (“Attuazione della direttiva 2006/32/CE relativa all'efficienza degli usi finali dell'energia e i servizi energetici e abrogazione della direttiva 93/76/CEE”), e dell’art. 1, comma 289, della “finanziaria 2008” (legge 24.12.2007, n. 244);
- la mancanza di autorizzazione è idonea a configurare il reato paesaggistico il quale, come indicato dalla ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, ha natura di reato formale e di pericolo (v., da ultimo, Cass. Sez. III, 22.01.2010 n. 2903).
Come osservato da qualcuno, però, tale interpretazione non sembra tener conto di quanto disposto dall’art. 28, Allegato 1, del D.P.R. 139/2010 che avrebbe consentito l’applicazione delle più favorevoli disposizioni previste dal D.Lgs. 30.05.2008, n. 115. La Cassazione, cioè, avrebbe potuto far ricadere il caso dell’impianto fotovoltaico in questione tra gli interventi di manutenzione ordinaria ex art. 11, comma 3, del D.Lgs. n. 115/2008 (“impianti solari fotovoltaici aderenti o integrati nei tetti degli edifici con la stessa inclinazione e lo stesso orientamento della falda e i cui componenti non modificano la sagoma degli edifici stessi”) i quali, ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera d), del D.P.R. n. 380/2001 possono essere realizzati senza alcun titolo abilitativo ma semplicemente previa comunicazione, ai sensi dell’art. 149, comma 1, del D.Lgs. n. 42/2004: in questa ipotesi, infatti, non ricorrendo un’alterazione dello stato dei luoghi e dell'aspetto esteriore degli edifici non è richiesta l'autorizzazione paesaggistica.
A latere si rammenta che il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ha subito alcune modifiche a seguito della emanazione del D.L. n. 70/2011 (c.d. “decreto Sviluppo”), attualmente in corso di conversione in legge (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.lexambiente.it).

APPALTI FORNITURE: Bando per appalti di forniture. Legittimità dell’aggiudicazione in favore di una ditta che ha offerto attrezzature non corrispondenti alla descrizione degli allegati tecnici del capitolato, nel caso in cui assicurino alla P.A. le prestazioni richieste.
Nel caso in cui il bando di una gara di appalto per l’aggiudicazione di forniture preveda espressamente che, in sede di scrutinio delle offerte tecniche da parte della commissione di gara, "saranno comunque prese in considerazione ed opportunamente valutate proposte di prodotti in grado di garantire le medesime prestazioni delle apparecchiature specificate negli allegati al presente capitolo", è legittima l’aggiudicazione in favore di una ditta che ha offerto attrezzature che, pur non essendo corrispondenti alla descrizione degli allegati tecnici del capitolato, siano comunque idonee ad assicurare alla stazione appaltante le medesime prestazioni dei prodotti specificamente richiesti dalla lex specialis; in tal caso, infatti, il criterio utilizzato dalla P.A. è quello dell’equivalenza delle prestazioni tra i diversi prodotti, con la conseguenza che, in sostanza, la stazione appaltante, pur indicando negli allegati del capitolato una certa tipologia di apparecchiature, non si è preclusa la possibilità di ottenere e valutare proposte di prodotti ulteriori, egualmente idonei ad assicurare alla amministrazione le prestazioni richieste (1).
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(1) Ha osservato la sentenza in rassegna che, nella specie, se non fosse stata apposta nel bando la riserva secondo cui alla commissione di gara era riconosciuta la possibilità di prendere in considerazione e valutare opportunamente proposte di prodotti in grado di garantire le medesime prestazioni delle apparecchiature specificate nella lex specialis, la gara per cui si controverte non avrebbe potuto che essere aggiudicata alla odierna appellante, ma ciò sarebbe avvenuto in violazione dell’art. 68, co. 2, del codice degli appalti, a mente del quale le specifiche tecniche devono consentire pari accesso agli offerenti e non devono comportare la creazioni di ostacoli ingiustificati alla libera concorrenza.
Al riguardo la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sottolineato che nei casi in cui le specifiche tecniche risultino tutte incentrate su un prodotto già confezionato dalle imprese produttrici, il riferimento tecnico deve essere necessariamente temperato attraverso il riferimento al concetto di equivalenza (Cons. Stato, V, 24.07.2007 n. 4138; VI 19.09.2007 n. 4884).
Infatti non possono essere introdotte specifiche tecniche che menzionino prodotti di una fabbricazione o di una provenienza determinata e procedimenti particolari aventi l’effetto di favorire o eliminare talune imprese in assenza del temperamento con criterio di equivalenza
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.05.2011 n. 2905 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Le ferie arretrate vanno risarcite. Termine di prescrizione decennale per i riposi non goduti. L'orientamento della Corte di cassazione: l'indennità sostitutiva non ha natura retributiva.
L'indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura risarcitoria. Il termine di prescrizione è quello di dieci anni.
Questo l'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione con la sentenza 11.05.2011 n. 10341.
La corte ha così deciso di uniformarsi a diverse prese di posizioni precedenti della suprema corte secondo cui «l'indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti ha natura non retributiva ma risarcitoria e, pertanto, è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale, decorrente anche in pendenza del rapporto di lavoro» (Cass. n. 9999/2009, Cass. n. 3298/2002, Cass. n. 13039/1997, Cass. n. 8212/1997, Cass. n. 2231/1997, Cass. n. 8627/1992).
Ciò in quanto tale indennità è pur sempre correlata a un inadempimento contrattuale del datore di lavoro, che obbliga quest'ultimo (quando l'adempimento in forma specifica sia divenuto impossibile) al risarcimento del danno, che comprende, in primo luogo, la retribuzione dovuta per il lavoro prestato nei giorni destinati alle ferie o al riposo (nonché la riparazione di eventuali ulteriori danni subiti dal lavoratore a seguito del mancato ristoro delle energie psicofisiche) e che soggiace alla prescrizione ordinaria decennale prevista dall'art. 2946 c.c., e non già a quella quinquennale ex art. 2947 c.c..
Nonostante sia ormai assodato che il diritto alle ferie è inviolabile, è però possibile che in un determinato periodo (esercizio sociale) maturino periodi feriali che non siano goduti entro la fine del medesimo periodo. E in questo caso si possono presentare due ipotesi:
a) nonostante la chiusura del periodo è ancora possibile per il dipendente godere delle ferie (in quanto per esempio il contratto collettivo stabilisce il termine ultimo per godere delle stesse nei mesi successivi alla chiusura dell'anno solare);
b) è decorso inutilmente anche questo periodo: in questo caso il prestatore di lavoro ha diritto a un risarcimento del danno denominato «indennità sostitutiva delle ferie» che corrisponde, normalmente, alla retribuzione di un giorno di lavoro per ogni giorno di ferie non goduto.
Quindi qualora i lavoratori non godano delle ferie essi hanno conseguentemente diritto alla relativa indennità sostitutiva, ma a questo punto è poi da chiarire: il momento in cui sorge l'obbligo di pagare l'indennità sostitutiva delle ferie; l'eventuale esistenza di un termine prescrizionale.
Per individuare anche questo secondo aspetto occorre in primo luogo accertare il momento in cui sorge il diritto a ricevere il pagamento dell'indennità. Tale momento è teoricamente lo stesso in cui matura tale diritto e, quindi, coincide con il momento in cui il prestatore non ha più la possibilità di godere del periodo feriale (ciò significa che ogni anno si dovrebbero monetizzare le ferie eventualmente non godute e pagare di conseguenza l'indennità). È anche vero che non sempre si assiste a un comportamento come quello descritto. Il differimento del pagamento dell'indennità sostitutiva come spesso avviene nella prassi comporta la necessità di verificare se il diritto debba essere ritenuto prescrivibile ed eventualmente in che tempo.
Il riferimento in tema di prescrizione del diritto alle ferie o, meglio, dell'indennità sostitutiva, è da ritrovare negli artt. 2946 e 2948 del codice civile che rispettivamente sostengono che «salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni» e che «si prescrivono in cinque anni: gli interessi e tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi».
In sostanza il nostro ordinamento prevede due diversi termini prescrizionali ognuno dei quali applicabile a ipotesi differenziate. Il dubbio è quindi relativo a quale delle due ipotesi possa rapportarsi il nostro caso: in sostanza se l'indennità sostitutiva delle ferie sia soggetta alla ordinaria prescrizione decennale o, invece, alla minore prescrizione quinquennale poiché l'indennità sostituiva andrebbe pagata ogni anno.
In un primo tempo si era sostenuto che «i crediti di lavoro relativi alle ferie e ai riposi non goduti non hanno carattere risarcitorio, bensì retributivo, per cui dovendo essere erogati con la stessa periodicità della normale retribuzione, sono assoggettabili alla prescrizione quinquennale» (Cass. Lav. 16.02.1989 n. 927). In sostanza si sosteneva che civilisticamente l'indennità da riconoscere era assimilabile alla retribuzione e quindi doveva ritenersi valido il termine di prescrizione di cinque anni.
Tale orientamento sembra però ormai superato e quello più recente sostiene invece che «l'indennità sostitutiva delle ferie non godute ha natura risarcitoria e non retributiva e, pertanto, è soggetta alla prescrizione ordinaria decennale». E ciò può avere riflessi anche in ambito contabile (articolo ItaliaOggi del 04.07.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio d'uso gratis solo se non cresce il carico urbanistico. L'esenzione degli oneri «segue» la necessità della dotazione di servizi.
Il cambio d'uso non è sempre "gratuito", ma non solo. Il pagamento del contributo di costruzione è uno degli snodi critici della materia edilizia e, nel corso degli anni, una nutrita giurisprudenza ha chiarito gli aspetti più problematici della materia, specie per quel che riguarda la natura giuridica del contributo, le varie ipotesi di esenzione e i presupposti per il suo pagamento in relazione alla tipologia dell'intervento che si intende realizzare.
La definizione di «carico».
A quest'ultimo riguardo il Tar Lombardia-Brescia, Sez. I, con la recente sentenza 03.03.2011 n. 375, affronta una delle questioni di maggior rilievo nella materia, quella del cambio di destinazione d'uso, anche se attuato in assenza di interventi costruttivi, qualora questo determini comunque un aumento del cosiddetto «carico urbanistico».
Questo concetto non è definito dalla legislazione vigente, ma la giurisprudenza della Cassazione l'ha individuato come «l'effetto che viene prodotto dall'insediamento primario come domanda di strutture ed opere collettive, in dipendenza del numero delle persone insediate su di un determinato territorio» (Sezioni unite penali, 20.03.2003, sentenza n. 12878).
In altri termini, poiché ogni insediamento umano è costituito da un elemento primario (abitazioni, uffici, opifici, negozi, eccetera), è necessario proporzionare questo primo elemento a quello cosiddetto secondario o di servizio (opere pubbliche in genere, uffici pubblici, parchi, strade, fognature, elettrificazione, servizio idrico, condutture di erogazione del gas), in relazione al numero degli abitanti insediati e alle caratteristiche delle attività svolte in quello stesso territorio.
Proprio partendo da questa considerazione, i giudici bresciani, richiamando propri precedenti orientamenti (n. 145/2005, n. 646/2004 e n. 34/1998) rilevano come il presupposto imponibile per il pagamento dei contributi di urbanizzazione vada ravvisato nella domanda di una maggiore dotazione di servizi nel l'area di riferimento (rete viaria, fognature eccetera), che sia indotta dalla destinazione d'uso concretamente impressa al manufatto. Questo perché una diversa utilizzazione dell'edificio rispetto a quella stabilita nel l'originario titolo abilitativo può determinare una variazione quantitativa e qualitativa del carico urbanistico.
Il pagamento degli oneri si giustifica quindi con la necessità di ridistribuire –in modo equo per la comunità– i costi sociali delle opere di urbanizzazione, facendoli gravare sugli interessati che beneficiano delle utilità derivanti dalla loro presenza. Il contributo di urbanizzazione infatti, secondo il Consiglio di Stato (sezione V, n. 2359/2009 e n. 2258/2006), pur non avendo natura tributaria, costituisce comunque «un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore, connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all'insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae».
Il mutamento rilevante.
Da questi elementi la sentenza del Tar Lombardia fa derivare che il presupposto imponibile si verifica in tutti i casi di «mutamento rilevante» della destinazione d'uso dalla quale derivi un maggior carico urbanistico, con conseguente necessità per l'interessato di pagare la differenza tra gli oneri di urbanizzazione già corrisposti per la destinazione d'uso originaria e quelli, se più elevati, dovuti per la nuova destinazione impressa al l'immobile (ad esempio, la trasformazione di un albergo in un edificio residenziale).
Quanto al concetto di «mutamento rilevante», la pronuncia chiarisce un elemento importante, specificando che lo stesso sussiste in tutti i casi di «passaggio tra due categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, qualificate sotto il profilo della differenza del regime contributivo in ragione di diversi carichi urbanistici, cosicché la circostanza che le modifiche di destinazione d'uso senza opere non sono soggette a preventiva concessione o autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l'esenzione dagli oneri di urbanizzazione e quindi la gratuità dell'operazione».
Di conseguenza, ciò che assume rilievo ai fini del pagamento non è la necessità o meno di un titolo abilitativo per l'attività di trasformazione edilizia che si vuole realizzare (permesso di costruire o Dia): il presupposto impositivo si può verificare anche nel caso di mutamento di destinazione d'uso del fabbricato di tipo «funzionale», cioè senza alcuna esecuzione di opere (si veda anche anche Tar Campania-Napoli n. 6271/2008, citata nella scheda a destra)  (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: L'ente paga la tassa per l'Albo degli avvocati dipendenti.
LUNGA QUERELLE - Anche per la Cassazione l'onere è dell'amministrazione. Per l'Aran e la Corte dei conti l'interesse e, quindi, la spesa sono invece del professionista.

Ancora un punto segnato a favore degli avvocati dipendenti degli enti pubblici: la tassa annuale di iscrizione all'Albo deve restare a carico dell'amministrazione di appartenenza.
A stabilirlo è la Sez. I del Consiglio di Stato, nel parere 23.02.2011 n. 678/2010, richiesto dal dipartimento degli Affari interni e territoriali del ministero dell'Interno, per decidere in ordine a un ricorso straordinario al Capo dello Stato.
La materia del contendere è rappresentata dalla delibera adottata da una giunta comunale, con la quale è stata abrogata la possibilità di assumere, a carico del bilancio comunale, la tassa annuale. Con decreto del 31 maggio 2011, pubblicato nei giorni scorsi, il Presidente della Repubblica ha accolto il ricorso proposto dagli avvocati pubblici contro l'abrogazione. «Il Dpr utilizza il buon senso prima ancora del diritto», sostiene Antonella Trentini, vicepresidente dell'Unione nazionale avvocati enti pubblici.
La materia è stata oggetto di vari interventi interpretativi. Dapprima, l'Aran, con parere 05.06.2002 n. V6.27, ha sostenuto che l'avvocato dipendente di una pubblica amministrazione, pur operando esclusivamente a favore di questa, ha un interesse proprio a mantenere l'iscrizione all'albo e, quindi, non è possibile procedere al rimborso della relativa tassa.
Nello stesso senso si è espressa la Corte dei conti, sin dalla sezione autonomie, con parere 07.06.2007 n. 6935/C21, seguite, poi, da una serie di delibere, univoche, delle sezioni regionali. I giudici contabili affermano che, pur se l'iscrizione rappresenta un requisito per l'accesso al posto, la stessa è mantenuta nell'esclusivo interesse dell'ente e procura, al dipendente avvocato, i benefici economici riconosciuti da norme di legge e contrattuali, in caso di soccombenza della controparte.
Osserva ancora la Corte dei conti che non è presente, nel nostro panorama legislativo o contrattuale, una norma che autorizzi l'ente ad assumere, a proprio carico, l'onere della tassa di iscrizione all'albo: rappresentando, quest'ultima, un requisito per l'assunzione del dipendente, è lo stesso lavoratore che ne deve sopportare la spesa.
Ma, analogamente a quanto si registra a proposito dell'Irap, la giurisprudenza dà ragione agli avvocati, a scapito della prassi. E così il Consiglio di Stato si pone nella linea opposta rispetto ai pareri sin qui esaminati. Partendo dal presupposto che sussiste un rapporto di esclusività che lega il dipendente e l'ente pubblico e che la prestazione resa assume carattere di continuità, giunge a conclusione che la tassa in questione deve rimanere a carico dell'amministrazione di appartenenza, quale unica beneficiaria dei risultati ottenuti dall'avvocato pubblico. Questo in modo del tutto analogo a quanto prevede l'art. 1719 Codice civile, in materia di mandato. Si devono, ovviamente, escludere i casi in cui all'avvocato sia permesso assumere ulteriori incarichi rispetto a quelli conferiti dal datore di lavoro.
Il Consiglio di Stato ricorda che nella medesima direzione si era espressa anche la Corte di cassazione, con la sentenza n. 3928/2007, la quale, ribadendo il principio della prestazione resa nell'esclusivo interesse dell'amministrazione pubblica, ha osservato come la tassa di iscrizione non può essere compensata con l'indennità di toga, in quanto quest'ultima ha carattere retributivo, e non può neppure essere considerata come costo sostenuto nell'interesse della persona, al pari delle spese universitarie.
È vero che tuttora vige il divieto di estensione del giudicato, ma non si può nascondere che i massimi consessi si sono espressi in maniera univoca e, quindi, sarà improbabile, in sede di ricorso, una diversa soluzione al problema (articolo Il Sole 24 Ore del 04.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

URBANISTICA: Il ricorso alla tecnica perequativa non appare affetto da vizi di legittimità, non essendo di per sé vietato dalla legge e non presentando aspetti di illogicità o irrazionalità, essendo espressione di un approccio diverso al problema dell’organizzazione del territorio.
Il ricorso alla cd. urbanistica perequativa è infatti dettato dalla volontà di operare in modo da ridistribuire in maniera equilibrata i vantaggi economici dell’edificabilità impressa alle aree, dotandole della medesima potenzialità edificatoria.
Tale modello è stato ritenuto compatibile con i valori del nostro ordinamento e consente, superando il modello tradizionale della ripartizione del territorio in zone, ognuna con la propria destinazione, di conseguire maggiori utilità, sia per i singoli proprietari dei terreni sia per l’amministrazione pubblica e con essa per l’intera collettività
.
Non può ritenersi illegittima la decisione dell’amministrazione di dare corso, all’interno del comparto, alla realizzazione delle opere di pubblico interesse, comunque ivi previste, proprio alla luce delle difficoltà riscontrate in ordine all’approvazione dello strumento attuativo.
La scelta, poi, di non procedere secondo lo schema tradizionale dell’espropriazione è frutto di un’attività di pianificazione senza dubbio nuova, che si propone di raggiungere gli obiettivi di riqualificazione urbanistica di ampie zone del territorio comunale senza ricorrere alla procedura espropriativa, previa imposizione dei vincoli di destinazione, e che quindi trova la sua ragione e convenienza nell’evitare le lungaggini ed il peso economico del procedimento espropriativo ordinario.
L’impiego di tale tecnica consente infatti di addivenire al conseguimento degli obbiettivi di pubblico interesse senza un’eccessiva penalizzazione degli interessi privati, coinvolgendo i proprietari dei terreni in precisi obiettivi di sviluppo, evitando il ricorso alla imposizione dei vincoli preordinati alla futura espropriazione, generatrice di contenziosi, senza implicare oneri per la finanza pubblica.
Premesso che in questa sede non è consentito sindacare le scelte operate dall’amministrazione, in quanto esse costituiscono espressione di un apprezzamento di merito, sottratto in generale al sindacato di legittimità a meno che non risultino evidenti illogicità o abnormità, né sono ravvisabili nella fattispecie posizioni qualificate, meritevoli di particolari attenzioni e garanzie derivanti da precedenti destinazioni, coma già osservato dal Tribunale sul punto (cfr. TAR Veneto, n. 1504/2009), “…il ricorso alla tecnica perequativa non appare affetto da vizi di legittimità, non essendo di per sé vietato dalla legge e non presentando aspetti di illogicità o irrazionalità, essendo espressione di un approccio diverso al problema dell’organizzazione del territorio.
Il ricorso alla cd. urbanistica perequativa è infatti dettato dalla volontà di operare in modo da ridistribuire in maniera equilibrata i vantaggi economici dell’edificabilità impressa alle aree, dotandole della medesima potenzialità edificatoria.
Tale modello è stato ritenuto compatibile con i valori del nostro ordinamento e consente, superando il modello tradizionale della ripartizione del territorio in zone, ognuna con la propria destinazione, di conseguire maggiori utilità, sia per i singoli proprietari dei terreni sia per l’amministrazione pubblica e con essa per l’intera collettività
”.
Invero, lo strumento della perequazione, sebbene non contemplato a livello di legislazione nazionale, è stato progressivamente introdotto dalle legislazioni regionali, cui è affidata la disciplina del territorio (anche dalla stessa legge regionale veneta n. 11/2004, art. 35) e persegue l’obiettivo di eliminare le disuguaglianze create dalla funzione pianificatoria, in particolare dalla zonizzazione e dalla localizzazione diretta degli standards, quanto meno all’interno di ambiti di trasformazione, creando le condizioni necessarie per agevolare l’accordo fra i privati proprietari delle aree incluse in essi e promuovere l’iniziativa privata.
Peraltro, neppure la difesa istante giunge a contestare in sé la scelta di utilizzare la tecnica perequativa al fine di addivenire ad una disciplina del territorio e della sua riqualificazione, contestando semmai le difficoltà che detta scelta può presentare all’atto pratico nell’ipotesi in cui, come accade nel caso della ricorrente, non si riesca a dare corso allo strumento attuativo.
Invero, ciò che danneggia parte ricorrente non è tanto la previsione contenuta nell’art. 38 NTA nella parte in cui ammette la possibilità per l’amministrazione, al fine di dare corso alla programmazione delle opere pubbliche, di dare corso agli interventi in via diretta, senza attendere la formazione del PUA previsto, né la successiva previsione contenuta nell’ultima parte della norma che testualmente dispone: “In tal caso, quanto sopra avrà luogo senza pregiudizio alla modalità di compensazione e perequazione da osservare in sede di SUA esteso all’intero (o al restante) ambito. Conseguentemente si stabilisce che ogni proprietà conserva il diritto ad una cubatura proporzionale all’estensione della sua area, indipendentemente dalle previsioni dello strumento urbanistico generale, e sopporta, nella medesima proporzione, gli oneri dell’iniziativa”.
Quindi, ex se la previsione contestata non è pregiudizievole per la ricorrente, individuando uno schema procedimentale diverso da quello ordinario (previsione dell’opera pubblica e relativa localizzazione –imposizione del vincolo preordinato all’espropriazione –espropriazione del bene– realizzazione dell’opera pubblica), contemplando la possibilità di mantenere la cubatura spettante proporzionalmente ad ogni proprietario del comparto e di recuperarla, quanto meno in termini economici, in altra parte dell’ambito.
Ciò che invece costituisce fonte di danno per la ricorrente è la difficoltà intrinseca di dare concreta attuazione agli accordi con gli altri proprietari del comparto al fine di addivenire all’approvazione del PUA e quindi dare concreta realizzazione alle capacità di sfruttamento edificatorio delle aree (quello che parte ricorrente definisce l’“atterraggio” sulla restante parte del comparto della cubatura ad essa spettante).
Ma tale difficoltà non può costituire ex se causa di illegittimità della previsione contenuta nelle NTA e quindi della scelta comunale di procedere secondo la tecnica perequativa, né dell’avvenuto computo, in sede di acquisizione dei terreni sui quali andranno realizzate le opere pubbliche (strada ed asilo nido), del mero valore agricolo degli stessi, senza tenere conto della cubatura ad essi riferibile, proprio in quanto teoricamente recuperabile dai proprietari (che diversamente, laddove potessero poi recuperare su altra parte del compendio la cubatura non utilizzata nel terreno di proprietà, godrebbero di un ingiustificato arricchimento).
Si tratterà, semmai, laddove gli accordi fra i componenti del comparto non dovessero giungere a buon fine, così rendendo di per sé inattuabile la previsione urbanistica, di valutare le singole responsabilità in ordine ai danni derivanti alla ricorrente dalla mancata conclusione degli accordi di comparto ovvero potrà essere valutata la possibilità di un intervento risolutivo d’autorità da parte della stessa amministrazione comunale (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 10.01.2011 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILe circolari amministrative sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale. “e consegue che tali atti non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione.
Inoltre, è evidente che tali atti di indirizzo interpretativo non sono vincolanti per i soggetti estranei all'amministrazione, mentre, per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, potendo essere disapplicate qualora siano contra legem.
Come esattamente rilevato dal TAR, le circolari amministrative sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale. “Ne consegue che tali atti non rivestono una rilevanza determinante nella genesi dei provvedimenti che ne fanno applicazione”.
Inoltre, è evidente che tali atti di indirizzo interpretativo non sono vincolanti per i soggetti estranei all'amministrazione, mentre, per gli organi destinatari esse sono vincolanti solo se legittime, potendo essere disapplicate qualora siano contra legem (C. Stato, sez. IV, 27-11-2000, n. 6299) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15.10.2010 n. 7521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vincolo idrogeologico - Mancata iscrizione del corso d’acqua nell’elenco delle acque pubbliche - Irrilevanza - Fattispecie: fossato di convogliamento delle acque piovane - D.P.R. n. 238/1999.
Ai fini del vincolo idrogeologico è irrilevante sia la mancata iscrizione del corso d’acqua negli appositi elenchi delle acque pubbliche, stante il carattere dichiarativo e non costitutivo di detti elenchi (cfr. l’art. 1 della legge 05.01.1994, n. 36 e l’art. 1, comma 4, del D.P.R. n. 238/1999), sia la circostanza che manchi una sorgente a monte e che, pertanto, abitualmente non vi scorra acqua: anche a voler prescindere dal chiaro disposto dell’art. 93 R.D. 25.07.1904, n. 523, è infatti evidente che anche un fossato creatosi naturalmente tra due rilievi collinari, convogliando le acque meteoriche, può determinare il dilavamento dei terreni, mettendone in pericolo la stabilità e turbando il regime delle acque superficiali (art. 1 R.D. 30.12.1923, n. 3267).
In tal senso è assai significativo che l’art. 1, comma 2, del D.P.R. 18.02.1999, n. 238 definisca pubbliche anche le acque piovane, non appena convogliate in un corso d’acqua (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 05.07.2010 n. 5564 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), legge 28.01.1977 n. 10, devono concorrere due requisiti per usufruire dello speciale regime di gratuità della concessione edilizia e, precisamente, un requisito di carattere oggettivo, attinente al carattere pubblico o comunque di interesse generale delle opere da realizzare, e un requisito di carattere soggettivo, in quanto le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente ovvero da soggetti anche privati che non agiscano per scopo di lucro ovvero abbiano un legame istituzionale con l’azione dell’Amministrazione volta alla cura di interessi pubblici; detta situazione non ricorre nel caso di sottoscrizione di un apposito atto di vincolo di destinazione ad uso pubblico di un impianto sportivo con annessa piscina, trattandosi pur sempre di opere di proprietà privata di cui il realizzatore ha assunto l’impegno di assicurarne l’uso da parte del pubblico.
Un immobile destinato a casa di cura privata è equiparabile ad un’attività industriale ex art. 2195 codice civile, trattandosi di un’attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari. Pertanto, sconta solamente il pagamento degli oo.uu. e non anche del costo di costruzione.

Ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c d.p.r. n. 380/2001) il contributo di costruzione non è dovuto per opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti.
Non ricorre nella presente fattispecie l’ipotesi dell’esonero totale di cui al citato art. 17, comma 3, lett. c), d.p.r. n. 380/2001 poiché la società ricorrente (soggetto privato), seppure abbia manifestato l’intenzione di realizzare un’opera di interesse pubblico (i.e. residenza sanitaria assistenziale per anziani e persone a mobilità ridotta, casa di riposo e residenza protetta), non risulta che agisca per conto della pubblica amministrazione, né che abbia un collegamento giuridicamente rilevante con la stessa P.A. (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. V, 10.07.2000, n. 3860), il che unicamente le consentirebbe di rientrare nell’ipotesi di esonero totale di cui all’art. 9, comma 1, lett. f), legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c), d.p.r. n. 380/2001).
Invero secondo quanto affermato di recente da Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2009, n. 3359 “Ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), legge 28.01.1977 n. 10, devono concorrere due requisiti per usufruire dello speciale regime di gratuità della concessione edilizia e, precisamente, un requisito di carattere oggettivo, attinente al carattere pubblico o comunque di interesse generale delle opere da realizzare, e un requisito di carattere soggettivo, in quanto le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente ovvero da soggetti anche privati che non agiscano per scopo di lucro ovvero abbiano un legame istituzionale con l’azione dell’Amministrazione volta alla cura di interessi pubblici; detta situazione non ricorre nel caso di sottoscrizione di un apposito atto di vincolo di destinazione ad uso pubblico di un impianto sportivo con annessa piscina, trattandosi pur sempre di opere di proprietà privata di cui il realizzatore ha assunto l’impegno di assicurarne l’uso da parte del pubblico.”.
La ricorrente non fornisce quindi alcuna prova in ordine alla concorrenza dei due requisiti predetti (oggettivo e soggettivo) pur essendo suo onere.
Ne consegue il rigetto del ricorso introduttivo e del ricorso per motivi aggiunti relativamente alla censura fondata sulla asserita violazione dell’art. 9, comma 1, lett. f legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c d.p.r. n. 380/2001).
Tuttavia sono integrati, nel caso di specie, gli estremi dell’ipotesi di cui all’art. 10, comma 1 legge n. 10/1977 (ora art. 19, comma 1 d.p.r. n. 380/2001) di parziale esenzione dal contributo urbanistico venendo in rilievo una concessione edilizia relativa ad un immobile destinato a casa di cura privata che, secondo quanto affermato da Cons. Stato n. 46/1992, è equiparabile ad un’attività industriale ex art. 2195 codice civile trattandosi di un’attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari.
Invero ai sensi dell’art. 10, comma 1 legge n. 10/1977 “La concessione relativa a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari all’incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. L’incidenza di tali opere è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base a parametri che la regione definisce con i criteri di cui alle lettere a) e b) del precedente art. 5, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva.”.
Attualmente in base all’art. 19, comma 1 d.p.r. n. 380/2001 “Il permesso di costruire relativo a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi comporta la corresponsione di un contributo pari alla incidenza delle opere di urbanizzazione, di quelle necessarie al trattamento e allo smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e gassosi e di quelle necessarie alla sistemazione dei luoghi ove ne siano alterate le caratteristiche. La incidenza di tali opere è stabilita con deliberazione del consiglio comunale in base a parametri che la regione definisce con i criteri di cui al comma 4, lettere a) e b) dell’articolo 16, nonché in relazione ai tipi di attività produttiva.”.
Cons. Stato, Sez. V, 16.01.1992, n. 46 ha affermato in una fattispecie analoga alla presente che “Alla concessione edilizia relativa ad un immobile destinato a casa di cura privata spetta la parziale esenzione dal contributo urbanistico, prevista dall’art. 10 legge 28.01.1977 n. 10 per le concessioni relative a costruzioni o impianti destinati ad attività industriali o artigianali dirette alla trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi; dal momento che l’attività imprenditoriale diretta alla prestazione di servizi sanitari è a pieno titolo un’attività industriale, giusta la definizione di "attività industriale" che si ricava dall’art. 2195 c.c.” (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 01.04.2010 n. 1246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per accertare se sussistono o meno i presupposti per la decadenza di una concessione edilizia, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all’evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla realizzazione dell'opera assentita.
Il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di costruzione non sono di norma sufficienti a manifestare una reale volontà di esecuzione del manufatto (occorrendo, a tal fine, anche la messa a punto dell’organizzazione del cantiere e altri indizi che dimostrino il concreto proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione).

La giurisprudenza amministrativa, pronunciandosi in ordine a fattispecie analoghe a quella ora all’esame, ha già chiarito che per accertare se sussistono o meno i presupposti per la decadenza di una concessione edilizia, l’effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non via generale ed astratta, ma con specifico riferimento all’entità ed alle dimensioni dell’intervento edificatorio programmato ed autorizzato, all’evidente scopo di evitare che il termine prescritto possa essere eluso con ricorso a lavori fittizi e simbolici e non oggettivamente significativi di un effettivo intendimento del titolare della concessione di procedere alla realizzazione dell'opera assentita.
Il semplice sbancamento del terreno e la predisposizione degli strumenti e materiali di costruzione non sono di norma sufficienti a manifestare una reale volontà di esecuzione del manufatto (occorrendo, a tal fine, anche la messa a punto dell’organizzazione del cantiere e altri indizi che dimostrino il concreto proposito di proseguire i lavori sino alla loro ultimazione), ma possono, tuttavia, verificarsi casi particolari in cui il solo sbancamento, per interessare un’area di vaste proporzioni, costituisce sicuro indizio di un animus aedificandi e configura quindi valido avvio dei lavori, impedendo il verificarsi della decadenza della concessione;
Nel caso di specie le opere eseguite, con specifico riferimento a quanto dichiarato e documentato con il gravame, sembrano di modesta entità in relazione all’intervento programmato, ove si consideri che con il permesso in questione è stata autorizzata la costruzione di un edificio ad uso residenziale dell’altezza di oltre quindici metri e della volumetria di oltre mc. 3.700, mentre lo scavo realizzato appare di modeste dimensioni e di costo ridotto in relazione all’impegno finanziario richiesto per realizzare l’opera progettata (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 08.03.2010 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non sussiste una pregiudiziale incompatibilità tra la destinazione agricola di un'area e la sua utilizzazione a parcheggio.
La destinazione a zona agricola di un'area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici, non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l'edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna.

Non sussiste una pregiudiziale incompatibilità tra la destinazione agricola di un'area e la sua utilizzazione a parcheggio: la giurisprudenza amministrativa, infatti, ha avuto occasione di chiarire che la destinazione a zona agricola di un'area, salva la previsione di particolari vincoli ambientali o paesistici, non impone un obbligo specifico di utilizzazione effettiva in tal senso, avendo solo lo scopo di evitare insediamenti residenziali; essa, pertanto, non costituisce ostacolo alla installazione di opere che non riguardino l'edilizia residenziale e che, per contro, si rivelino per ovvi motivi incompatibili con zone abitate e quindi necessariamente da realizzare in aperta campagna (cfr., CdS, Sez. V, 15.06.2001 n. 3178; TAR Veneto, Sez. II, 31.10.2000 n. 1952 e Sez. III, 18.03.2002 n. 1108) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 15.02.2010 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI: Per attribuire una nuova denominazione ad una strada, il comune, prima di procedere alla variazione della denominazione esistente, deve previamente chiedere ed ottenere sia l'autorizzazione del Ministero dei beni culturali, trattandosi di mutazione della denominazione già sussistente, sia l'autorizzazione prefettizia, ove la scelta ricada sul nominativo di un personaggio contemporaneo.
Il principio si applica anche alle piazze comunali, posto che l’art. 1 del R.D.L. n. 1158/1923 stabilisce che “le Amministrazioni municipali, qualora intendano mutare il nome di qualcuna delle vecchie strade o piazze comunali, dovranno chiedere ed ottenere preventivamente l'approvazione del Ministro dell'istruzione pubblica per il tramite delle competenti Soprintendenze ai monumenti”.

Per attribuire una nuova denominazione ad una strada, il comune, prima di procedere alla variazione della denominazione esistente, deve previamente chiedere ed ottenere sia l'autorizzazione del Ministero dei beni culturali, ai sensi dell'art. 1 r.d.l. 10.05.1923, n. 1158, convertito nella l. 17.04.1925, n. 473, trattandosi di mutazione della denominazione già sussistente, sia l'autorizzazione prefettizia di cui all'art. 1 l. 23.06.1927, n. 1188, ove la scelta ricada sul nominativo di un personaggio contemporaneo (TAR Lazio Sez. II, 07-03-1983, n. 199).
Il principio si applica anche alle piazze comunali, posto che l’invocato art. 1 del R.D.L. n. 1158/1923, così come convertito in L. n. 473/1925, stabilisce che “le Amministrazioni municipali, qualora intendano mutare il nome di qualcuna delle vecchie strade o piazze comunali, dovranno chiedere ed ottenere preventivamente l'approvazione del Ministro dell'istruzione pubblica per il tramite delle competenti Soprintendenze ai monumenti” (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.02.2010 n. 171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa caratteristica dell’ATI mista è quella di combinare il modello dell’ATI verticale con quello dell’ATI orizzontale, sicché all’interno della prima sono possibili ulteriori sub-raggruppamenti orizzontali che frazionino tra loro o la prestazione della mandataria o la prestazione della mandante.
Proprio la struttura dell’ATI mista consente il sub-raggruppamento orizzontale e quello verticale, purché nell’ambito della prestazione principale resti ferma la regola del solo raggruppamento orizzontale.

La caratteristica dell’ATI mista è quella di combinare il modello dell’ATI verticale con quello dell’ATI orizzontale, sicché all’interno della prima sono possibili ulteriori sub-raggruppamenti orizzontali che frazionino tra loro o la prestazione della mandataria (sicché si avrà un’ATI orizzontale per la prestazione principale e una verticale che separa la prestazione secondaria) o la prestazione della mandante (che svolge la prestazione “secondaria”, separabile in ATI verticale, ma che a sua volta può essere un’ATI orizzontale che nel complesso svolge la prestazione secondaria). In pratica, ferma la massima flessibilità che consente la combinazione dei due modelli, resta dovuto il rispetto del limite di legge per cui il segmento di ATI verticale, che realizza lo scorporo, non può coinvolgere la prestazione principale (sul punto particolarmente chiara e con considerazioni tuttora valide Cons. St. sez. IV 09.07.1998 n. 702).
Come già evidenziato in termini generali, proprio la struttura dell’ATI mista consente il sub-raggruppamento orizzontale e quello verticale, purché nell’ambito della prestazione principale resti ferma la regola del solo raggruppamento orizzontale. Ciò che la legge vieta è in definitiva che tutto ciò che la stazione appaltante ha qualificato principale venga svolto in esclusiva da una mandante. D’altro canto sulle prestazioni eseguite in ATI orizzontale sono obbligate in solido tutte le componenti dell’ATI e vi è comunque (in virtù della suddivisione pro quota e non per tipo) anche una effettiva partecipazione all’attività della mandataria, interlocutore diretto della stazione appaltante; per contro nell’ATI verticale sono necessariamente responsabili in solido verso la stazione appaltante della parte di servizio scorporata solo la mandante verticale e la mandataria, che risponde dell’attività della mandante ma dichiaratamente non vi prende in alcun modo parte. L’effetto che il divieto di scorporo vuole dunque evitare è duplice: l’esonero di responsabilità delle restanti mandanti oltre che la responsabilità in assenza di partecipazione all’attività da parte della mandataria (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 29.01.2010 n. 454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRisultano inammissibili, per intervenuta acquiescenza, le censure proposte con il ricorso giurisdizionale da un partecipante ad una gara a trattativa privata, nel caso in cui il ricorrente, da un lato, abbia posto a base di tali censure la contestazione dell’utilizzo di un siffatto strumento di selezione del contraente, per difetto di condizioni legittimanti la scelta del tipo di gara, e, dall’altro, lo stesso partecipante dichiari di avere presentato domanda di partecipazione alla gara in questione, evidenziando, chiaramente ed univocamente, la volontà di accettare la tipologia di gara prescelta dall’Amministrazione procedente.
Il sindacato giurisdizionale esperibile in ordine agli apprezzamenti tecnico-discrezionali effettuati dalla Commissione di gara in sede di valutazione comparativa delle offerte non può che limitarsi alla verifica della sussistenza o meno di indici sintomatici di non corretto esercizio del potere discrezionale, sub specie di difetto di motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza, risultano inammissibili, per intervenuta acquiescenza, le censure proposte con il ricorso giurisdizionale da un partecipante ad una gara a trattativa privata, nel caso in cui il ricorrente, da un lato, abbia posto a base di tali censure la contestazione dell’utilizzo di un siffatto strumento di selezione del contraente, per difetto di condizioni legittimanti la scelta del tipo di gara, e, dall’altro, lo stesso partecipante dichiari di avere presentato domanda di partecipazione alla gara in questione, evidenziando, chiaramente ed univocamente, la volontà di accettare la tipologia di gara prescelta dall’Amministrazione procedente (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 09.10.2003, n. 6072).
Il sindacato giurisdizionale esperibile in ordine agli apprezzamenti tecnico-discrezionali effettuati dalla Commissione di gara in sede di valutazione comparativa delle offerte non può che limitarsi alla verifica della sussistenza o meno di indici sintomatici di non corretto esercizio del potere discrezionale, sub specie di difetto di motivazione, illogicità manifesta, erroneità dei presupposti di fatto, incoerenza della procedura valutativa e dei relativi esiti (C.d.S., Sez. V, 12.10.2004, n. 6566) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 19.11.2008 n. 5442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: Se è rimessa ai dirigenti la responsabilità delle procedure d'appalto ne segue che ai medesimi compete pure il correlativo potere di approvazione per quanto attiene alla verifica tecnica e di legittimità degli atti di gara, a questa riconnettendosi quel perfezionamento dell’iter procedimentale al quale solo può ricollegarsi la responsabilità piena del funzionario.
L’ordinamento non prevede alcuna incompatibilità a carico del funzionario che, in ragione dell’ufficio ricoperto, svolga le funzioni di Presidente della Commissione aggiudicatrice dell’appalto e sia successivamente competente ad approvare gli atti di gara.
L’aggiudicazione di una gara pubblica è un atto di gestione. Come tale, secondo la ripartizione delle attribuzioni definita dal d.lgs. n. 267/2000, essa è riservata alla competenza del dirigente del settore e non degli organi elettivi o politici dell’Ente locale, ai quali ultimi viene riservata l’attività di indirizzo, che consiste nella fissazione delle linee generali da seguire, da parte della P.A., e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione.

La giurisprudenza ha precisato più volte come l’art. 6, comma 2, della l. n. 127/1997, nel novellare l’art. 51 della l. n. 142/1990, abbia rimesso ai dirigenti “la responsabilità delle procedure d’appalto” (oltre alla presidenza delle relative Commissioni valutatrici) e la stipulazione dei contratti (nello stesso senso è ora l’art. 107, comma 3, lett. a), b) e c) del d.lgs. n. 267/2000). Orbene, se è rimessa ai dirigenti la responsabilità di tali procedure, ne segue che ai medesimi compete pure il correlativo potere di approvazione per quanto attiene alla verifica tecnica e di legittimità degli atti di gara, a questa riconnettendosi quel perfezionamento dell’iter procedimentale al quale solo può ricollegarsi la responsabilità piena del funzionario (C.d.S., Sez. V, 26.09.2002, n. 4938; id., 06.05.2002, n. 2408; id., 12.04.2001, n. 2293).
Ne discende che l’ordinamento non prevede alcuna incompatibilità a carico del funzionario che, in ragione dell’ufficio ricoperto, svolga le funzioni di Presidente della Commissione aggiudicatrice dell’appalto e sia successivamente competente ad approvare gli atti di gara (C.d.S., Sez. V, n. 4938/2002, cit.).
L’aggiudicazione di una gara pubblica è un atto di gestione. Come tale, secondo la ripartizione delle attribuzioni definita dal d.lgs. n. 267/2000, essa è riservata alla competenza del dirigente del settore e non degli organi elettivi o politici dell’Ente locale, ai quali ultimi viene riservata l’attività di indirizzo, che consiste nella fissazione delle linee generali da seguire, da parte della P.A., e degli scopi da perseguire con l’attività di gestione (C.d.S., Sez. V, 29.08.2006, n. 5047)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 19.11.2008 n. 5442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il contributo di urbanizzazione ex art. 11, comma 2, della L. 28.01.1977 n. 10 deve essere determinato al momento del rilascio della concessione ed è quindi a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione della entità del contributo facendo perciò applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del provvedimento concessorio.
Sussiste la irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e/o modalità di calcolo per gli oneri di urbanizzazione ribadendosi l’integrale applicazione del principio tempus regit actum e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute (anche se di poco) rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia.

Costituisce orientamento consolidato della giurisprudenza la affermazione che il contributo di urbanizzazione ex art. 11, secondo comma, della L. 28.01.1977 n. 10 deve essere determinato al momento del rilascio della concessione ed è quindi a tale momento che occorre avere riguardo per la determinazione della entità del contributo facendo perciò applicazione della normativa vigente al momento del rilascio del provvedimento concessorio (Sez. V 25.10.1993 n. 1071, 12.07.1996 n. 850, 06.12.1999 n. 2058, Sez. IV 19.07.2004 n. 5197).
Da tale affermazione di principio è stato tratto il corollario della irretroattività delle determinazioni comunali a carattere regolamentare con cui vengono stabiliti i criteri generali e le nuove tariffe e/o modalità di calcolo per gli oneri di urbanizzazione ribadendosi l’integrale applicazione del principio tempus regit actum e, quindi, la irrilevanza ed ininfluenza di disposizioni tariffarie sopravvenute (anche se di poco) rispetto al momento del rilascio della concessione edilizia (C.G.A. 07.08.2003 n. 289) (CGARS, sentenza 27.05.2008 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Corso d'acqua - Esecuzione di opere di difese spondili - Testo unico delle leggi sulle opere idrauliche R.D. 523/1904 - Divieti di cui all’art. 96, c. 1, lett. f) e lett. G) - Reato di pericolo e di danno - Differenza - Accertamento - Configurabilità - Fondamento.
Ha natura di reato di pericolo, il reato di cui all'art. 96, lett. f), del R.D. 25.07.1904 n. 523 che vieta “le piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche, gli scavi e lo smovimento del terreno a distanza dal piede degli argini e loro accessori minore di quella stabilita dalle discipline vigenti nelle diverse località, ed in mancanza di tali discipline, a distanza minore di metri quattro per le piantagioni e smovimento del terreno e di metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sicché, per la sussistenza della fattispecie contravvenzionale, essendo puniti comportamenti ritenuti dal legislatore potenzialmente lesivi dell'assetto idrogeologico del territorio e, quindi, del corrispondente interesse pubblico, non occorre l'ulteriore verifica che l'azione illecita abbia recato nocumento all'alveo del corso d'acqua o alle sue sponde. Mentre, configura un'ipotesi di reato di danno, ai sensi del R.D. 25.07.1904, n. 523, art. 96, comma 1, lett. g), del cui disposto è sanzionata l'esecuzione di "qualunque opera o fatto che possa alterare lo stato la forma, le dimensioni, la resistenza e la convenienza all'uso, a cui sono destinati gli argini e loro accessori, e manufatti attinenti".
In questi casi, per la configurazione del reato, sussiste la necessità di un concreto accertamento del danno arrecato agli argini e loro accessori, dovendosi escludere la sussistenza del reato ogniqualvolta l'esecuzione delle opere non abbia alterato in alcun modo il regime del corso d'acqua (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.11.2006 n. 36502 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acqua - Fiumi e corsi d’acqua - Art. 96, lett. f), R.D. 523/1904 - Divieto di costruzione sull’argine - Ratio.
Il divieto di costruzione nella fascia di 10 metri dagli argini dei corsi d’acqua pubblici -di cui all’art. 96, lett. f, del R.D. 25.7.04 n. 523- tende ad evitare che la realizzazione di manufatti alteri lo stato attuale degli elementi e delle pertinenza idriche, sia per conservarne la sagoma effettiva, sia per permettere il necessario controllo dell’andamento del bacino, e ciò sia nel suo assetto sia nel naturale deflusso delle acque.
Inoltre la mancanza di fabbricati nei pressi dei corsi d’acqua è utile a consentire una tempestiva e libera effettuazione dei lavori di manutenzione e di riparazione che possono occorrere sulle opere idrauliche esistenti (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 01.03.2005 n. 304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIE' legittimo l'operato di un comune che, dopo aver espletato la gara del servizio nettezza urbana e risultata deserta, è ricorso allo strumento dell'ordinanza contingibile ed urgente -a ridosso della scadenza del contratto d'appalto vigente- al fine di prevenire eventuali ipotesi di emergenze sanitarie e di igiene pubblica.
Il contratto scaduto non conteneva alcuna clausola di rinnovo e -come è noto- il principio della sussistenza di un pactum renovandi implicito, tendenzialmente non è applicabile ai contratti della Pubblica Amministrazione.

Ritiene il Collegio di dovere evidenziare, nella fattispecie in esame, i seguenti importanti punti di fatto e princìpi di diritto:
a) l’esecuzione del servizio pubblico di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani deve, in generale, essere svolto con efficacia ed immediatezza a tutela del bene pubblico indicato dalla legge; pertanto qualora la necessità di provvedere si appalesi imperiosa -specie al fine di prevenire eventuali ipotesi di emergenze sanitarie e di igiene pubblica- il Sindaco può legittimamente ricorrere allo strumento dell’ordinanza contingibile ed urgente, ai sensi dell’art. 50, comma 5, del dec. leg.vo 18.08.2000, n. 267, anche se sussiste una apposita disciplina che regoli, in via ordinaria, la materia;
b) nel caso di specie, la gara per l’affidamento del servizio de quo era andata deserta e la mancata partecipazione ad essa del gestore uscente può avere legittimato nell’Amministrazione procedente la convinzione che siffatto comportamento denotasse scarso interesse allo svolgimento del servizio di cui trattasi;
c) il contratto scaduto non conteneva alcuna clausola di rinnovo e -come è noto- il principio della sussistenza di un pactum renovandi implicito, tendenzialmente non è applicabile ai contratti della Pubblica Amministrazione (art. 6, comma 2, l. 24.12.1993, n. 537);
d) trattandosi di un servizio, il Comune -nell’ambito dei poteri ad esso riservati- doveva effettuare la sua acquisizione al miglior prezzo di mercato (art. 6, c. 5, della citata l. n. 537/1993) ed in termini generali, le ragioni del risparmio e della convenienza economica ben possono prevalere sulla eventuale conferma di un canone più oneroso in favore del gestore uscente;
e) il Comune, nel caso, non era tenuto ad effettuare alcuna gara informale preventiva al fine di individuare il soggetto onerato della prestazione d’urgenza e, pertanto, il contatto informale effettuato nei confronti delle due menzionate ditte non doveva sottostare ad alcuna particolare procedura. né rispettare le regole tipiche delle procedure concorsuali (CGARS, sentenza 27.01.2005 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: E' illegittima la clausola del bando di gara la quale (uniformandosi al bando tipo regionale) disponga che in caso di offerte uguali si procede al sorteggio e non alla procedura di presentazione di offerte migliorative, in quanto in contrasto con l’articolo 77 del R.D. n. 827 del 1924, contenuto in un corpo normativo (il regolamento di contabilità generale dello Stato) che trova applicazione generalizzata indipendentemente dal suo richiamo negli atti (compresi i bandi di gara) della pubblica Amministrazione.
In sede di predisposizione del bando di gara l'amministrazione può motivatamente integrare o sostituire le clausole contenute negli schemi di bandi-tipo nel caso di lacune nello schema o difformità rispetto alla normativa, ovvero qualora si tratti di appalti di opere atipiche, con il concorso di due condizioni: - che non sia vulnerato il principio della par condicio dei concorrenti; - che le prescrizioni richieste siano pertinenti rispetto al fine di garantire la maggiore serietà del procedimento di gara, senza peraltro imporre ai concorrenti compiti troppo gravosi.

Osserva il Collegio che (come già ritenuto con sentenza di questo Tribunale amministrativo regionale n. 2055 del 05.08.2004) è illegittima la clausola del bando di gara la quale (uniformandosi al bando tipo regionale) disponga che in caso di offerte uguali si procede al sorteggio e non alla procedura di presentazione di offerte migliorative, in quanto in contrasto con l’articolo 77 del R.D. n. 827 del 1924, contenuto in un corpo normativo (il regolamento di contabilità generale dello Stato) che trova applicazione generalizzata indipendentemente dal suo richiamo negli atti (compresi i bandi di gara) della pubblica Amministrazione non è stato né implicitamente né esplicitamente abrogato dalla legge Merloni in atto vigente ed a tutte le norme di contabilità generale dello stato fa espresso riferimento l'art. 21, ultimo comma, della legge regionale n. 47 del 1977, contenente norme in materia di bilancio e di contabilità della Regione siciliana (Consiglio di Stato VI, 03.12.1998 n. 1648).
E' utile richiamare il costante indirizzo giurisprudenziale secondo il quale in sede di predisposizione del bando di gara l'amministrazione può motivatamente integrare o sostituire le clausole contenute negli schemi di bandi-tipo nel caso di lacune nello schema o difformità rispetto alla normativa (anche quale interpretata dalla giurisprudenza), ovvero qualora si tratti di appalti di opere atipiche, con il concorso di due condizioni:
- che non sia vulnerato il principio della par condicio dei concorrenti;
- che le prescrizioni richieste siano pertinenti rispetto al fine di garantire la maggiore serietà del procedimento di gara, senza peraltro imporre ai concorrenti compiti troppo gravosi (Cons. giust. amm. sic., sez. consult., 08-09-1989, n. 421/1989, in Giur. amm. sic., 1990, 32, cft. C.S., Sez. V, 18.10.1974 n. 411; Sez. VI, 17.02.1988 n. 188; C.G.A. 10.05.1988 n. 86, par. Sez. riunite 10.04.1990 n. 133; TAR Sicilia-Palermo, Sez. 1^, 29.05.1987 n. 322, 10.05.1988 n. 86, 15.07.1991 n. 450; TAR Sicilia-Catania, Sez. 1^, 02.04.1992 n. 251, Sez. 3^, 28.05.1991 n. 217
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 11.01.2005 n. 19 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La clausola del bando di gara secondo cui “L’Ente appaltante si riserva la facoltà di interrompere o annullare in qualsiasi momento la gara in base a valutazioni di propria, esclusiva competenza, senza che i concorrenti possano vantare diritti e/o aspettative di sorta. Inoltre, l’Ente appaltante si riserva la facoltà di non procedere all’aggiudicazione dell’appalto in tutto o in parte ovvero di procedervi anche nel caso di una sola offerta” non può ritenersi conforme all'ordinamento.
Una clausola di tal genere configurerebbe in pratica una condizione meramente potestativa e come tale sarebbe affetta da nullità: violerebbe, infatti, sia il principio civilistico di buona fede -consentendo in pratica il recesso ingiustificato dalle trattative con esonero da responsabilità ex art. 1337 c.c.-, sia il principio pubblicistico di imparzialità e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., consentendo ad un soggetto destinatario delle norme in tema di evidenza pubblica, di agire senza rendere conto delle proprie scelte.
La clausola quindi non può che essere interpretata conformemente alle norme di cui agli artt. 1362 e seguenti del codice civile. Pertanto, facendo applicazione degli artt. 1366 e 1367 c.c., deve ritenersi che l’ente appaltante possa sì decidere di sospendere la procedura ovvero di non aggiudicare l’appalto, ma di detta scelta debba rendere conto, fornendo adeguata motivazione. La clausola, infatti, non attribuisce alla stazione appaltante il diritto di decidere arbitrariamente, ma le consente soltanto di operare delle scelte discrezionali, che come tali devono essere motivate.

La clausola contenuta al punto VI.4.5 del bando di gara disponeva che “L’Ente appaltante si riserva la facoltà di interrompere o annullare in qualsiasi momento la gara in base a valutazioni di propria, esclusiva competenza, senza che i concorrenti possano vantare diritti e/o aspettative di sorta”; detta clausola però prevedeva inoltre che “l’Ente appaltante si riserva la facoltà di non procedere all’aggiudicazione dell’appalto in tutto o in parte ovvero di procedervi anche nel caso di una sola offerta”.
Pertanto, la clausola in questione prevedeva la facoltà per la stazione appaltante di sospendere il procedimento, di annullare la gara, di non procedere all’aggiudicazione ovvero di procedervi anche in caso di una sola offerta lasciando quindi all’Ente un ventaglio di possibilità tutte ugualmente utilizzabili.
Si tratta pertanto di valutare, in via generale, se una clausola di tale natura –qualora interpretata nel senso propugnato dalla stessa stazione appaltante (e cioè come piena libertà di decisione senza dover rendere conto delle proprie scelte)- possa ritenersi conforme all’ordinamento.
Una clausola di tal genere, come ha correttamente rilevato parte ricorrente, configurerebbe in pratica una condizione meramente potestativa e come tale sarebbe affetta da nullità (cfr. Cons. Stato Sez. VI 30/09/1997 n. 1418): violerebbe, infatti, sia il principio civilistico di buona fede -consentendo in pratica il recesso ingiustificato dalle trattative con esonero da responsabilità ex art. 1337 c.c.-, sia il principio pubblicistico di imparzialità e buona amministrazione di cui all’art. 97 Cost., consentendo ad un soggetto destinatario delle norme in tema di evidenza pubblica, di agire senza rendere conto delle proprie scelte.
La clausola quindi non può che essere interpretata conformemente alle norme di cui agli artt. 1362 e seguenti del codice civile.
Pertanto, facendo applicazione degli artt. 1366 e 1367 c.c., deve ritenersi che l’ente appaltante possa sì decidere di sospendere la procedura ovvero di non aggiudicare l’appalto, ma di detta scelta debba rendere conto, fornendo adeguata motivazione.
La clausola, infatti, non attribuisce alla stazione appaltante il diritto di decidere arbitrariamente, ma le consente soltanto di operare delle scelte discrezionali, che come tali devono essere motivate.
Peraltro, essendo prevista nella stessa clausola di cui al punto VI.4.5. del bando la facoltà per la stazione appaltante di procedere all’aggiudicazione anche in caso di unica offerta, non può condividersi la tesi propugnata da parte resistente secondo cui – trattandosi di unica offerta – la sospensione del procedimento sarebbe stata disposta in applicazione dell’art. 69 del R.D. n. 642/24 e come tale non sarebbe stata necessaria alcuna motivazione.
La tesi della resistente sarebbe stata condivisibile ove non fosse stata prevista espressamente la facoltà per la stazione appaltante di procedere all’aggiudicazione in presenza di unica offerta, perché la sospensione del procedimento sarebbe stata imposta dalla previsione del regolamento di contabilità pubblica: in presenza però di una clausola che consente la facoltà di aggiudicazione anche in presenza di offerta unica, ritiene il Collegio che qualunque decisione avesse adottato la società A.D.R. avrebbe dovuto essere congruamente motivata, dovendosi fare applicazione dei comuni principi valevoli in tema di esercizio di poteri discrezionali, applicabili alla società intimata in quanto soggetto destinatario delle norme in tema di evidenza pubblica.
Ne consegue che il ricorso risulta fondato essendo il provvedimento impugnato affetto da carenza di motivazione.
L’annullamento per difetto di motivazione di detto atto riverbera i suoi effetti sul successivo bando, con il quale la società A.D.R. ha indetto la nuova gara per l’espletamento del medesimo servizio, di durata questa volta, annuale (TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 14.10.2004 n. 10952 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel sistema dell’art. 77 del R.D. 23.05.1924 n. 827 il sorteggio assume un carattere meramente residuale, trovando applicazione solo nel caso in cui nessuno dei presentatori di offerte eguali sia presente ovvero, se i presenti non vogliano migliorare la propria proposta negoziale, nel corso di una apposita fase procedimentale all’uopo indetta dal seggio di gara.
Pertanto, si tratta di stabilire se con con la locuzione “i presenti” -ex art. 77 R.D. 827/1924- il legislatore abbia inteso riferirsi a tutti indistintamente i concorrenti che hanno presentato offerte uguali ovvero anche ad alcuni soltanto di essi. La norma è nel senso che la richiesta di miglioramento dell’offerta deve essere fatta ai presenti, siano essi tutti o alcuni soltanto di “coloro che fecero offerte uguali”. D’altra parte, non è priva di significato la circostanza che, qualora fosse stata ritenuta necessaria, al fine di esperire la licitazione migliorativa, la presenza di tutti i concorrenti che avevano presentato uguale offerta, il riferimento sarebbe stato certamente a tutti i concorrenti che fecero offerte uguali e non ai soli presenti. Pertanto, ove i migliori offerenti siano solo due, va da sé che “i presenti” debbano essere identificati in uno solo dei due offerenti, al quale va, quindi, chiesto, prima di procedere al ballottaggio, se intenda migliorare l’offerta.
L’art. 77 del R.D. 23.05.1924 n. 827 così dispone: “Quando nelle aste ad offerte segrete due o più concorrenti, presenti all’asta, facciano la stessa offerta ed essa sia accettabile, si procede nella medesima adunanza ad una licitazione fra essi soli, a partiti segreti o ad estinzione di candela vergine, ... Colui che risulta migliore offerente è dichiarato aggiudicatario.
Ove nessuno di coloro che fecero offerte uguali sia presente, o i presenti non vogliano migliorare l’offerta, ..., la sorte decide chi debba essere l’aggiudicatario
”.
Nella specie, si è verificata l’ipotesi di cui al primo comma, avendo le soc. ... e ... presentato la migliore uguale offerta.
Pertanto, la Commissione ha ritenuto che, nell’impossibilità di esperire la licitazione tra i due migliori concorrenti, essendo presente solo uno di loro, l’aggiudicazione dovesse essere affidata al ballottaggio, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma.
La norma, come giustamente ha osservato il TAR, prendendo, peraltro, atto dell’esistenza di un non univoco indirizzo giurisprudenziale in materia, non è stata correttamente interpretata ed applicata.
E’ innegabile che nel sistema dell’art. 77 il sorteggio assume un carattere meramente residuale, trovando applicazione solo nel caso in cui nessuno dei presentatori di offerte eguali sia presente ovvero, se i presenti non vogliano migliorare la propria proposta negoziale, nel corso di una apposita fase procedimentale all’uopo indetta dal seggio di gara.
Si tratta, quindi, di stabilire se con con la locuzione “i presenti” il legislatore abbia inteso riferirsi a tutti indistintamente i concorrenti che hanno presentato offerte uguali (i quali, come si evince dal primo comma, possono essere anche più di due), ovvero anche ad alcuni soltanto di essi.
La norma, che non si presta ad interpretazioni che vadano oltre la sua stessa lettera, attesa la sua chiarezza e la evidente finalità di cercare di conseguire un esito migliore della gara, prima di ricorrere al ballottaggio, ad avviso del Collegio, è nel senso che la richiesta di miglioramento dell’offerta deve essere fatta ai presenti, siano essi tutti o alcuni soltanto di “coloro che fecero offerte uguali”.
D’altra parte, non è priva di significato la circostanza che, qualora fosse stata ritenuta necessaria, al fine di esperire la licitazione migliorativa, la presenza di tutti i concorrenti che avevano presentato uguale offerta, il riferimento sarebbe stato certamente a tutti i concorrenti che fecero offerte uguali e non ai soli presenti.
Pertanto, ove i migliori offerenti siano solo due, va da sé che “i presenti” debbano essere identificati in uno solo dei due offerenti, al quale va, quindi, chiesto, prima di procedere al ballottaggio, se intenda migliorare l’offerta.
Né tale conclusione appare in contrasto con i principi che regolano le gare e, in particolare, con quello della parità dei concorrenti -che secondo l’accennato contrario orientamento giurisprudenziale sarebbe violato, essendo data la possibilità di migliorare l’offerta ad alcuni o anche ad uno solo di essi- perché, nei casi in cui trova applicazione l’art. 77 (come nella specie, in quanto nel bando è stato espressamente richiamato con caratteri in grassetto), i concorrenti sono consapevoli delle modalità di aggiudicazione previste da questa norma nell’eventualità, rara ma non impossibile, di parità di offerte e, pertanto, pur non essendo la loro presenza obbligatoria, è una loro libera scelta di partecipare o non partecipare alle operazioni di gara e, nel secondo caso, correre l’alea di non poter proporre una offerta migliorativa (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.06.2004 n. 4362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanza dai corsi d'acqua.
Il divieto di cui all'art. 96, lett. g), r.d. 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi sulle opere idrauliche) appare riferito ad opere e atti che investono gli alvei delle acque pubbliche, le sponde e difese, e cioè lo spazio soggiacente alle piene ordinarie, le sponde e le ripe interne, formanti con l'alveo del corso d'acqua una unità inscindibile per il contenimento e l'economia di scorrimento delle acque, o, comunque, le opere e i fatti che incidano sull'economia e sul regime dell'alveo del corso d'acqua, come sopra definito.
Ciò è confermato dalle disposizioni degli artt. 57 e 58 stesso t.u., le quali -mentre assoggettano al controllo della pubblica amministrazione "i progetti per modificazioni di argini e per costruzioni e modificazioni di altre opere di qualsiasi genere che possono direttamente o indirettamente influire sul regime dei corsi d'acqua, ecc." (art. 57)- consentono una eccezione per "le opere eseguite dai privati per semplice difesa, aderente alle sponde dei loro beni, che non alterino in alcun modo il regime dell'alveo" (art. 58). (Nella specie, relativa ad annullamento senza rinvio di sentenza di condanna perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, l'imputato, per riparare le vasche di decantazione dell'acqua proveniente dal lavaggio degli inerti (ghiaia e sabbia), aveva rialzato l'argine del fiume (operando peraltro sulla sua proprietà), e ciò non solo non aveva cagionato alcun pregiudizio all'ambiente e al paesaggio, ma aveva rinforzato l'argine del fiume, senza incidere sul regime dell'alveo e sul suo assetto) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.03.1994 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 04.07.2011

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UTILITA'

URBANISTICA: 1° marzo 2011: Seminario sulla VAS in Lombardia.
La Direzione Generale Territorio e Urbanistica ha organizzato il 1° marzo 2011 il seminario "Valutazione ambientale strategica (VAS) in Lombardia: procedimento e rapporto ambientale di qualità", che ha visto una notevole partecipazione da parte delle amministrazioni pubbliche e del mondo professionale.
L’evento era infatti destinato a tutti coloro che, dovendo predisporre piani e programmi soggetti a VAS, hanno vissuto non poche preoccupazioni in relazione alla sentenza del TAR che aveva annullato parte della disciplina regionale in materia di VAS, dando inizio ad un periodo di incertezze, in particolare per i Comuni.
Il seminario ha costituito l’occasione per analizzare la sentenza n. 133 del Consiglio di Stato del 12.01.2011 che ha accolto il ricorso della Regione Lombardia contro la sentenza del TAR n. 1526/2010, confermando la legittimità dell'individuazione dell'Autorità competente per la Valutazione Ambientale Strategica (VAS) all’interno della stessa amministrazione che procede alla formazione del Piano.
E’ stato in particolare approfondito dall’Avvocatura regionale il principio che sta alla base dell’introduzione della VAS in Lombardia, “il principio di integrazione”: la Valutazione Ambientale Strategica non è condotta sul piano già elaborato, ma è integrata nel piano, ovvero durante tutto il suo processo di redazione, costituendone la linea guida verso la sostenibilità ambientale. Il processo di VAS non termina con l’approvazione del piano, ma evolve con il suo monitoraggio nella fase attuativa.
Tale impostazione è coerente con la filosofia che sta alla base della legge regionale 12/2005 (legge per il governo del territorio) e presuppone che ogni pubblica amministrazione, oltre a procedere all’elaborazione del piano per la sua adozione e approvazione, si occupi del relativo procedimento di VAS, individuando al suo interno le due autorità -procedente e competente in materia di VAS- e definendo le regole per il processo di informazione e partecipazione di tutti i soggetti coinvolti: i soggetti competenti in materia ambientale, gli enti territorialmente interessati ed il pubblico.
Il seminario è stato inoltre l’occasione per guardare in modo concreto, dopo una prima fase di attuazione della direttiva, a nuovi traguardi: un procedimento più efficace e un rapporto ambientale di qualità, per una VAS realmente a supporto di piani e programmi sostenibili.
Sono stati infatti puntualmente descritti gli aspetti che rendono il processo di VAS efficace e di qualità, è stato evidenziato anche il ruolo fondamentale di ARPA e delle ASL come contributo al miglioramento della qualità dei rapporti ambientali, è stato approfondito il rapporto sinergico tra la procedura di VAS e quella di VIA, è stato infine analizzato l’aspetto paesaggistico come parte integrante della VAS e in relazione alle procedure di autorizzazione paesaggistica. ... (link a www.territorio.regione.lombardia.it).
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Segnaliamo, di particolare interesse:
- intervento di Piero GARBELLI - DG Territorio e Urbanistica;
- intervento di Filippo DADONE - DG Ambiente, Energia e Reti;
- intervento di Sergio CAVALLI - DG Sistemi Verdi e Paesaggio.

LAVORI PUBBLICI: Come calcolare i costi della sicurezza e della manodopera.
La Regione Umbria ha pubblicato le Linee Guida per il calcolo dei costi e gli oneri per la sicurezza e del costo presunto della manodopera.
Le somme indicate devono essere congrue relativamente al lavoro da affidare e non possono essere soggette a ribasso d’asta.
Nel documento sono riportati:
- Linee guida per il calcolo dei costi e degli oneri della sicurezza e per la determinazione del costo presunto della manodopera nell'affidamento dei lavori pubblici;
- Esempio di calcolo per l’attuazione delle linee guida;
- Schema delle somme componenti un quadro economico su cui non effettuare il ribasso ai sensi dell’art. 23 della L.R. n. 23/2010;
- Contabilità dei costi e degli oneri nei subappalti;
- Tabella delle categorie di cui al D.P.R. 554/1999 e D.P.R 207/2010;
- Elenco degli oneri della sicurezza;
- Elenco costi minimi della manodopera da non assoggettare a ribasso d’asta (30.06.2011 - link a www.acca.it).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: L. Fanizzi, Lo smaltimento delle acque reflue mediante sistemi ad evapotraspirazione (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Tapetto, Considerazioni sui rifiuti sanitari prodotti dalle attività di assistenza sanitaria domiciliare (A.D.I.) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Pierobon, Ancora sul Sistri: dualità, l’apparente potenza del produttore, disposizioni rilevanti, il sistema informatico e le sanzioni (parte 4^) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: F. Zavatarelli, Scarico di Acque Reflue Industriali: Brevi Note sullo “stato dell’arte” sub art. 137, c. 1, D.Lgs. 152/2006 (link a www.lexambiente.it).

APPALTI: F. Gavioli, Regolamento appalti, una check list per le offerte anomale (link a www.ipsoa.it).

SICUREZZA LAVORO: A. Scarcella, La «colpa» negli infortuni sul lavoro (link a www.ipsoa.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Assegni al nucleo familiare: a chi spetta cosa dei componenti e del reddito del nucleo familiare. I nuovi livelli di reddito per il calcolo dell’importo in vigore fra il luglio 2011 e il giugno 2012 (CGIL di Bergamo, nota luglio 2011).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

LAVORI PUBBLICI: Qualificazione nelle categorie le cui declaratorie prevedono l'installazione di impianti all’interno degli edifici e, in particolare, l’esecuzione di lavorazioni ricomprese nell'elenco di cui all'articolo 1 del D.M. 22.01.2008 n. 37 che ha novellato la legge 05.03.1990 n. 46 (comunicato del Presidente del 24.06.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 29.06.2011, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei «Tecnici competenti» in acustica ambientale riconosciuti dalla Regione Lombardia alla data del 13.06.2011, in attuazione dell’art. 2, commi 6 e 7 della legge 26.10.1995, n. 447, della deliberazione 17.05.2006, n. 8/2561 e del decreto 30.05.2006, n. 5985" (comunicato regionale 21.06.2011 n. 65).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 24.06.2011:
- "Illustrazione delle principali modifiche al Regolamento regionale n. 1/2004 in tema di assegnazione e gestione degli alloggi di ERP" (comunicato regionale 23.06.2011 n. 70).
- "Testo coordinato del Regolamento regionale 10.02.2004 n. 1, “Criteri generali per l’assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m), l.r. 05.01.2000, n. 1)” integrato con le modifiche apportate dai Regolamenti regionali 27.03.2006, n. 5 e 20.06.2011, n. 3".

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 25 del 24.06.2011, "Modifiche al regolamento regionale 10.02.2004 n. 1 [Criteri generali per l’assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lettera m), l.r. 05.01.2000, n. 1)]" (Regolamento regionale 20.06.2011 n. 3).

APPALTI: G.U. 24.06.2011 n. 145 "Determinazione, per il periodo 01.01.2011-31.12.2011, della misura del tasso d’interesse di mora da applicare ai sensi dell’articolo 30 del capitolato generale di appalto dei lavori pubblici" (D.M. 27.05.2011).
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Appalti, tasso di mora 2011 al 4,08 per cento.
Rispetto al 2010, il tasso si abbassa ancora di 0,20 punti percentuali. Dal 2009 ad oggi il saggio è passato dal 6,64 per cento all'attuale 4,08 per cento.
Ai sensi dell'art. 133, comma 1, del decreto legislativo del 12.04.2006, n. 163, la misura del tasso di interesse di mora da applicare ai sensi dell'art. 30 del capitolato generale di appalto dei lavori pubblici, approvato con decreto del Ministero dei lavori pubblici del 19.04.2000, n. 145, e' fissata per il periodo 01.01.2011-31.12.2011 al 4,08 per cento.

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA - VARI: Vendita di energia al GSE: quali vincoli di contabilità e bilancio sui proventi?
Domanda.
Un Comune (3600 abitanti) ha realizzato un impianto fotovoltaico per la vendita di energia al GSE. Vi sono vincoli di contabilità e di bilancio per i relativi proventi? E' tenuto alla procedura dell'unbundling (separazione contabile)? Si chiede se vi sono indicazioni dell'Autorità e come si deve procedere.
Risposta.
Occorre ricordare che, per quanto riguarda la vendita dell'energia prodotta da un impianto fotovoltaico, si possono utilizzare due diverse modalità:
a) la vendita indiretta, mediante la stipula di una convenzione di ritiro dedicato con il GSE (il Gestore dei Servizi Energetici);
b) la vendita diretta, attraverso la vendita in borsa o a un grossista tramite un "contratto bilaterale".
Il quesito in esame si riferisce alla prima modalità di vendita, ove è il Comune il soggetto che vende energia, prodotta dai propri impianti fotovoltaici, in favore del GSE. Il quesito pone, complessivamente, le seguenti problematiche:
1) Sussistono vincoli di contabilità e di bilancio in merito all'acquisizione dei proventi della vendita?
Non sussistono precisi vincoli in tal senso. Il Comune acquisisce i proventi della vendita nel titolo III delle entrate (le entrate correnti), prevedendo uno specifico codice di intervento 3.05......., denominandolo, ad esempio, "Contributo da conto energia fotovoltaico". In buona sostanza, si tratta di entrate correnti, cioè di risorse economiche, non presentanti alcun vincolo di destinazione specifica, ma liberamente utilizzabili, in aderenza alle ordinarie regole contabili degli Enti Locali. Quindi, possono finanziare direttamente le spese correnti oppure possono finanziare spese in conto capitale, attraverso la loro preventiva confluenza nell'avanzo di amministrazione.
2) Il Comune è obbligato ad osservare la procedura dell'unbundling per la gestione finanziaria dei proventi della vendita? Vi sono indicazioni dell'Autorità in tal senso?
Con il termine di "unbundling contabile", si fa riferimento alla separazione contabile delle differenti aree di attività di un'impresa. Ad esempio: le attività di produzione, approvvigionamento, stoccaggio, trasporto, distribuzione. Il Comune, per la gestione finanziaria dei proventi derivanti dalla vendita di energia, non è assolutamente obbligato ad adottare tale sistema. Infatti, l'AEEG (Autorità per l'Energia Elettrica ed il Gas) prevede l'obbligatorietà di tale sistema, ma solo per le "imprese di settore".
In tal senso, la Deliberazione 18-01-2007, n. 11/07, significativamente si intitola: "Obblighi di separazione amministrativa e contabile (unbundling) per le imprese operanti nei settori dell'energia elettrica e del gas". A conferma di ciò, nell'allegato all'indicata Deliberazione (art. 3), si definisce l'ambito di applicazione della Deliberazione medesima. Orbene, in tale articolo, si stabilisce che le norme contenute nel presente Testo integrato si applicano ad ogni soggetto:
"a) di diritto italiano che opera in una o più attività dei settori dell'energia elettrica e/o del settore del gas naturale e/o distribuzione, misura e/o vendita di altri gas a mezzo reti;
b) di diritto estero che opera in una o più attività dei settori dell'energia elettrica e del gas naturale in Italia, anche per mezzo di sedi secondarie o di unità locali;
c) di diritto italiano o estero appartenente ad un gruppo che opera in una o più attività dei settori dell'energia elettrica e del gas naturale, che intrattiene rapporti economici o patrimoniali funzionali allo svolgimento delle attività degli esercenti di cui alle lettere a) e b)
".
Orbene, il Comune, quale Ente autonomo territoriale, non rientra in alcuna delle tre indicate categorie di soggetti obbligati. Infatti, al di là delle categorie sub "b" e "c" (ovviamente non riferentisi al Comune), non è suscettibile di applicazione nemmeno la categoria "a", per la chiara ragione che il Comune, pur essendo un Ente di "diritto italiano", non opera istituzionalmente nei settori dell'energia elettrica o del gas naturale.
Infine, deve essere ricordato che, ai sensi della Circ. 19-07-2007, n. 46/E dell'Agenzia delle Entrate, per il Comune, quale Ente non commerciale, "i proventi non assumono alcuna rilevanza, sia ai fini I.V.A., in assenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi del tributo, sia ai fini delle imposte dirette, configurando un contributo a fondo perduto non riconducibile ad alcuna delle categorie reddituali di cui all'art. 6, comma 1, del T.U.I.R.". (punto 9.1 - Circolare) (29.06.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

SICUREZZA LAVORO: L'imprenditore che svolge l'incarico di RSPP deve possedere un titolo di studio specifico?
Domanda.
L'imprenditore artigiano che si autonomina RSPP, oltre che frequentare l'apposito corso di formazione, deve essere in possesso del diploma di istruzione secondaria superiore, di cui all'art. 32 comma 2 del D.Lgs. 81/2008?
Risposta.
La normativa consente ai datori di lavoro, nei casi previsti dall'allegato II del D.lgs. n. 81/2008 di svolgere direttamente l'incarico di responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
Il riferimento di legge da applicare nel caso in cui il datore di lavoro decidesse di avvalersi di tale possibilità, è costituito dall'articolo 34 del D.Lgs. n. 81/2008, che pone come requisiti essenziali per il rispetto della norma:
1) la preventiva informazione al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza
2) la frequentazione di appositi corsi di formazione
Non vi è alcun espresso riferimento all'eventuale titolo di studio di cui il datore di lavoro debba essere in possesso, né si ritiene possa applicarsi quanto indicato dall'articolo 32, il quale si riferisce ai responsabili ed agli addetti al servizio di prevenzione e protezione esterni e interni, ma diversi dal datore di lavoro, per il quale il riferimento normativo è l'articolo 34 (28.06.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

PUBBLICO IMPIEGOCircolare a firma Brunetta-Carfagna-Giovanardi chiarisce le regole sui tempi di lavoro. Malati gravi, diritto al part-time. Criteri di priorità fissati dalle p.a. con norme generali.
Il part-time resta un diritto per i dipendenti pubblici affetti da patologie oncologiche salva vita e, comunque, le amministrazioni pubbliche debbono adottare provvedimenti generali per stabilire i criteri di priorità ai fini della concessione del tempo parziale. Ancora, la revisione dei part-time concessi prima della vigenza del dl 78/2008, richiede necessariamente un contraddittorio con i dipendenti interessati.
Prova a fare chiarezza sul regime del part-time la circolare 30.06.2011 n. 9/2011 del Dipartimento della funzione pubblica, messa a punto dai ministri Brunetta, Carfagna e Giovanardi e diffusa ieri, che illustra alcune regole operative per la rivalutazione delle trasformazioni dei rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.
Il chiarimento giunge piuttosto in ritardo, dal momento che il termine previsto dall'articolo 16 della legge 183/2010 per rivisitare i part-time concessi prima dell'entrata in vigore dell'art. 73 del dl 112/2008, convertito in legge 133/2008, è ampiamente scaduto e, dunque, le amministrazioni hanno già esaurito il tempo a disposizione per eventualmente disporre in via unilaterale l'ampliamento del tempo parziale a suo tempo concesso.
Per altro verso, l'applicazione dell'articolo 16 del collegato lavoro ha già determinato molteplici e contraddittori giudicati, da parte del giudice del lavoro.
Buona fede e correttezza. L'articolo 16 della legge 183/2010 ha consentito in via transitoria alle amministrazioni di rivedere i part-time concessi prima del maggio 2008, in modo da ripristinare un rapporto paritetico tra datore e lavoratore e permettere alle amministrazioni, in un regime di forte contenimento delle assunzioni, di modificare il regime orario dei propri dipendenti e reperire, così, maggiori risorse orarie lavorative. La circolare spiega che si è trattato di un potere eccezionale, che ha consentito alle amministrazioni di modificare unilateralmente il regime orario, in deroga alla regola generale che prevede la determinazione consensuale delle condizioni contrattuali.
Il medesimo articolo 16 ha consentito la modifica, prevedendo espressamente in capo alle amministrazioni l'obbligo di obbedire ai principi di buona vede e correttezza. Secondo la circolare, tale obbligo doveva essere adempiuto attraverso una valutazione ben ponderata delle esigenze organizzative dell'ente, in rapporto alla situazione personale del singolo dipendente. Allo scopo, spiega la circolare, era necessario un contraddittorio col dipendente, prima dell'emanazione del provvedimento unilaterale di revisione del rapporto orario, che tenesse conto non solo delle esigenze che a suo tempo indussero il dipendente a chiedere il part-time, oltre che quelle successivamente maturate.
Non necessariamente, oltre tutto, secondo Palazzo Vidoni, la revisione del part-time doveva portare riportare il regime orario a tempo pieno. Le amministrazioni avrebbero potuto contare su almeno due altre opzioni: spostamento interno dei dipendenti o concedere al lavoratore un tempo congruo per riorganizzare la propria vita personale.
Criteri di priorità. Fissati i criteri in base ai quali i dipendenti pubblici potevano conservare il part-time, nonché ottenere ancora oggi, con priorità, la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, pur divenuta discrezionale a seguito della legge 133/2008.
La circolare ricorda alle amministrazioni la necessità di stabilire con provvedimenti organizzativi di carattere generale i criteri di priorità e la graduazione, ai fini della concessione del part-time, tenendo anche conto della sussistenza di disposizioni di legge e contrattuali che fondino tuttora un diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da parte del dipendente.
Principale fattispecie che costituisce un diritto alla trasformazione a part-time è l'articolo 12-bis, comma 1, della legge 61/2000, ai sensi del quale hanno diritto ad accedere al part-time i lavoratori affetti da patologie oncologiche con residue capacità lavorative. I successivi commi 2 e 3, dell'articolo 12-bis, attribuiscono titoli di precedenza per il part-time ai lavoratori il cui coniuge o i cui figli o genitori siano affetti da patologie oncologiche; in terzo luogo i lavoratori che assistono conviventi con inabilità lavorative totali e permanenti, qualificate come gravi; seguono i lavoratori con figli conviventi di età non superiore a 13 anni; infine, lavoratori con figli conviventi in situazione di handicap grave.
La circolare considera meritevoli di tutela la posizione dei familiari di studenti affetti da disturbi specifici dell'apprendimento. Nel caso in cui il lavoratore vanti un diritto alla trasformazione, l'amministrazione non può negare il part-time ed è tenuta ad adottare il provvedimento entro 60 giorni dalla domanda. Se, invece, l'istanza provenga da dipendenti che vantino diritti di priorità, le loro istanze andranno valutate con precedenza rispetto alle altre, ferma restando la discrezionalità della concessione della trasformazione (articolo ItaliaOggi del 02.07.2011).

NEWS

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia: dal 1° settembre 2011 entra in vigore il nuovo ACE Certificazione energetica edifici.
Dal 1° settembre 2011 entrerà in vigore, in Lombardia, il nuovo modello di attestato di certificazione energetica degli edifici (ACE) , approvato dalla regione con delib. n. IX/1811 del 31.05.2011.
Le principali modifiche rispetto al vigente modello di ACE riguardano:
- l'eliminazione nel box “Accettazione del Comune” del timbro per accettazione del Comune e del relativo logo presente nella prima pagina dell'ACE;
- la sostituzione della dicitura “Numero di protocollo” con “Codice identificativo”;
- l'inserimento del comune catastale, dato fondamentale per identificare un immobile presso il catasto e non sempre coincidente con il comune amministrativo;
- l'inserimento della dicitura “Installazione/sostituzione VMC” nel box riguardante i possibili interventi migliorativi del sistema edificio impianto termico.
Fino al 1° settembre sarà valido l'ACE predisposto secondo il modello riportato nell'allegato C alla DGR VIII/ 8745/2008 (tratto da link a
www.immobili24.ilsole24ore.com).

ESPROPRIAZIONE:  MANOVRA CORRETTIVA/ Espropri senza titolo, arriva il super-indennizzo.
Super-indennizzo per gli espropri senza titolo. Chi subisce da parte della p.a. un'occupazione espropriativa senza titolo, oltre ad avere l'usuale indennizzo riceverà anche un risarcimento a forfait del 10%, calcolato sul valore venale. La manovra Tremonti disciplina l'utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. E da un lato assicura l'opera alla p.a., ma dall'altro compensa economicamente il sacrificio del privato. La regola è fatta valere retroattivamente anche ai fatti anteriori alla entrata in vigore del decreto legge, purché l'ente espropriante dichiari la prevalenza dell'interesse pubblico.
Si interviene sul Testo unico degli espropri (dlgs 327/2001), inserendo l'articolo 42-bis. Il problema è rappresentato dai casi in cui l'amministrazione usa un immobile di un privato per realizzare un'opera pubblica, ma non ha un valido titolo espropriativo o una valida dichiarazione di pubblica utilità. Da un lato sorge l'interesse a conservare l'opera, dall'altro lato vi è l'interesse del privato a vedersi riconosciuto un ristoro per l'illegittimità subita.
L'articolo 42-bis prevede un bilanciamento tra gli interessi in conflitto, a seguito del quale la p.a. può disporre che il bene sia acquisito, ma non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un doppio indennizzo: sia per il pregiudizio patrimoniale sia per quello non patrimoniale. L'indennizzo del danno non patrimoniale è forfettariamente liquidato dalla legge nella misura del 10% del valore venale del bene. La stessa regola vale non solo quando manchi l'atto espropriativo, ma anche quando è stato annullato l'atto costitutivo del vincolo preordinato all'esproprio, oppure la dichiarazione di pubblica utilità o il decreto di esproprio.
L'amministrazione può anche acquisire il bene in pendenza del giudizio per l'annullamento degli atti.
In tali casi si computano a conguaglio le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo. Il danno non patrimoniale è calcolato, come si è visto, con la regola del 10%. L'indennizzo patrimoniale, invece, è determinato, di regola, in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità, con le specifiche del Testo unico espropri per il calcolo del valore dei terreni edificabili (articolo 37). Oltre al capitale è dovuto l'interesse del 5% annuo per il periodo di occupazione senza titolo, salvo che non risulti dagli atti la prova di una diversa entità del danno.
Insomma a chi ha subito una occupazione espropriativa spetta il valore venale del bene espropriato, gli interessi e il 10% sul valore venale. Trattandosi di un esborso a carico della p.a. a fronte di una attività omessa o di una attività illegittima, la manovra Tremonti prevede alcuni sbarramenti. Innanzi tutto l'atto di acquisizione deve spiegare chiaramente quali attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico giustificano l'uso di denaro pubblico e deve spiegare che non ci sono alternative ragionevoli.
Nell'atto si deve indicare l'ammontare dell'indennizzo, che deve essere pagato entro 30 giorni. In ogni caso fino a che non è avvenuto il saldo o il deposito delle somme dovute, l'immobile rimane in proprietà del privato.
L'atto di acquisizione è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà. Inoltre il medesimo atto è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente.
Se l'occupazione riguarda un terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, o un terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale aumenta: è pari al venti per cento del valore venale del bene.
Il decreto fissa una norma transitoria: le nuove disposizioni si applicano anche ai fatti anteriori e anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato; tuttavia deve essere comunque rinnovata la valutazione dell'interesse pubblico e si deve fare il conguaglio con le indennità eventualmente già pagate. Una forma di vigilanza sul procedimento è rappresentata dall'obbligo di trasmettere l'atto di acquisizione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti: il giudice contabile potrà così verificare la regolarità e congruità dell'operazione.
L'obbligo di indennizzo patrimoniale e non patrimoniale si applica anche per l'acquisizione del diritto di servitù. La p.a., a questo proposito, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia (articolo ItaliaOggi del 02.07.2011).

PUBBLICO IMPIEGOMANOVRA CORRETTIVA/ P.a., stop ai furbetti della malattia. Più sono le assenze, più aumenta il rischio di visita fiscale. Fari puntati su chi resta a casa prima o dopo un giorno di festa.
Malattia degli statali: la pubblica amministrazione dovrà disporre il controllo sulle assenze dei lavoratori valutando la condotta complessiva del dipendente.
Stante il tenore letterale della disposizione si può al momento ipotizzare che lavoratori che difficilmente si assentano dal servizio per episodi di malattia, difficilmente riceveranno la visita del medico fiscale, al contrario invece, di chi fa della malattia un largo uso.
Si dovranno, inoltre, considerare gli oneri economici connessi all'effettuazione della visita fiscale, ma sempre tenendo conto del «bene primario», ovvero l'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo. In ogni caso, queste valutazioni non sussistono e si dovrà dare corso, sin dal primo giorno di assenza alla richiesta di effettuazione della visita fiscale, se la malattia insorge nei giorni immediatamente precedenti o successivi ad un giorno festivo. Praticamente, si tratta di porre un freno al malcostume di allungare «ponti» festivi con un giorno di malattia.
I commi di interesse sono il 6, 7 e 8 dell'articolo 17 della bozza di manovra correttiva varata giovedì sera dal governo. Si stabilisce che le pubbliche amministrazioni devono disporre il controllo sulle assenze per malattia dei dipendenti «valutando la condotta complessiva del dipendente e gli oneri connessi all'effettuazione della visita, tenendo conto dell'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo». In attesa, ovviamente, di una circolare della Funzione pubblica che faccia estrema chiarezza sul punto, salta subito all'occhio una considerazione. La pubblica amministrazione, quindi, ricevuta la comunicazione di assenza per malattia del dipendente ha davanti a sé un bivio. Deve valutare tre parametri.
Il primo, la condotta complessiva del dipendente. Si può ipotizzare che il dirigente dell'ufficio pubblico dia disposizioni affinché si mandi il medico fiscale a casa di quei dipendenti «più soliti» ad assentarsi per malattia, mentre chi ne fa un uso sporadico sarà «salvato»? Poi, il dirigente dovrà valutare gli oneri connessi all'effettuazione della visita (e sul piatto, la manovra mette 70 mln di euro a regime). Infatti, le visite fiscali disposte dalla p.a. per l'accertamento della malattia dei propri dipendenti, dopo un lungo contenzioso conclusosi innanzi alla Consulta, non sono gratuite ma devono essere rimborsate alle aziende sanitarie. Quindi, c'è anche il lato economico da tenere in debita considerazione. Il tutto, rimarcando l'esigenza di contrastare e prevenire l'assenteismo.
Queste considerazioni comunque, su una sorta di discrezionalità della dirigenza dell'ufficio a disporre dell'effettuazione della visita fiscale in relazione alla condotta del dipendente, non sussistono in un caso, ovvero quando l'assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle lavorative. Qui, l'assenza deve essere accertata sin dal primo giorno. È questo, infatti, uno strumento che «dovrebbe» stroncare il malcostume di effettuare dei «ponti» da allungare a festività, grazie al giorno di malattia.
Andiamo sulle fasce orarie di reperibilità alla visita fiscale, oggi fissate in 9,00-13,00 e 15,00-18,00. Anche qui, novità in arrivo. Dovrà attendersi un decreto della funzione pubblica, che disciplinerà le nuove fasce di reperibilità e il regime delle esenzioni (probabilmente per i dipendenti affetti da forme tumorali o che devono sottoporsi a terapie salvavita). Si precisa sin da adesso, comunque, che qualora il dipendente debba allontanarsi dall'indirizzo comunicato durante le fasce di reperibilità, per effettuare visite mediche, prestazioni o accertamenti specialistici o per altri giustificati motivi (sempre documentati), deve dare preventiva comunicazione all'amministrazione. Nel caso l'assenza è dovuta allo svolgimento di esami diagnostici, terapie o visite specialistiche, l'assenza è giustificata dall'attestazione del medico o dalla direzione della struttura, anche privata, che ha svolto la visita o la prestazione.
Il settimo comma della manovra, poi, dispone che le sopracitata indicazioni, si applicano anche al personale in regime di diritto pubblico (ovvero i magistrati ordinari, amministrativi e contabili, gli avvocati e procuratori dello Stato, il personale militare e le Forze di polizia di Stato, il personale della carriera diplomatica e della carriera prefettizia).
Infine, la norma mette nero su bianco che la possibilità da parte della p.a. di risolvere unilateralmente il contratto con i dipendenti che hanno maturato un'anzianità massima contributiva di quaranta anni (prevista dall'articolo 17, comma 35-novies del dl n. 78/2009) non necessita di ulteriore motivazione, qualora l'amministrazione interessata, abbia preventivamente determinato, in via generale, i relativi criteri applicativi «con atto generale di organizzazione interna» (ovvero una circolare), preventivamente sottoposta al visto dei competenti organi di controllo (articolo ItaliaOggi del 02.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ La richiesta di trasmissione di copia del protocollo in entrata e uscita. Consiglieri, registri aperti. Regolamento ad hoc per disciplinare il diritto.
I consiglieri comunali possono richiedere la trasmissione, con cadenza mensile fino a scadenza del relativo mandato, di copia dell'intero registro di protocollo generale in entrata e in uscita dell'ente?

L'esercizio del diritto di accesso è previsto dall'articolo 43, comma 2, del dlgs 267/2000, definito dal Consiglio di Stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse della collettività e, come tale, diverso dal diritto di accesso, di cui agli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990, riconosciuto ai soggetti interessati allo scopo di predisporre la tutela di posizioni soggettive lese.
In merito al rilascio periodico del riepilogo del protocollo generale dell'ente, comprensivo della posta in arrivo e in uscita, la giurisprudenza, con orientamento costante, ha ritenuto non conforme a legge il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del Sindaco (cfr. Tar Campania, Salerno, n. 26/2005), precisando (Tar Lombardia, Brescia, n. 362/2005) che: «Le norme disciplinanti l'accesso dei consiglieri comunali non pongono limiti quantitativi agli atti cui si chieda di accedere, né presuppongono che, di tali atti, i richiedenti conoscano già il contenuto, sia pure approssimativamente, ben potendo l'intervento connesso al mandato ravvisarsi opportuno anche a seguito dell'acquisita conoscenza di atti precedentemente del tutto ignorati».
Inoltre ha affermato (Tar Sardegna, n. 29/2007) che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Infine ha specificato che al registro di protocollo generale dell'amministrazione locale è riconosciuta la piena riconducibilità alle categorie di documenti suscettibili di accesso, in quanto idoneo a fornire notizie e informazioni utili all'espletamento del mandato dei consiglieri comunali non essendo ammissibile imporre loro l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare, trattandosi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso (Tar Lombardia, Brescia, n. 163/2004; Tar Emilia Romagna Sez. Parma, n. 28/2006; Tar Calabria - Cz - n. 1749/2007).
Tuttavia, il Tar Sardegna (sentenza n. 32/2008) ha puntualizzato che il diritto di accesso si concretizza nel prendere visione dei soli oggetti del protocollo generale che rientrano nella sfera di interesse del consigliere richiedente e che sono utili per l'espletamento del suo mandato ed ha evidenziato che «ben appare giustificato il diniego opposto dall'Amministrazione» nel caso in cui si sia «in presenza di continue richieste di accesso di portata tale da determinare notevoli difficoltà organizzative» per l'ente.
Anche il Tar Puglia (sent. n. 115/2011) ha affermato che «gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, Sez. V. n. 929/2007) secondo cui il diritto del consigliere di accesso agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente», limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste, contemperando, quindi, il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento dell'attività amministrativa e il regolare funzionamento degli uffici comunali, comportando ad essi il minor aggravio possibile, sia dal punto di vista organizzativo che economico (Corte dei conti, sez. Liguria n. 1/2004).
In tal senso, sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative (parere del 12.12.2002) ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale» (cfr. parere 29.11.2009). Anche la giurisprudenza ha ritenuto legittime norme regolamentari contenenti accorgimenti finalizzati a ridurre i costi.
In merito, il Consiglio di stato (Sez. V, sent. n. 6742/2007) ha condiviso l'avviso del Ministero dell'interno in merito alla possibile riproduzione di planimetrie su cd-rom, qualora il consigliere chieda l'estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati. Pertanto, è fatto salvo il diritto del consigliere di accedere ai registri di protocollo finalizzato all'individuazione degli atti che potrebbero interessare per l'espletamento del proprio mandato. L'ente locale, nell'ambito della propria autonomia, può dotarsi di una specifica normativa regolamentare per disciplinare le modalità di esercizio del diritto al fine di renderle compatibili con il regolare svolgimento dell'attività degli uffici.
In tal senso, l'istanza di accesso ad atti non ancora formati, che impegnino l'amministrazione anche per il futuro, potrebbe concretizzare una fattispecie vietata qualora il regolamento comunale -nello specificare le modalità e le forme di esercizio di tali diritti in attuazione delle norme statali e statutarie- escludesse dall'accesso e dal rilascio di copie «le richieste generiche che non permettono l'individuazione del provvedimento o le richieste generalizzate relative a intere pratiche o a categorie di provvedimenti» (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ INDENNITÀ DI FUNZIONE/1
Può essere corrisposta al vicesindaco di un comune l'indennità di funzione prevista per il sindaco -per il periodo durante il quale ha svolto funzioni di supplenza conseguenti alla sospensione di diritto del sindaco dalla carica, successivamente revocata- prevista dall'art. 59, comma 1, lett. c) del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?
Anche in base ai pareri pronunciati dal Consiglio di stato, proprio sulla problematica inerente alle prerogative del vicesindaco, si ritiene che all'amministratore possa essere corrisposta l'indennità di carica prevista per il sindaco, per il periodo di concreto esercizio dei poteri sostitutivi.
INDENNITÀ DI FUNZIONE/ 2
Un Comune deve ripetere gli importi dell'«indennità di funzione onnicomprensiva» determinata a favore dei consiglieri comunali in sostituzione dei gettoni di presenza, come previsto dall'art. 5, comma 7, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, nelle more della legge di conversione?

La manovra finanziaria varata con il decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n. 122, nel testo ormai definitivo ha disposto, all'art. 5, comma 7, che con decreto del ministro dell'Interno –da emanarsi di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze– siano rideterminati in riduzione gli importi della indennità di funzione degli amministratori comunali e provinciali già previsti nel decreto ministeriale 04.04.2000, n. 119, e siano determinati gli importi dei gettoni di presenza per i consiglieri comunali per la partecipazione a consigli e commissioni.
L'originaria formulazione dell'art. 5, comma 7, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, prima che la legge di conversione n. 122/2010 statuisse il mantenimento dei gettoni di presenza per tale categoria di amministratori, aveva previsto che, sempre con decreto del ministro dell'Interno, fosse determinata ex novo l'indennità di funzione dei consiglieri comunali e provinciali, dettando anche un parametro cui attenersi, e cioè l'importo massimo mensile pari ad un quinto dell'indennità massima prevista per il rispettivo sindaco o presidente. Dopo la modifica apportata in sede di conversione del citato decreto-legge, il legislatore è tornato al regime dei gettoni di presenza per i consiglieri comunali e provinciali, confermando la disposizione secondo cui i nuovi importi sono determinati con il decreto interministeriale previsto dal citato art. 5, comma 7.
Appare, dunque, chiaro che il legislatore ha ritenuto di subordinare l'applicazione dei nuovi importi -tanto nell'originaria formulazione dell'art. 5, comma 7, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, quanto in quella modificata dalla legge di conversione, che ripristina il sistema basato sui gettoni di presenza- all'emanazione del nuovo regolamento di attuazione.
Pertanto, fino alla conclusione dell'iter di emanazione del nuovo regolamento per la determinazione della misura delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza da corrispondere agli amministratori degli enti locali, nessuna variazione al previgente sistema basato sui gettoni di presenza e alla quantificazione dei relativi importi risulta autorizzata dalla normativa sopra richiamata (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2011).

PUBBLICO IMPIEGOMarcia indietro sul part-time. Via libera alla trasformazione unilaterale a tempo pieno. Dal collegato disco verde al datore di lavoro: lo dice un'ordinanza del tribunale di Trento.
Marcia indietro sul part-time nel pubblico impiego: è legittima la trasformazione unilaterale a tempo pieno da parte del datore pubblico, in applicazione dell'articolo 16 della legge 183/2010 (cosiddetto collegato lavoro).
Il Tribunale di Trento, con l'ordinanza 16.06.2011, n. 323 ha totalmente ribaltato la decisione adottata lo scorso 4 maggio con ordinanza in sede cautelare dal tribunale in composizione monocratica.
Nel giudizio d'urgenza di prime cure, il giudice monocratico l'unilaterale ampliamento dell'orario di lavoro, da tempo parziale a tempo pieno, disposto da un dirigente del tribunale di Trento nei riguardi di una funzionaria di cancelleria, aveva violato la direttiva 15/12/1997, n. 97/81/Ce, finalizzata a perseguire «l'esigenza di adottare misure volte ad incrementare l'intensità occupazionale della crescita, in particolare mediante un'organizzazione più flessibile del lavoro che risponda sia a i desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitività», nonché l'articolo 5 del dlgs 61/2000.
Secondo il giudice monocratico le disposizioni richiamate prima, poiché tutelano il lavoratore nelle sue scelte di vita e lavorativa volte a ridurre il tempo di lavoro, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo parziale a tempo pieno poteva aver luogo solo con il consenso del lavoratore.
Tale impostazione viene, tuttavia, rigettata in sede di reclamo all'ordinanza, da parte del tribunale in composizione collegiale. Le previsioni della direttiva e del citato articolo 5, stando al nuovo giudizio, non impediscono alle amministrazioni di ripristinare d'imperio il tempo pieno. Non rileva la circostanza che la normativa europea vieti di licenziare il lavoratore esclusivamente per il solo fatto di rifiutare la trasformazione del tempo di lavoro: esigenze organizzative superiori, consentono al datore di lavoro di tradurle in atti unilaterali, tipica espressione della sua supremazia sul lavoratore subordinato, tali da portare comunque alla modifica del tempo di lavoro.
Sicché il rifiuto opposto dal lavoratore può fondare ad altro titolo violazioni disciplinari, tali da fondare anche un possibile licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Il lavoratore che rifiuti la modifica del tempo di lavoro per esigenze organizzative, insomma, si espone al rischio della risoluzione del rapporto di lavoro.
In ogni caso, secondo, l'ordinanza del 16 giugno l'articolo 16 del «collegato lavoro» ha lo scopo di ripristinare tra datore pubblico e lavoratore quella posizione paritaria, nel definire il tempo del rapporto di lavoro, che era stata lesa dalla legge 662/1996, che aveva fondato un vero e proprio diritto potestativo dei pubblici impiegati di collocarsi a part-time, senza che l'ente potesse opporvisi. L'articolo 16 della legge 183/2010 riequilibra la situazione e permette al datore pubblico di ripristinare il tempo pieno, anche per far fronte alla necessità di incrementare il tempo di lavoro in tempo di restrizioni alle assunzioni, necessità portata alla base del provvedimento adottato dal Ministero della giustizia oggetto delle due contrastanti ordinanze.
Inoltre, considera l'ordinanza del giudice collegiale, l'articolo 16 compie anche un atto di giustizia tra dipendenti pubblici, parificando la posizione di coloro che avevano chiesto il part-time prima della riforma operata dal dl 112/2008, convertito in legge 133/2008, che ha eliminato il diritto potestativo alla modifica del tempo di lavoro, e i dipendenti che chiedono il part-time nel nuovo regime, esposti all'eventualità che il datore pubblico non accolga l'istanza.
Infine, l'ordinanza del 16 giugno nega che la necessità, richiesta dall'articolo 16 del collegato lavoro, di rivedere i part-time nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede imponga una verifica congiunta, tra datore e lavoratore, della permanenza dell'interesse reciproco alla conservazione del tempo parziale. In sostanza, il datore può valutare unilateralmente anche il rispetto della buona fede e della correttezza, nel rivedere i provvedimenti di concessione del tempo parziale.
L'ordinanza proprio su questo punto non appare del tutto convincente. Non si vede, infatti, come la buona fede e la correttezza possano essere garantite, se non considerando l'affidamento del dipendente nella prosecuzione del part-time ottenuto anni prima (nel caso di specie, nel 2000) e senza un pieno contraddittorio. Poco convincente è anche il tema del «riequlibrio» della posizione tra lavoratori: le modifiche all'ordinamento rendono continuamente diverse le posizioni dei dipendenti, basti pensare ai regimi pensionistici (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2011 - link a www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAIn arrivo il dlgs che recepisce la direttiva 2008/99/Ce sulla tutela penale dell'ambiente. Ecoreati, le società tremano. Fino a 750 mila di multa per la gestione illecita dei rifiuti.
Fino a 750 mila euro per gestione illecita dei rifiuti, più di 380 mila euro per l'inquinamento di suolo, acque, e aria, oltre 350 mila euro per danneggiamento di habitat, specie vegetali e animali protette.
Queste le sanzioni che colpiranno direttamente società, persone giuridiche ed associazioni di fatto per gli illeciti ambientali commessi in loro interesse dagli organi dell'ente.
A tingere di verde i «corporate crimes» sarà il nuovo decreto legislativo di recepimento delle direttive 2008/99/Ce sulla tutela penale dell'ambiente e 2009/123/Ce sull'inquinamento da navi, decreto già approvato dal consiglio dei ministri il 07.04.2011, attualmente all'esame delle commissioni parlamentari, e sulla cui approvazione definitiva in tempi brevissimi spinge ora l'Ue, che ha lo scorso 16 giugno formalmente contestato all'Italia l'inosservanza dei termini di recepimento (scaduti rispettivamente il 16 novembre ed il 16.12.2010), concedendo solo due ulteriori mesi di tempo per l'adeguamento prima di adire la Corte di giustizia.
Nuove responsabilità per persone fisiche ed enti. Due le linee direttrici che informano in nuovo decreto in itinere: da un lato l'introduzione di nuovi ecoreati cui risponderanno le persone fisiche; dall'altro una parallela, autonoma e distinta responsabilità (a titolo di illecito amministrativo) per tutti i principali illeciti ambientali (vigenti ed emanandi), a carico degli enti collettivi cui le condotte «contra legem» saranno riconducibili per l'agire di loro amministratori, dirigenti e dipendenti.
Tecnicamente l'ampliamento della responsabilità degli enti sarà disposta mediante il «travaso» dei reati ambientali nell'elenco degli illeciti recato dal dlgs 231/2001, il provvedimento che disciplina la responsabilità amministrativa delle organizzazioni collettive.
I nuovi reati ambientali. Le nuove condotte penalmente rilevanti per le persone fisiche previste dall'approvando decreto legislativo (con speculare responsabilità amministrativa degli enti che se avvantaggeranno) coincideranno con le azioni poste a danno di habitat, fauna e flora. I nuovi reati, introdotti direttamente nel Codice penale e puniti a titolo di contravvenzione, consisteranno infatti in: uccisione, cattura, possesso ingiustificati di specie animali protette; distruzione, prelevamento o possesso ingiustificati di specie vegetali protette; distruzione o deterioramento significativo di habitat all'interno siti protetti.
Gli illeciti ambientali degli enti. Mediante la citata riformulazione del dlgs 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti, gli illeciti ambientali già previsti e quelli di nuova introduzione da parte del nuovo decreto saranno direttamente imputabili alle organizzazioni collettive.
In quanto commessi da loro organi e a loro vantaggio, le organizzazioni collettive risponderanno infatti di gestione illecita dei rifiuti, inosservanza delle norme sull'impatto ambientale, inquinamento di suolo, acque, e aria, danneggiamento di specie animali e vegetali protette. ... (articolo ItaliaOggi del 27.06.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl tetto agli stipendi colpisce le risorse variabili.
La Ragioneria generale dello Stato sdogana, dopo lunghe e travagliate vicissitudini, la circolare 15.04.2011 n. 12 sull'applicazione dell'articolo 9 del Dl 78/2010, con particolare riferimento ai commi 1, 2-bis e 4.
Le componenti.
Secondo la Ragioneria stessa, il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010 è composto dal trattamento fondamentale (vale a dire lo stipendio base, la tredicesima e la Ria) e dal «trattamento accessorio avente carattere fisso e continuativo», in cui bisogna far confluire l'indennità di amministrazione per lo Stato, l'indennità di comparto per gli enti locali, la retribuzione di posizione e le «indennità pensionabili», espressione non molto felice, considerando che, dal 1996, anche tutto il salario accessorio è utile ai fini del calcolo della pensione.
Non rientrano nel tetto lo straordinario, le maggiorazioni orarie e le indennità di turno. Per il calcolo, si deve far riferimento al concetto di ordinarietà, e quindi non rilevano i congedi, i permessi non retribuiti e le aspettative.
Limite del 3,20%.
Il limite del 3,20% interessa solo i non dirigenti degli enti locali e i dipendenti della sanità, ma tale vincolo riguarda unicamente le risorse aggiuntive di carattere variabile previste dall'ultimo contratto collettivo nazionale di lavoro.
Sono fatte salve le risorse variabili previste dai precedenti Ccnl quali gli incrementi di cui all'articolo 15, commi 2 e 5, del Ccnl 01.04.1999. La posizione della Ragioneria generale dello Stato si pone in antitesi con i pareri che sono stati espressi, di recente, da alcune sezioni regionali della Corte dei conti.
Temi caldi.
Il blocco del trattamento accessorio si riferisce al fondo per la contrattazione decentrata. Peccato, però, che la Rgs non tocchi i temi caldi sul tappeto, quali i compensi per progettazione e vigili.
Probabilmente il riferimento alle risorse del fondo conferma l'orientamento elaborato dalla magistratura contabile che non prevede esclusioni.
Meno scontate le istruzioni per il calcolo della riduzione per i cessati, che sarà proporzionale alla media dei dipendenti di ciascun anno rispetto a quelli del 2010. Media pari alla semisomma dei dipendenti presenti il primo e l'ultimo giorno dell'anno.
In un contesto di esasperato rigore, la Ragioneria fa salve le progressioni economiche al l'interno delle aree ponendo due condizioni: i soldi si vedranno nel 2014 e la spesa rende indisponibili le risorse stabili.
Il che suona come un "assalto la diligenza" delle residue risorse che dovevano servire per l'attuazione di una riforma Brunetta sempre più povera (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2011 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGONodo previdenza sulle progressioni.
Gli effetti del riconoscimento «giuridico» ma non economico degli avanzamenti - LE CONSEGUENZE - Remunerazione congelata per il triennio con interrogativi sui fondi alla «scadenza» di gennaio 2004.
La Ragioneria generale dello Stato apre alla possibilità di effettuare nel triennio 2011-2013 progressioni orizzontali a valenza giuridica ma non economica. La circolare 15.04.2011 n. 12 conferma quindi l'orientamento espresso da alcune sezioni regionali della Corte dei conti. Tutto nasce dal comma 21 dell'articolo 9 del Dl 78/2010, il quale ha stabilito che le progressioni di carriera comunque denominate e i passaggi tra le aree producono effetti solo giuridici. Di fatto, la promozione non verrà remunerata se non dal 2014. Secondo la Rgs, in tale previsione normativa è possibile ricomprendere anche le progressioni orizzontali. Questa analisi presenta però alcuni elementi di criticità.
Il primo deriva dalla distinzione tra i due istituti, progressioni di carriera e progressioni economiche, delineata dagli articoli 23 e 24 del Dlgs 150/2009. Si tratta di realtà completamente diverse, per cui l'assimilazione in via interpretativa appare un po' forzata. In secondo luogo, le progressioni orizzontali sono un istituto premiante finalizzato esclusivamente a un maggiore riconoscimento retributivo. Pensare che una progressione a valenza esclusivamente economica possa essere fatta solo a fini giuridici è impresa ardua. La terza criticità si rinviene nella modalità di costituzione e nell'utilizzo del fondo dal quale le risorse per le progressioni vengono pescate. Anche in caso di congelamento retributivo nel triennio, con la mensilità di gennaio 2014 vi sarebbe una fuoriuscita cospicua di risorse dal fondo per pagare le progressioni fino ad allora solo giuridiche. Come si può ipotecare oggi la presenza di tali risorse? Soprattutto nel comparto delle autonomie la progressione giuridica ma non economica appare una scommessa.
Infine, la difficile sostenibilità della tesi della Rgs sta anche nei risvolti che tale scelta potrebbe portare ai fini previdenziali. Se a un dipendente viene riconosciuta una posizione giuridica superiore, ci si domanda cosa potrebbe accadere in sede di quantificazione della pensione. Di fatto il dipendente risulterebbe inquadrato a un maggior livello retributivo, senza che sia stato versato alcun contributo previdenziale. A questo punto ci si chiede anche se l'ente dovrebbe provvedere comunque al versamento della contribuzione obbligatoria, che porterebbe a un maggiore esborso di risorse finanziarie senza, dall'altra parte, alcuna prestazione aggiuntiva da parte dei lavoratori. Forse la matassa potrà essere sbrogliata dall'Inpdap, ma di certo non è una situazione da prendere alla leggera.
La circolare 12, poi, non ha brillato in chiarezza sulla tematica dell'inclusione o meno delle somme incentivanti previste da specifiche disposizioni di legge nel blocco del salario accessorio per il triennio 2011-2013. A oggi la tesi più accreditata, e anche più vicina al testo letterale dell'articolo 9 comma 2-bis, sembra quella della Corte dei conti del Veneto, che nella deliberazione 285/2011 ha rilevato l'assenza di eccezioni per qualsiasi emolumento.
Sulla stessa linea si trovano i dubbi inerenti alle somme trasferite dallo Stato per il censimento in corso. A tal fine la Rgs ha fornito all'Istat con la nota protocollo 70840/2011 la propria interpretazione dei fatti. Se in termini di principio le norme vigenti non contengono alcuna deroga alle disposizioni in materia di contenimento della spesa di personale, in termini più circoscritti la Ragioneria ritiene che –poiché si tratta di somme interamente finanziate da risorse statali a destinazione vincolata– le stesse possono non essere considerate ai fini del vincolo di cui ai commi 557 e 562 della Legge finanziaria 2007 (articolo Il Sole 24 Ore del 27.06.2011 - link a www.corteconti.it).

CORTE DEI CONTI

APPALTICorte dei conti. Errori formali? Non c'è responsabilità amministrativa.
L'avere commesso errori di tipo formale che hanno determinato l'annullamento della aggiudicazione di una gara e la condanna dell'ente a risarcire i danni provocati ad una società partecipante non può essere definito come colpa grave e, quindi, non matura responsabilità amministrativa. Presupposto del maturare di responsabilità amministrativa è la presenza del dolo o della colpa grave. E tali elementi non possono essere in alcun modo dati come presupposti, ma devono essere adeguatamente provati.
Possono essere così sintetizzati i principi dettati dalla sentenza 17.05.2011 n. 229 della II Sez. giurisdizionale centrale di appello della Corte dei conti.
Con tale pronuncia sono stati assolti il sindaco, il segretario e la presidente della commissione di gara per l'aggiudicazione del servizio di mensa scolastica, dopo che l'ente era stato condannato in primo grado a dovere risarcire i danni provocati ad una società per errori formali commessi nella procedura selettiva e che, nelle more del contenzioso amministrativo, è stato affidato provvisoriamente tale servizio alla società risultata aggiudicataria. Da sottolineare che la sentenza rovescia la condanna che, in primo grado, era stata comminata nei confronti di tali soggetti.
Il presupposto di base da cui la sentenza parte è il seguente: «In caso di provvedimenti annullati dal giudice della legittimità e produttivi di danno erariale, la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa grave deve essere comunque autonomamente provato, non essendo sufficiente a tal fine l'aver posto in essere un atto illegittimo». Quindi, con molta nettezza si distingue tra la illegittimità degli atti ed il maturare di responsabilità amministrativa: a tal fine occorre la presenza di 2 ulteriori elementi, il danno ed il requisito psicologico del dolo o della colpa grave.
Elemento strettamente connesso è il fatto che «il giudice contabile deve indicare le ragioni che lo inducono a ravvisare nella condotta antidoverosa connotazioni di particolare superficialità e di significativa divergenza dalla condotta esigibile; e ciò tenuto conto, ovviamente, di tutte le circostanze del caso concreto ed avuto riguardo alle attribuzioni e alla competenza funzionale del soggetto che si giudica».
Nel caso specifico che cosa era accaduto: alla base dell'annullamento della aggiudicazione vi era la circostanza che l'offerta della società vincitrice «non era stata presentata in distinta busta chiusa, contrariamente a quanto previsto dal bando, per cui le offerte economiche erano state aperte prima del giudizio tecnico, falsando, in tal modo, l'intera procedura». Occorre, per la maturazione di responsabilità amministrativa, dimostrare che siamo in presenza di un errore addebitabile a colpa grave.
Per la presidente della commissione di gara non si può ritenere presente tale elemento, in quanto la stessa ha recepito nel corso della procedura le perplessità avanzate dagli altri concorrenti, ha sospeso la stessa ed ha richiesto un parere al segretario del comune e solo dopo avere acquisito lo stesso ha provveduto a concludere i lavori ed alla trasmissione alla giunta, peraltro senza omettere nulla nella relazione su quanto avvenuto.
Anche per il segretario non si può parlare di colpa grave: il suo comportamento, «fondato più su una valutazione sostanziale di convenienza che su ragioni formali di regolarità della gara, non appare contraddistinto da quella irragionevole trascuratezza dei doveri d'ufficio che contraddistingue un comportamento caratterizzato da colpa grave. Infatti, va tenuto conto che nella fattispecie le argomentazioni poste a base del parere favorevole apparivano ragionevolmente fondate sul fatto che si trattava di valutare, in una gara esplorativa per l'aggiudicazione a trattativa privata del servizio di mensa scolastica, l'offerta più conveniente. Tale orientamento, peraltro, fu avvalorato dall'esito favorevole del controllo di legittimità svolto dal CO.RE.CO. sulle delibere emesse in esito alla procedura di gara, oltre che dai pareri tecnici e di legittimità degli uffici amministrativi».
A maggior ragione non si può parlare di colpa grave in capo al sindaco, in quanto lo stesso non ha svolto alcun ruolo: la censura di «omessa vigilanza» mossagli dai giudici di primo grado infatti non regge, in quanto «non si comprende quale attività avrebbe dovuto svolgere il Sindaco nel caso concreto, in presenza di specifiche attribuzioni della commissione di gara, che comunque non consentivano l'esercizio di poteri sostitutivi».
Da evidenziare infine che, quanto al maturare della prescrizione quinquennale della responsabilità amministrativa, la seconda sezione centrale sottolinea che essa matura dalla data del pagamento illecito, essendo nell'ambito della «responsabilità indiretta» (articolo ItaliaOggi dell'01.07.2011 - link a www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATALa costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cd. dicatio ad patriam -costituita dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione.
L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone necessariamente l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta.

La costituzione su una strada privata di una servitù di uso pubblico può avvenire, alternativamente, a mezzo della cd. dicatioad patriam -costituita dal comportamento del proprietario di un bene che metta spontaneamente ed in modo univoco il bene a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l'effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico-, ovvero attraverso l'uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all'usucapione (cfr. C.d.S., sez. V, 24.05.2007, n. 2618).
L'accertamento in ordine alla natura pubblica di una strada presuppone necessariamente l'esistenza di un atto o di un fatto in base al quale la proprietà del suolo su cui essa sorge sia di proprietà di un ente pubblico territoriale, ovvero che a favore del medesimo ente sia stata costituita una servitù di uso pubblico, e che la stessa sia destinata all'uso pubblico con una manifestazione di volontà espressa o tacita dell'ente medesimo, senza che sia sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto del transito del pubblico, né la mera previsione programmatica della sua destinazione a strada pubblica, o l'intervento di atti di riconoscimento da parte dell'amministrazione medesima circa la funzione da essa assolta (Cassazione civile, sez. II, 07.04.2006 , n. 8204) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.06.2011 n. 3868 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica - Soggetti legittimati - Art. 146 d.lgs. n. 42/2004.
La disposizione di cui all'art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004 individua i soggetti legittimati a richiedere l'autorizzazione paesaggistica indicandoli nei "proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili di aree di interesse paesaggistico", ovvero, in senso letterale, in tutti coloro che hanno con la "res", oggetto di protezione vincolistica, una relazione dominicale e/o materiale, ovvero, secondo un'interpretazione estensiva conforme al dettato costituzionale, a coloro che del bene debbono avere la disponibilità materiale, pena l'inefficacia del sistema di tutela giurisdizionale (TAR Campania Napoli, sez. III, 09.11.2010, n. 23672) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 1015 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opera abusiva in area protetta - Assoluzione dalla responsabilità penale - Sanzione amministrativa - Carattere reale.
L’assoluzione dalla responsabilità penale non cancella il fatto storico della realizzazione di un’opera abusiva in area protetta, venendo altrimenti vanificato l’intento di maggiore protezione che l’ordinamento ha imposto a difesa di detti beni.
La giurisprudenza di questo Tribunale comunque si è già espressa sul punto (I sezione n. 137/2009) affermando il carattere reale della sanzione proprio per garantire la tutela ambientale e paesaggistica, costituzionalmente indicata come valore primario.
Abusi edilizi - Atto repressivo - Attività vincolata - Ordine di demolizione - Motivazione - Accertata abusività.
A fronte degli abusi edilizi, l’amministrazione non gode di alcun margine di discrezionalità ed ha quindi l'obbligo di intervenire con un atto repressivo, dovuto nell'an e vincolato nel suo contenuto, senza che su di esso possa influire alcuna comparazione tra interessi pubblici ed interessi privati.
In ogni caso, l'ordine di demolizione di opere edilizie abusive insistenti in area soggetta ad un vincolo di inedificabilità assoluta non abbisogna di una motivazione particolarmente diffusa ed anche relativamente ad un abuso risalente nel tempo risulta sufficiente l'affermazione dell'accertata abusività del manufatto (TAR Lombardia Brescia, 20.10.2005, n. 1041) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 1015 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia - Nozione di costruzione - Precarietà di un manufatto - Presupposti.
La nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante la realizzazione di opere murarie, cosicché fuoriesce da tale definizione soltanto l'opera destinata, fin dall'origine, a soddisfare esigenze contingibili e circoscritte nel tempo.
In particolare, la precarietà di un manufatto, al fine di escludere la necessità del rilascio di un titolo edilizio, va valutata a prescindere dalla temporaneità della destinazione soggettivamente impressa dal costruttore e dalla maggiore o minore amovibilità delle parti che lo compongono, considerando invece l'opera alla luce della sua obiettiva e intrinseca destinazione naturale che ne riveli l'uso oggettivamente precario e temporaneo (TAR Campania Napoli, sez. III, 06.11.2007, n. 1068; TAR Lombardia Milano, sez. IV, 09.03.2011, n. 644) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 28.06.2011 n. 1015 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICAIn base all'art. 16 della L. Urbanistica e' doveroso acquisire il parere della Soprintendenza qualora il piano attuativo coinvolga beni vincolati. Il principio, sancito per i piani particolareggiati, viene esteso alla generalita' dei piani attuativi ed anche ai PII.
- La previsione dell’art. 16, co. 3, sui piani particolareggiati deve essere ritenuta applicabile anche ai piani attuativi previsti dalle leggi speciali successive. Invero, il piano particolareggiato era in origine previsto per dare attuazione alle previsioni contenute nello strumento urbanistico generale senza che le fosse riconosciuta la possibilità di apportare variazioni al piano regolatore generale. La prassi di utilizzare tale strumento pianificatorio, anche in ragione della sua scarsa flessibilità, è poi venuta scemando quando, con il PRG, le amministrazioni comunali hanno cominciato ad inserire prescrizioni conformative della proprietà privata e quindi autoesecutive. Da qui la sostituzione nella prassi di tale strumento con i piani attuativi ai quali la normativa statale ha riconosciuto la possibilità, come detto, di apportare variazioni alla pianificazione generale sostituendosi, di fatto, alla pianificazione particolareggiata. Ad ogni modo, sia il piano attuativo che quello particolareggiato condividono la stessa ratio e natura atteso che tali strumenti hanno la funzione, oltre che di attuazione delle prescrizioni conformative della proprietà privata contenute nel PRG ovvero nella variante contenuta nello stesso piano, di regolamentare la gestione dell’attività di trasformazione del territorio. In ragione di ciò, non sembra dubitabile che l’art. 16, comma 3, della Legge n. 1150/1942, sebbene riferita espressamente ai piani particolareggiati, vada applicata anche nel caso dell’approvazione dei piani attuativi in variante, proprio in ragione della medesima funzione che svolgono e della loro alternatività.
- L’approvazione del d.lgs. 42/2004 non è una ragione sufficiente per ritenere implicitamente superata una norma ancora attualmente vigente quale quella dell’art. 16, co. 3, legge urbanistica. Una norma più risalente può essere implicitamente abrogata da una norma successiva quando vi è un contrasto tra l’una e l’altra, in applicazione del criterio cronologico, che è uno dei criteri attraverso cui vengono risolte le antinomie presenti nell’ordinamento. Ma occorre pur sempre dimostrare che vi sia un contrasto tra le due norme, perché altrimenti il criterio di soluzione delle antinomie non scatta.
- La circolare del 28.10.1967 del Ministero L.P. stabiliva che i piani attuativi andavano sottoposti al controllo ex art. 16 L. 1150/1942 dopo la loro approvazione, previsione da cui si ricaverebbe che quindi comunque non potrebbero essere viziati gli atti impugnati che erano ad essi precedenti. In realtà, questo argomento non è corretto. L’art. 16, co. 3, afferma esplicitamente che i piani sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza. Una circolare interpretativa che va in senso diverso dall’esplicito dettato della norma non può assumere alcun valore interpretativo.

Si ritiene di affrontare il secondo motivo di ricorso in cui si deduce la violazione dell’art. 16, co. 3, l. 1150/1942 perché il piano è stato approvato senza adottare il parere della Soprintendenza che è necessario in caso di trasformazione urbanistica di area sottoposta a vincolo.
Si ricorda che si tratta di un’area posta pressoché sulle rive del lago di Garda, dell’estensione di circa 17.900 mq., più altra area ad essa contigua di 38.600 mq., che verrà completamente stravolta (ed auspicabilmente migliorata, visto che una parte di essa è costituita da un’attività industriale dismessa) dalla costruzione di 200 appartamenti con palazzine di 5 piani fuori terra, oltre alberghi, oltre parcheggi, e servizi. Le forme dell’antropizzazione delle sponde del lago di Garda nel territorio di Toscolano saranno completamente riscritte dall’intervento in parola, così come cambierà a seguito di esso la forma del paesaggio di quel tratto di Garda bresciano.
Eppure per un intervento del genere, su area sottoposta a vincolo di tutela paesaggistica, non è stato acquisito alcun parere della Soprintendenza, parere che la proprietà ritiene di dover chiedere solo in occasione della richiesta dei singoli interventi edilizi (cioè quando la Soprintendenza potrà soltanto salvare il salvabile, limitandosi a contestare la forma architettonica dei singoli fabbricati, ma senza poter più incidere sulle volumetrie previste e sull’impianto complessivo della trasformazione urbanistica).
In ricorso si sostiene che la mancata richiesta di parere della Soprintendenza sarebbe illegittima ai sensi dell’art. 16 l. urbanistica, il cui co. 3 dispone in effetti che “i piani particolareggiati nei quali siano comprese cose immobili soggette alla legge 01.06.1939, n. 1089, sulla tutela delle cose di interesse artistico o storico, e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali, sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza ovvero al Ministero della pubblica istruzione quando sono approvati con decreto del ministro per i lavori pubblici”.
La norma dell’art. 16, co. 3, citata cita espressamente i “piani particolareggiati”, che era la tipologia di strumento urbanistico che nella impostazione del legislatore della legge urbanistica era diretto a dettare concretamente l’assetto dei suoli. Va quindi preliminarmente verificato se essa sia applicabile anche alle numerose tipologie di piani attuativi in variante previsti dalla legislazione successiva, ed in particolare ad un piano integrato di intervento, quale quello in esame.
I programmi integrati di intervento, infatti, non esistevano nel momento in cui è stata dettata la previsione dell’art. 16 legge urbanistica della cui applicazione di controverte, e sono stati istituiti dalla l. 17.02.1992, n. 179, importando nell’ordinamento italiano un modello mutuato da quello dell’amendment statunitense, che va quindi nella direzione dell’urbanistica contrattata, e sono stati definiti “come strumenti urbanistici di secondo livello rispetto al p.r.g., con finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio, e sono caratterizzati tra l’altro, dall’integrazione di differenti tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione. In particolare, essi mirano ad obiettivi di riqualificazione dei tessuti urbani, anche in relazione all’aspetto ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e risorse, pubblici e privati” (Tar Lombardia, Milano, II, 28.03.2007, n. 1241).
Nel senso che la previsione dell’art. 16, co. 3, sui piani particolareggiati debba essere ritenuta applicabile anche ai piani attuativi previsti dalle leggi speciali successive si è già espresso questo Tribunale, sede di Milano, II, 6541/2007, secondo cui “il piano particolareggiato era in origine previsto per dare attuazione alle previsioni contenute nello strumento urbanistico generale senza che le fosse riconosciuta la possibilità di apportare variazioni al piano regolatore generale.
La prassi di utilizzare tale strumento pianificatorio, anche in ragione della sua scarsa flessibilità, è poi venuta scemando quando, con il PRG, le amministrazioni comunali hanno cominciato ad inserire prescrizioni conformative della proprietà privata e quindi autoesecutive. Da qui la sostituzione nella prassi di tale strumento con i piani attuativi ai quali la normativa statale ha riconosciuto la possibilità, come detto, di apportare variazioni alla pianificazione generale sostituendosi, di fatto, alla pianificazione particolareggiata.
Ad ogni modo, sia il piano attuativo che quello particolareggiato condividono la stessa ratio e natura atteso che tali strumenti hanno la funzione, oltre che di attuazione delle prescrizioni conformative della proprietà privata contenute nel PRG ovvero nella variante contenuta nello stesso piano, di regolamentare la gestione dell’attività di trasformazione del territorio.
In ragione di ciò, non sembra dubitabile che l’art. 16, comma 3, della Legge n. 1150/1942, sebbene riferita espressamente ai piani particolareggiati, vada applicata anche nel caso dell’approvazione dei piani attuativi in variante, proprio in ragione della medesima funzione che svolgono e della loro alternatività
”.
Nello stesso senso si è espresso, con riferimento ad un piano di recupero, Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 1531/1997, secondo cui “qualora le aree inserite in un piano di recupero siano dichiarate di notevole interesse pubblico e sottoposte a vincolo ex l. n. 1497 del 1939, è necessario ai fini dell'approvazione del piano il parere della competente soprintendenza che deve essere emesso entro 2 mesi dalla richiesta”.
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L’approvazione del d.lgs. 42/2004 non è una ragione sufficiente per ritenere implicitamente superata una norma ancora attualmente vigente quale quella dell’art. 16, co. 3, legge urbanistica.
Una norma più risalente può essere implicitamente abrogata da una norma successiva quando vi è un contrasto tra l’una e l’altra, in applicazione del criterio cronologico, che è uno dei criteri attraverso cui vengono risolte le antinomie presenti nell’ordinamento. Ma occorre pur sempre dimostrare che vi sia un contrasto tra le due norme, perché altrimenti il criterio di soluzione delle antinomie non scatta.
Nel caso in esame, non è stata individuata alcuna specifica norma del d.lgs. 42/2004 con cui l’art. 16, co. 3, legge urbanistica si porrebbe in antinomia, ma è stato sostenuto che il contrasto sussisterebbe con l’impostazione generale del Codice dei beni culturali.
Già così l’asserita antinomia diventa molto labile, finendo per pretendere la disapplicazione di una norma vigente come quella dell’art. 16 sulla base di un generico e soggettivo contrasto con la impostazione di fondo di altra normativa.
Inoltre, se l’antinomia sussiste non con una specifica norma, ma con l’impostazione generale di un intero Codice, a quel punto essa potrebbe essere risolta, anziché applicando il criterio cronologico, mercé l’applicazione del principio di specialità, che porta a ritenere comunque applicabile la legge speciale, quale nel caso di specie sarebbe l’art. 16 che sopravviverebbe pertanto all’entrata in vigore del d.lgs. 42/2004.
Da ultimo, occorre considerare che non si comprende come l’approvazione del d.lgs. 42/2004 possa aver mutato i termini della questione. Il d.lgs. 42/2004 è solo la codificazione di alcune normative (segnatamente, quelle che interessano i beni paesaggistici sono la l. 1497/1939 e la l. 431/1985), che prevedevano già l’autorizzazione dei singoli interventi edilizi che incidono su beni paesaggistici, e che coesistevano con la norma dell’art. 16, co. 3, che chiedeva a monte l’autorizzazione anche sui progetti urbanistici. Non si vede perché con la codificazione questa doppia tutela debba essere venuta meno, limitandola solo alla meno incisiva tutela sul solo progetto edilizio (a parametri urbanistici ormai dati).
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Non è corretto l’argomento che la norma dell’art. 16, co. 3, l. urbanistica sia stata implicitamente abrogata dalla normativa regionale lombarda. Sul punto, per il vero, si è già pronunciato questo Tribunale, sede di Milano, sez. II, 6541/2007 che si era posto il problema “di verificare se la L.R. n. 12/2005 contempli una disciplina diversa rispetto a quella statale con riferimento ai piani particolareggiati e agli strumenti attuativi.
Ora, sebbene la normativa regionale detti una disciplina dei piani attuativi comunali, nulla dice in ordine al regime di approvazione di strumenti urbanistici nei quali siano ricompresi immobili di interesse storico–artistico ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939 sulla protezione delle bellezze naturali, tanto che, in ragione del principio di “autocompletamento” dell’ordinamento giuridico, deve ritenersi ancora applicabile alla fattispecie in esame l’art. 16, comma 3, della legge n. 1150/1942.
A ciò si aggiunga che l’art. 103 della L.R. n. 12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme statali”) non contempla tra le normative da disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si limita a richiamare alcune norme del DPR n. 327/2001 e del DPR n. 380/2001, il che depone a ulteriore favore del fatto che la legge urbanistica statale costituisce ancora normativa fondamentale sul punto che può essere derogata nel caso in cui la legislazione regionale rechi una disciplina generale ed esaustiva della materia di che trattasi
”.
La normativa regionale della Lombardia, pertanto, non contiene deroghe alla legge urbanistica.
Va, peraltro, aggiunto che –diversamente da come sembrerebbe concludere il Tribunale milanese– in ogni caso una eventuale norma regionale derogatoria dell’art. 16, co. 3 (e quindi una norma regionale che decida di sopprimere un controllo di un organo statale a tutela del paesaggio nel procedimento di pianificazione, demandato per il resto agli enti territoriali), rischierebbe di essere giudicata incostituzionale, in quanto finirebbe con il dettare previsioni di minor tutela su materia riservata alla competenza legislativa dello Stato, operazione già giudicata incostituzionale in diverse pronunce (cfr. per tutte Corte Cost. 182/2006: “La tutela tanto dell'ambiente quanto dei beni culturali è riservata allo Stato….: da un lato, spetta allo Stato il potere di fissare principi di tutela uniformi sull'intero territorio nazionale, e, dall'altro, le leggi regionali, emanate nell'esercizio di potestà concorrenti, possono assumere tra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale, purché siano rispettate le regole uniformi fissate dallo Stato. Appare, in sostanza, legittimo, di volta in volta, l'intervento normativo statale o regionale di maggior protezione dell'interesse ambientale”).
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Non si può neanche sostenere –come fa la difesa del controinteressato- che il piano integrato d’intervento avrebbe caratteristiche di specialità tali da sottrarlo alla disciplina dettata per gli altri piani attuativi. L’obiezioni si fonda su una frase riportata nella sentenza Tar Milano 6541/2007 più volte citata, secondo cui l’art. 16, co. 3, sarebbe applicabile per tutti piani attuativi, salvo che non siano previste discipline speciali. Il passaggio della motivazione della sentenza citata non è altro che ricognitivo dell’elementare principio di specialità sulla soluzione delle antinomie esistenti nell’ordinamento, per cui se da qualche parte è prevista una norma speciale derogatoria si applica la norma speciale.
Ma nella normativa sui piani attuativi non è prevista alcuna norma speciale derogatoria, ed in ricorso la specialità del piano integrato d’intervento la si vorrebbe ricavare dalle peculiarità della sua struttura, il che pare francamente tirato.
Senza considerare che, come evidenziato da Cons. Stato, sez. IV, 3889/2006, “il programma integrato di intervento di cui alla l.reg. Lombardia 12.04.1999 n. 9 è uno strumento urbanistico di secondo livello rispetto al piano regolatore generale, ha la finalità di riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio ed ambientale del territorio ed è caratterizzato dalla presenza di una pluralità di funzioni, dall'integrazione di diverse tipologie di intervento, ivi comprese le opere di urbanizzazione, da una dimensione capace di incidere sulla riorganizzazione urbana e dal possibile concorso di risorse finanziarie pubbliche o private; l'ampiezza di funzioni e di contenuti, pertanto, ne definisce la peculiarità rispetto ad altri strumenti di pianificazione ad orientamento settoriale, mirando ad obiettivi di riqualificazione dei tessuti urbani, anche con riguardo all'aspetto ambientale, mediante un insieme coordinato di interventi e risorse, pubblici e privati, incidenti anche sulle opere di urbanizzazione e la dotazione degli standards”.
Si tratta cioè di un piano che ha caratteristiche molto più invasive di altri, e che ha come conseguenza proprio la riqualificazione urbanistica di un’area con conseguenza tali sull’ambiente da rendere – al contrario - particolarmente appropriata la necessità di un parere preventivo della Soprintendenza.
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Da ultimo, la difesa del controinteressato sostiene che la circolare del 28.10.1967 del Ministero L.P. stabiliva che i piani andavano sottoposti al controllo ex art. 16 dopo la loro approvazione, previsione da cui si ricaverebbe che quindi comunque non potrebbero essere viziati gli atti impugnati che erano ad essi precedenti.
In realtà, questo argomento non è corretto. L’art. 16, co. 3, afferma esplicitamente che i piani sono preventivamente sottoposti alla competente Soprintendenza. Una circolare interpretativa che va in senso diverso dall’esplicito dettato della norma non può assumere alcun valore interpretativo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.06.2011 n. 959 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICALa maggiore antropizzazione di un territorio determinata dall’aumento del carico urbanistico, generando l’obbligo per chi era già insediato sul territorio di dividere standard e servizi con i nuovi arrivati e di patire la presenza di altre fonti di rumori e polveri, induce a ritenere sussistente l’interesse al ricorso di chi agisce contro il provvedimento che determina tale aumento del carico.
Non è seriamente discutibile che i cittadini di Toscolano Maderno possano agire in giudizio contro la presentazione del programma integrato d’intervento in parola.
Premesso che legittimazione ed interesse a ricorrere si esauriscono nella mera affermazione (e non nella prova) della necessità di tutela giurisdizionale derivante dalla lesione di un proprio interesse, perché legittimazione ed interesse non sono altro che modalità della domanda giudiziale, ma non attengono ancora al merito, si discute in questo giudizio in ogni caso di una trasformazione urbanistica che porterà alla realizzazione di 200 nuovi appartamenti e di una struttura alberghiera da 4.000 mc..
La maggiore antropizzazione di un territorio determinata dall’aumento del carico urbanistico, generando l’obbligo per chi era già insediato sul territorio di dividere standard e servizi con i nuovi arrivati (Toscolano Maderno attualmente ha circa 7.000 abitanti, la creazione di 200 appartamenti potrebbe portare all’aumento anche del 10% del numero di persone che gravitano sull’area) e di patire la presenza di altre fonti di rumori e polveri, induce a ritenere sussistente l’interesse al ricorso di chi agisce contro il provvedimento che determina tale aumento del carico (in senso analogo, cfr. T.r.g.a. Trento 46/2010, in cui si sostiene che “sono legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso”)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.06.2011 n. 959 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La dichiarazione sostitutiva di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, inerente a circostanze relative a terzi, deve essere resa solo nella misura in cui fatti ed atti dichiarati rientrino nella conoscenza diretta del dichiarante.
L'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, relativamente alle dichiarazioni sostitutive rese in ordine a stati, qualità personali e fatti relativi a terzi, va interpretata in relazione ai principi generali in tema di dichiarazioni rese alla P.A. Proprio perché il soggetto può rendere la dichiarazione afferente al terzo solo relativamente a quanto rientri nella propria diretta conoscenza, ne consegue che, in presenza di una norma che richiede la predetta dichiarazione, quest'ultima deve essere resa se nel senso di attestare solo ciò che è a conoscenza del dichiarante, ben potendo l'amministrazione procedere alle opportune verifiche, in ordine alla sussistenza dei requisiti in capo a tali soggetti.
Pertanto, la dichiarazione in ordine alle ragioni che hanno reso impossibile o gravosa la produzione della dichiarazione "diretta" da parte dei soggetti interessati, appare del tutto superflua, né la mancanza di tale dichiarazione può comportare l'esclusione dalla gara (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.06.2011 n. 3862 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'asservimento di un fondo, in caso di edificazione, costituisce una qualità oggettiva dello stesso, opponibile ai terzi, che continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva.
Il vincolo creato dall'asservimento per sua natura permane sul fondo servente a tempo indeterminato, pena il completo snaturamento dell'istituto. L'asservimento di un fondo ad un altro crea, infatti, una relazione pertinenziale nella quale viene posta "durevolmente" a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro.
Gli effetti derivanti dal vincolo, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario.

Ad avviso di costante e condivisibile giurisprudenza, l'asservimento di un fondo, in caso di edificazione, costituisce una qualità oggettiva dello stesso, opponibile ai terzi, che continua a seguire il fondo anche nei successivi trasferimenti a qualsiasi titolo intervenuti in epoca successiva (Consiglio Stato, sez. V, 30.03.1998, n. 387; sez. IV, 06.07.2010, n. 4333).
Va soggiunto che il vincolo creato dall'asservimento per sua natura permane sul fondo servente a tempo indeterminato, pena il completo snaturamento dell'istituto. L'asservimento di un fondo ad un altro crea, infatti, una relazione pertinenziale nella quale viene posta "durevolmente" a servizio di un fondo la qualità edificatoria di un altro (cfr. Cons. Stato, Ad Plen., n. 3/2009; Cons. Stato, sez. IV, n. 3766/2008, secondo cui il "vincolo rimane cristallizzato nel tempo”).
In definitiva, gli effetti derivanti dal vincolo, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario (Cass. pen., sez. III, 21177/2009) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.06.2011 n. 3823 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente da una gara a carico del cui progettista siano risultate delle condanne penali non dichiarate.
E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di un'impresa, a carico del cui progettista siano risultate, a seguito della verifica del possesso dei requisiti di partecipazione e dall'esame del relativo certificato del casellario giudiziale, annotazioni di cui l'incaricato del progetto non aveva dichiarato l'esistenza.
Anche a prescindere da ogni considerazione circa natura e gravità dei reati per i quali il professionista era stato condannato, in ogni caso è la stessa dichiarazione non veritiera che, ai sensi della normativa di gara, imponeva l'esclusione (TAR Lazio-Roma, Sez. I-bis, sentenza 24.06.2011 n. 5651 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla necessità di una compiuta verbalizzazione delle cautele da osservare ai fini della conservazione dei plichi contenenti le offerte.
La commissione deve adottare le cautele idonee a garantire la segretezza degli atti di gara e a prevenire rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e dando atto a verbale della integrità dei plichi.
In particolare, dal verbale deve risultare il nominativo di colui cui siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le conseguenti responsabilità, ovvero -con chiarezza e univocità- deve risultare l'ufficio cui sono consegnati e all'interno del quale essi vanno conservati (con individuazione immediata del suo responsabile): in qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o amministrativa (a seconda dei casi e delle relative funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni altra circostanza attinente alla loro integrità e conservazione.
Poiché le cautele sono idonee solo se assicurano la conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e con individuazione di un soggetto o ufficio responsabile dell'inaccessibilità del luogo a terzi, anche se non occorrono 'formule sacramentali' la verbalizzazione è legittima se, oltre a indicare le cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono integri (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.06.2011 n. 3803 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Legittima l'esclusione dalla gara di un'impresa il cui progettista abbia omesso di presentare il casellario giudiziale e il certificato dei carichi pendenti, in violazione di quanto richiesto a pena di esclusione dal bando.
Le prescrizioni contenute nella lex specialis hanno portata vincolante e l'Amministrazione è tenuta a darvi precisa ed incondizionata esecuzione, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale circa la rilevanza dell'inadempimento e l'incidenza di questo sulla regolarità della procedura selettiva o ancora sulla congruità della sanzione contemplata dalla disciplina di gara, alla cui osservanza la stessa Amministrazione si è autovincolata al momento dell'adozione del bando, cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 16.03.2010, n. 1513) (massima tratta e link a www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 23.06.2011 n. 1838).

ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA: Per le ''aree di rispetto'' indennizzo scontato.
Non possono essere annoverati tra i vincoli “sostanzialmente espropriativi” quelli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato.

I limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.
Riveste rilievo decisivo nella presente controversia stabilire se le prescrizioni che riguardano il fondo dell’appellante hanno carattere espropriativo, come essa ritiene o soltanto conformativo, come invece ritiene il Comune; in questo secondo caso occorre stabilire anche se gli standards eccedenti quelli minimi realizzabili previa convenzione, sono effettivamente realizzabili in base alle prescrizione del Piano che li riguarda.
Appare allora opportuno premettere alcune considerazioni in ordine alla differenza fra vincolo “espropriativo” e vincolo “conformativo”, ai fini della corretta qualificazione giuridica della fattispecie dedotta in giudizio, per poter poi stabilire se, nel caso che occupa, sussista o meno l’illegittimità del diniego impugnato del permesso di costruire adottato dal Comune.
I criteri di individuazione dei vincoli espropriativi o di inedificabilità assoluta, rispetto ai vincoli conformativi, sono stati elaborati con le sentenze della Corte Costituzionale 20.05.1999, n. 179 e 18.12.2001, n. 411, ma anche con la più recente sentenza 09.05.2003 n. 148, nella parte in cui si riferiscono a vincoli scaduti, preordinati all'espropriazione o sostanzialmente espropriativi, senza previsione di durata e di indennizzo. In base ai suddetti criteri nonché a quelli elaborati dalla giurisprudenza amministrativa formatasi in relazione all'art. 2 della legge n. 1187 del 1968, i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, che sono preordinati all'espropriazione ovvero che hanno carattere sostanzialmente espropriativo, tali da determinare l'inedificabilità dei beni colpiti e, dunque, lo svuotamento del contenuto del diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, ovvero da diminuirne in modo significativo il valore di scambio (ex plurimis: Cons. Stato, Sez.V, n. 3 del 03.01.2001 e n. 745 del 24.02.2004), con conseguente violazione sostanziale del III comma dell'art. 42 Cost.
Tali indicazioni possono valere anche con riferimento all’attuale sistema, che, con l'art. 9, commi 3 e 4, del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, entrato in vigore il 30 giugno 2003, ha soltanto esplicitato con una diversa terminologia la regola della durata quinquennale, disciplinando espressamente gli istituti della decadenza e della reiterazione.
Invece, la previsione di una determinata tipologia urbanistica non configurante né un vincolo preordinato all'espropriazione né l'inedificabilità assoluta, essendo una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia, inerisce alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'art. 11 della legge 17.08.1942 n. 1150. Si parla, in tal caso, di vincoli urbanistici di tipo “conformativo”, per indicare i vincoli relativi ai beni culturali e paesaggistici, posti direttamente dalla legge ovvero mediante un particolare procedimento amministrativo a carico di intere categorie di beni, in base a caratteristiche loro intrinseche, con carattere di generalità ed in modo obiettivo: tali limitazioni delle facoltà del proprietario ricadono nella previsione non del comma terzo, bensì del comma secondo, dell’art. 42, Cost. e non sono indennizzabili.
In proposito, la precitata sentenza della Corte Costituzionale n. 179 del 1999, al punto 5 della parte in diritto, ha precisato che “sono al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo con le connesse garanzie costituzionali (e quindi non necessariamente con l'alternativa di indennizzo o di durata predefinita) i vincoli che importano una destinazione (anche di contenuto specifico) realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di previa ablazione del bene.
Ciò può essere il risultato di una scelta di politica programmatoria tutte le volte che gli obiettivi di interesse generale, di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l'iniziativa economica privata - pur se accompagnati da strumenti di convenzionamento
”.
Pertanto, i limiti non ablatori normalmente posti nei regolamenti urbanistici o nella pianificazione urbanistica e relative norme tecniche, riguardanti altezza, cubatura, superficie coperta, distanze, zone di rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e rapporti per zone territoriali omogenee e simili, sono vincoli conformativi, connaturali alla proprietà, e non comportano indennizzo.
Inoltre, se pure hanno carattere particolare, i vincoli di destinazione imposti dal piano regolatore per attrezzature e servizi realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, anche se accompagnati da strumenti di convenzionamento (ad es. parcheggi, impianti sportivi, mercati e strutture commerciali, edifici sanitari, zone artigianali, industriali o residenziali), sfuggono allo schema ablatorio, con le connesse garanzie costituzionali in termini di alternatività fra indennizzo e durata predefinita.
Se è vero, infatti, che la previsione dell'indennizzo è doverosa non soltanto per i vincoli preordinati all'ablazione del suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente espropriativi" (secondo la definizione di cui all'art. 39, comma 1, del precitato D.P.R. 327/2001), è anche vero che non possono essere annoverati in quest'ultima categoria, quei vincoli derivanti da destinazioni realizzabili anche attraverso l'iniziativa privata in regime di economia di mercato (cfr., ex multis, Cons. St., IV, 28.02.2005, n. 693; VI, 14.05.2000, n. 2934; Cass. Civ., I, 26.01.2006, n. 1626 e 27.05.2005, n. 11322).
Ciò, in quanto la disciplina urbanistica che ammette la realizzazione di interventi edilizi da parte di privati, seppur conformati dal perseguimento del peculiare interesse pubblico che ha determinato il vincolo, non si risolve in una sostanziale espropriazione, ma solo in una limitazione, conforme ai principi che presiedono al corretto ed ordinario esercizio del potere pianificatorio, dell'attività edilizia realizzabile sul terreno.
Pertanto, siffatta categoria di vincoli, non avendo un contenuto sostanzialmente espropriativo, ma derivando dal riconoscimento delle caratteristiche intrinseche del bene, nell’ambito delle scelte di pianificazione generale, risulta determinata nell’esercizio della potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, per cui ha validità a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'articolo 11 della legge 1150/1942.
Quanto all’obbligo dell’indennizzo, occorre precisare che il problema della temporaneità e della conseguente indennizzabilità della protrazione dei vincoli urbanistici si può porre solo nei confronti dei vincoli preordinati all'espropriazione o sostanzialmente ablativi: restano, di conseguenza, fuori dai problemi enunciati tutti gli altri vincoli attinenti a destinazioni non coinvolgenti l’esecuzione di opere pubbliche, ma rimessi alla iniziativa (anche concorrente) dei singoli proprietari (come il verde condominiale e gli accessi privati pedonali), trattandosi di vincoli meramente conformativi.
In effetti, in linea generale, le opere di interesse generale costituiscono una categoria logico-giuridica nettamente differenziata rispetto a quella delle "opere pubbliche", poiché si riferiscono a quegli impianti ed attrezzature che, sebbene non destinate a scopi di stretta cura della pubblica Amministrazione, sono idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché vengano realizzate e gestite da soggetti privati: in tale ambito, ci si riferisce a supermercati, strutture alberghiere, stazioni di servizio, banche, discoteche, etc. (cfr. Cons. di Stato sez. V, n° 405 del 23.03.1993; Cons. di Stato sez. V, n. 268 del 27.04.1988; Cons. di Stato sez. V, n. 1000 dell'11.07.1975; TAR Campania-Napoli n. 6604 del 23.10.2002; TAR Puglia-Bari n. 4632 del 21.10.2002; TAR Puglia-Bari n. 1157 del 28.02.2002; TAR Basilicata n. 288 del 21.10.1996; TAR Campania-Napoli n. 180 del 22.05.1990; TAR Lombardia-Brescia n. 693 dell'08.09.1987; TAR Piemonte n. 321 del 29.10.1984).
Applicando i già ricordati principi al caso di specie, discende che le destinazioni a zona pubblica per attrezzature di pubblico interesse ne discende, avuto particolare riguardo alla realizzabilità anche ad iniziativa privata o promiscua, in regime di economia di mercato, la sua non sussumibilità nello schema ablatorio, ma, piuttosto, nella tipologia dei vincoli urbanistici di tipo “conformativo”, che non pongono particolari limitazioni alle facoltà del proprietario, riconducibili, come tali, alle previsione non del comma terzo, bensì del secondo comma, dell’art. 42, Cost..
Conseguentemente, tale normazione di zona non può che avere validità a tempo indeterminato, come espressamente stabilito dall'art. 11 della legge 17.08.1942 n. 1150. Conclusivamente, nella specie, si deve ritenere che, il fondo di proprietà del ricorrente, non risulta gravato da vincolo preordinato all’espropriazione (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.06.2011 n. 3797 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il divieto di costruzione di opere sugli argini dei corsi d'acqua ha carattere inderogabile.
In linea generale il divieto di costruzione di opere dagli argini dei corsi d'acqua, previsto dall'art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904 n. 523, ha carattere legale ed è inderogabile, ed è diretto al fine di assicurare non solo la possibilità di sfruttamento delle acque demaniali, ma anche (e soprattutto) il libero deflusso delle acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali e scolatoi pubblici (cfr. Cassazione civile, sez. un., 30.07.2009, n. 17784).
Il divieto sancito dall'art. 96, lett. f), cit., e dalla successiva lett. g), estende –con carattere di assoluta inderogabilità- il divieto a qualunque manufatto o volume collocato a meno di dieci metri dalla sponda del fiume, per cui nessuna opera realizzata in violazione di tali norme può sanata.
Una volta che un corso d’acqua è stato costitutivamente inserito negli elenchi, la successiva comunicazione del Magistrato delle Acque è meramente ricognitiva della sussistenza di un preesistente vincolo all’edificazione, di carattere assoluto ed inderogabile, e comunque va autonomamente impugnato presso il competente Tribunale delle Acque.
In difetto, nell'ipotesi di costruzione abusiva realizzata in contrasto con il divieto di cui all'art. 96, lett. f), r.d. 25.07.1904 n. 523, trova infatti applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47 sul condono edilizio, il quale ricomprende, nei vincoli di inedificabilità, tutti i casi in cui le norme vietino in modo assoluto di edificare in determinate aree (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 26.03.2009, n. 1814; Consiglio Stato, sez. IV, 23.07.2009, n. 4663).
Nel caso di specie l’autorimessa era stata realizzato all'interno della c.d. fascia di servitù idraulica, per cui il diniego di rilascio di concessione edilizia in sanatoria è conseguentemente legittimo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.06.2011 n. 3781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIÈ conforme alla costituzione che i consiglieri comunali e provinciali possano rendersi disponibili per autenticare le sottoscrizioni per la presentazione delle liste elettorali.
Gli appellanti, nella pronuncia in commento, hanno contestato che i primi giudici non avrebbero adeguatamente apprezzato la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14 della legge 21.03.1990, n. 53, respingendola con motivazione superficiale ed approssimativa, senza rendersi conto, invece, che tale disposizione, nella parte in cui prevede che anche i consiglieri comunali e provinciali possono rendersi disponibili per autenticare le sottoscrizioni per la presentazione delle liste elettorali, determina un’intrinseca discriminazione tra le liste collegate a partiti rappresentati nei consigli comunali e provinciali e quelle prive di tale collegamento, violando macroscopicamente il principio della par condicio delle liste nella delicata fase di raccolta delle sottoscrizioni per la loro presentazione.
Tale tesi, tuttavia, secondo i giudici del Consiglio di Stato non merita favorevole considerazione alla luce della esatta ricostruzione della ratio della norma in questione (art. 14 della legge 21.03.1990, n. 53). Infatti essa, spiegano i giudici d’appello, nel testo derivante dalle modifiche introdotte dall’articolo 4 della legge 30.04.1999, n. 120, stabilendo al primo comma che “Sono competenti ad eseguire le autenticazioni che non siano attribuite esclusivamente ai notai e che siano previste dalla legge 06.02.1948, n. 29, dalla legge 08.03.1951, n. 122, dal testo unico delle leggi recanti norme per la elezione alla Camera dei deputati, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30.03.1957, n. 361, e successive modificazioni, dal testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 16.05.1960, n. 570, e successive modificazioni, dalla legge 17.02.1968, n. 108, dal decreto-legge 03.05.1976, n. 161 , convertito, con modificazioni, dalla legge 14.05.1976, n. 240, dalla legge 24.01.1979, n. 18 , e successive modificazioni, e dalla legge 25.05.1970, n. 352, e successive modificazioni, i notai, i giudici di pace, i cancellieri e i collaboratori delle cancellerie delle Corti di appello, dei tribunali e delle preture, i segretari delle procure della Repubblica, i presidenti delle province, i sindaci, gli assessori comunali e provinciali, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti e i vice presidenti dei consigli circoscrizionali, i segretari comunali e provinciali e i funzionari incaricati dal sindaco e dal presidente della provincia. Sono altresì competenti ad eseguire le autenticazioni di cui al presente comma i consiglieri provinciali e i consiglieri comunali che comunichino la propria disponibilità, rispettivamente, al presidente della provincia e al sindaco”, ha inteso agevolare lo svolgimento del procedimento elettorale, ampliando notevolmente il novero dei soggetti abilitati all’autenticazione delle firme dei sottoscrittori di liste (C.d.S., sez. 18.09.2008, n. 4451).
E’ del tutto ragionevole ritenere infatti che l’aver consentito anche ai consiglieri provinciali e quelli comunali di poter, comunicando la propria disponibilità, rispettivamente, al presidente della provincia ed al sindaco, eseguire le autenticazioni delle firme dei presentatori di lista, lungi dal costituire una misura di favore per le liste che sono collegate a partiti già presenti nei consigli provinciali e comunali e conseguentemente discriminatoria per le liste che non possono contare su tale collegamento, ha l’obiettivo di realizzare una maggiore disponibilità allo svolgimento del compito di autenticazione per quelle altre categorie di soggetti, già normalmente investiti di tale funzione, quali i notai, i giudici di pace, i cancellieri e i collaboratori delle cancellerie delle Corti di appello, dei tribunali e delle preture, i segretari delle procure della Repubblica, i presidente delle province, i sindaci, gli assessori comunali e provinciali, i presidenti dei consigli comunali e provinciali, i presidenti e i vice presidenti dei consigli circoscrizionali, i segretari comunali e provinciali e i funzionari incaricati dal sindaco o dal presidente della provincia: l’articolo 14 della legge 21.03.1990, n. 53, non può essere infatti interpretato nel senso che i funzionari, già in precedenza abilitati a tali compiti, abbiano perduto le relative attribuzioni (C.d.S., sez. V, 11.04.1996, n. 402).
Pertanto, anche a voler ammettere, così come in qualche modo prospettato dagli appellanti, che il particolare clima della competizione elettorale, travisandone lo spirito e le stesse finalità, possa dar luogo ad episodi e comportamenti incresciosi, faziosi ed eticamente inconcepibili proprio nel momento in cui si esercita il più significativo diritto/dovere che connota una società democratica (quale potrebbe essere, per esempio, la dichiarata ed ingiustificata indisponibilità di un consigliere comunale o provinciale di procedere all’autenticazione delle sottoscrizioni dei presentatori di una lista avversaria della propria), deve escludersi in radice che la norma in questione possa di per sé determinare una violazione della par condicio dei concorrenti e tanto meno dei fondamentali precetti costituzionali di uguaglianza (art. 3) e di rappresentanza politica (art. 48 e 49).
Ai fini della scrutinio di non manifesta infondatezza dell’articolo, continuano i giudici di Palazzo Spada, non può poi sottacersi che il terzo comma stabilisce che “Le sottoscrizioni e le relative autenticazioni sono nulle se anteriori al centottantesimo giorno precedente il termine fissato per la presentazione delle candidature”, individuando un arco temporale sufficientemente congruo e ragionevole per la sottoscrizione e l’autenticazione delle liste, rispetto al quale l’ampio novero dei soggetti autorizzati alla funzione di autenticazione rende effettiva e concreta la possibilità della più ampia partecipazione possibile alla competizione elettorale (escludendo, per converso, che singoli, limitati e deprecabili situazioni di fatto possano effettivamente impedire l’esercizio del ricordato fondamentale diritto di partecipazione alle elezioni) (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.06.2011 n. 3774 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sulla distinzione tra appalto di servizi e concessione di servizi pubblici.
Mentre negli appalti pubblici di servizi l'appaltatore svolge la sua attività in favore di una p.a., la quale utilizza le relative prestazioni ai fini dell'eventuale erogazione del servizio pubblico a vantaggio della collettività, nella concessione di pubblico servizio il concessionario sostituisce la p.a. nell'erogazione del servizio, ossia nello svolgimento dell'attività diretta al soddisfacimento dell'interesse collettivo.
L'appalto di servizi concerne dunque prestazioni rese in favore dell'Amministrazione, mentre la concessione di servizi riguarda sempre un articolato rapporto trilaterale, che interessa l'Amministrazione, il concessionario e gli utenti del servizio.
Ciò comporta, di regola, ulteriori conseguenze sull'individuazione dei soggetti tenuti a pagare il corrispettivo dell'attività svolta; normalmente, nella concessione di pubblici servizi il costo del servizio grava sugli utenti, mentre nell'appalto di servizi spetta all'Amministrazione l'onere di compensare l'attività svolta dal privato (TAR Lombardia- Milano, Sez. I, sentenza 22.06.2011 n. 1622 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La domanda di accesso agli atti di un procedimento deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile e non può essere generica.
Le eventuali ragioni che ostacolino l'immediata conoscibilità degli atti di un procedimento in itinere, oggetto della richiesta di accesso, non possono giustificare un provvedimento di diniego, dovendosi in tale ipotesi adottare una determinazione di differimento. In ogni caso, tuttavia, la domanda di accesso deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile e non può essere generica, dovendo riferirsi a specifici documenti.
L'onere di specificazione dell'oggetto della domanda di accesso assolve una duplice funzione, quella di rendere possibile e non eccessivamente oneroso per l'amministrazione procedere all'esibizione e quella di consentire un'attenta valutazione, documento per documento, in ordine alla sussistenza di eventuali motivi ostativi e di eventuali soggetti controinteressati che possano interloquire sulla domanda, eventualmente contestandola. Al contrario, una domanda troppo ampia e generica vanifica, in particolare, questo secondo profilo, che proprio la novella del 2005 del capo V della L. n. 241 del 1990 ha reso particolarmente importante e hanno appositamente procedimentalizzato.
Nel caso di specie la ricorrente ha preso integralmente visione di tutta la documentazione, ciò nonostante, in sede di richiesta di accesso nella forma di estrazione di copia, ha assolto solo in minima parte il predetto onere di specificazione. Conseguentemente, l'accesso deve essere consentito limitatamente al quesito specificato e respinto per il resto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 22.06.2011 n. 1621 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittima la demolizione e ricostruzione non autorizzata di un edificio per il quale risulti approvata una concessione per riparazione ed adeguamento igienico-funzionale.
Deve ribadirsi che la demolizione e ricostruzione non autorizzata di un edificio, per il quale risulti assentita una concessione per riparazione ed adeguamento igienico-funzionale, è operazione illegittima indipendentemente dalla nozione teorica di ristrutturazione (nella quale non v’è dubbio rientri anche la ricostruzione fedele).
Ciò deve affermarsi certamente in linea di principio se si considera che viene meno l’esistenza del manufatto (cfr. Cons. di Stato, sez. V, n. 1610/2000) (e questo già mina le possibilità di verifica della fedeltà della ricostruzione), ma a maggior ragione allorché, come nella fattispecie in esame, l’edificio arbitrariamente demolito era stato oggetto di una richiesta di variante (ed emerge dal procedimento, cfr. verb-CE 15.05.2000) che comportava l’introduzione di elementi del tutto estranei rispetto al tipo di concessione emessa (e poi annullata) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21.06.2011 n. 3729 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIGli atti posti in essere dalla polizia municipale in funzione di polizia giudiziaria sono sottratti al diritto d’accesso.
Col ricorso in rassegna il ricorrente chiedeva l’annullamento di un provvedimento con il quale il Comune in causa aveva respinto l'istanza di accesso al verbale dei VV.UU. relativo all'accertamento eseguito nell'abitazione del ricorrente in quanto coperto da segreto istruttorio.
Il Tribunale amministrativo di Cagliari ha considerato tale istanza infondata sul presupposto che debbano trovare applicazione anche nel caso di specie i principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa in materia, secondo cui “non ogni denuncia di reato presentata dalla pubblica amministrazione all'autorità giudiziaria costituisce atto coperto da segreto istruttorio penale e come tale sottratta all'accesso, in quanto, se la denuncia è presentata dalla pubblica amministrazione nell'esercizio delle proprie istituzionali funzioni amministrative, non si ricade nell'ambito di applicazione dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la pubblica amministrazione che trasmette all'autorità giudiziaria una notizia di reato non lo fa nell'esercizio della propria istituzionale attività amministrativa, ma nell'esercizio di funzioni di polizia giudiziaria specificamente attribuite dall'ordinamento, si è in presenza di atti di indagine compiuti dalla polizia giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329 c.p.p. e conseguentemente sottratti all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241 del 1990.” (cfr. Consiglio di Stato , sez. VI, 09.12.2008 , n. 6117).
È stato altresì precisato, continuano i giudici sardi, che “ai fini dell'esercizio dell'accesso ai documenti amministrativi, la polizia municipale esercita, rispetto alle opere edilizie abusive, funzioni di polizia giudiziaria, con la conseguenza che gli atti che quest'ultima compie e acquisisce nell'esercizio di tali funzioni sono assoggettati al regime stabilito dal codice di procedura penale e al segreto istruttorio di cui all'art. 329, c.p.p.” (cfr. TAR Sicilia Palermo, sez. II, 06.06.2008 , n. 757; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II, 05.12.2005, n. 1676).
Poiché nella situazione in commento il verbale di accertamento in questione è stato redatto ai sensi dell’articolo 354 c.p.p., trattandosi pertanto di atto posto in essere nell’esercizio di funzioni di polizia giudiziaria, lo stesso risulta assoggettato al segreto istruttorio di cui all’articolo 329 c.p.p. e, come tale, sottratto all’accesso in via amministrativa, dovendosi in tal caso esercitare l’accesso esclusivamente nelle forme consentite dalla partecipazione al procedimento penale cui l’atto medesimo inerisce e cioè previo nulla osta dell’autorità giudiziaria (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 20.06.2011 n. 638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: No, la mancia no!
Chi fa affiggere un cartello che ricorda all’utenza il divieto di dare mance compie illecito disciplinare?

Scorrendo alcune recenti decisioni in materia di lavoro ho “scoperto” che dare mance è una brutta e cattiva abitudine; un fenomeno negativo da scoraggiare in maniera decisa e netta.
E’ quanto ha confermato l’ordinanza 17.06.2011 n. 13425 della VI Sez. civile della Corte di Cassazione che ha riconosciuto la riprovevole ed annosa abitudine di dare mance ai dipendenti.
La vicenda: una gentile titolare di un ufficio postale in provincia di Rieti ha ben pensato di adoperarsi presso il proprio personale dipendente per scoraggiare –appunto– la prassi delle mance da parte degli utenti, arrivando fino al punto di affiggere in ufficio un bel cartello con la dicitura “si prega cortesemente la gentile clientela di non lasciare compensi (mance) ai dipendenti Poste Italiane spa”.
Indubbiamente, la dipendente ha ritenuto di porre in essere un comportamento del tutto consono alle sue funzioni e, soprattutto, in perfetta aderenza allo stile aziendale.
Dello stesso avviso, però, non sono state le alte sfere di Poste Italiane che, per tutta risposta, hanno sospeso la signora dal servizio e dalla retribuzione per due giorni, rimproverandole l’affissione del cartello senza permesso. In realtà, la contestazione riguardava anche un carico di posta arretrata in giacenza, ma la principale accusa è stata proprio quella dell’affissione del cartello con la sacra dicitura.
La povera signora, rivoltasi al proprio legale di fiducia, proponeva ricorso al Tribunale di Roma che confermava la sanzione di Poste Italiane, mentre la Corte di Appello ne ha dichiarato la illegittimità.
La parola fine alla vicenda, come si diceva, è stata messa dalla Cassazione che ha invece riconosciuto alla signora serietà ed attaccamento all’azienda.
L’affissione del cartello, al di là della sua idoneità o meno “ad ingenerare disagio tra gli utenti“, ha dimostrato al contrario “un senso di serietà o quanto meno di solerte intervento da parte del titolare dell’Ufficio Postale“!
Sfuggendo alla facile ironia sulla vicenda, si deve sottolineare e confermare il dato giuridico che emerge: “la condotta della titolare dell’ufficio non può essere certo censurata né per mancanza del dovere di diligenza (art. 2104 cod. civ.), né del dovere di fedeltà (art. 2105 cod. civ.), né per violazione delle norme contrattuali, dovendo al contrario considerarla idonea a salvaguardare il buon nome e l’immagine dell’azienda“.
Al riguardo: “la lettura degli artt. 2104 e 1176 del codice civile impongono al lavoratore di eseguire la prestazione, anche in assenza di specifiche direttive del datore di lavoro –come in questo caso– secondo la particolare qualità dell’attività dovuta, risultante dalle mansioni e dai profili professionali che la definiscono, e di osservare inoltre tutti quei comportamenti accessori e quelle cautele che si rendano necessari ad assicurare una gestione professionalmente corretta”.
Ciò che la nostra titolare dell’ufficio postale, con serietà e solerzia, ha indubbiamente fatto! (tratto da e link a www.leggioggi.it).

APPALTI: Sui requisiti che devono sussistere affinché un consorzio possa essere qualificato "stabile" ai sensi dell'art. 36, c. 1, d.lgs. n. 163/2006.
Un consorzio per essere ritenuto "stabile" ai sensi dell'art. 36, c. 1, d.lgs. n. 163/2006, deve: a) possedere almeno tre consorziati; b) consorziare imprese che abbiano deciso (attraverso una determinazione assunta dai propri organi deliberativi) di operare congiuntamente nel settore dei contratti pubblici per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni; c) avere una autonoma struttura imprenditoriale tale per cui esso può essere in grado di eseguire direttamente i contratti pubblici allo stesso aggiudicati.
In breve, il consorzio stabile è un'impresa costituita da altre imprese il cui fine è quello di operare nel settore dei contratti pubblici in modo strutturale e duraturo e non congiunturale e transitorio. L'elemento centrale che connota la stabilità del consorzio va quindi ravvisato in quello teleologico, ossia nello "scopo di operare in modo congiunto nel settore dei contratti pubblici per almeno cinque anni", conseguendo l'affidamento in proprio di contratti pubblici e dandovi esecuzione in maniera altrettanto diretta ovvero per il tramite dell'attività dei consorziati (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.06.2011 n. 1104 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini dell'installazione di un radar costiero di profondità della Guardia di Finanza, in ambito paesaggisticamente vincolato, è illegittimo il parere, obbligatorio e vincolante, rilasciato dalla Soprintendenza competente, condizionante il successivo nulla osta della autorità comunale ai sensi dello stesso art. 146, comma 8, il quale non è stato reso a tutela dell’interesse paesaggistico ma delle esigenze della difesa nazionale (“…esprime, per quanto di competenza, parere favorevole in via del tutto eccezionale tenuto conto degli interessi della difesa nazionale…”) cioè di un interesse che non poteva, per assenza delle necessarie cognizioni, e non doveva essere valutato da quell’Autorità.
Il parere, obbligatorio e vincolante, rilasciato dalla Soprintendenza competente, condizionante il successivo nulla osta della autorità comunale ai sensi dello stesso art. 146, comma 8, non è stato reso a tutela dell’interesse paesaggistico ma delle esigenze della difesa nazionale (“…esprime, per quanto di competenza, parere favorevole in via del tutto eccezionale tenuto conto degli interessi della difesa nazionale…”) cioè di un interesse che non poteva, per assenza delle necessarie cognizioni, e non doveva essere valutato da quell’Autorità.
Ciò invalida il parere reso dalla Soprintendenza, il successivo nulla osta comunale e gli atti conseguenti (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, ordinanza 17.06.2011 n. 454 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: No alle telecamere installate dal condomino per la sua sicurezza.
Il condomino non può installare delle telecamere di controllo riprendendo gli ambienti condominiali comuni. Anche se l’installazione è a tutela della propria sicurezza ed è stata fatta a seguito di diversi furti ed effrazioni. L’impianto va dunque rimosso immediatamente a spese del condomino che lo ha installato e sotto la sua responsabilità.

Lo ha stabilito Tribunale di Varese, Sez. I civile, con l'ordinanza 16.06.2011 n. 1273.
Secondo il giudice, infatti, “nel silenzio della Legge”, il condomino non ha “alcun potere di installare, per sua sola decisione, delle telecamere in ambito condominiale, idonee a riprendere spazi comuni o addirittura spazi esclusivi degli altri condomini”. Non solo ma secondo il tribunale “nemmeno il Condominio ha la potestà normativa per farlo, eccezion fatta per il caso in cui la decisione sia deliberata all’unanimità dai condomini, perfezionandosi in questo caso un comune consenso idoneo a fondare effetti tipici di un negozio dispositivo dei diritti coinvolti”.
Ci troviamo di fronte ad “un vero e proprio vacuum legis in questa materia, al cospetto di diritti fondamentali presidiati dalla Costituzione, come quello alla riservatezza e alla vita privata (difeso dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo all’art. 8)”. Infatti, “il condominio è un luogo di incontri e di vite in cui i singoli condomini non possono giammai sopportare, senza il loro consenso, una ingerenza nella loro riservatezza seppur per il fine di sicurezza di chi video-riprende. Né l’assemblea può sottoporre un condomino ad una rinuncia a spazi di riservatezza solo perché abitante del comune immobile, non avendo il condominio alcuna potestà limitativa dei diritti inviolabili della persona”.
In assenza di una norma specifica, sono troppi e rilevanti i problemi posti dalle videoriprese (motivo per cui il Garante sollecitava l’intervento del Legislatore): “1) che utilizzo può essere fatto delle videoriprese che vengono acquisite dal singolo proprietario? 2) che garanzie spettano a chi viene ripreso anche occasionalmente dalle telecamere? 3) che limiti incontra la videoripresa rispetto ai soggetti più vulnerabili come minori e incapaci?
Per tutte queste ragioni, secondo il tribunale, “Il periculum in mora […] è in re ipsa, trattandosi di diritti fondamentali e della personalità che ad ogni lesione si consumano senza possibilità di ripristino dello status quo ante”. “Peraltro, nel caso di specie, -conclude il giudice- l’utilizzo delle telecamere ha causato un impoverimento delle attività quotidiane della parte ricorrente e anche stati soggettivi che militano verso la patologia. Una situazione che richiede urgente e immediata tutela” (commento tratto da e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RUMORE - INQUINAMENTO ACUSTICO - Emissioni sonore - Emergenze sanitarie e di igiene pubblica - Responsabilità del sindaco - Ordinanze contingibili ed urgenti - Art. 50/2 D.Lg.vo n. 267/2000.
Al Sindaco, nella sua posizione di garante dotato di poteri-doveri giuridici in materia di igiene e sanità pubbliche, compete l’obbligo di porre rimedi al fenomeno di inquinamento acustico o nel contrastarlo (Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 15.06.2011 n. 24022 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso ai documenti amministrativi - Interesse ad agire - Omissione di atti di ufficio - Art. 25 L. n. 241/1990 - Art. 328 cp..
In tema di omissione di atti di ufficio, con particolare riferimento alla richiesta di accesso ai documenti amministrativi ai sensi dell'art. 25 legge 07/08/1990 n.241, dalla lettura del secondo comma dell'art. 328 cp., si ricava che la facoltà di interpello del privato, cui corrisponde un dovere di rispondere o di attivarsi servizio, interesse da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico è riconosciuta esclusivamente al soggetto, che abbia interesse al compimento dell'atto.
Tale interesse non si identifica con quello generale al buon andamento della pubblica amministrazione, che riguarda tutti i consociati, ma in quello che fa capo ad una situazione soggettiva, sulla quale il provvedimento è destinato direttamente ad incidere (Cass. Sez. VI 4/2-29/05/2008 n. 21735) (Corte di cassazione, Sez. VI penale, sentenza 15.06.2011 n. 24022 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rumore. Inquinamento acustico e responsabilità del sindaco.
Vicenda concernente l'addebito all’imputato nella sua qualità di Sindaco di avere rifiutato sistematicamente il compimento di atti di ufficio, riguardanti il fenomeno dell’inquinamento acustico, e che, per ragioni di igiene e sanità, andavano posti in essere senza ritardo a tutela della salute pubblica, nonché di avere nella predetta qualità omesso di rispondere a richieste di accesso agli atti amministrativi, riguardanti gli orari di apertura e chiusura degli esercizi pubblici e le modalità di emissioni sonore nel periodo estivo, nonché agli atti della polizia municipale, relativi ai controlli effettuati nel predetto ambito, lasciando decorrere infruttuosamente il termine di legge (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 15.06.2011 n. 24022 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Gestione e responsabilità.
In tema di gestione dei rifiuti le responsabilità per la sua corretta effettuazione, in relazione alle disposizioni nazionali e comunitarie gravano su tutti i soggetti coinvolti nella produzione, distribuzione, utilizzo e consumo dei beni dai quali originano i rifiuti stessi, e le stesse si configurano anche a livello di semplice istigazione, determinazione, rafforzamento o facilitazione nella realizzazione degli illeciti.
Il concetto di “coinvolgimento” trovava specificazione nelle disposizioni poste dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 10 ed attualmente D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 188 (fatte salve le ipotesi di concorso di persone nel reato), ma anche la mera osservanza delle condizioni di cui all' art. 10 non vale ad escludere l responsabilità dei detentori e/o produttori di rifiuti allorquando costoro si siano resi responsabili di comportamenti materiali o psicologici tali da determinare una compartecipazione, anche a livello di semplice facilitazione, negli illeciti commessi dai soggetti dediti alla gestione dei rifiuti.
I principi sopra richiamati risultano sostanzialmente ribaditi anche allo luce del D.L.vo 03.12.2010, n. 205 (art. 216) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2011 n. 23971 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIl proprietario di una unità immobiliare sita nel fondo confinante con quello interessato dall’intervento, dolendosi tra l’altro del mancato rispetto delle distanze minime tra edifici imposte dal D.M. 1444/1968, è legittimato alla proposizione del ricorso ricorrendo il requisito della vicinitas, ovverosia una situazione di prossimità all'edificio costruendo e stabile collegamento con la zona incisa, tale da differenziare la posizione giuridica dei ricorrenti rispetto alla generalità dei consociarti intesa come "quisque de populo".
Quanto all’eccezione di carenza di interesse al ricorso, parte ricorrente ha dedotto di essere proprietaria di una unità immobiliare sita nel fondo confinante con quello interessato dall’intervento, dolendosi tra l’altro del mancato rispetto delle distanze minime tra edifici imposte dal D.M. 1444/1968.
Evidente risulta, quindi, che parte ricorrente sia legittimata alla proposizione del ricorso ricorrendo il requisito della vicinitas, ovverosia una situazione di prossimità all'edificio costruendo e stabile collegamento con la zona incisa, tale da differenziare la posizione giuridica dei ricorrenti rispetto alla generalità dei consociarti intesa come "quisque de populo" (Cons. Stato, Sez. IV, 12.09.2007, n. 4821; Cons. Stato, Sez. V, 13.07.2000 n. 3904).
Sussiste, altresì, l’interesse a ricorrere, in quanto quest’ultimo è ravvisabile ogni qual volta sia configurabile un’utilità concreta, anche solo di carattere morale, che il ricorrente si ripromette di ottenere dall’accoglimento del ricorso, tenuto conto della situazione giuridica dello stato in cui versa.
Ora già la situazione di vicinitas all'edificio costruendo è tale evidenziare una diretta e concreta lesione degli interessi del ricorrente, derivante dal solo fatto della erigenda costruzione, che si traduce in una evidente utilità nel caso di accoglimento del ricorso
Inoltre, nel caso di specie, avendo parte ricorrente lamentato tra l’altro il mancato rispetto delle distanze minime tra edifici, è ben evidente l’interesse al ricorso risultando palesi i pregiudizi che l’annullamento degli atti gravati andrebbe ad ovviare
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della decorrenza del temine per l’impugnativa di un permesso di costruire rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto può dirsi conseguita quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed univo le caratteristiche essenziali dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri in equivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a meno che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso.
La mera esposizione del cartello di cantiere recante gli estremi del titolo edilizio non è sufficiente a far decorrere il termine di impugnazione.

Ai fini della decorrenza del temine a quo per l’impugnativa di un permesso di costruire rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza dell’atto può dirsi conseguita quando la costruzione realizzata riveli in modo certo ed univo le caratteristiche essenziali dell’opera e l’eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica, sicché, in mancanza di altri in equivoci elementi probatori, il termine decorre non con il mero inizio dei lavori bensì con il loro completamento, a meno che non si deduca l’inedificabilità assoluta dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulterebbe sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso (Cons. Stato, Sez. IV, 08.07.2002, n. 3805; Cons. Stato, Sez. VI, 09.02.2009, n. 717)
Inoltre, la mera esposizione del cartello di cantiere recante gli estremi del titolo edilizio non è sufficiente a far decorrere il termine di impugnazione (TAR Liguria Genova, sez. I, 25.01.2010, n. 192; TAR Campania Salerno, sez. II, 30.07.2009 , n. 4225; TAR Liguria Genova, sez. I, 30.12.2008, n. 2203; TAR Liguria Genova, sez. I, 30.12.2008, n. 2203)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASussiste il carattere di assolutezza e di inderogabilità delle prescrizioni dettate con il D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze minime tra i fabbricati. Le stesse hanno carattere pubblicistico e inderogabile e vincolano anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici; in particolare, quella che prescrive la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e risulta dalla citata fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli organi urbanistici locali.
La regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dalla suddetta norma vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori.
La suindicata inderogabilità da parte degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali della normativa del D.M. n. 1444/1968, comporta che l’eventuale introduzione, in via tacita o espressa, da parte della normativa edilizia comunale di deroghe alla normativa nazionale sulle distanze minima, risulterebbe del tutto illegittima e, come tale, la norma comunale andrebbe disapplicata.

In punto di diritto il Collegio evidenzia il carattere di assolutezza e di inderogabilità delle prescrizioni dettate con il D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze minime tra i fabbricati.
Le stesse hanno carattere pubblicistico e inderogabile e vincolano anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici; in particolare, quella che prescrive la distanza minima assoluta di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti ha carattere di assolutezza ed inderogabilità e risulta dalla citata fonte normativa statuale, sovraordinata rispetto agli organi urbanistici locali (TAR Toscana Firenze, sez. III, 22.06.2004, n. 2289), rendendo illegittima ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo, essendo consentita alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (TAR Abruzzo Pescara, 09.01.2006, n. 11).
Tale inderogabilità è stata reiteratamente affermata in giurisprudenza anche in recentissime decisioni che hanno puntualizzato come il D.M. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.; la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti prevista dalla suddetta norma vincola anche i Comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia - Milano, Sez. IV - sentenza 19.05.2011, n. 1282)
L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 sostituisce eventuali disposizioni contrarie contenute nelle norme tecniche di attuazione di un piano regolatore; la prescritta distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, infatti, va rispettata in tutti i casi, trattandosi di norma volta ad impedire la formazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico-sanitario e della sicurezza, per cui il suo disposto non è eludibile in funzione della natura giuridica dell'intercapedine stessa (Consiglio Stato, Sez. IV - sentenza 09.05.2011, n. 2749).
A questo punto viene in rilievo la questione dell’applicabilità della normativa sulle distanze minime dell’indicato art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’intervento in esame.
L’articolo in questione prevede la necessità del rispetto della distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti solo per i “nuovi edifici”.
Tale necessità non ricorre invece per gli interventi di operazioni di risanamento conservativo o ristrutturazione, ove è sufficiente che le distanze tra gli edifici non siano inferiori a quelle intercorrenti tra i volumi edificati preesistenti.
I
l Collegio osserva che la suindicata inderogabilità da parte degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi comunali della normativa del D.M. n. 1444/1968, comporta che l’eventuale introduzione, in via tacita o espressa, da parte della normativa edilizia comunale di deroghe alla normativa nazionale sulle distanze minima, risulterebbe del tutto illegittima e, come tale, la norma comunale andrebbe disapplicata (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAInterventi di ripristino di edifici diruti non possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo. La ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione.
Con specifico riferimento alle norme sulle distanze si è ritenuto costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa.
Ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo.
Si evidenzia che la giurisprudenza, anche di questa Sezione, ha precisato la nozione di interventi di ripristino di edifici diruti riportandola ad organismi edilizi dotati di sole mura perimetrali e privi di copertura e non totalmente da ricostruire (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e, correttamente, ha negato che essi possano essere classificati come restauro e risanamento conservativo (TAR Campania, Napoli, sezione IV, 23.12.2010, n. 28002; TAR Campania Napoli, sez. VIII, 04.03.2010, n. 1286; TAR Campania, Napoli, sez. VI, 09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina, 15.07.2009, n. 700).
Ancora più evidente è, nel caso di specie, la non sussumibilità delle concrete opere assentite sotto tale ultima categoria, consistendo l’intervento in questione nella ricostruzione di un edificio interamente demolito intervenuta a notevole distanza di tempo (oltre quaranta anni ) dalla sua demolizione.
Non può quindi tenersi conto della qualificazione effettuata dalle N.T.A., che vanno sul punto disapplicate, e la riconduzione dell’intervento alle categorie edilizie note va effettuato ai seni del citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la scelta tra le possibili opzioni sono nuova costruzione o ristrutturazione edilizia.
Ai sensi del comma 1, lett. d), dell’art. 3 del predetto D.P.R. n. 380/2001, rientrano, difatti, tra gli interventi di ristrutturazione edilizia anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica.
Nei casi di demolizione e ricostruzione, pertanto, la sussumibilità dell’intervento nell’una o nell’atra categoria dipende, pertanto, dalla circostanza se la ricostruzione sia avvenuta con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente ed, in tal senso, la giurisprudenza ha evidenziato la necessità, affinché si rimanga nell’ambito della categoria della ristrutturazione edilizia, della necessità della fedeltà della ricostruzione del manufatto, ovverosia che sussista piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto.
La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato l’importanza del fattore temporale nel senso che il concetto di ristrutturazione edilizia comprende anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione e venga effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (TAR Campania Salerno, sez. II, 21.10.2010, n. 11911).
Ed ancora viene posto il rilievo, accanto al fattore temporale, quello collegato della preesistenza dell’immobile assumendo che una ristrutturazione edilizia postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare -ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura. Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie vigenti al momento della riedificazione (Consiglio Stato , sez. IV, 13.10.2010 , n. 7476; TAR Umbria Perugia, sez. I, 05.02.2010, n. 54).
Con specifico riferimento alle norme sulle distanze si è ritenuto costituiscono ristrutturazioni edilizie, con conseguente esonero dall'osservanza delle prescrizioni sulle distanze per le nuove costruzioni, gli interventi su fabbricati ancora esistenti e, dunque, su entità dotate quanto meno di murature perimetrali, di strutture orizzontali e di copertura, tali da assolvere alle loro essenziali funzioni di delimitazione, sostegno e protezione dell'entità stessa.
Ne consegue che, pur non esulando dal concetto normativo di ristrutturazione edilizia la demolizione del fabbricato ove sia seguita dalla sua fedele ricostruzione, ai fini della qualificazione di un intervento ricostruttivo come ristrutturazione, da un lato, non è sufficiente che un anteriore fabbricato sia fisicamente individuabile in tutta la sua perimetrazione, essendo indispensabile a soddisfare il requisito della sua esistenza che non sia ridotto a spezzoni isolati, rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che la ricostruzione di esso, oltre ad essere effettuata in piena conformità di sagoma, di volume e di superficie, venga eseguita in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della avvenuta demolizione per cause naturali od opera dell'uomo (Cassazione civile, sez. II, 27.10.2009 , n. 22688).
Nel caso di specie la ricostruzione è avvenuta rispetto ad un edificio integralmente demolito più di 40 anni prima.
L’intervento deve considerarsi quindi nuova costruzione ed, in quanto, tale assoggettato alla normativa sulle distanze minime prevista dall’art. 9 del D.M. 1444/1968
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3184 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, comporta la nascita di una posizione di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Per pacifico principio giurisprudenziale (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V, 04.03.2008, n. 883), condiviso anche da questa Sezione (cfr. 09.04.2010, n. 1890), il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso edilizio ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, comporta la nascita di una posizione di affidamento nel privato cittadino, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al mero ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Tale principio è tanto più vero e valido nella fattispecie in esame, in cui gli abusi sono notevolmente risalenti nel tempo (in quanto commessi da oltre 50 anni), sono stati realizzati direttamente dal costruttore del fabbricato e, per quanto riguarda l’immobile di proprietà dei ricorrenti, sono di lieve entità (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 15.06.2011 n. 3142 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di impianti fotovoltaici, in assenza di specifiche previsioni normative, non può ritenersi soggetta a prescrizioni urbanistiche-edilizie dettate con riferimento ad altre tipologie di opere, quali le costruzioni. L’applicazione analogica non può basarsi sull’assunto di una supposta equivalenza in termini edilizi fra il concetto di costruzione e quello di impianto tecnologico, perché un impianto fotovoltaico ha caratteristiche del tutto diverse da quelle delle costruzioni in senso proprio.
Ritiene il Collegio che la realizzazione di impianti fotovoltaici, in assenza di specifiche previsioni normative, non può ritenersi soggetta a prescrizioni urbanistiche-edilizie dettate con riferimento ad altre tipologie di opere, quali le costruzioni.
L’applicazione analogica non può basarsi sull’assunto di una supposta equivalenza in termini edilizi fra il concetto di costruzione e quello di impianto tecnologico, perché un impianto fotovoltaico ha caratteristiche del tutto diverse da quelle delle costruzioni in senso proprio.
Infatti, gli impianti tecnologici normalmente non sviluppano volumetria o cubatura, se non limitatamente ai basamenti o alle cabine accessorie, non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni, non hanno l’impatto sul territorio degli edifici in cemento armato o muratura e non hanno lo stesso carico urbanistico.
Pertanto, nel caso in esame, ai fini dell’individuazione della disciplina sulle distanze applicabile è necessario distinguere tra l’impianto, individuato nei pannelli fotovoltaici, e le cabine accessorie.
In particolare, una volta stabilito che i pannelli fotovoltaici non possono essere paragonati agli edifici anche perché non esprimono volumetria, deve escludersi l’applicabilità a questi della disciplina contenuta nell’art. 83 delle NTA del PRG del Comune, il quale prende in considerazione le distanze che devono essere rispettate nella costruzione degli edifici, ma deve ritenersi applicabile l’art. 119 delle NTA che, nell’individuazione delle distanze minime da osservarsi, richiama il d.m. 01.04.1968 n. 1404.
Questo ultimo, a sua volta, deve essere interpretato alla luce dell’art. 26 del regolamento di esecuzione e attuazione del codice della strada, che disciplina la distanza dal nastro stradale distinguendo le costruzioni che sviluppano volumetria e i muri di cinta.
La normativa prevista per i muri di cinta, per la quale la distanza dal nastro stradale deve essere pari a metri 3, può essere applicata analogicamente anche agli impianti fotovoltaici, proprio per la loro caratteristica di non sviluppare volumetria.
Pertanto, l’intervento in questione, con particolare riferimento ai pannelli fotovoltaici, deve ritenersi rispettoso delle distanze, proprio perché, come risulta dalla perizia del procedimento penale, la distanza dell’impianto dalla strada comunale è pari a metri 5
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 15.06.2011 n. 1059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'articolo 879, comma 2, c.c. per le costruzioni a confine con piazze e vie pubbliche, va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, giacché il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata, attiene più che alla proprietà del bene, piuttosto all'uso concreto di esso da parte della collettività.
La giurisprudenza della Cassazione più recente ha ritenuto che “L'esonero dal rispetto delle distanze legali previsto dall'articolo 879, comma 2, c.c. per le costruzioni a confine con piazze e vie pubbliche, va riferito anche alle costruzioni a confine delle strade di proprietà privata gravate da servitù pubbliche di passaggio, giacché il carattere pubblico della strada, rilevante ai fini dell'applicazione della norma citata, attiene più che alla proprietà del bene, piuttosto all'uso concreto di esso da parte della collettività” (Cass. civ., sez. II, 05.03.2008, n. 6006).
La strada in questione, come risulta dalla trascrizione per vendita, è una strada interpoderale a servizio dei lotti e come tale deve essere ritenersi soggetta alle normative sulle distanze legali,ribadite con riferimento alle strade interpoderali dalle stesse N.T.A. (art. 119)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 15.06.2011 n. 1059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa edificazione su ruderi ha sempre natura di nuova costruzione in quanto un rudere in stato di rovina non rientra nel novero delle costruzioni esistenti che possono essere demolite e ricostruite.
Nella specie è incontestato che la domanda di condono edilizio, prodotta dall’interessata in data 14.03.1995, n. 25667, aveva ad oggetto un immobile completamente distrutto a causa di un incendio che, come tale, aveva perduto le connotazioni essenziali dell’edificio: ciò configurava l’intervento più che di tipo conservativo di nuova costruzione.
In effetti, secondo il pacifico orientamento giurisprudenziale, la edificazione su ruderi ha sempre natura di nuova costruzione in quanto “un rudere in stato di rovina non rientra nel novero delle costruzioni esistenti che possono essere demolite e ricostruite” (cfr. Cons. Stato sez. V 10.02.2004, n. 475).
Analogamente: l'area su cui sorgono i ruderi è da considerare alla stregua di area non edificata (Cass. Sez. III sent. n. 20776/2006) (TAR Lazio-Latina, sentenza 14.06.2011 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' condivisibile l’orientamento giurisprudenziale che ammette la generale sanabilità degli abusi edilizi laddove gli interventi realizzati siano conformi alla legge vigente al momento della disamina dell’istanza. Invero, pare irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza, perdendo oltretutto automaticamente efficacia, a seguito della presentazione di questa, il pregresso ordine di demolizione e ripristino, secondo l'orientamento del Consiglio di Stato in tema di rilevanza su tale ordine dell'istanza di sanatoria.
Il Collegio condivide la tesi di parte ricorrente circa l’applicabilità in linea astratta della L.R. n. 24/09 sul Piano Casa in via di sanatoria, facendo leva sull’interpretazione sistematica della normativa de qua, avuto riguardo alla necessità del rispetto dei principi di ragionevolezza e di economicità dell’azione amministrativa, sottesi a quell’orientamento giurisprudenziale che ammette la generale sanabilità degli abusi edilizi laddove gli interventi realizzati siano conformi alla legge vigente al momento della disamina dell’istanza (ex multis da ultimo Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009 , n. 2835).
Alla stregua di tale orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, pare irragionevole negare una sanatoria di interventi che sarebbero legittimamente concedibili al momento della nuova istanza, perdendo oltretutto automaticamente efficacia, a seguito della presentazione di questa, il pregresso ordine di demolizione e ripristino, secondo l'orientamento del Consiglio di Stato in tema di rilevanza su tale ordine dell'istanza di sanatoria (Consiglio di Stato sez. VI, 12.11.2008, n. 5646, ex multis).
Il principio normativo della "doppia conformità", secondo tale orientamento giurisprudenziale infatti, è riferibile all'ipotesi ragionevolmente avuta di mira dal legislatore, desumibile cioè dal senso obiettivo delle parole utilizzate dall'art. 13 della legge n. 47 del 1985, ovvero dal vigente art. 36 del DPR 06.06.2001, n. 380, ipotesi che è quella di garantire il richiedente dalla possibile variazione in senso peggiorativo della disciplina edilizia, a seguito di adozione di strumenti che riducano o escludano, appunto, lo jus aedificandi quale sussistente al momento dell'istanza.
In questa prospettiva la tipicità del provvedimento di accertamento in sanatoria, quale espressione di disposizione avente carattere di specialità, va rigorosamente intesa come riferimento al diritto "vigente", (Consiglio di Stato sez. V 29.05.2006, n. 3267), e commisurata alla finalità di "favor" obiettivamente tutelata dalla previsione, in modo da risultare conforme al principio di proporzionalità e ragionevolezza, nel contemperamento dell'interesse pubblico e privato.
La norma, infatti, non può ritenersi diretta a disciplinare l'ipotesi inversa dello jus superveniens edilizio favorevole, rispetto al momento ultimativo della proposizione dell'istanza. In effetti, imporre per un unico intervento costruttivo, comunque attualmente "conforme", una duplice attività edilizia, demolitoria e poi identicamente riedificatoria, lede parte sostanziale dello stesso interesse pubblico tutelato, poiché per un solo intervento, che sarebbe comunque legittimamente realizzabile, si dovrebbe avere un doppio carico di iniziative industriali-edilizie, con la conseguenza, contrastante con il principio di proporzionalità, di un significativo aumento dell'impatto territoriale ed ambientale, (altrimenti considerato in termini più ridotti alla luce della "ratio" della norma in tema di accertamento di conformità) (Così Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835 cit.).
A conforto di tale opzione ermeneutica il Consiglio di Stato ha infatti affermato, che "gli artt. 13 e 15 della l. 28.02.1985, n. 47, richiedenti per la sanatoria delle opere realizzate senza concessione e delle varianti non autorizzate, che l'opera sia conforme tanto alla normativa urbanistica vigente al momento della realizzazione dell'opera, quanto a quella vigente al momento della domanda di sanatoria, sono disposizioni contro l'inerzia dell'Amministrazione, e significano che, se sussiste la doppia conformità, a colui che ha richiesto la sanatoria non può essere opposta una modificazione della normativa urbanistica successiva alla presentazione della domanda. Tale regola non preclude il diritto ad ottenere la concessione in sanatoria di opere che, realizzate senza concessione o in difformità dalla concessione, siano conformi alla normativa urbanistica vigente al momento in cui l'autorità comunale provvede sulla domanda in sanatoria" (Consiglio di Stato sez. V, 21.10.2003, n. 6498) (TAR Valle d'Aosta, sentenza 14.06.2011 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Parcheggi pertinenziali.
La costruzione di autorimesse o parcheggi destinati a pertinenza di fabbricati esistenti è soggetta ad autorizzazione gratuita, ai sensi della L. 24.03.1989, n. 122, come modificata dalla L. 15.05.1997, n. 127, art. 17 e dalla L. 07.12.1999, n. 472, art. 37, a condizione che nella relativa domanda sia preventivamente indicato il fabbricato servito, di modo che sia immediatamente identificabile il vincolo funzionale previsto per la deroga alla normale sottoposizione al regime concessorio.
In tema di disciplina legale delle aree destinate a parcheggio, il vincolo di pertinenza ex lege a favore delle unità immobiliari del fabbricato ha carattere limitato e non si estende nemmeno ai parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dalla L. 06.08.1967, n. 765, art. 18, quand’anche realizzati dallo stesso proprietario-costruttore (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 10.06.2011 n. 23427 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Disciplina antisismica.
Le disposizioni di cui agli articoli 93 e 94 TU edilizia si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, stante l’esigenza di massimo rigore nelle zone dichiarate sismiche, che rende necessari i controlli e le cautele prescritte anche quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura ed al cemento armato.
Ai fini della configurabilità dei reati connessi alle violazioni delle disposizioni anzidette non assume rilievo, poi, il carattere precario della costruzione, proprio in considerazione delle prevalenti esigenze di sicurezza alla tutela delle quali la normativa antisismica si correla (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2011 n. 23076 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Carattere precario della costruzione (tettoia) - Disciplina antisismica - Applicazione - Configurabilità dei reati connessi - Fattispecie - Artt. 93 e 94 T.U.E. n. 380/2001.
A norma dell'art. 93 del T.U.E. 06.06.2001, n. 380 "chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni", in zona sismica, deve farne denuncia all'organo competente con comunicazione alla quale deve essere allegato il progetto firmato da un tecnico autorizzato e dal direttore dei lavori. Le relative opere, poi, a norma del successivo art. 94, non possono essere iniziate senza preventiva autorizzazione.
Tali disposizioni si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa interessare la pubblica incolumità, a nulla rilevando la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, stante l'esigenza di massimo rigore nelle zone dichiarate sismiche, che rende necessari i controlli e le cautele prescritte anche quando si impiegano elementi strutturali meno solidi e duraturi rispetto alla muratura ed al cemento armato (Cass., Sez. III, 24.10.2001, n. 38142).
Sicché, ai fini della configurabilità dei reati connessi alle violazioni delle disposizioni anzidette non assume rilievo, l’eventuale carattere precario della costruzione, proprio in considerazione delle prevalenti esigenze di sicurezza alla tutela delle quali la normativa antisismica si correla (Cass., Sez. III, 10.10.2007, n. 37322; Cass. 19.12 2003, n. 48684; Cass. 04.10.2002, n. 33158) (Fattispecie: realizzazione in zona sismica, una tettoia-porticato di circa mq 50,85 in difformità della autorizzazione, senza darne preavviso scritto all'autorità competente e senza depositare previamente il relativo progetto, nonché in violazione della normativa tecnica) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2011 n. 23076 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Utilizzazione dell'edificio prima del rilascio del certificato di collaudo - Responsabilità del direttore dei lavori - Sussistenza - Art. 75, D.P.R. n. 380/2001.
Il Direttore dei lavori, in quanto primo garante della sicurezza, è certamente tenuto all'osservanza delle prescrizioni imposte dall'art. 75 del D.P.R. n. 380/2001 attraverso lo specifico obbligo di inibire l'utilizzazione dell'edificio prima del rilascio del certificato di collaudo.
Certificato di collaudo - Utilizzo dell’edificio in assenza - Costruttore, committente, proprietario e direttore dei lavori - Responsabilità - Reato di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001 - Configurabilità.
Il reato di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001 è configurabile -tra gli altri- anche a carico del costruttore, del committente o del proprietario (Cass. Sez. 3^ 24.11.2010 n. 1802, Marrocco).
Tale tesi giustifica anche - pur in assenza di una affermazione esplicita - l'estensione della responsabilità a soggetti quali il direttore dei lavori, non espressamente indicati nel testo normativo, in correlazione con la ratio incriminatrice della norma urbanistica la quale mira a salvaguardare la sicurezza pubblica in modo assoluto (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.06.2011 n. 22291 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAL’esercizio del potere sindacale contemplato dall’art. 378 l. n. 2248/1865, all. F, configura non già un provvedimento repressivo in materia edilizia, bensì un’ipotesi di autotutela possessoria iuris publici in tema di strade di uso pubblico, che, in quanto tale, trova il suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l’uso pubblico della strada senza necessità di ulteriori motivazioni.
- L'art. 378, L. 20.03.1865 n. 2248, all. F, attribuisce al sindaco un potere di autotutela di carattere possessorio, volto alla conservazione dello stato di fatto dei beni demaniali comunali e delle strade comunali soggette ad uso pubblico. Con la conseguenza che, a prescindere dall'effettiva esistenza di un diritto reale di servitù pubblica di passaggio o dall'esistenza di una pubblica via vicinale (che tra l'altro prescinde anche dall'inclusione della via stessa dagli elenchi comunali), sussiste il potere dell'amministrazione comunale di rimuovere i materiali ostativi al libero transito con le modalità esistenti anteriormente e, quindi, di ripristinare lo stato dei luoghi, quando sussista una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio.

Per l’Amministrazione Comunale appellante, l’esercizio del potere sindacale contemplato dall’art. 378 l. n. 2248/1865, all. F, configura non già un provvedimento repressivo in materia edilizia, bensì un’ipotesi di autotutela possessoria iuris publici in tema di strade di uso pubblico, che, in quanto tale, trova il suo unico presupposto nella necessità di ripristinare l’uso pubblico della strada senza necessità di ulteriori motivazioni (cfr. Consiglio Stato n. 25/2009).
Nel caso, la qualificazione pubblica della via sarebbe stata dimostrata in particolare: dalle ripetute nel tempo asfaltature da parte del Comune; dall’apposizione di un cartello “fine divieto di sosta” da oltre dieci anni, e dalle dichiarazioni scritte di dieci cittadini sull’uso pubblico da tempo immemorabile.
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Come la concorde giurisprudenza ha sempre riconosciuto l'art. 378, L. 20.03.1865 n. 2248, all. F, attribuisce al sindaco un potere di autotutela di carattere possessorio, volto alla conservazione dello stato di fatto dei beni demaniali comunali e delle strade comunali soggette ad uso pubblico.
Con la conseguenza che, a prescindere dall'effettiva esistenza di un diritto reale di servitù pubblica di passaggio o dall'esistenza di una pubblica via vicinale (che tra l'altro prescinde anche dall'inclusione della via stessa dagli elenchi comunali), sussiste il potere dell'amministrazione comunale di rimuovere i materiali ostativi al libero transito con le modalità esistenti anteriormente e, quindi, di ripristinare lo stato dei luoghi, quando sussista una situazione di fatto di oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 08.01.2009, n. 25; Consiglio Stato, sez. IV, 07.09.2006, n. 5209; Consiglio Stato, sez. IV, 06.04.2000, n. 1975) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3509 -
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COMPETENZE GESTIONALIL'esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali è (e resta) attribuito al Sindaco dall'art. 378 della legge 20.03.1865, all. F (e dall'art. 15, d.l.Lgt. 01.09.1918 n. 1446) in quanto la detta disposizione è stata sottratta all'effetto abrogativo di cui all'art. 2 del d.l. 22.12.2008 n. 200 (convertito, con modificazioni, nella legge 18.02.2009 n. 9), dall'art. 1, comma 2, d.lgs. 01.12.2009 n. 179. Non vi sono dubbi quindi che il generale potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del comune, di cui all'art. 378, l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, continui a spettare al sindaco sia in ragione della persistente vigenza della norma e sia della riconducibilità del potere di tutela qui previsto alla funzione di ufficiale di governo. Per questo motivo, tale potere non può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 2000, atteso che l'art. 107, comma 5, del predetto testo normativo fa espressamente salve le competenze del Sindaco specificamente previste dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54, e cioè proprio le competenze espressamente attribuitegli dalla legge nelle materie di ordine e di sicurezza pubblica, in quanto in tali fattispecie la tutela del bene comunale assicura in concreto un diritto, che è di rilievo costituzionale, quale quella alla libera circolazione sul territorio di tutti i cittadini, ancorché non residenti nel Comune.
Quanto poi al profilo concernente l’incompetenza del Sindaco affermata dal TAR, deve invece rilevarsi che l'esercizio del potere di autotutela possessoria delle strade vicinali è (e resta) attribuito al Sindaco dall'art. 378 della legge 20.03.1865, all. F (e dall'art. 15, d.l.Lgt. 01.09.1918 n. 1446) in quanto la detta disposizione è stata sottratta all'effetto abrogativo di cui all'art. 2 del d.l. 22.12.2008 n. 200 (convertito, con modificazioni, nella legge 18.02.2009 n. 9), dall'art. 1, comma 2, d.lgs. 01.12.2009 n. 179. Non vi sono dubbi quindi che il generale potere di autotutela del demanio e del patrimonio indisponibile del comune, di cui all'art. 378, l. 20.03.1865 n. 2248 all. F, continui a spettare al sindaco sia in ragione della persistente vigenza della norma e sia della riconducibilità del potere di tutela qui previsto alla funzione di ufficiale di governo.
Per questo motivo, tale potere non può ritenersi trasferito al dirigente con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del 2000, atteso che l'art. 107, comma 5, del predetto testo normativo fa espressamente salve le competenze del Sindaco specificamente previste dall'art. 50, comma 3, e dall'art. 54, e cioè proprio le competenze espressamente attribuitegli dalla legge nelle materie di ordine e di sicurezza pubblica, in quanto in tali fattispecie la tutela del bene comunale assicura in concreto un diritto, che è di rilievo costituzionale, quale quella alla libera circolazione sul territorio di tutti i cittadini, ancorché non residenti nel Comune (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3509 -
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ESPROPRIAZIONE: Occupazione d’urgenza immobili a fini espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 deve contenere, per essere legittimo e coerente con il predetto articolo, oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli elementi volti a determinare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo; e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico.
Anche la giurisprudenza, che ammette equipollenti, ritiene tuttavia indispensabile una chiara individuazione dei soggetti e dei beni espropriandi; in tal senso, da ultimo, è stato ritenuto che è idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico, ad un determinato foglio della mappa catastale, senza elencazione delle singole particelle, quando i destinatari dell’avviso, debitamente elencati, sono tutti proprietari di fondi che sono rappresentati in quel foglio.
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Il ricorso alla speciale procedura ex art. 22-bis DPR 327/2001 postula una motivazione specifica dell’amministrazione in ordine alle obiettive ragioni di urgenza, avverso la quale il privato può ricorrere, richiedendo il sindacato giurisdizionale.
Con riferimento specifico al procedimento espropriativo, l’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 deve contenere gli elementi idonei a rendere edotto il destinatario del procedimento ablatorio del sacrificio che gli si intende imporre e dei beni oggetto di tale sacrificio.
D’altra parte, lo stesso art. 11, nel prevedere che l’avviso di avvio del procedimento deve essere inviato “al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all’esproprio”, presuppone che l’amministrazione abbia identificato il proprietario, e ciò può avvenire solo per il tramite dei beni (e dei loro dati catastali) da assoggettare a procedimento ablatorio.
Tale contenuto dell’avviso –che, come si è già detto, l’art. 11 non esclude né semplifica in caso di comunicazione non personale, ma per avviso pubblico– proprio per le finalità cui lo stesso è preordinato, deve essere a maggior ragione completo ed idoneo a rendere compiutamente edotto il proprietario espropriando, proprio con riferimento al caso di comunicazione non personale.
Ed infatti –ribadito che l’art. 11 non distingue il contenuto dell’avviso in dipendenza delle modalità della sua comunicazione, così come, in via generale., non opera alcuna distinzione l’art. 8 l. n. 241/1990– mentre nel caso di comunicazione personale il proprietario effettivamente riceve notizia dell’esistenza di un procedimento riguardante beni di sua proprietà, al contrario, laddove vi siano forme di comunicazione pubblica collettiva, il proprietario subisce un primo vulnus consistente nell’onere, postogli a carico dell’ordinamento, di acquisire una conoscenza attraverso strumenti che non necessariamente rientrano, con certezza ed immediatezza, nella sua sfera di cognizione, ritenendo altresì l’ordinamento realizzata “iuris et de iure” tale conoscenza con il rispetto delle modalità di comunicazione previste.
Orbene, se tale “onere di assumere informazione” e “presunzione di conoscenza” da parte del proprietario espropriando possono giustificarsi in considerazione dell’interesse pubblico alla celerità del procedimento espropriativo, resta fermo che l’avviso pubblico e collettivo costituisce modalità eccezionale di comunicazione (ragionevole, giustificabile, ma eccezionale), non a caso prevista dal legislatore solo in presenza di un numero elevato di espropriandi; numero che il legislatore stesso, con previsione tassativa, indica come superiore a 50, sottraendo opportunamente la determinazione della eccessività del numero dei proprietari alla valutazione discrezionale dell’amministrazione.
Atteso il sacrificio (non irrilevante) imposto al proprietario espropriando, in termini di “effettiva” conoscenza (che, alle condizioni predette, è presunta come tale), non è affatto ragionevole che lo stesso proprietario, oltre che seguire quotidianamente gli avvisi pubblicati nelle forme previste dall’art. 11, debba per di più verificare presso l’amministrazione (una volta avuta contezza dell’avviso), se il procedimento possa (o meno) riguardare beni di sua proprietà.
Se tale fosse l’interpretazione, l’art. 11 sarebbe irragionevole (ed in sospetto di illegittimità costituzionale per violazione degli articoli 3, 24, 42 e 97 Cost.), in quanto esso imporrebbe ai privati sacrifici non ragionevoli e/o giustificabili in riferimento ad interessi pubblici..
Alla luce di quanto esposto, questo Consiglio di Stato ritiene che l’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 debba contenere, per essere legittimo e coerente con il predetto articolo, oltre che con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli elementi volti a determinare i soggetti espropriandi ed i beni oggetto del procedimento amministrativo; e ciò sia che la comunicazione avvenga personalmente, sia che essa avvenga in forma collettiva mediante avviso pubblico (e, per le ragioni esposte, l’onere di completezza è richiesto a maggior ragione in quest’ultimo caso).
Giova osservare che, anche la giurisprudenza che ammette equipollenti, ritiene tuttavia indispensabile una chiara individuazione dei soggetti e dei beni espropriandi; in tal senso, da ultimo, è stato ritenuto che è idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico, ad un determinato foglio della mappa catastale, senza elencazione delle singole particelle, quando i destinatari dell’avviso, debitamente elencati, sono tutti proprietari di fondi che sono rappresentati in quel foglio (Cass. civ., Sez. Un. 02.12.2009 n. 25345; in senso conforme, Cons. Stato, sez. IV, 27.06.2008 n. 3245).
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La giurisprudenza non appare univoca in ordine alla necessità per l’amministrazione di motivare sulle ragioni di “particolare urgenza” che consentono il ricorso allo speciale procedimento di cui all’art. 22-bis.
Per un verso, si è escluso ogni obbligo di particolare motivazione, in presenza dei presupposti previsti dalla disposizione medesima, ed in particolare del numero degli espropriandi superiore a 50 (Cons. Stato, sez. IV, 12.07.2007 n. 3968 e 27.06.2007 n. 3696; sez. III, 29.09.2009 n. 2215).
Altra giurisprudenza ha invece ritenuto che il ricorso alla speciale procedura ex art. 22-bis postuli una motivazione specifica dell’amministrazione in ordine alle obiettive ragioni di urgenza, avverso la quale il privato può ricorrere, richiedendo il sindacato giurisdizionale (Cass. civ., Sez. Un., 06.05.2009 n. 10362; Cons. Stato, sez. IV, 22.05.2008 nn. 2459 e 2460).
Il Collegio ritiene di aderire a quest’ultimo orientamento interpretativo, affermando, di conseguenza, la necessità di motivazione in ordine alle ragioni di particolare urgenza che legittimano il ricorso al procedimento ex art. 22-bis DPR n. 327/2001.
Occorre, infatti, osservare che il procedimento previsto dall’art. 22-bis citato (occupazione di urgenza preordinata all’espropriazione) non costituisce –come pure si è sostenuto– un ordinario subprocedimento nell’ambito del procedimento espropriativo, in tal modo facendosi rivivere un istituto (l’occupazione di urgenza) conosciuto dal previgente ordinamento.
Occorre, infatti, osservare che tale procedimento, o meglio l’art. 22-bis che lo prevede, non costituisce parte della disciplina originaria del Testo Unico espropriazioni, essendo stato, infatti, introdotto solo con il d.lgs. n. 302/2002.
La disciplina originaria prevede (e tuttora si prevede):
- una fase di “determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione” (art. 20), cui può seguire l’immissione in possesso (nel caso in cui si concordi sulla misura dell’indennità), ovvero l’emanazione del decreto di esproprio, una volta effettuato il deposito dell’indennità, anche se non condivisa, presso la Cassa depositi e prestiti. A questa fase, segue quella di “determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione” (art. 21);
- una fase di “determinazione urgente dell’indennità di esproprio” (art. 22), di modo che “quando l’avvio dei lavori rivesta carattere di urgenza, tale da non consentire l’applicazione delle disposizioni dell’art. 20, il decreto di esproprio può essere emanato ed eseguito in base alla determinazione urgente della indennità di espropriazione, senza particolari indagini o formalità”. In base al comma 2, “il decreto di esproprio può altresì essere emanato ed eseguito in base alla determinazione urgente dell’indennità di espropriazione senza particolari indagini o formalità . . . b) allorché il numero dei destinatari della procedura espropriativa sia superiore a 50”.
In definitiva, nel disegno originario del Testo Unico espropriazioni, a fronte di un procedimento ordinario di determinazione (dapprima provvisoria., poi definitiva dell’indennità di espropriazione), quale presupposto dell’emanazione del decreto di esproprio, si giustappone un “procedimento urgente”, che, pur non escludendo la previa determinazione dell’indennità, si caratterizza per celerità, consentendosi la possibilità di emanazione del decreto di esproprio sulla base della sola “determinazione urgente” dell’indennità.
La finalità evidente, perseguita dal legislatore, era quella di evitare che si potesse conseguire l’occupazione del bene espropriando senza che intervenisse, in seguito, l’emanazione del decreto di esproprio, con le ben note conseguenze in tema di occupazione (divenuta) sine titulo.
A questo disegno, il d.lgs. n. 302/2002 ha aggiunto, con l’art. 22-bis, l’occupazione di urgenza.
L’emanazione di tale decreto richiede ai sensi del comma 1, che “l’avvio dei lavori rivesta carattere di particolare urgenza”, laddove la determinazione urgente dell’indennità, di cui all’art. 22, richiede che “l’avvio dei lavori rivesta carattere di urgenza” (la differenza è data dall’aggettivo “particolare”, premesso al sostantivo “urgenza”).
Inoltre, il comma 2 dell’art. 22-bis prevede che possa farsi luogo a decreto di occupazione di urgenza anche nel caso in cui vi sia stata determinazione urgente dell’indennità ed il numero dei proprietari espropriandi sia superiore a 50.
In definitiva, l’art. 22-bis prevede che il decreto di occupazione di urgenza possa essere emanato:
- in casi di “particolare urgenza”, previa determinazione provvisoria dell’indennità di espropriazione (comma 1);
- in casi in cui è intervenuta la determinazione urgente dell’indennità e qualora gli espropriandi siano superiori a 50 (comma 2, lett. b).
Il legislatore ha, dunque, previsto due distinti subprocedimenti in deroga al procedimento ordinario (ex art. 20), in parte sovrapposti, dei quali quello ex art. 22-bis si fonda (non ricorrendo i caso di cui al comma 2) su una “particolare urgenza”, da tenere distinta dalla mera “urgenza” su cui si fonda il procedimento in deroga, di cui all’art. 22.
Appare, dunque, evidente che il subprocedimento volto alla emanazione di un decreto di occupazione di urgenza, ai sensi dell’art. 22-bis, lungi dal poter essere considerato come un subprocedimento ordinario nell’ambito del procedimento amministrativo, costituisce, invece, un subprocedimento in deroga, speciale rispetto allo stesso subprocedimento in deroga di cui all’art. 22 del Testo Unico.
Da ciò consegue che l’organo emanante il decreto di occupazione di urgenza è tenuto a motivare in ordine alle ragioni di particolare urgenza, relative ai lavori da effettuarsi, e che sorreggono la determinazione assunta.
Ciò a maggio ragione laddove si rifletta sulle possibili conseguenze (in termini di occupazione sine titulo, anche per mancata emanazione del decreto di esproprio entro i termini della dichiarazione di pubblica utilità) cui l’istituto della previa occupazione di urgenza può condurre ed ha condotto, nella vigenza della precedente disciplina
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Tale conclusione incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle nuove osservazioni.

L’obbligo di pubblicazione del piano regolatore risulta strumentale alla migliore partecipazione e collaborazione dei cittadini e di chiunque vi abbia interesse alla attività di pianificazione del territorio comunale, anche attraverso, in particolare, la presentazione delle previste osservazioni.
Tale pubblicazione, tuttavia, non deve essere ripetuta laddove il Piano regolatore riceva modifiche in dipendenza proprio dell’accoglimento di osservazioni presentate, o anche per effetto di modifiche introdotte a seguito di espressa richiesta rappresentata dalla Regione in sede di approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al paradossale risultato di un appesantimento incongruo, se non ad un effetto paralizzante, del procedimento amministrativo, rendendo la partecipazione non più strumento di collaborazione e funzionale alla migliore valutazione degli interessi coinvolti, quanto elemento di defatigante gestione procedimentale.
Tale conclusione, del tutto ragionevole e condivisibile, cui è già pervenuta la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 11.10.2007 n. 5357), incontra l'unica eccezione dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle osservazioni (o comunque la modifica introdotta) abbia comportato una profonda deviazione dai criteri posti a base del piano stesso, nel qual caso occorre una nuova pubblicazione e la conseguente raccolta delle nuove osservazioni (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Cantieri edili di demolizione - Impianti mobili di macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti - Autorizzazione - Necessità - Art. 256, c. 1 - lett. a), del D.Lgs. n. 152/2006.
Gli impianti mobili adibiti alla macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti prodotti da cantieri edili di demolizione, sono assoggettati al procedimento autorizzatorio in quanto, non possono essere considerati impianti che effettuano una semplice riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, essendo essi impiegati per effettuare un'operazione "di trattamento" il cui principale risultato è quello di permettere ai residui ferrosi "di svolgere un ruolo utile" (in linea anche con la nozione di "recupero" posta dal D.Lgs. 03.12.2010, n. 205, ove viene espressamente previsto che l'elenco delle operazioni di cui all'allegato C del D. L.vo n. 152/2006 non è per nulla esaustivo).
RIFIUTI - Impianti mobili di smaltimento e di recupero dei rifiuti - Autorizzazione - Necessità - Procedura semplificata - Violazione - Art. 256, c. 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 - Configurabilità - Attività esclusa alla procedura - Art. 208, c. 15, D. L.vo n. 152/2006.
In tema di rifiuti, l'art. 208, comma 15, del D.Lgs. n. 152/2006 prevede e disciplina una procedura semplificata per l'autorizzazione degli impianti mobili di smaltimento e di recupero dei rifiuti, disponendo che i soggetti interessati devono presentare domanda alla Regione (ove hanno la sede legale o quella di rappresentanza) per ottenere l'autorizzazione definitiva all'uso dell'impianto.
Per lo svolgimento, poi, delle singole "campagne di attività" sul territorio nazionale, i soggetti che hanno ottenuto detta autorizzazione, almeno 60 giorni prima dell'installazione dell'impianto, devono comunicare alla Regione nel cui territorio si trova il sito prescelto, le "specifiche dettagliate" relative alla campagna di attività e la Regione può adottare prescrizioni integrative oppure può vietare l'attività con provvedimento motivato qualora lo svolgimento della stessa nello specifico sito non sia compatibile con la tutela dell'ambiente o della salute pubblica.
Sono esclusi dall'osservanza della procedura anzidetta gli impianti mobili che effettuano la disidratazione dei fanghi generati da impianti di depurazione e reimmettono l'acqua in testa al processo depurativo presso il quale operano, nonché gli impianti che effettuano esclusivamente riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee.
Sicché l’assenza della prescritta autorizzazione configura, conseguentemente, il fumus dell'ipotizzato reato di cui all'art. 256, comma i - lett. a), del D.Lgs. n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.06.2011 n. 21859 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di una veranda cui consegua un aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come ristrutturazione edilizia in quanto essa comporta, in conseguenza dell'aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione.
Anche di recente la giurisprudenza ha precisato che la realizzazione di una veranda cui consegua un aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come ristrutturazione edilizia in quanto essa comporta, in conseguenza dell'aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione.
L'intervento in questione -secondo quanto previsto dall'art. 10 del d.P.R. n. 380 del 2001- deve essere assentito con permesso di costruire, nella fattispecie non conseguito dall'interessato, il che comporta la legittimità della prescrizione demolitoria irrogata con il provvedimento impugnato (così TAR Lazio Roma, sez. I, 01.09.2010, n. 32098) (TAR Molise, sentenza 01.06.2011 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon è vero che l’organo preposto alla tutela del vincolo paesaggistico non possa indicare prescrizioni nell’esame della domanda di condono, presupponendo che in simili fattispecie, trattandosi di fabbricati già realizzati abusivamente, la valutazione dovrebbe avere ad oggetto l’immobile per come realizzato.
Invero, poiché ai sensi dell’art. 32 della legge 47/1985 il rilascio della concessione in sanatoria per opere eseguite in aree sottoposte a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela vincolo medesimo, deve inferirsi che l’autorità amministrativa così come ha il potere di negare il parere di competenza, ritenendo l’intervento realizzato incompatibile con l’esigenza di salvaguardia dell’interesse paesaggistico, al contempo abbia anche quello di indicare prescrizioni: si tratta infatti di una applicazione del generale principio di proporzionalità che impone di tutelare l’interesse pubblico primario con il minor sacrificio possibile per quello privato antagonista; se il diritto del privato allo sfruttamento edificatorio del terreno in proprietà può essere tutelato con una prescrizione correttiva idonea a renderlo compatibile con la valenza paesaggistica dell’area, non può l’amministrazione adottare il più gravoso provvedimento negativo, di per sé ostativo alla possibilità di sanare in radice l’opera abusiva.

Infondato è anche il secondo motivo di doglianza con cui i ricorrenti censurano la possibilità per l’organo preposto alla tutela del vincolo paesaggistico di indicare prescrizioni nell’esame della domanda di condono, sul presupposto che in simili fattispecie, trattandosi di fabbricati già realizzati abusivamente, la valutazione dovrebbe avere ad oggetto l’immobile per come realizzato.
In senso contrario deve invece osservarsi che poiché ai sensi dell’art. 32 della legge 47/1985 il rilascio della concessione in sanatoria per opere eseguite in aree sottoposte a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela vincolo medesimo, deve inferirsi che l’autorità amministrativa così come ha il potere di negare il parere di competenza, ritenendo l’intervento realizzato incompatibile con l’esigenza di salvaguardia dell’interesse paesaggistico, al contempo abbia anche quello di indicare prescrizioni: si tratta infatti di una applicazione del generale principio di proporzionalità che impone di tutelare l’interesse pubblico primario con il minor sacrificio possibile per quello privato antagonista; se il diritto del privato allo sfruttamento edificatorio del terreno in proprietà può essere tutelato con una prescrizione correttiva idonea a renderlo compatibile con la valenza paesaggistica dell’area, non può l’amministrazione adottare il più gravoso provvedimento negativo, di per sé ostativo alla possibilità di sanare in radice l’opera abusiva.
Né può opporsi la forza del fatto compiuto per comprimere il potere di valutazione dell’autorità preposta alla tutela dell’interesse paesaggistico, poiché la condizione di chi costruisce senza il preventivo rilascio del titolo edilizio abilitativo prescritto dalla legge non è tale da configurare una situazione di affidamento meritevole di tutela per l’ordinamento al punto da limitare il potere dell’autorità amministrativa di tutela degli interessi pubblici che dall’attività di edificazione possono risentire pregiudizio.
Chi costruisce in assenza di concessione edilizia lo fa a proprio rischio e pericolo sicché deve necessariamente sottostare alle conseguenze derivanti dai giudizi legittimamente espressi dalla autorità preposta alla tutela del vincolo allorquando, pur non valutando l’intervento come assolutamente incompatibile con l’interesse pubblico primario affidato alla propria cura, ciò non di meno ritenga opportuno prescrivere delle modifiche al fine di operare un bilanciamento ragionevole tra l’interesse privato alla edificazione e l’interesse pubblico alla tutela del vincolo (TAR Molise, sentenza 01.06.2011 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn un’area vincolata in cui gli immobili si caratterizzano per la copertura a tetto l’inserimento di un immobile con copertura a terrazzo determina una evidente discontinuità architettonica, talché necessita dell'autorizzazione paesaggistica preventiva.
Con un terzo motivo di censura i ricorrenti lamentano che nel caso di specie non occorrerebbe l’autorizzazione paesaggistica in quanto ai sensi dell’art. 32 della legge 47/1985 il parere dell’autorità preposta alla salvaguardia del vincolo non sarebbe richiesto “quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte”, fattispecie da loro ritenuta applicabile al caso di specie.
Il motivo non può essere condiviso poiché nel caso di specie non viene in rilievo una difformità di tipo quantitativo, come tale soggetta ad un margine di tollerabilità, indicato dal legislatore nel 2 per cento bensì una differenza di tipo estetico-qualitativo che, di per sé, si pone in contrasto con l’istanza di tutela del valore paesaggistico: in un’area vincolata in cui gli immobili si caratterizzano per la copertura a tetto l’inserimento di un immobile con copertura a terrazzo determina una evidente discontinuità architettonica rispetto alla quale il limite di tollerabilità del 2 per cento non è neppure astrattamente ipotizzabile (TAR Molise, sentenza 01.06.2011 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Conformità urbanistica, se la P.A. tace vuol dire ''niet''.
Il silenzio fatto formare sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica ai sensi dell'art. 13, L. n. 47 del 1985 non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto. Il silenzio fatto formare sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica ai sensi dell'art. 13, L. n. 47 del 1985 non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto con la conseguenza che, all'atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare con onere, in capo all'interessato, di dimostrare la compatibilità dell'opera realizzata sine titulo con la normativa primaria e secondaria sotto il cui imperio essa ricade.
La disciplina dell'art. 21, D.P.R. n. 380 del 2001, TU dell'edilizia, si coordina con quella contenuta nell'art. 20, comma 9, il quale dispone che decorsi i termini per la conclusione del procedimento di rilascio del permesso di costruire, senza che l'amministrazione abbia adottato il relativo provvedimento, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio rifiuto.
In materia di procedimento per il rilascio della concessione edilizia, art. 20, T.U. n. 380 del 06.06.2001, ripetendo le previsioni dell'art. 4, D.L. n. 398 del 05.10.1993, impone precisi termini per il completamento dell'istruttoria da parte del dirigente responsabile del procedimento, per il rilascio del parere da parte della commissione edilizia comunale e finalmente per l'adozione del provvedimento conclusivo.
Il parere favorevole della commissione edilizia comunale non equivale quindi a concessione edilizia, ma rappresenta uno degli elementi istruttori della pratica che porterà la pubblica amministrazione all'emanazione del provvedimento conclusivo di concessione edilizia. Il TAR si è, quindi, espresso circa la declaratoria di illegittimità del silenzio rifiuto sulla domanda di autorizzazione in sanatoria ex art. 13, L. 28.02.1985, n. 47, presentata al Comune.
Il Comune, sulla base di una comunicazione della Regione, che denunciava la presenza di due tettoie eseguite senza la prescritta autorizzazione, ingiunse alla proprietà di demolirle nel termine di trenta giorni.
La proprietà, avvalendosi della facoltà prevista dall'art. 13, L. 28.02.1985, n. 47, presentò istanza di autorizzazione in sanatoria.
Poiché il Sindaco non si è mai pronunciato su tale domanda, essendo trascorsi i sessanta giorni stabiliti dal secondo comma del citato art. 13, L. n. 47 del 1985, essa deve intendersi respinta.
Il ricorrente si duole del silenzio rifiuto formatosi per l'inutile decorso del termine di sessanta giorni indicato dall'art. 13, L. 28.02.1985, n. 47 sull'istanza di accertamento di conformità, quale prodotta ai sensi della cennata normativa (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 20.05.2011 n. 494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il silenzio fatto formare sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47/1985 non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto con la conseguenza che, all'atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare con onere, in capo all'interessato, di dimostrare la compatibilità dell'opera realizzata sine titulo con la normativa primaria e secondaria sotto il cui imperio essa ricade.
Il ricorrente si duole del silenzio rifiuto formatosi per l'inutile decorso del termine di sessanta giorni indicato dall'art. 13 della L. 28.02.1985, n. 47 sull'istanza di accertamento di conformità, quale prodotta ai sensi della cennata normativa.
Nella prospettazione della censura l'Amministrazione sarebbe venuta meno all'obbligo di legge (art. 13 della L. 47 del 1985 ed artt. 2 e 3 della I. 241 del 1990) di concludere il procedimento con un provvedimento motivato.
Il ricorso va respinto non essendo fondata la doglianza che regge l'impugnativa secondo cui l'amministrazione non poteva sottrarsi all'obbligo di fornire risposta espressa e motivata alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria, avanzata ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 36 del T.U. in materia edilizia n. 380 del 2001.
Va ribadito, in linea con la prevalente giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, nn. 100 del 2010, 1710 e 598 del 2006), che il silenzio fatto formare sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47/1985 non ha valore di silenzio-inadempimento, ma di silenzio-rigetto con la conseguenza che, all'atto della sua formazione per inutile decorso del relativo termine, non sussiste un obbligo di provvedere, dovendosi già ritenere costituito il provvedimento negativo tacito da impugnare con onere, in capo all'interessato, di dimostrare la compatibilità dell'opera realizzata sine titulo con la normativa primaria e secondaria sotto il cui imperio essa ricade (ex multis, Tar Campania-Napoli, 07.09.2007, n. 7958; sezione VII, 24.06.2008, n. 6118 e 3501 del 07.05.2008, n. 3501; Tar Liguria, sezione I, 24.06.2007, n. 1114; Tar Lombardia-Milano, sezione II, 21.03.2006, n. 642; Tar Piemonte-Torino, sezione I, 08.03.2006, n. 1173; Tar Sicilia-Catania, sezione I, 17.10.2005, n. 1723) (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 20.05.2011 n. 494 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Edilizia libera dopo il 2010? Dipende dalle ''barriere'' urbanistiche.
La particolare disciplina dell’attività edilizia libera, contemplata dall’articolo 6 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (c.d. Testo Unico dell’edilizia), come modificato dall’articolo 5, comma 2, della L. n. 73/2010, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Prima sentenza successiva all’entrata in vigore delle modifiche normative introdotte lo scorso anno in materia edilizia, segnatamente in tema di attività edilizia libera.
La Suprema Corte, intervenendo in una fattispecie nella quale in un’area agricola erano stati realizzati due piazzali, a servizio di un’attività commerciale, concernente il deposito di mezzi meccanici e la riparazione di veicoli industriali, ha disatteso la doglianza difensiva secondo cui si sarebbe trattato di interventi soggetti a mera denuncia di inizio attività, attesa la loro natura pertinenziale e, comunque, tenuto conto delle modifiche normative introdotte dalla L. 22.05.2010, n. 73, le opere realizzate sarebbero rientrate nell’attività edilizia libera (art. 6, comma 1, lett. c), la cui violazione è oggi soggetta a mera sanzione amministrativa pecuniaria.
I giudici di legittimità, con dovizia di argomentazioni e con la consueta lucidità esegetica, hanno invece escluso la fondatezza delle argomentazioni difensive, affermando il principio di diritto secondo cui la disciplina di favore prevista per l’attività edilizia libera non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il fatto.
La vicenda processuale esaminata dalla Cassazione, per quanto desumibile dalla motivazione della decisione, vedeva imputato il proprietario di un’area al quale era stato addebitato di aver realizzato, in area classificata come agricola ed in assenza di permesso di costruire, due piazzali rispettivamente di mq. 1700 e mq. 740, a servizio di un’attività commerciale dallo stesso gestita e concernente il deposito di mezzi meccanici.
In sede di merito, egli veniva riconosciuto colpevole del reato previsto dall’art. 44, comma 1, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n. 380. In particolare, i giudici di merito escludevano la natura pertinenziale delle opere realizzate qualificando l’intervento come di “nuova costruzione” ed escludevano la sospendibilità del processo penale ai sensi dell’art. 45 del d.P.R. citato.
Il ricorso.
Il condannato resisteva alla doppia condanne inflittagli nel merito, affidando le proprie doglianze ad alcuni motivi di ricorso. Per quanto qui di interesse, senza analizzare il motivo processuale eccepito dall’interessato, erano sostanzialmente due le ragioni “sostanziali” poste a base dell’impugnazione:
a) la già eccepita “pertinenzialità” delle opere;
b) la sopravvenuta irrilevanza penale dell’intervento edilizio abusivamente eseguito, attesa l’applicabilità, nel caso di specie, del novellato regime dell’attività edilizia libera, introdotto a seguito delle modifiche operate con la legge n. 73/2010.
La decisione.
La Corte ha disatteso del tutto le doglianze difensive, pervenendo ad affermare il predetto principio di diritto.
Quanto alla questione della natura pertinenziale, nulla quaestio. Sul punto, infatti, gli Ermellini hanno facile gioco ad escluderla in considerazione della consistenza e della natura delle opere eseguite, sicuramente non riconducibili alla tradizionale nozione di “pertinenza”, come ormai consolidatasi nella giurisprudenza della Suprema Corte.
La nozione di pertinenza in sede penale, infatti, ha caratteristiche sue proprie diverse da quella contemplata dal codice civile e si sostanzia in un'opera che pur essendo preordinata ad una oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente ed oggettivamente inserita al servizio dello stesso, abbia comunque una propria individualità fisica ed una propria conformazione strutturale e quindi non sia parte integrante o costitutiva di altro fabbricato. Inoltre, la pertinenza deve essere sfornita di autonomo valore di mercato, deve essere dotata di un volume minimo tale da non consentire una sua destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile a cui accede (v., tra le tante, da ultimo: Cass. pen., Sez. 3, n. 20349 del 28/05/2010, imp. C., in Ced Cass. 247108).
In ogni caso, la tipologia dell’abuso edilizio realizzato era comunque esclusa dalla nozione di pertinenza che, secondo la tradizionale giurisprudenza, è applicabile soltanto con riferimento all'edilizia residenziale, in quanto le opere devono essere destinate al servizio di edifici già esistenti (Cass. pen., Sez. 3, n. 46291 del 30/11/2004, imp. S., in Ced Cass. 230476).
Ben più interessante, invece, la questione affrontata dalla Corte con riferimento alla sussumibilità dell’intervento nella novellata categoria dell’attività edilizia libera, oggetto di modifica normativa attuata nel 2010. Com’è noto, infatti, il legislatore del 2010 è intervenuto sull’art. 6 del T.U. edilizia (Attività edilizia libera), come sostituito dall'art. 5 della L. 22.05.2010, n. 73 (recante “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25.03.2010, n. 40, recante disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali operate, tra l'altro, nella forma dei cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di potenziamento e razionalizzazione della riscossione tributaria anche in adeguamento alla normativa comunitaria, di destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno della domanda in particolari settori”).
La norma, in particolare “Fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque nel rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia e, in particolare, delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, di quelle relative all’efficienza energetica nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n. 42”, autorizza l’esecuzione, senza alcun titolo abilitativo, di tutta una serie di interventi, distinguendo tra interventi per i quali è necessaria una preventiva comunicazione ed interventi eseguibili in assenza di qualsivoglia comunicazione.
In questi ultimi vi rientrano:
a) gli interventi di manutenzione ordinaria;
b) gli interventi volti all’eliminazione di barriere architettoniche che non comportino la realizzazione di rampe o di ascensori esterni, ovvero di manufatti che alterino la sagoma dell’edificio;
c) le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico, ad esclusione di attività di ricerca di idrocarburi, e che siano eseguite in aree esterne al centro edificato;
d) i movimenti di terra strettamente pertinenti all’esercizio dell’attività agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali, compresi gli interventi su impianti idraulici agrari;
e) le serre mobili stagionali, sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività agricola.
Quelli che, invece, pur liberi, necessitano di “previa comunicazione, anche per via telematica, dell’inizio dei lavori da parte dell’interessato all’amministrazione comunale” sono i seguenti:
a) gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all’articolo 3, comma 1, lettera b), ivi compresa l’apertura di porte interne o lo spostamento di pareti interne, sempre che non riguardino le parti strutturali dell’edificio, non comportino aumento del numero delle unità immobiliari e non implichino incremento dei parametri urbanistici;
b) le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingenti e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni;
c) le opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, anche per aree di sosta, che siano contenute entro l’indice di permeabilità, ove stabilito dallo strumento urbanistico comunale, ivi compresa la realizzazione di intercapedini interamente interrate e non accessibili, vasche di raccolta delle acque, locali tombati;
d) i pannelli solari, fotovoltaici, a servizio degli edifici, da realizzare al di fuori della zona A) di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968, n. 1444;
e) le aree ludiche senza fini di lucro e gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici.
Ove l’interessato non rispetti le prescrizioni procedurali dettate dalla norma (commi 3, 4 e 5: in particolare, comunicare l’inizio dei lavori e/o trasmettere la dichiarazione di un suo tecnico che asseveri la conformità dei lavori agli strumenti urbanistici, attestando la non necessità di un titolo abilitativo ai sensi della legge nazionale), andrà soggetto ad una sanzione amministrativa pecuniaria (prevista dal comma 7), eventualmente ridotta di due terzi se la comunicazione è effettuata spontaneamente quando l’intervento è in corso di esecuzione.
Trattasi di una disciplina vista con particolare favore dal legislatore nazionale che, nell’ottica del rispetto del rapporto Stato/Regioni (segnatamente dell’art. 117 Cost. che prevede una potestà legislativa concorrente delle Regioni quanto al governo del territorio), prevede che le regioni a statuto ordinario:
a) possono estendere la disciplina di cui al presente articolo a interventi edilizi ulteriori rispetto a quelli sopra indicati;
b) possono individuare ulteriori interventi edilizi, tra quelli appartenenti alla seconda categoria, per i quali è fatto obbligo all’interessato di trasmettere la relazione tecnica di cui sopra;
c) possono stabilire ulteriori contenuti per la relazione tecnica di cui sopra, nel rispetto di quelli minimi fissati dalla stessa norma.
L’art. 5 è chiaramente volto ad ampliare -mediante sostituzione dell’art. 6 del T.U. dell’edilizia- le tipologie di interventi rientranti nell’attività edilizia libera (in precedenza, tale tipologia includeva la manutenzione ordinaria, l’eliminazione di barriere architettoniche e le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo, dalle quali la legge n. 73/2010 ha escluso le attività di ricerca di idrocarburi).
Orbene, la nuova elencazione delle attività “libere”, anzitutto, secondo la Corte deve intendersi non come tassativa ma esemplificativa “con la conseguenza che deve ritenersi richiesto il rispetto di tutta la normativa di settore, ancorché non menzionata, che abbia comunque rilevanza nell’ambito dell’attività edilizia”. Per tale ragione, dunque, devono essere esclusi dall’applicazione del regime di favore introdotto dall’art. 6 novellato tutti gli interventi eseguiti in contrasto con le disposizioni precettive degli strumenti urbanistici comunali ed in violazione delle altre disposizioni menzionate.
Così interpretata la norma, quindi, non poteva esservi spazio per la tesi difensiva. Ed infatti, la realizzazione delle opere abusive era avvenuta in area classificata dallo strumento urbanistico come zona agricola E, ossia in evidente contrasto con la destinazione urbanistica dell’area (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione  penale, sentenza 17.05.2011 n. 19316 - link a www.lexambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa convalida degli atti amministrativi è positivamente prevista sia dall’art. 6 l. n. 249/1968, secondo il quale “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”, sia dall’art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241/1990, in base al quale “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.
L’art. 21-nonies l. n. 241/1990, nel richiedere l’esistenza di “ragioni di interesse pubblico” alla convalida non esclude, di per sé, la necessità di motivare in ordine all’adozione di tale provvedimento. Ma ciò non comporta che l’organo adottante il provvedimento di convalida debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà del’organo di assumere tale atto.

Come è noto, la convalida degli atti amministrativi è positivamente prevista sia dall’art. 6 l. n. 249/1968, secondo il quale “alla convalida degli atti viziati da incompetenza può provvedersi anche in pendenza di gravame in sede amministrativa e giurisdizionale”, sia dall’art. 21-nonies, comma 2, l. n. 241/1990, in base al quale “è fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di osservare che, per effetto dell’art. 21-nonies sopra citato (introdotto dalla l. n. 15/2005), appare evidente “l'intendimento del legislatore di consentire oggi, in via generale, il mantenimento in vita di provvedimenti affetti soltanto da vizi di carattere formale”, come quello di incompetenza, e che, in tal caso, non si necessita di particolare, dettagliata motivazione in ordine all’oggetto del provvedimento da convalidare e degli atti a questo antecedenti (Cons. St., sez. IV, 29.05.2009 n. 3371).
Orbene, l’art. 21-nonies l. n. 241/1990 (peraltro non ancora introdotto all’epoca dei fatti di causa), nel richiedere l’esistenza di “ragioni di interesse pubblico” alla convalida non esclude, di per sé, la necessità di motivare in ordine all’adozione di tale provvedimento.
Ma ciò, per un verso, non comporta che l’organo adottante il provvedimento di convalida debba ripercorrere, con obbligo di dettagliata motivazione, tutti gli aspetti (e gli atti del procedimento) relativi al provvedimento convalidato, essendo sufficiente che emergano chiaramente dall’atto convalidante le ragioni di interesse pubblico e la volontà del’organo di assumere tale atto; per altro verso (e in via generale con riferimento all’obbligo di motivazione degli atti amministrativi, ex art. 3 l. n. 241/1990), la motivazione dell’atto e la sua congruità, al di là degli enunciati a carattere generale, non possono che essere valutati con riferimento al tipo di provvedimento da emanare in concreto.
Orbene, nel caso di specie:
- in primo luogo, finalità del provvedimento di convalida è quella di sanare il vizio di incompetenza che vizia l’atto annullato;
- in secondo luogo, l’atto da convalidare consiste in una approvazione di atto di altra amministrazione, e quindi esclude valutazioni proprie dell’organo approvante (non essendo questi il titolare della potestà pianificatoria);
- da ultimo, l’atto di convalida è stato assunto da un collegio cd. “virtuale ed imperfetto”, quale è il consiglio provinciale, dove l’adozione del provvedimento consegue al vaglio di un collegio variamente composto, il che rende di per sé difficile sostenere l’esistenza di una mera operazione di “riproduzione” di un atto affetto da illegittimità per incompetenza.
Appaiono dunque evidenti, nel caso di specie, le ragioni che hanno determinato il Consiglio provinciale di Ancona ad assumere un atto di convalida della precedente delibera della Giunta provinciale e l’infondatezza del primo motivo di appello
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2011 n. 2863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIl parere previsto dall’art. 13 l. n. 64/1974, attese le sue finalità, ben può essere reso prima dell’adozione definitiva dello strumento urbanistico da parte dell’organo competente (e quindi anche dopo la prima delibera consiliare di adozione).
Anzi, in questo particolare momento dell’iter procedimentale, l’ufficio preposto a rendere il detto parere esamina un atto che non è una mera espressione di un intendimento espresso dalla sola Giunta Comunale (se non addirittura neanche visionato da alcun organo titolare di indirizzo politico-amministrativo, ma solo da apparati burocratici dell’amministrazione), bensì un atto di pianificazione urbanistica sul quale si è già positivamente espresso l’organo (Consiglio comunale) che, nell’ambito del Comune, è il titolare del potere di pianificazione urbanistica.
Questo Consiglio di Stato ha già ritenuto che non costituisce vizio di violazione dell’art. 13 l. n. 64/1974 l’acquisizione del parere dell’ufficio del genio civile intervenuta prima dell’approvazione definitiva dello strumento urbanistico.

L’art. 13 l. n. 64/1974 (ndr: "Provvedimenti per le costruzioni con particolari prescrizioni per le zone sismiche"), prevede:
- (comma 1) “tutti i comuni nei quali sono applicabili le norme di cui al titolo II della presente legge e quelli di cui al precedente articolo 2, devono richiedere il parere delle sezioni a competenza statale del competente ufficio del genio civile sugli strumenti urbanistici generali e particolareggiati prima della delibera di adozione nonché sulle lottizzazioni convenzionate prima della delibera di approvazione, e loro varianti ai fini della verifica della compatibilità delle rispettive previsioni con le condizioni geomorfologiche del territorio.”
- (comma 2) “le sezioni a competenza statale degli uffici del genio civile devono pronunciarsi entro sessanta giorni dal ricevimento della richiesta dell'amministrazione comunale”.
Successivamente, l’art. 20 l. n. 741/1981, ha previsto, tra l’altro, che “al fine di vigilare sulle costruzioni per la prevenzione del rischio sismico in applicazione delle norme di cui al capo III della L. 02.02.1974, n. 64, le regioni possono definire, con legge, modalità di controllo successivo anche con metodi a campione; in tal caso, possono prevedere che l'autorizzazione preventiva di cui all'articolo 18 della L. 02.02.1974, n. 64, non sia necessaria per l'inizio dei lavori. Per l'osservanza delle norme sismiche, resta ferma la responsabilità del progettista, del direttore dei lavori, dell'impresa e del collaudatore.”.
La sentenza appellata ha ritenuto:
- per un verso, che, avendo la Regione Marche adottato la l. reg. 05.08.1992 n. 34 e, quindi, avendo essa dettato “una disciplina compiuta in materia urbanistica . . . si è, dunque, realizzata la condizione di cui all’art. 20 l. n. 741/1981”, cioè il superamento dell’obbligo di acquisire il parere preventivo dell’ufficio del Genio civile (ovvero, oggi, ufficio regionale ad esso subentrato);
- per altro verso, che essendo stato comunque espresso il parere da parte dell’ufficio competente, sia pure dopo l’adozione del PRG, ma prima della sua adozione definitiva, tanto basta a ritenere rispettato l’art. 13 l. n. 64/1974 (ove ritenuto vigente).
Questo Consiglio di Stato ritiene che il parere previsto dall’art. 13 l. n. 64/1974, attese le sue finalità, ben possa essere reso prima dell’adozione definitiva dello strumento urbanistico da parte dell’organo competente (e quindi anche dopo la prima delibera consiliare di adozione).
Anzi, in questo particolare momento dell’iter procedimentale, l’ufficio preposto a rendere il detto parere esamina un atto che non è una mera espressione di un intendimento espresso dalla sola Giunta Comunale (se non addirittura neanche visionato da alcun organo titolare di indirizzo politico-amministrativo, ma solo da apparati burocratici dell’amministrazione), bensì un atto di pianificazione urbanistica sul quale si è già positivamente espresso l’organo (Consiglio comunale) che, nell’ambito del Comune, è il titolare del potere di pianificazione urbanistica.
D’altra parte, questo Consiglio di Stato ha già ritenuto (proprio pronunciandosi su una sentenza del TAR Marche, n. 72/1998), che non costituisce vizio di violazione dell’art. 13 l. n. 64/1974 l’acquisizione del parere dell’ufficio del genio civile intervenuta prima dell’approvazione definitiva dello strumento urbanistico (Cons. St., sez. IV, 27.04.2004 n. 2521) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2011 n. 2863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAIn sede di adozione del piano regolatore generale, l’amministrazione comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l’esercizio della potestà pianificatoria.
In sede di adozione del piano regolatore generale, l’amministrazione comunale non è tenuta ad una particolareggiata motivazione in ordine ad ogni singola scelta urbanistica effettuata con il nuovo strumento di pianificazione, anche laddove la nuova scelta si discosti da destinazioni precedentemente impresse al territorio dal precedente strumento urbanistico, essendo sufficiente che emergano nel complesso le ragioni che sorreggono l’esercizio della potestà pianificatoria (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2011 n. 2863 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAnteriormente all’entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42 l’autorizzazione paesaggistica costituiva condizione di efficacia e non di validità della concessione edilizia, non potendo all’epoca ritenersi precluso il rilascio del titolo edilizio pur in assenza di un nulla osta efficace.
Il Collegio, per parte propria, evidenzia che, in effetti, anteriormente all’entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42 l’autorizzazione paesaggistica costituiva condizione di efficacia e non di validità della concessione edilizia, non potendo all’epoca ritenersi precluso il rilascio del titolo edilizio pur in assenza di un nulla osta efficace (cfr. sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 10.02.2006 n. 547 e Sez. V, 14.01.2003 n. 87; cfr., altresì, Cass. Pen., sez. III, 01.12.1997 n. 1492); ma tale enunciazione di principio è intrinsecamente insostenibile nell’ipotesi di formazione del titolo per silenzio-assenso, nella quale la legge stessa condiziona la formazione del titolo medesimo per mero decorso del tempo all’imprescindibile sussistenza di tutti gli altri presupposti parimenti richiesti ex lege al fine di legittimare l’attività di trasformazione del territorio.
Pertanto, se l’intervento edilizio si doveva effettuare in una zona vincolata a’ sensi dell’allora vigente L. 1497 del 1939, la domanda di concessione edilizia doveva essere corredata dal prescritto nullaosta, costituente parte integrante della domanda stessa, nonché condizione essenziale per il consolidamento della fattispecie del silenzio-assenso disciplinato nell’art. 8 del D.L. 9 del 1982 (cfr. sul punto, ad es., Cons. Stato, Sez. V, 24.03.1998 n. 343); senza sottacere –poi– che secondo altra e ben più rigida giurisprudenza, la fattispecie medesima non poteva addirittura trovare applicazione per la formazione dei titoli edilizi in aree assoggettate alla tutela dei beni paesaggistici (cfr. in tal senso, ad es., Cons. Stato, Sez. VI, 12.04.1996 n. 541)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2011 n. 2759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa comunicazione del parere favorevole della Commissione Edilizia non equivale a rilascio del relativo titolo.
Il comunicare che una concessione “può essere” rilasciata non equivale, sotto il profilo sia lessicale che logico, ad una volizione costitutiva recante direttamente il rilascio del provvedimento richiesto, ma prefigura una futura ulteriore (ed eventuale) volizione di rilascio.

Secondo la costante giurisprudenza, già dopo l’entrata in vigore della L. 28.01.1977 n. 10, la comunicazione del parere favorevole della Commissione Edilizia non equivale a rilascio del relativo titolo (cfr. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. IV, 12.12.1997 n. 1409 e Sez. V, 29.07.2003 n. 4325); senza sottacere che, come a ragione rimarcato dalla difesa del Comune, il comunicare che una concessione “può essere” rilasciata non equivale, sotto il profilo sia lessicale che logico, ad una volizione costitutiva recante direttamente il rilascio del provvedimento richiesto, ma prefigura una futura ulteriore (ed eventuale) volizione di rilascio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.05.2011 n. 2759 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Rimborso delle spese legali sostenute dal dipendente per giudizi per responsabilità civile, penale o amministrativa.
E’ illegittimo, ai sensi dell’art. 18 del d.l. 25.03.1997 n. 67, convertito dalla l. 23.05.1997 n. 135, il diniego di rimborso delle spese legali sostenute da un dipendente pubblico assolto in sede penale, motivato con riferimento al fatto che "la condotta concretamente posta in essere dal dipendente non è riferibile alla tutela di interessi propri dell’Amministrazione di appartenenza", nel caso in cui risulti che il dipendente stesso (nella specie si trattava del Comandante di una Stazione dei Carabinieri) sia stato imputato e poi assolto in sede penale per il reato di falso nello svolgimento delle attività di ufficio (nella specie, nell’ambito di una perquisizione domiciliare), trattandosi di reato tipico che può essere compiuto soltanto nello svolgimento dei compiti istituzionali (1).
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(1) Nella specie al dipendente pubblico in sede panale era stato contestato di aver posto in essere, nell’ambito dell’attività di servizio svolta quale Comandante della Stazione dei Carabinieri, comportamenti diversi da quelli poi fatti risultare in atti pubblici, il che è stato poi smentito dal giudice penale.
E’ stata ritenuta irrilevante la circostanza che il dipendente possa essersi determinato ad eseguire la perquisizione domiciliare al fine di non incorrere in eventuali sanzioni disciplinari, come sostenuto nella sentenza appellata.
V. in argomento da ult. C.G.A., sentenza 19.04.2011 n. 316
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - C.G.A.R.S, sentenza 02.05.2011 n. 347 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe varianti a contenuto generale o di ampie zone e comparti territoriali, devono essere contestate in giudizio nel termine decadenziale decorrente dalla data di pubblicazione, non essendo richiesta la notificazione agli interessati né il decorso dell’ulteriore termine di efficacia.
Relativamente all’individuazione dei vincoli espropriativi, concretamente sottoposti al termine quinquennale di efficacia e la cui reiterazione dà pertanto titolo a un indennizzo, si è affermato un indirizzo rigoroso e restrittivo, nel senso che avrebbero carattere non «espropriativo», ma solo conformativo, e perciò non sarebbero soggetti a decadenza ed all’obbligo dell’indennizzo, tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore (o sue varianti), a qualsivoglia titolo, per ragioni lato sensu ambientali: il vincolo di inedificabilità (c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente; il vincolo di «verde attrezzato», il vincolo d’inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde privato.

La reiterazione del vincolo in una variante non comporta modifiche alla natura, alla funzione e al contenuto dello strumento urbanistico che resta un atto pianificatorio a contenuto generale (anche quando contiene una misura del tipo di quella in questione), sicché il regime di impugnazione deve intendersi il medesimo delle delibere originarie di pianificazione territoriale, con l’ulteriore corollario che il dies a quo per il ricorso decorre per tutti gli interessati (ivi compresi i proprietari di terreni colpiti dai vincoli reiterati), dall’ultimo giorno della pubblicazione del provvedimento con il quale è intervenuta l’approvazione definitiva dello strumento urbanistico; pertanto le varianti a contenuto generale o di ampie zone e comparti territoriali, devono essere contestate in giudizio nel termine decadenziale decorrente dalla data di pubblicazione, non essendo richiesta la notificazione agli interessati né il decorso dell’ulteriore termine di efficacia (c.d. vacatio che non incide sulla conoscibilità dell’atto (cfr. Cons. St., sez. IV, 27.07.2007, n. 4198; sez. IV, 28.02.2005, n. 764).
Per completezza si osserva che per quanto riguarda l’individuazione dei vincoli espropriativi, concretamente sottoposti al termine quinquennale di efficacia e la cui reiterazione dà pertanto titolo a un indennizzo, si è affermato, in seguito a Corte cost. 20.05.1999, n. 179, un indirizzo rigoroso e restrittivo, nel senso che avrebbero carattere non «espropriativo», ma solo conformativo, e perciò non sarebbero soggetti a decadenza ed all’obbligo dell’indennizzo, tutti i vincoli di inedificabilità imposti dal piano regolatore (o sue varianti), a qualsivoglia titolo, per ragioni lato sensu ambientali: il vincolo di inedificabilità (c.d. di rispetto) a tutela di una strada esistente; il vincolo di «verde attrezzato», il vincolo d’inedificabilità per un parco e per una zona agricola di pregio, la destinazione a verde privato (cfr. Cons. St., sez. IV, 23.12.2010, n. 9372; sez. VI, 19.03.2008, n. 1201; ad. plen., 24.05.2007, n. 7)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 28.04.2011 n. 2534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPermesso di costruire. Irricevibilità di un ricorso proposto oltre 60 giorni dalla data di affissione del cartello di inizio lavori.
E’ irricevibile il ricorso con il quale è stato impugnato un permesso di costruire, nel caso in cui il ricorso stesso sia stato notificato dopo il decorso del termine decadenziale di 60 giorni dalla data di affissione del cartello di inizio dei lavori, ubicato in maniera ben visibile a chiunque ed a meno di un metro dal cancello di entrata dell’esercizio commerciale del ricorrente (ha aggiunto la sentenza in rassegna che il termine d'impugnazione in ogni caso decorreva dalla data del rilascio del certificato di destinazione urbanistica dei suoli oggetto dell’intervento, in quanto, ragionevolmente, a quella data il ricorrente aveva la piena conoscenza degli elaborati progettuali del permesso di costruire impugnato, i cui estremi erano indicati nel cartello di inizio lavori). (Nel senso che la semplice collocazione del cartello non sia sufficiente a far decorrere i termini per l’impugnazione di una concessione edilizia è la prevalente giurisprudenza. Per riferimenti v. in part. da ult. Cons. Stato, Sez. V, sentenza 12-07-2010) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 28.04.2011 n. 666 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di impianti pubblicitari nel territorio comunale. Valutazione complessiva di compatibilità con l’igiene pubblica e l’estetica cittadina.
Il regolamento previsto dall’art. 3 del D.Lgs. 15.11.1993 n. 507 –con il quale il Comune disciplina le modalità di svolgimento della pubblicità, la tipologia e la quantità degli impianti pubblicitari, nonché le modalità per ottenere l’autorizzazione alla loro installazione– si riferisce non solo agli impianti comunali di affissione, ma anche all’installazione di impianti posti in essere da privati su aree private, ai quali si estende la valutazione complessiva di compatibilità dell’installazione di impianti pubblicitari nel territorio comunale con l’igiene pubblica e l’estetica cittadina, nonché la ponderazione delle relative implicazioni economiche e delle diverse possibili modalità di più proficua realizzazione del pubblico interesse sotteso a tale disciplina, che sono proprie della predetta sede regolamentare (Cfr. TAR Lombardia-Milano, sez. III, 17.04.2002 n. 1490).
E’ legittimo il provvedimento con il quale è stata rigettata una istanza di autorizzazione per la posa di un cartello pubblicitario lungo una strada pubblica, motivato con riferimento alla necessità di preservare l’area in cui ricade (nella specie l’area era attigua ad un parco) da qualsiasi elemento di disturbo, tenuto conto peraltro del fatto che il regolamento del Comune, sull’uso delle aree verdi, prescrive l’obbligo di munirsi di specifica autorizzazione per la posa di arredi e/o qualunque intervento che interessi aree verdi.
Tale scelta è infatti orientata a precludere trasformazioni edilizie ed anche alterazioni minime in una ben individuata (e ridotta) porzione di territorio, senza introdurre un generalizzato divieto di collocare cartelli pubblicitari su ampie estensioni (Cfr. TAR Lombardia-Brescia, sez. II, 01.12.2009 n. 2391) ed è preordinata alla protezione di valori pregnanti come il decoro e l’estetica degli spazi pubblici, presso un’area già riconosciuta ex lege come particolarmente sensibile (cfr. vincolo legge Galasso) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.04.2011 n. 640 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gara: legittima la clausola che impone la firma del documento di riconoscimento.
E’ legittima la clausola del disciplinare di gara che impone la firma autografa in originale della copia del documento di riconoscimento dell’offerente.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale ribalta l’appellata sentenza del Tar Liguria che aveva dichiarato illegittima la clausola del disciplinare di un’asta immobiliare la quale, a pena di esclusione, imponeva la sottoscrizione del concorrente sulla copia del documento, formalismo ritenuto dal Tar illogico e sproporzionato. Pertanto, non può essere invalidata una gara pubblica che contempli, a pena di esclusione, analoga prescrizione nella relativa lex specialis.
Il Tar Liguria era stato chiamato a decidere sull’impugnazione del verbale di aggiudicazione e del disciplinare di gara, relativi ad un’asta immobiliare, nella parte in cui il primo aveva escluso la ricorrente, senza che fosse stata aperta la busta contenente l’offerta economica. Una delle partecipanti si era vista estromettere in quanto non aveva apposto la propria firma autografa sulla fotocopia del documento di identità che aveva prodotto. Il Tar adito in primo grado annullava l’aggiudicazione dell’immobile riconoscendo illegittima la clausola del disciplinare di gara in quanto imponeva un “inutile formalismo”.
Il ricorrente in appello ha invece sottolineato la doverosità dell’esclusione della ricorrente in primo grado, poiché la lex specialis della gara prevedeva la sanzione dell’esclusione per l’ipotesi di omessa sottoscrizione della fotocopia del documento, rilevando che tale onere non fosse né illogico né sproporzionato.
Il Consiglio di Stato, riconoscendo che l’adempimento della sottoscrizione era previsto “a pena di esclusione”, ha accolto la doglianza dell’appellante ritenendo legittima la clausola del disciplinare che imponeva l’onere della firma sulla copia del documento. La mancata illogicità è stata ancorata all’attribuibilità della domanda di partecipazione al soggetto offerente, attraverso la comparazione delle sottoscrizioni presenti sull’istanza e sull’offerta a quella apposta sul documento.
Infine, l’adempimento non è stato ritenuto sproporzionato poiché limitato alla semplice lettura del bando e all’apposizione della sottoscrizione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.04.2011 n. 2478 - link a www.altalex.com).

URBANISTICAAll’interno delle convenzioni di urbanizzazione sussiste la prevalenza del profilo della libera negoziazione.
Invero, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.

La giurisprudenza si è oramai orientata nell’affermare, all’interno delle convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza del profilo della libera negoziazione.
Infatti, si è affermato (Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 33; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all’incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.04.2011 n. 2040 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando anche nel corso di un intervento autorizzato di manutenzione, un edificio pervenga ad una demolizione (anche per cause naturali), il titolo autorizzatorio perde la propria efficacia e, per il nuovo intervento ricostruttivo, occorre l’idoneo titolo abilitativo, all’epoca consistente nella concessione edilizia.
Quando anche nel corso di un intervento autorizzato di manutenzione, un edificio pervenga ad una demolizione (anche per cause naturali), il titolo autorizzatorio perde la propria efficacia e, per il nuovo intervento ricostruttivo, occorre l’idoneo titolo abilitativo, all’epoca consistente nella concessione edilizia (Cons. St. Sez. IV, 16.04.2010, n. 2175, 19.02.2007, n. 867).
Pertanto, correttamente l’amministrazione, accertata l’integrale diversa tipologia delle opere rispetto all’intervento di manutenzione autorizzato, ha dato applicazione all’art. 7 della legge 28.02.1985, n. 47 che prevede , per le opere eseguite in totale difformità dalla concessione o in assenza di concessione , l’ingiunzione della demolizione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.04.2011 n. 2020 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa possibilità di deroga al vincolo paesaggistico (ex art. 1, comma 2, della legge n. 431/1985) riguarda soltanto le aree comprese in previsioni urbanistiche già approvate alla data di entrata in vigore della legge e non può essere estesa ai successivi atti programmatori.
L’art. 1, comma 2, della legge n. 431/1985 stabilisce che “Il vincolo di cui al precedente comma non si applica alle zone A, B e -limitatamente alle parti ricomprese nei piani pluriennali di attuazione- alle altre zone, come delimitate negli strumenti urbanistici ai sensi del decreto ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei comuni sprovvisti di tali strumenti, ai centri edificati perimetrati ai sensi dell'art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865”.
Secondo la giurisprudenza, la possibilità di deroga al vincolo paesaggistico riguarda soltanto le aree comprese in previsioni urbanistiche già approvate alla data di entrata in vigore della legge e non può essere estesa ai successivi atti programmatori (Consiglio Stato, sez. VI, 04.12.1996, n. 1679; sez. VI, 22.04.2004, n. 2332, secondo cui la disciplina statale àncora l'esclusione dal vincolo paesaggistico predisposto per legge alla delimitazione dei terreni negli strumenti urbanistici come zone A e B ad una data determinata, e cioè al 06.09.1985, epoca di entrata in vigore della l. n. 431 del 1985) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 01.04.2011 n. 2015 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOPer "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificatamente da una connotazione emulativa e pretestuosa. Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione.

Come evidenziato da Cass. civ., Sez. lav., 17.02.2009, n. 3785 “Per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.”.
Rileva inoltre Cons. Stato, Sez. IV, 21.04.2010, n. 2272 che “La ricorrenza di una condotta mobbizzante va esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme delle circostanze addotte e accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare "singulatim" elementi e episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.”.
Ed ancora secondo Cons. Stato, Sez. IV, 07.04.2010, n. 1991 “La condotta di mobbing dell’Amministrazione pubblica datrice di lavoro, consistente in comportamenti materiali o provvedimentali contraddistinti da finalità di persecuzione e di discriminazione, indipendentemente dalla violazione di specifici obblighi contrattuali nei confronti di un suo dipendente, deve da quest’ultimo essere provata e, a tal fine, valenza decisiva è assunta dall’accertamento dell’elemento soggettivo, e cioè dalla prova del disegno persecutorio.”.
Infine Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008, n. 2015 ha sottolineato che “Costituisce mobbing l’insieme delle condotte datoriali protratte nel tempo e con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all’emarginazione del dipendente con comportamenti datoriali, materiali o provvedimentali, indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali o dalla violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato; sicché, la sussistenza della lesione, del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata, procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi, considerando l’idoneità offensiva della condotta, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell’azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificatamente da una connotazione emulativa e pretestuosa. Tuttavia, determinati comportamenti non possono essere qualificati come mobbing se è dimostrato che vi è una ragionevole e alternativa spiegazione.” (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 31.03.2011 n. 528 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce principio generale che la motivazione del provvedimento possa risultare da altro atto dell’Amministrazione richiamato dalla decisione stessa, purché tale atto sia comunicato e reso disponibile insieme alla decisione, cioè al provvedimento finale che ad esso si richiama.
Costituisce principio generale, sancito normativamente dall’art. 3, comma 3, della L. n. 241 del 1990, che la motivazione del provvedimento possa risultare da altro atto dell’Amministrazione richiamato dalla decisione stessa, purché tale atto sia comunicato e reso disponibile insieme alla decisione, cioè al provvedimento finale che ad esso si richiama (Cons. Stato, VI Sez., n. 6724/2008)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.03.2011 n. 1879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un parcheggio interrato, con relativi accessi, e la copertura con un tetto giardino devono essere considerati nuovi volumi ai fini paesaggistici e, come tali, si pongono in contrasto con quelle disposizioni del PTP volte ad impedire la realizzazione di nuove strutture stabili che comunque risultano rilevanti ai fini paesaggistici.
Non è possibile sostenere, come fa la ricorrente, che tali opere (ndr: realizzazione di un parcheggio pertinenziale interrato per un numero complessivo di 45 box auto) determinano solo volumi tecnici, che non si pongono quindi in contrasto con il PTP.
Il divieto di incremento dei volumi esistenti, imposto ai fini di tutela del paesaggio, preclude infatti qualsiasi nuova edificazione comportante creazione di volume, senza che sia possibile distinguere tra volume tecnico ed altro tipo di volume (cfr., Cons. Stato, IV, n. 102/1997, in cui proprio in una fattispecie simile alla presente è stato ritenuto che costituisce opera valutabile anche come aumento di volume la realizzazione di un garage interrato con accesso all’esterno tramite rampa in zona sottoposta a vincolo paesaggistico).
Ogni tipo di volume determina una alterazione dello stato dei luoghi; proprio quello che nel caso di specie le norme di tutela vogliono impedire.
Pertanto, la realizzazione di un parcheggio interrato, con relativi accessi, e la copertura con un tetto giardino devono essere considerati nuovi volumi ai fini paesaggistici e, come tali, si pongono in contrasto con quelle disposizioni del PTP volte ad impedire la realizzazione di nuove strutture stabili che comunque risultano rilevanti ai fini paesaggistici (Cfr. dec. n. 2388/2005 cit.)
Né può ritenersi, come vorrebbe l’appellante, che l’interesse pubblico connesso ad un minor carico di traffico automobilistico faccia prevalere, attraverso il meccanismo della deroga, la normativa regolante i parcheggi sulle norme del Piano territoriale paesaggistico, attese le prevalenti finalità di tutela, particolarmente rigorosa, di quest’ultimo.
Come pure deve ritenersi che non fosse necessario esperire nessuna particolare istruttoria sull’area de qua, che per destinazione urbanistica di Piano non era suscettibile dell’intervento proposto
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.03.2011 n. 1879 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'art. 9, punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m. 10 lineari fra le pareti) risulta applicabile solo in aree diverse dalla zona A.
Deve precisarsi come il ricordato art. 9, punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m. 10 lineari fra le pareti) risulti applicabile solo in aree diverse dalla zona A e, quindi, in situazioni completamente differenziate da quella in questione (relativa al semplice ampliamento di un manufatto già edificato) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.03.2011 n. 1781 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn merito al ritardo del Comune nell'escutere la fideiussione a garanzia del versamento degli oo.uu. e, conseguentemente, sugli effetti circa gli interessi per il mancato pagamento.
Come affermato da questo Consiglio in caso consimile (sez. V, 05.02.2003, n. 571), “ove una società, per il rilascio di una concessione edilizia per la realizzazione di un impianto industriale abbia corrisposto la metà del contributo dovuto per oneri di urbanizzazione, mentre la parte residua sia stata rateizzata in due anni e sia stata consegnata al comune una fideiussione con espressa rinuncia al "beneficium excussionis" e l'obbligo del fideiussore di versare quanto richiesto in termini brevi previo semplice avviso, sussiste una obbligazione di garanzia del tutto autonoma rispetto al rapporto creditore-debitore principale; pertanto, è sufficiente la semplice richiesta dal comune al fideiussore per ottenere il pagamento, con la conseguenza che l'inerzia del comune va interpretata, in caso di controversia sul punto dell'applicabilità dell'art. 3 legge n. 47 del 1985, quale volontà da parte del comune di rinunziare alla clausola predetta e la successiva pretesa da parte dell'amministrazione degli interessi per ritardato pagamento costituisce violazione dei doveri di correttezza cui è tenuto il creditore per rendere meno gravosa la posizione del debitore nell'adempiere ad un'obbligazione” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02.03.2011 n. 1357 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa possibilità prevista dal legislatore che il concessionario si obblighi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione deve essere concordata tra il costruttore e il Comune mediante una convenzione urbanistica che disciplini l’esecuzione di tali opere e le relative garanzie.
La legge, ai fini dello scomputo, parla indifferentemente di opere di urbanizzazione, senza, quindi, che possa farsi distinzione fra quelle relative all’urbanizzazione primaria e quelle appartenenti alla categoria delle opere di urbanizzazione secondaria.

Va, in linea generale, premesso -in subjecta materia- che il contributo di urbanizzazione, quale di diritto pubblico previsto dalla c.d. legge Bucalossi e connesso, in particolare al rilascio della concessione edilizia, è posto a carico del costruttore a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (cfr. Cons. Stato Sez. V 21.04.2006 n. 2258).
Ciò osservato, l’art. 11 della legge n. 10 del 27.01.1977 all’art. 1 (comma 1) dopo aver previsto che “la quota di contributo di cui al precedente articolo 5 è corrisposta al Comune all’atto del rilascio della concessione", stabilisce che “a scomputo totale o parziale della quota dovuta, il concessionario può obbligarsi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione con le modalità e le garanzie stabilite dal Comune”.
La possibilità prevista dal legislatore che il concessionario si obblighi a realizzare direttamente le opere di urbanizzazione deve essere concordata tra il costruttore e il Comune mediante una convenzione urbanistica che disciplini l’esecuzione di tali opere e le relative garanzie.
La legge, ai fini in esame, parla indifferentemente di opere di urbanizzazione, senza, quindi, che possa farsi distinzione fra quelle relative all’urbanizzazione primaria e quelle appartenenti alla categoria delle opere di urbanizzazione secondaria, ma se così è, il Comune non può, allora, sulla scorta di quanto convenuto con l’accordo pattizio a suo tempo sottoscritto e approvato disconoscere il diritto allo scomputo del costo di opere (ivi comprese quelle di urbanizzazione secondarie qui in contestazione, ma in concreto, peraltro non specificatamente indicate) per le quali è avvenuta la loro diretta esecuzione e per le quali alcuna norma prevede che non debbono essere computate ai fini della quantificazione del contributo di urbanizzazione in ipotesi dovuto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2011 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di esenzione dagli oneri contributivi relativi alla concessione edilizia, l’art. 9, comma 1, lettera f), della legge n. 10/1977 richiede due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime dio gratuità della concessione: l’uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente, e l’altro di carattere oggettivo, per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
Questa Sezione non può qui non ribadire i principi peraltro costantemente affermati dal questo Consesso (cfr. Sez. V 20.10.2004 n. 6818; Sez. VI 05.06.2007 n. 2981 ) e cioè che in tema di esenzione dagli oneri contributivi relativi alla concessione edilizia, l’art. 9, comma 1, lettera f), della legge n. 10/1977 richiede due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime dio gratuità della concessione: l’uno di tipo soggettivo, per effetto del quale le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente e l’altro di carattere oggettivo per effetto del quale la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale.
Ebbene, nella fattispecie difettano entrambe tali condiciones iuris dal momento che la Soc. ... non riveste certo lo status di un soggetto avente natura pubblicistica (trattasi di un società di diritto commerciale) ed inoltre l’intervento realizzato non costituisce espletamento di un’attività istituzionale o di interesse pubblico, essendo le opere edilizie in questione (un complesso turistico–alberghiero) palesemente finalizzate ad assecondare le finalità di lucro proprie di un soggetto di diritto privato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2011 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAA prescindere dall’utilizzo dei normali canoni ermeneutici, riesce veramente difficile equiparare un complesso di immobili destinati ad un’attività turistico-alberghiera ad un’attività industriale di produzione di beni e servizi.
L’art. 10 della legge 28.01.1977 n. 10 distingue, ai fini della determinazione del contributo del costo di costruzione, gli edifici o gli impianti destinati ad attività industriale e artigianale dirette alla trasformazione dei beni e alla prestazione di servizi, dalle costruzioni od impianti destinati ad attività turistiche, commerciali o direzionali, prevedendo per i primi manufatti le agevolazioni contributive ed escludendole per i secondi.
Ora, ad escludere la configurazione di un complesso alberghiero come un'attività produttiva è proprio il dettato normativo sopra indicato che menziona espressamente gli impianti turistici tra i manufatti per i quali il legislatore in base ad una scelta insindacabile ha ritenuto non possa farsi luogo alla concessione del beneficio de quo e non v’è dubbio che l’esistenza di un siffatto dato normativo è di per sé preclusivo di quale che sia interpretazione estensiva.
Parte appellante fa leva al riguardo sulla normativa regionale che valorizza nei sensi propugnati dalla stessa Società le strutture preposte allo svolgimento di attività turistica, ma una siffatta circostanza non giova a cambiare i termini della questione, attesa la valenza recessiva della normativa regionale a fronte della norma statale posta a salvaguardia di un regime giuridico del rapporto in questione da intendersi in modo unitario su tutto il territorio nazionale.
E questo a prescindere dall’utilizzo dei normali canoni ermeneutici per cui riesce veramente difficile equiparare un complesso di immobili destinati ad un’attività turistico-alberghiera ad un’attività industriale di produzione di beni e servizi (cfr., questa Sezione n. 4488 del 12/07/2010)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 02.03.2011 n. 1332 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIn presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendosi per la prima che l’annullamento dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest’ultimo non venga impugnato, mentre la seconda renderebbe l’atto conseguenziale annullabile, purché impugnato nei termini.
Per giurisprudenza consolidata, in presenza di vizi accertati dell’atto presupposto, deve distinguersi fra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, ammettendosi per la prima che l’annullamento dell’atto presupposto si estenda automaticamente a quello consequenziale, anche ove quest’ultimo non venga impugnato (mentre la seconda renderebbe l’atto conseguenziale annullabile, purché impugnato nei termini); ai fini della concreta individuazione della predetta tipologia di effetti, è pacifico che si debba valutare l’intensità del rapporto di consequenzialità, con riconoscimento dell’effetto caducante ove tale rapporto sia immediato, diretto e necessario, nel senso che l’atto successivo si ponga, nell’ambito della stessa sequenza procedimentale, come inevitabile conseguenza di quello anteriore, senza necessità di nuove ed ulteriori valutazioni di interessi, con particolare riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, V, 25.11.2010, n. 8243; VI, 23.12.2008, n. 6520)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.02.2011 n. 1114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAI P.T.P. hanno la specifica funzione di predeterminare in astratto criteri, condizioni e modalità per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in zone già sottoposte a vincolo, con specifiche funzioni di omogeneizzazione della tutela e di salvaguardia dei valori paesistico-ambientali di zone determinate, senza finalità di generalizzata programmazione d’uso del territorio.
I piani territoriali paesistici sono strumenti di disciplina di uso e valorizzazione dei territori assoggettati a vincoli paesaggistici, che prevalgono sui piani regolatori generali e sugli altri strumenti urbanistici e possono certamente imporre limitazioni di carattere generale, ovvero puntuali prescrizioni, con efficacia immediatamente precettiva a carico dei proprietari, quando siano ravvisate ragioni di tutela dei valori paesaggistici, di cui i piani stessi debbono articolare la disciplina.
Sussiste la discrezionalità tecnica che caratterizza gli atti di pianificazione, anche quali strumenti di progressiva specificazione dei vincoli paesaggistici, in conformità alle esigenze di tutela di cui all’art. 9 della Costituzione, nonché l’insindacabilità, nel merito, delle scelte in tale ambito effettuate dall’Amministrazione.

E' pacifico che i P.T.P. hanno la specifica funzione di predeterminare in astratto criteri, condizioni e modalità per il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in zone già sottoposte a vincolo, con specifiche funzioni di omogeneizzazione della tutela e di salvaguardia dei valori paesistico-ambientali di zone determinate, senza finalità di generalizzata programmazione d’uso del territorio (cfr. anche art. 139 d.lgs. n. 490 del 1999 su beni specifici soggetti a tutela, nonché Cons. Stato, VI, 26.06.2002, n. 3512 e 13.10.1993, n. 713).
Sembra appena il caso di ricordare la discrezionalità tecnica che caratterizza gli atti di pianificazione, anche quali strumenti di progressiva specificazione dei vincoli paesaggistici, in conformità alle esigenze di tutela di cui all’art. 9 della Costituzione (Cons. Stato, II, 20.05.1998, n. 548 e 549; VI, 23.11.2004, n. 7667; Corte cost. 13.07.1990, n. 327), nonché l’insindacabilità, nel merito, delle scelte in tale ambito effettuate dall’Amministrazione.
I piani territoriali paesistici sono strumenti di disciplina di uso e valorizzazione dei territori assoggettati a vincoli paesaggistici, che –in attuazione del principio fondamentale dell’art. 9 Cost.- prevalgono sui piani regolatori generali e sugli altri strumenti urbanistici, ai sensi dell’art. 150, comma 2, d.lgs. n. 490 del 1999 e possono certamente imporre limitazioni di carattere generale, ovvero puntuali prescrizioni, con efficacia immediatamente precettiva a carico dei proprietari, quando siano ravvisate –come nel caso di specie– ragioni di tutela dei valori paesaggistici, di cui i piani stessi debbono articolare la disciplina (cfr. fra le tante Cons. Stato, IV, 26.09.2001, n. 5038; VI, 22.08.2003, n. 4766; II, 20.05.1998, n. 549)
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.02.2011 n. 1114 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICAL'ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di qualificata frequentazione) con la zona interessata dall’operazione contestata. Ed è parimenti certo che, in concreto, sono legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell’intervento controverso.
E' sufficiente rammentare l’insegnamento giurisprudenziale al quale questo Tribunale ha da tempo aderito (cfr., in termini, sentenza 25.03.2009, n. 88), secondo cui, in materia urbanistica, l'ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di qualificata frequentazione) con la zona interessata dall’operazione contestata (cfr., C. Stato, sez. V, 19.09.2008, n. 4528). Ed è parimenti certo che, in concreto, sono legittimati all'impugnazione coloro che possono lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell’intervento controverso (cfr., Consiglio di Stato, sez. IV, 10.04.2008, n. 1548).
Nella specie, la peculiare ubicazione del compendio immobiliare di proprietà della società ricorrente, posto immediatamente a confine con la zona del cui mutamento di destinazione urbanistica si discute, dà immediata evidenza sia dell’esistenza della vicinitas sia del possibile pregiudizio che potrebbe subire a causa della trasformazione della confinante area agricola di pregio in zona a destinazione residenziale, nella quale sono ovviamente ammessi interventi di trasformazione del suolo con l’edificazione di manufatti che possono avere ricaduta negativa sulla fruibilità dell’ambiente circostante
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 09.02.2010 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALe scelte urbanistiche circa la disciplina del territorio possono formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o irragionevolezza ovvero di palese travisamento dei fatti che costituiscono i limiti della discrezionalità amministrativa.
Le scelte urbanistiche circa la disciplina del territorio possono formare oggetto di sindacato giurisdizionale nei soli casi di arbitrarietà, irrazionalità o irragionevolezza ovvero di palese travisamento dei fatti che costituiscono i limiti della discrezionalità amministrativa” (cfr. C. Stato, sez. IV, 18.06.2009, n. 4024) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 09.02.2010 n. 46 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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