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AGGIORNAMENTO AL 25.07.2011 |
ã |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Procedimenti di verifica dei requisiti ex
art. 40, commi 9-ter e quater, del D.Lgs.
12.04.2006 n. 163 e smi (comunicato
alle SOA 12.07.2011 n. 65 - link
a www.autoritalavoripubblici.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Regolamento in materia di procedimento ex
art. 40, comma 9-quater, del D.Lgs. 163/2006
per l’accertamento della responsabilità
delle imprese che presentano falsa
dichiarazione o falsa documentazione ai fini
della qualificazione sotto il profilo del
dolo o della colpa grave (regolamento
12.07.2011 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
E. Moro,
La
nullità assoluta del contratto ad effetti
reali ai sensi dell'art. 40, comma 2, della
L.
28.02.1985 N. 47 – Una breve disamina degli
istituti eccezionali della convalida del
contratto previsti dalla legge: l'atto di
conferma e la sanatoria di diritto
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
La gestione abusiva dei rifiuti integra un
reato permanente o istantaneo?
(link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: P.
Urbani, Le innovazioni in materia di
edilizia privata nella legge n. 106/2011 di
conversione del DL 70 13.05.2011. Semestre
Europeo – Prime disposizioni urgenti per
l’economia (link a www.pausania.it). |
APPALTI:
S. Giacchetti,
Codice degli appalti pubblici: la “dichiarazione
giurata” ovvero l’arte di complicarsi
inutilmente la vita (link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: M.
Bellina,
Demansionamento e rifiuto della prestazione
lavorativa (link a
www.ipsoa.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Art. 7 D.L. n. 70/2011 - c.d.
Decreto sviluppo - prime indicazioni
operative
(Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali,
circolare 04.07.2011 n. 16/2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Oggetto: Variazione capitolo entrata
versamento somme da sanzioni - legge quadro
inquinamento acustico
(ANCI,
nota 31.05.2011 n. 129 di prot.). |
UTILITA' |
APPALTI:
Costo del personale e sicurezza
nella selezione delle offerte negli appalti
- Prime indicazioni elaborate dal Gruppo di
lavoro interregionale sui contratti presso
ITACA.
La legge 106/2011 di conversione del DL
70/2011 (decreto sviluppo), entrata in
vigore lo scorso 13 luglio, ha introdotto un
importante novità nel criterio di scelta
dell’offerta migliore che sicuramente avrà
importanti ricadute su tutto il sistema di
aggiudicazione e selezione degli appalti
regolato dal codice dei contratti.
In particolare la nuova norma, volta a
migliorare le condizioni di lavoro e in
genere a sostenere l’importante settore
degli appalti, introduce il comma 3-bis
all’art. 81 del d.lgs. 163/2006: “L’offerta
migliore è altresì determinata al netto
delle spese relative al costo del personale,
valutato sulla base dei minimi salariali
definiti dalla contrattazione collettiva
nazionale di settore tra le organizzazioni
sindacali dei lavoratori e le organizzazioni
dei datori di lavoro comparativamente più
significative sul piano nazionale, e delle
misure di adempimento delle disposizioni in
materia di salute e sicurezza nei luoghi di
lavoro”.
La norma impone di salvaguardare comunque e
sempre il valore della manodopera quale
costo non negoziabile, e pertanto da
sottrarre al mercato e alla concorrenza, in
analogia con quanto previsto già per gli
oneri di sicurezza.
Il Gruppo di lavoro interregionale “Codice
contratti” operante presso ITACA e
coordinato da Regione Piemonte, ha adottato
nell’incontro tenuto lo scorso 14 luglio, un
documento recante “PRIME
INDICAZIONI PER L’APPLICAZIONE DELLE
MODIFICAZIONI INTRODOTTE ALL’ART. 81 DEL
CODICE DEI CONTRATTI PUBBLICI DALLA LEGGE
12.07.2011, N. 106, DI CONVERSIONE DEL DL
70/2011”.
Il documento, che sarà trasmesso alla
Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome per le opportune valutazioni, vuole
essere un primo contributo a supporto delle
stazioni appaltanti che si trovano ad
applicare una norma che indubbiamente
impatta su tutte le procedure di gara,
settori e per qualunque importo e che avrà
rilevanti sviluppi anche nelle fase di
gestione del contratto (tratto dal sito
www.itaca.org).
---------------
Il costo del lavoro non
è negoziabile! Le modifiche introdotte dalla
“Legge Sviluppo” e le prime indicazioni
operative.
La Legge 106/2011 (Legge di conversione del
Decreto Sviluppo) ha introdotto una
importante novità nel criterio di scelta
dell’offerta che avrà ripercussioni su tutto
il sistema di aggiudicazione degli appalti.
In particolare la nuova norma introduce il
comma 3-bis all’art. 81 del Codice degli
Appalti (D.Lgs. 163/2006): “L’offerta
migliore è determinata al netto delle spese
relative al costo del personale, valutato
sulla base dei minimi salariali definiti
dalla contrattazione collettiva nazionale di
settore tra le organizzazioni sindacali dei
lavoratori e le organizzazioni dei datori di
lavoro comparativamente più significative
sul piano nazionale, e delle misure di
adempimento delle disposizioni in materia di
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”.
La norma, quindi, impone di salvaguardare
sempre e comunque il valore della manodopera
quale costo non negoziabile, così come già
previsto per i costi della sicurezza.
Il Gruppo di lavoro interregionale “Codice
contratti” operante presso ITACA e
coordinato da Regione Piemonte, ha adottato
nell’incontro tenuto lo scorso 14 luglio, un
documento recante “Prime indicazioni per
l’applicazione delle modificazioni
introdotte all’art. 81 del Codice dei
Contratti pubblici dalla Legge 12.07.2011,
n. 106, di conversione del DL 70/2011”.
Il documento, che sarà trasmesso alla
Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome per le opportune valutazioni, vuole
essere una guida in grado di fornire
indicazioni operative sui Lavori pubblici,
alla luce delle nuove disposizioni normative
(21.07.2011 - commento tratto da www.acca.it). |
VARI:
Come comportarsi prima di partire per le
nostre vacanze. Consigli per la sicurezza
dai Vigili del Fuoco.
Prima di partire per le tanto attese
vacanze, risulta opportuno rispettare una
serie di regole, come ad esempio:
» chiudere il rubinetto principale del gas;
qualora vengano utilizzate bombole di gas,
collocare quelle in uso sempre all’esterno
dell’abitazione in luogo non esposto al sole
e non depositare mai quelle vuote negli
scantinati;
» interrompere l’erogazione della corrente
dal quadro elettrico principale; se
particolari esigenze (impianti di allarme,
congelatore, frigorifero) non lo
consentissero, staccare dalla presa la spina
di tutti gli apparecchi non necessari (forno
elettrico, televisore, video registratore,
orologi digitali, HI-FI);
» chiudere la valvola principale dell’acqua;
se ciò non fosse possibile, ad esempio per
la necessità di mantenere in funzione un
impianto automatico di irrigazione,
diminuirne la pressione, chiudendo in parte
il rubinetto.
Queste raccomandazioni e tanto altro nel
documento pubblicato dai Vigili del Fuoco.
Nell'opuscolo sono presenti anche una serie
di consigli su come comportarsi durante il
viaggio e sui comportamenti da tenere in
caso di pericolo (21.07.2011 - link a www.acca.it). |
VARI:
Impianti a gas: precauzioni, requisiti per
la sicurezza, comportamenti in casi di
emergenza. Una guida per l’installazione,
utilizzo e manutenzione.
In Italia sono distribuiti principalmente 2
tipi di gas:
Þ
gas naturale, comunemente definito metano,
che arriva dai giacimenti di estrazione alle
utenze attraverso un sistema di trasporto
primario e reti di distribuzione;
Þ
GPL (gas di petrolio liquefatto),
proveniente dalla distillazione del petrolio
greggio, che viene generalmente
commercializzato in bombole o in piccoli
serbatoi.
I requisiti essenziali per la sicurezza di
un impianto alimentato a gas sono vari e le
precauzioni da adottare, sia da parte
dell'installatore che da parte degli utenti
finali, sono numerose.
Ad esempio, per un terminale a gas come un
piano cottura, occorrono i seguenti
requisiti:
►
ventilazione: i locali devono essere
adeguatamente ventilati, al fine di far
affluire l’aria necessaria per la
combustione;
►
aerazione: i locali devono essere
adeguatamente aerati per favorire il
ricambio d’aria;
►
evacuazione prodotti della combustione: gli
apparecchi devono essere raccordati a
sistemi di scarico come camini e canne
fumarie di sicura efficienza;
►
dispositivi di sorveglianza di fiamma: tutti
gli apparecchi (ad esclusione dei piani di
cottura, per i quali al momento non esiste
l’obbligo) devono essere dotati di
dispositivi di sorveglianza di fiamma per
bloccare la fuoriuscita del gas in caso di
spegnimento.
Il Dipartimento dei Vigili del Fuoco ha
pubblicato una guida contenente le
Informazioni di sicurezza e antincendio per
gli utenti di gas naturale e GPL.
Lo scopo della pubblicazione è quello di
fornire agli installatori e a tutti gli
utenti di gas combustibili informazioni
utili per la sicurezza, in maniera chiara e
precisa.
Nell’opuscolo sono riportate informazioni di
carattere generale, le precauzioni da
osservare, i requisiti per la sicurezza,
caratteristiche e raccomandazioni per
ciascuna tipologia di gas (21.07.2011
- link a
www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Guida alle applicazioni innovative
finalizzate all’integrazione architettonica
del fotovoltaico (GSE, luglio
2011).
---------------
Come si realizza un
impianto fotovoltaico “architettonicamente
integrato”? Ecco la guida alle applicazioni
innovative.
Il concetto di integrazione architettonica
nasce con il secondo Conto Energia, che
prevedeva un incremento della tariffa
incentivante base per gli impianti integrati
e per quelli parzialmente integrati
architettonicamente.
Con l’evoluzione tecnologica degli ultimi
anni il modulo fotovoltaico non va
considerato più come mero generatore di
energia, ma diventa un nuovo componente
architettonico, con una funzione che lo
rende parte integrante dell’edificio.
Il quarto Conto Energia, continuando in
questa direzione, sottolinea l’esigenza che
i moduli fotovoltaici diventino materia di
architettura con un ruolo sempre più
integrato nell’edificio e non soltanto
perché si necessita di una edilizia
sostenibile dal punto di vista energetico.
Il GSE ha pubblicato la guida alle
applicazioni innovative finalizzate
all’integrazione architettonica degli
impianti fotovoltaici.
La Guida fornisce le definizioni di base, i
criteri e le modalità di installazione di un
impianto fotovoltaico costituito da moduli
non convenzionali o componenti speciali al
fine di esplicitare le categorie ammissibili
a questa privilegiata classe di
incentivazione (21.07.2011 - commento tratto da
www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI SERVIZI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 29 del
21.07.2011, "Indirizzi in materia di
affidamento dei servizi e convenzioni tra
enti pubblici e cooperative sociali in
attuazione della d.g.r. n. 1353/2011"
(deliberazione
G.R. 13.07.2011 n. 6459). |
LAVORI PUBBLICI:
G.U. 21.07.2011 n. 168 "Regolamento in
materia di procedimento ex art. 40, comma
9-quater del decreto legislativo n. 163/2006
per l’accertamento della responsabilità
delle imprese che presentano falsa
dichiarazione o falsa documentazione ai fini
della qualificazione sotto il profilo del
dolo o della colpa grave" (AVCP,
regolamento 12.07.2011). |
LAVORI PUBBLICI: G.U.
21.07.2011 n. 168 "Procedimenti di
verifica dei requisiti ex art. 40, commi
9-ter e quater del decreto legislativo
12.04.2006, n. 163 e successive modifiche ed
integrazioni" (AVCP,
comunicato alle SOA 12.07.2011 n. 65). |
APPALTI SERVIZI E FORNITURE: G.U.
18.07.2011 n. 165 "Saggio degli interessi
da applicare a favore del creditore nei casi
di ritardo nei pagamenti nelle transazioni
commerciali" (Ministero dell'Economia e
delle Finanze,
comunicato). |
ENTI LOCALI - VARI:
G.U. 06.06.2011 n. 129 "Codice della
normativa statale in tema di ordinamento e
mercato del turismo, a norma dell’articolo
14 della legge 28.11.2005, n. 246, nonché
attuazione della direttiva 2008/122/CE,
relativa ai contratti di multiproprietà,
contratti relativi ai prodotti per le
vacanze di lungo termine, contratti di
rivendita e di scambio"
(D.Lgs.
23.05.2011 n. 79). |
QUESITI &
PARERI |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI:
Come devono essere rilasciati i certificati
dal pronto soccorso?
Domanda.
Come devono essere rilasciati i certificati
rilasciati dal pronto soccorso o dagli
ospedali in caso di ricovero e dimissione?
Sono ancora redatti in forma cartacea o
utilizzano il sistema telematico anche loro?
Come possiamo sapere se si tratta di
ricovero ospedaliero piuttosto che malattia
non ospedaliera? E' necessario riprodurli
dal medico di famiglia oppure no?
Risposta.
A seguito dell'entrata in vigore dell'art.
25 della L. 04.11.2010, n. 183 (c.d.
Collegato lavoro alla Finanziaria 2010), al
fine di assicurare un quadro completo delle
assenze per malattia nei settori pubblico e
privato, nonché un efficace sistema di
controllo delle stesse, in tutti i casi di
assenza per malattia dei dipendenti di
datori di lavoro privati, per il rilascio e
la trasmissione dell'attestazione di
malattia si applicano le disposizioni di cui
all'art. 55-septies del D.Lgs. 30.03.2001,
n. 165.
Ne discende che, in tutti i casi di assenza
per malattia, la certificazione medica (con
inizio e durata presunta della malattia)
deve essere trasmessa per via telematica,
direttamente dal medico convenzionato con il
Servizio sanitario nazionale o dalla
struttura sanitaria pubblica che la
rilascia, all'INPS e dal predetto Istituto
immediatamente inoltrata, con le medesime
modalità, ai datori di lavoro. L'eventuale
inosservanza di tale obbligo comporta
l'irrogazione di sanzioni disciplinari nei
confronti dei medici inadempienti.
Tenuto presente che permangono alcune
obiettive situazioni di tipo tecnico e/o
procedurale L'INPS, con il Messaggio n. 9197
del 20.04.2011, ha previsto le seguenti
ipotesi di deroga:
1. ricovero ospedaliero.
2. degenza in strutture di pronto soccorso.
3. strutture di medici privati non ancora
abilitati all'invio telematico.
In pratica l'Inps precisa che nel caso in
cui il medico "non proceda all'invio
on-line del certificato di malattia, ad
esempio perché impossibilitato a utilizzare
il sistema di trasmissione telematica, ma
rilasci la certificazione e l'attestazione
di malattia in forma cartacea", sarà
cura del lavoratore presentare
"l'attestazione al proprio datore di lavoro
e, ove previsto, il certificato di malattia
all'Inps, secondo le modalità tradizionali"
(19.07.2011 - commento tratto da
www.ipsoa.it). |
APPALTI:
Pendenze con l'Agenzia delle Entrate ed
esclusione dal contratto d'appalto.
Domanda.
Si chiede se deve essere pronunciato o meno
il provvedimento di esclusione dalla stipula
di un contratto di appalto nei confronti di
una ditta che alla data di presentazione
dell'offerta di gara risultava già avere
pendenze con l'Agenzia delle Entrate.
Risposta.
L'oggetto del quesito riguarda la
possibilità o meno di esclusione dalla
stipula di un contratto di appalto nei
confronti di una ditta che risulta avere
pendenze con l'Agenzia delle Entrate. In
tema di requisiti soggettivi per la
partecipazione a gare di appalto, la
ratio dell'art. 38, comma 1, lettera g),
D.Lgs. 12-04-2006, n. 163, il quale
stabilisce l'esclusione dei "soggetti che
hanno commesso violazioni, definitivamente
accertate, rispetto agli obblighi relativi
al pagamento delle imposte e tasse secondo
la legislazione italiana o dello Stato in
cui sono stabiliti", risponde
all'esigenza di garantire l'Amministrazione
relativamente alla solvibilità e solidità
finanziaria del soggetto con il quale
contrae.
In relazione alla rilevata ratio
appare necessario che sia di volta in volta
in concreto indagata la vicenda relativa
all'assolvimento degli obblighi di pagamento
di imposte e tasse per accertarne la
rilevanza, mirando la necessaria verifica ad
appurare non già la sussistenza di una mera
singola violazione, ma la globale regolarità
sul piano tributario di ciascuna impresa
partecipante alla gara quale eventuale
futura contraente con la P.A., capace di
accreditare la solvibilità delle imprese;
singole, isolate omissioni di modesto
contenuto, incapaci in quanto tali di
reagire su tale globale situazione
finanziaria, non possono giustificare la
grave conseguenza dell'esclusione da una
pubblica gara, tra l'altro di facoltativa
applicazione nei singoli ordinamenti
nazionali.
Inoltre non può essere considerata
irregolare la posizione dell'impresa
partecipante a gara pubblica qualora sia
ancora pendente il termine di 60 giorni per
l'impugnazione (o per l'adempimento) ovvero,
qualora sia stata proposta impugnazione, non
sia passata ancora in giudicato la pronuncia
giurisdizionale (TAR Veneto Sez. I,
27.01.2011 n. 115; Cons. Stato Sez. V,
20.04.2010, n. 2213) (15.07.2011 - commento
tratto da www.ipsoa.it). |
NEWS |
PUBBLICO IMPIEGO:
Pensione più lontana per gli
statali.
Anche chi matura 40 anni di contributi dovrà
aspettare 13 mesi. Nota operativa
dell'Inpdap sulla legge di stabilità
finanziaria recentemente approvata.
Chi nel 2012 matura il diritto a pensione
con il solo requisito della massima
anzianità contributiva (i 40 anni),
indipendentemente dall'età anagrafica, potrà
accedere al pensionamento dopo 13 mesi (un
anno per la cosiddetta «finestra mobile»,
più un mese di ulteriore posticipo. Tale
disposizione, introdotta dalla legge
n. 111/2011 (la manovra Tremonti), si applica
anche ai dipendenti pubblici iscritti
all'Inpdap, con esclusione degli insegnanti.
Lo precisa lo stesso ente di previdenza
nella tempestiva
nota operativa
21.07.2011 n. 27, che si occupa di tutte le altre
novità in materia pensionistica.
Decorrenza anzianità. L'intervento in tema
di decorrenza della pensione di anzianità è
contenuto nell'art. 18, comma 22-ter,
22-quater, 22-quinquies. Pertanto, chi
matura, nel 2012, il diritto a pensione con
il solo requisito della massima anzianità
contributiva, indipendentemente dall'età
anagrafica (40 anni di anzianità
contributiva), potrà accedere al
pensionamento decorsi 13 mesi dal
raggiungimento del predetto requisito (12
mesi per la c.d. «finestra mobile», già
prevista dalla legge n. 122/2010, più un
mese di ulteriore posticipo).
Chi matura il
diritto nel 2013 potrà accedere al
pensionamento decorsi 14 mesi dal
raggiungimento del requisito della massima
anzianità contributiva mentre chi matura il
diritto a partire dal 2014 potrà accedere al
pensionamento decorsi 15 mesi dal
raggiungimento del citato requisito.
La
disposizione, si legge nella nota, non si
applica nei confronti del personale del
comparto scuola per il quale resta
confermata la precedente normativa (comma 9,
dell'art. 59 della legge n. 449/1997) che
prevede il pensionamento dal 1° settembre
dell'anno di maturazione del requisito.
Aspettative di vita. Il sistema di
adeguamento dei requisiti per il
conseguimento del diritto a pensione
(previsto dall'articolo 12, commi 12-bis e
12-ter della legge n. 122/2010) è stato
modificato.
In particolare, l'adeguamento
automatico dell'età pensionabile alla
speranza di vita individuata dall'Istat, già
programmato dall'01.01.2015, viene
anticipato all'01.01.2013 e il dato
relativo alla variazione nel triennio
precedente della speranza di vita viene
fornito dall'Istat a partire dall'anno 2011
e reso disponibile entro il 31 dicembre
dello stesso anno.
Di conseguenza, a partire
dall'01.01.2013 i requisiti anagrafici
prescritti per i pensionamenti di vecchiaia,
ovvero i requisiti di età e i valori di
somma di età anagrafica e di anzianità
contributiva (le cosiddette «quote») sono
incrementati di tre mesi.
Rivalutazione automatica. Per gli anni 2012
e 2013, è stata modificata la perequazione
delle pensioni superiori a 5 il trattamento
minimo Inps per le quali essa è concessa
solo per la fascia di importo inferiore a
tre volte il predetto minimo Inps e nella
misura del 70%.
È previsto un correttivo in
base al quale sulle pensioni anzidette, il
cui ammontare sia inferiore al limite
costituito dall'importo corrispondente a 5
volte il minimo Inps incrementato della
quota di perequazione, l'aumento è
attribuito fino a concorrenza di tale limite
perequato.
Pensioni d'oro. La legge di conversione del
decreto riporta in vita uno degli istituti
più controversi del sistema previdenziale,
il cosiddetto «contributo di solidarietà».
Si tratta di una trattenuta secca che si
applica sui trattamenti pensionistici più
elevati. Per determinare se si è o meno
soggetti a questo prelievo, la legge
111/2011 prevede tre scaglioni di pensione:
- fino a 90 mila euro lordi, non si applica
alcuna trattenuta;
- per gli importi che superino i 90 mila
euro lordi annui (pari da un importo netto
mensile di € 4.381,77 per 13 mesi) e fino a
150 mila euro, il contributo è pari al 5%
della parte eccedente il predetto importo;
- per la parte eccedente i 150 mila euro
(pari da un importo netto mensile di
€ 6.947,96 per 13 mesi) la misura della
trattenuta è del 10%.
La trattenuta in questione si applica a
decorrere dall'01.08.2011 e fino al
31.12.2014 e, in ogni caso, per effetto di
tale riduzione, il trattamento pensionistico
complessivo non può essere inferiore a 90
mila euro lordi annui.
Reversibilità. Con effetto sulle pensioni
decorrenti dall'01.01.2012 (art. 18,
comma 5) l'aliquota percentuale della
pensione a favore dei superstiti (ora del
60%) è ridotta, nei casi in cui il
matrimonio con il dante causa sia stato
contratto ad età del medesimo superiori a 70
anni e la differenza di età tra i coniugi
sia superiore a 20 anni, del 10% in ragione
di ogni anno di matrimonio con il dante
causa mancante rispetto al numero di 10. Nei
casi di frazione di anno la predetta
riduzione percentuale è proporzionalmente
rideterminata.
Le disposizioni di cui ai
precedenti periodi non si applicano nei casi
di presenza di figli di minore età,
studenti, ovvero inabili. Si tratta del
ritorno a una vecchia norma «antibusi»
(per scoraggiare in questo caso i matrimoni
fittizi tra assistiti e badanti) già
presente nell'ordinamento pensionistico
statale, giudicata incostituzionale nei
primi anni 70.
Resta in ogni caso confermato, sottolinea la
nota, il regime di cumulabilità (di cui
all'art. 1, comma 41, della legge n.
335/1995) (articolo ItaliaOggi del
23.07.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Dirigenti locali, sanatoria
ampia. Meritocrazia «congelata» e annullata
negli enti con pochi dipendenti. Consiglio
dei ministri: approvato il decreto
correttivo della riforma della Pubblica
amministrazione.
Si allargano le maglie per i dirigenti a
tempo degli enti locali, la distinzione del
personale in fasce di merito è
definitivamente rimandata a data da
destinarsi e tramonta del tutto negli enti
che contano fino a 15 dipendenti o 5
dirigenti, mentre si precisa l'immediata
applicabilità del nuovo sistema di relazioni
sindacali, senza aspettare la prossima
tornata contrattuale.
Sono i contenuti del restyling della riforma
del Pubblico impiego portato dal
Dlgs
correttivo approvato in via definitiva ieri
dal consiglio dei ministri.
Sul versante
degli incarichi dirigenziali, enti locali e
Regioni escono definitivamente dal tetto
fissato dalla riforma Brunetta, che impediva
di assegnare posti dirigenziali a tempo in
numero superiore all'8 per cento
dell'organico dirigenziale di ogni ente.
Alle amministrazioni territoriali si
applicherà un nuovo limite, al 18% (si veda
«Il Sole 24 Ore» del 14 luglio), ma
il passaggio in consiglio dei ministri ha
aggiunto un nuovo tassello, nonostante
l'opposizione di Via XX Settembre: i
contratti già siglati, anche se in
sovrannumero rispetto ai tetti fissati dalla
riforma, proseguono tranquillamente per la
loro strada fino alla scadenza naturale. Un
modo per togliere definitivamente d'impaccio
le tante amministrazioni, compresi grandi
Comuni come Milano a Roma, con una dotazione
di dirigenti a tempo decisamente superiore a
quella prevista dalle nuove regole.
Il correttivo interviene nuovamente anche su
un altro dei pilastri della riforma, quello
della divisione in fasce di merito del
personale, per assegnare un salario
accessorio differenziato in base alle «pagelle»
ottenute in termini di produttività. La
graduatoria del merito scompare
definitivamente in tutti gli enti, locali e
centrali, di piccole dimensioni: il
personale eviterà le fasce quando gli
organici conteranno fino a 15 persone,
mentre per i dirigenti l'addio scatta quando
non sono superiori a cinque.
Anche negli altri enti, però, per vedere le
graduatorie meritocratiche, si dovrà
attendere: traducendo in legge lo stop di
fatto già previsto nell'intesa con i
sindacati del 4 febbraio scorso (che però
riguardava solo la Pubblica amministrazione
centrale), il correttivo spiega che la
distinzione in fasce partirà solo con i
prossimi rinnovi contrattuali. Il blocco
degli stipendi pubblici previsto dalla
manovra 2010 aveva già complicato
l'applicazione di questo sistema, e
l'accordo del 4 febbraio ne era la
conseguenza immediata: l'incrocio con la
nuova manovra, che prefigura un altro
allungamento dello stop ai contratti
(possibile fino al 2017), rischia però di
far finire in cantina le fasce, a tempo
quasi indeterminato.
«In ogni caso –precisa però la nuova
norma– deve essere garantita l'attribuzione
selettiva» delle risorse accessorie.
Confermata, infine, l'applicazione immediata
delle nuove regole che assegnano maggiori
poteri ai dirigenti e sottraggono
l'organizzazione degli uffici alla
concertazione con i sindacati (articolo
Il Sole 24 Ore del 23.07.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assunzioni: dati
sensibili solo se indispensabili.
Chiarimenti del Garante della privacy sui
test di assunzione.
Test per l'assunzione senza dati sensibili o
comunque senza dati superflui. Il
questionario sottoposto ai candidati non
deve indagare su aspetti privati e delicati
del tutto estranei alla valutazione della
idoneità a svolgere le mansioni. Altrimenti
si viola lo Statuto dei Lavoratori, la legge
Biagi e il codice della privacy, rischiando
sanzioni amministrative, penali e anche
l'obbligo di risarcire i danni morali.
Questo il principio affermato dal Garante
della privacy, che con un suo provvedimento
ha dichiarato illecito il trattamento di
dati effettuato dall'Aler (Azienda lombarda
per l'edilizia residenziale) di Brescia con
un questionario somministrato ai candidati
che partecipavano alla selezione per il
reclutamento di un dirigente tecnico.
La
stessa sorte è toccata alla Cispel Lombardia
Services Srl in relazione al trattamento dei
dati per la selezione e alla psicologa
incaricata della raccolta dei profili.
Questo significa che tutti rischiano
sanzioni amministrative. Peraltro il garante
ha dato comunicazione della vicenda anche
all'autorità giudiziaria per i profili
penalistici di violazione delle norme dello
statuto dei lavoratori. Da subito comunque i
test sono stati bloccati e non è possibile
usare i dati personali. In sostanza la
selezione è stata azzerata e i soggetti che
hanno partecipato alla raccolta dei dati
sono esposti a pesanti responsabilità. Tra
l'altro aggiungiamo che gli interessati
potrebbe avanzare richieste di risarcimento
del danno subito per l'illecito trattamento
dei propri dati personali: un danno che è
indennizzato anche come danno morale.
Nel
caso specifico, infatti, il garante si è
trovato di fronte a questionari che
indagavano veramente in profondità sulle
persone e in maniera del tutto
ingiustificata. Numerose domande contenute
nel questionario riguardavano aspetti anche
intimi della sfera personale dei candidati,
relativi ai rapporti affettivi, al grado di
stabilità degli stessi, alla vita sessuale
(con richieste su eventuali problemi o
disturbi), condizioni di salute
psico-fisica, eventuali interruzioni di
gravidanza, tentativi di suicidio.
Secondo il garante i test in questione non
superano il giudizio di legittimità. Le
domande contrastano, prima che con le
disposizioni del codice della privacy, con
l'articolo 8 dello Statuto dei lavoratori,
che vieta al datore di lavoro di fare
indagini ai fini dell'assunzione sulle
opinioni religiose, politiche e sindacali
del lavoratore e su fatti non rilevanti per
la valutazione dell'attitudine
professionale.
La stabilità del rapporto di
coppia piuttosto che circostanze riguardante
la condizione sanitaria non sono coerenti
con l'obiettivo di valutare l'idonea
professionale. Un'altra violazione si è
verificata in relazione alla Legge Biagi e
cioè all'articolo 10 del decreto legislativo
n. 276 del 2003 che vieta alle agenzie di
lavoro o ai soggetti che si occupano di
preselezione di lavoratori di effettuare
indagini relative alle convinzioni
personali, al credo religioso,
all'orientamento sessuale, allo stato di
gravidanza, allo stato di salute.
Per
arrivare al codice della privacy: il garante
ha accertato che la raccolta dei dati
personali risulta non ha rispettato i
principi di indispensabilità, pertinenza e
non eccedenza fissati dal dlgs 196/2003.
Secondo il codice della privacy il
trattamento dei dati sensibili è ammesso, in
base al principio di indispensabilità, solo
quando non se ne può fare a meno,
utilizzando altri tipi di dati.
Sono state
violate anche le autorizzazioni generali al
trattamento dei dati sensibili, che non
contemplano l'ipotesi dei questionari pre-assunzione
in esame tra i casi autorizzati (articolo ItaliaOggi del
23.07.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: La valutazione va in naftalina.
Slitta l'obbligo di dividere i dipendenti
per fasce di merito. In cdm il decreto correttivo della legge
Brunetta. Efficacia immediata per la
riforma.
Immediata entrata in vigore della riforma
Brunetta, senza attendere la prossima
contrattazione nazionale collettiva;
dirigenza a contratto entro il 18% della
dotazione organica per regioni ed enti
locali; rinvio delle fasce di valutazione
alla prossima tornata della contrattazione
collettiva nazionale.
Il decreto correttivo alla riforma-Brunetta,
oggi sul tavolo del consiglio dei ministri,
introduce modifiche molto significative al dlgs 150/2009.
Efficacia immediata della riforma. Il
decreto correttivo, all'articolo 4,
interpreta autenticamente i commi 1, 2 e 4,
dell'articolo 65 del dlgs 150/2009
stabilendo che essi vadano letti «nel senso
che l'adeguamento dei contratti collettivi
integrativi è necessario solo per i
contratti vigenti alla data di entrata in
vigore del citato decreto legislativo,
mentre ai contratti sottoscritti
successivamente si applicano immediatamente
le disposizioni introdotte dal medesimo
decreto». Dunque, tutti i contratti
decentrati stipulati successivamente al
15.11.2009 (come era ovvio) dovevano e
debbono essere già adeguati alla legge
Brunetta.
In secondo luogo, si interpreta
autenticamente anche il comma 5
dell'articolo 65 del dlgs 150/2009, dedicato
ai contratti collettivi nazionali. Il
correttivo spiega che le norme sui contratti
collettivi nazionali demandate alla
sottoscrizione della nuova tornata
contrattuale sono solo quelle che
disciplinano il procedimento di stipulazione
e controllo, ma non quelle che incidono
sulla definizione delle materie di
competenza dei contratti stessi.
Il che,
conferma la piena ed immediata applicabilità
dell'articolo 40 del dlgs 165/2001, privando
in via retroattiva i contratti collettivi
nazionali della possibilità di disciplinare
sostanzialmente tutte le materie riguardanti
l'organizzazione, gli incarichi
dirigenziali, le progressioni verticali, le
prerogative dei dirigenti quali datori di
lavoro.
Dirigenti a contratto. Regioni ed autonomie
locali potranno assumere dirigenti a
contratto nel limite del 18% e non dell'8%
della dotazione organica. Il decreto
correttivo al dlgs 150/2009 recepisce solo
in parte le richieste della Conferenza
unificata, Anci e Upi. Le regioni,
esercitando la propria potestà legislativa e
regolamentare, dovranno adeguare i propri
ordinamenti ai principi posti dal comma 6
dell'articolo 19 del dlgs 165/2001. In ogni
caso, gli incarichi dirigenziali a tempo
determinato non potranno superare il 18%
della dotazione organica della qualifica
dirigenziale a tempo indeterminato.
Per
quanto riguarda gli enti locali, il nuovo
comma 6-quinquies dell'articolo 16 del dlgs
165/2001 riesuma l'articolo 110, comma 1,
del dlgs 267/2000 ma stabilisce che il
numero complessivo degli incarichi a
contratto a copertura della dotazione
organica dirigenziale deve essere
preventivamente determinato. Ciò significa
che il regolamento di organizzazione deve
stabilire il numero assoluto massimo di
dirigenti a contratto ammissibili. In ogni
caso, tale numero non può essere superiore
al 18%diciotto per cento del totale della
dotazione organica della qualifica
dirigenziale a tempo indeterminato.
Rinvio delle fasce. La modifica forse più
clamorosa è quella che concerne l'articolo
19 del dlgs 150/2009, la norma dalla quale
deriva l'obbligo di collocare i dipendenti
in fasce di merito a seguito della
valutazione dei risultati individuali.
L'accordo del 4 febbraio scorso aveva
sostanzialmente dato un colpo di freno
all'operatività di questa parte, per altro
estremamente significativa, della riforma
Brunetta.
Il decreto correttivo attribuisce, ora,
valore di legge al contenuto sostanziale
dell'accordo, cioè rinviare a tempi migliori
la ripartizione delle fasce. L'articolo 6,
comma 2, del correttivo prevede una
specifica norma transitoria, ai sensi della
quale la differenziazione per fasce «si
applica a partire dalla tornata di
contrattazione collettiva successiva a
quella relativa al quadriennio 2006-2009».
La norma transitoria, comunque, nelle more
dei predetti rinnovi contrattuali, dà alle
amministrazioni la facoltà di utilizzare le
risorse aggiuntive previste dall'articolo
16, comma 5, dl 98/2011, convertito in legge
111/2011, cioè il 50% dei risparmi derivanti
dall'attuazione di misure di contenimento
della spesa aggiuntive. Le risorse
risparmiate, ai sensi della manovra 2011,
possono andare a rimpinguare le risorse
della contrattazione decentrata e il 50% di
esse va destinato appunto a premiare le
prestazioni individuali secondo il sistema
delle fasce.
Comunque, le fasce non saranno operative se
il numero dei dipendenti delle aree delle
qualifiche in servizio nell'amministrazione
non è superiore a 15; lo stesso vale per i
dirigenti, se il numero di quelli in
servizio non è superiore a 5. Lo stesso vale
anche per regioni ed enti locali
(articolo ItaliaOggi del
22.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI: MANOVRA
CORRETTIVA/ L'obbligo per i mini-enti è
subito operativo. Associazionismo,
accelerazione senza certezze.
Una decisa, vincolante e, per alcuni
aspetti, confusa accelerazione nella
direzione della realizzazione della gestione
associata delle funzioni fondamentali tra i
piccoli comuni è contenuta nella legge n.
111 di conversione del dl n. 98, cioè nella
cd manovra estiva 2011.
Viene modificato
quanto previsto dalla manovra estiva dello
scorso anno, in particolare l'applicazione
di questo principio diventa immediatamente
operativa, senza nessun rinvio a
provvedimenti attuativi: già entro il
corrente anno una parte significativa delle
funzioni fondamentali assegnate ai comuni
dovranno essere gestite in forma associata,
mentre il processo si dovrà completare entro
il 2013. Sulla disposizione, a parte i dubbi
di legittimità costituzionale sia per la
possibile violazione delle prerogative dei
comuni che per la invasione di materie
rimesse alla competenza legislativa delle
regioni, pendono numerosi dubbi operativi.
Le nuove disposizioni riprendono, pressoché
testualmente, il contenuto di uno schema di
dpcm che, sulla scorta delle previsioni del
dl n. 78/2010, anche se con notevole
ritardo, è stato sottoposto all'esame della
Conferenza unificata. Provvedimento contro
cui si è levato un vero e proprio fuoco di
sbarramento dell'Anci, che ha chiesto il
rinvio della disciplina di questa materia
alla riforma del testo unico delle legge
sull'ordinamento locale, cioè al cd codice
delle autonomie che il senato sta esaminando
in queste settimane, opponendo quindi un no
pregiudiziale.
Il provvedimento contiene 2 disposizioni,
che riscrivono il comma 31 dell'articolo 14
del dl n. 78/2010. In primo luogo si
stabilisce che il limite minimo entro cui i
comuni devono necessariamente dare corso
alla gestione associata è fissato in 5 mila
abitanti ovvero nel «quadruplo del numero
degli abitanti del comune demograficamente
più piccolo tra quelli associati». In
secondo luogo di stabilisce che almeno 2
funzioni fondamentali debbano essere gestite
in forma associata entro il 31.12.2011, almeno ulteriori 2 entro il 31.12.2012 e le restanti 2 entro il 31.12.2013.
Rimangono in piedi tutte le altre
disposizioni del dl n. 78/2010. Quindi, le
funzioni fondamentali sono quelle
individuate in via provvisoria dalla legge
n. 42/2009 sul cd federalismo fiscale:
generali di amministrazione, di gestione e
di controllo, nella misura complessiva del
70% delle spese come certificate dall'ultimo
conto del bilancio disponibile alla data di
entrata in vigore della presente legge;
polizia locale; istruzione pubblica, ivi
compresi i servizi per gli asili nido e
quelli di assistenza scolastica e refezione,
nonché l'edilizia scolastica; nel campo
della viabilità e dei trasporti; riguardanti
la gestione del territorio e dell'ambiente,
fatta eccezione per il servizio di edilizia
residenziale pubblica e locale e piani di
edilizia nonché per il servizio idrico
integrato; settore sociale.
Il vincolo della gestione associata
costituisce norma di «coordinamento della
finanza pubblica e del contenimento delle
spese». A scanso di equivoci viene chiarito
da un lato che «i comuni non possono
svolgere singolarmente le funzioni
fondamentali svolte in forma associata» e,
dall'altro, che «la medesima funzione non
può essere svolta da più di una forma
associativa». Le forme di gestione associata
che possono essere attivate sono le
convenzioni e le unioni dei comuni. Sono
rimesse alla autonomia legislativa regionale
le seguenti scelte: «La dimensione
territoriale ottimale e omogenea per area
geografica... secondo i principi di
economicità, di efficienza e di riduzione
delle spese».
La scelta del parlamento costituisce un
tentativo di superare la dimensione
eccessivamente ridotta della gran parte dei
comuni italiani, mettendo con ciò la parola
fine al confronto sulla opportunità di
restringere autoritativamente il numero dei
piccoli municipi. Sul terreno applicativo si
deve sottolineare l'assoluta necessità che i
piccoli comuni si mettano rapidamente in
moto, sia operando le scelte sulle materie
da gestire da subito in forma associata, sia
sulla individuazione delle forme, che sulla
scelta dei partner che sulla opzione per una
unica forma di gestione associata o per lo
spezzettamento in varie esperienze.
A parte le possibili riserve di carattere
generale sulla disposizione, ci sono alcuni
dubbi che devono essere chiariti. Si può
ritenere che la soglia dei 5 mila abitanti
possa essere individuata non in quella
dell'ultimo censimento, cioè ad oggi, ma in
quella del 31 dicembre dell'anno precedente,
cioè il principio utilizzato dal dlgs n.
267/2000 per le scelte di carattere
finanziario.
Vi sono invece dei dubbi sulla
soglia fissata per i comuni che facevano o
fanno parte di comunità montane. Ed ancora
si può ritenere che anche le comunità
montane, in quanto legislativamente
equiparate alle unioni di comuni, possono
essere destinatarie della gestione
associata
(articolo ItaliaOggi del
22.07.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri, permessi facili.
Diritto alla retribuzione per l'intera
giornata. La disciplina per i lavoratori
dipendenti che partecipano agli organi
elettivi.
Qual è la disciplina relativa
all'attestazione dei permessi fruiti da un
lavoratore dipendente che svolge un incarico
elettivo?
Come prescritto dall'art. 79, comma 6, del
dlgs n. 267/2000, il lavoratore dipendente
deve documentare, con apposita
certificazione, l'attività e i tempi di
espletamento del mandato, quantificando
anche il tempo impiegato per lo spostamento
da e per il luogo di lavoro, sia per i
permessi retribuiti che per quelli non
retribuiti.
Secondo la giurisprudenza amministrativa,
infatti «solo per la partecipazione alle
sessioni del consiglio comunale spetta il
permesso retribuito per l'intera giornata,
pertanto solo per tali sessioni è bastevole
l'attestato di partecipazione senza
l'indicazione del tempo impegnato per
l'espletamento dell'attività partecipativa,
mentre per la partecipazione alle riunioni
di tutti gli altri organi dei quali
l'amministratore è componente e per
l'espletamento delle altre attività
politico-amministrative, essendo il permesso
previsto nei limiti del tempo impegnato per
l'attività partecipativa inclusiva del tempo
necessario per raggiungere la sede
dell'organo e rientro e per lo studio
dell'ordine del giorno, l'attestato deve
contenere anche quest'ultime indicazioni»
(cfr. sent. Tar Campania-Salerno n.
2036/2004).
Le attestazioni potranno essere rilasciate
dal sindaco, dal segretario comunale, dal
dirigente ai sensi dell'art. 107, comma 3,
lett. h), del dlgs n. 267/2000, oppure dal
segretario del collegio cui partecipa
l'amministratore interessato
(articolo ItaliaOggi del
22.07.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Indennità
di funzione.
Quale disciplina si applica all'indennità di
funzione da corrispondere ai componenti di
un consorzio?
L'art. 5, comma 7, del dl n. 78/2010
stabilisce che «agli amministratori di forme
associative di enti locali aventi per
oggetto la gestione dei servizi e funzioni
pubbliche non possono essere attribuite
retribuzioni, gettoni e indennità o
emolumenti in qualsiasi forma siano essi
percepiti».
Considerato che l'art. 31 del decreto
legislativo n. 267/2000, disciplinante i
consorzi degli enti locali, è compreso nel
Capo V del Titolo II del medesimo decreto,
dedicato alle forme associative, il divieto
riguarda in genere anche i componenti degli
organi dei consorzi fra enti locali.
Il tenore letterale dell'art. 5 appare,
infatti, indicativo di una precisa volontà
del legislatore nel senso di escludere
qualsiasi forma associativa (ivi compresi i
consorzi degli enti locali).
La norma interviene in termini generali su
tutto il panorama degli amministratori
locali, attraverso una duplice direttrice:
da un lato, prevedendo che attraverso
apposito decreto interministeriale siano
fissate le entità retributive degli
amministratori di province e comuni, con
riduzioni percentuali rispetto ai valori
attualmente vigenti; dall'altro escludendo
che gli amministratori degli altri enti
locali possano essere a qualsiasi titolo
remunerati
(articolo ItaliaOggi del
22.07.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Composizione
commissioni.
È possibile ricomprendere il sindaco nella
compagine delle forze politiche presenti nel
consiglio comunale ai fini della
composizione delle commissioni consiliari,
considerato che il consiglio è composto da
due soli gruppi con lo stesso numero di
consiglieri?
In base a quanto disposto dall'articolo 38,
comma 6, del dlgs n. 267/2000, le
commissioni consiliari, una volta istituite
sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall'apposito
regolamento comunale con l'inderogabile
limite, posto dal legislatore, relativo al
rispetto del criterio proporzionale nella
composizione. Ciò significa che le forze
politiche presenti in consiglio devono
essere il più possibile rappresentate anche
nelle commissioni, in modo che in ciascuna
di esse sia riprodotto il peso numerico e di
voto.
Il legislatore non precisa come debba essere
applicato tale criterio di proporzionalità.
È da ritenersi che spetti al regolamento,
cui sono demandate la determinazione dei
poteri delle commissioni nonché la
disciplina dell'organizzazione e delle forme
di pubblicità dei lavori, stabilire i
meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
In merito, la Corte costituzionale, nella
sentenza n. 44/1997, ha precisato che il
sindaco «viene computato ad ogni fine tra i
componenti del consiglio stesso», con
diritto di voto, e pertanto va ricompreso
nel computo per la determinazione dei
rappresentanti consiliari nelle commissioni
nel rispetto, ovviamente, del criterio
proporzionale recato dal citato art. 38,
comma 6, del dlgs n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del
22.07.2011). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: I
centri di raccolta dei rifiuti, comunque,
autorizzati possono ospitare i RAEE
domestici ritirati uno contro uno.
La raccolta dei RAEE in Italia non ha ancor
raggiunto i livelli desiderati (lo dicono in
una interessante ricerca ReMedia e GFK
Eurisko, in collaborazione con Remade in
Italy e ASSORAEE) e va assolutamente
incentivata. Sotto tal profilo, un aiuto può
venire anche dalla
circolare 02.03.2011 n. 5911
della Regione Lombardia, che riconosce a
tutti i centri di raccolta, comunque
autorizzati in base a qualunque normativa,
la possibilità di ospitare i RAEE
provenienti da nuclei domestici raccolti
anche da parte dei distributori e degli
installatori di AEE nonché dei gestori dei
centri di assistenza tecnica di tali
apparecchiature.
Sono circa 19 milioni gli italiani che in un
anno si disfano almeno di un piccolo
apparecchio elettronico (si tratta dei Paed,
i piccoli apparecchi elettrodomestici
domestici) e di questi soltanto 8,5 milioni
portano i “mini" RAEE (Rifiuto di
Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche)
al centro di raccolta autorizzato o lo
consegnano al negoziante al momento di
riacquisto di un nuovo prodotto analogo. Lo
afferma la ricerca "Gli Italiani e il
riciclo dei Piccoli Apparecchi Elettronici
Domestici" curata da GFK Eurisko per il
ReMedia, pubblicata nei giorni scorsi sul
sito del Consorzio. L’indagine risulta
inserita in un progetto più ampio teso a
stimare il potenziale del segmento del
riciclo dei Paed in Italia, in
considerazione dei comportamenti dei
cittadini, dell’attività di raccolta e
riciclo realizzata annualmente da ReMedia e
della valutazione dei benefici ambientali ed
economici che potremmo ottenere riciclando
con maggiore consapevolezza. La ricerca
comprende un’analisi dello scenario europeo
relativo alla raccolta dei PAED posto in
confronto con l’Italia nonché una
rilevazione dei comportamenti effettivi
nello smaltimento dei Paed e del livello di
conoscenza della normativa da parte del
cittadino/consumatore (grazie a 700
individui intervistati rappresentativi di
oltre 50 milioni di Italiani).
Nell’ambito del settore dei RAEE, i Paed
costituiscono una categoria con un’elevata
potenzialità di recupero e valorizzazione
dei materiali in essi contenuti: tra di essi
vi sono piccoli elettrodomestici per la
casa, PC, telefoni, videocamere e strumenti
musicali, utensili ad uso domestico, giochi
che dipendono dalla corrente elettrica e
piccoli dispositivi per la cura della
salute.
Sintetizzando, soltanto il 30% dei Paed
diventano rifiuti: se gli italiani
raccogliessero e riciclassero correttamente
il 100% dei Paed (pari a circa 120.000
tonnellate in un anno), e si ipotizzasse di
applicare le percentuali di riciclo
raggiunte da ReMedia (ben il 92,6%!) in un
solo anno si avrebbero 76.400 tonnellate di
materie prime seconde da immettere in nuovi
processi produttivi, circa 120.000
tonnellate di emissioni di CO2 evitate,
58.000 TEP (Tonnellate Equivalenti di
Petrolio), di Energia risparmiata nonché 400
nuovi posti di lavoro nelle aziende che
fanno riciclaggio.
La prima considerazione che emerge dalla
Ricerca in modo evidente è che “nel
raffronto con i principali paesi europei
l’Italia registra uno dei tassi più bassi di
raccolta dei PAED (16,8%), al di sotto della
media continentale del 26%. Motivo di
successo dei paesi più virtuosi è la densità
dei centri di raccolta, uno ogni 10.000
abitanti, laddove in Italia si evidenza una
minore capillarità delle isole ecologiche.
L’informazione sul tema della raccolta
separata dei rifiuti elettronici resta anche
in Europa un elemento di debolezza: se
infatti l’80% dei cittadini conosce la
raccolta differenziata dei rifiuti urbani
solo il 50% è consapevole che i RAEE devono
essere gestiti quale flusso specifico di
rifiuti”. Tra le altre considerazioni,
emerge che la disponibilità dei centri di
raccolta in Italia è ancora molto
disomogenea tra Nord, Centro e Sud.
Anche l’“uno contro uno” non va
ancora tanto bene: meno del 4% degli
italiani ha sfruttato la possibilità del
ritiro gratuito presso il punto vendita e
solo 1 italiano su 2 ha utilizzato un centro
di raccolta comunale almeno 1 volta nel
2010.
La nota del 02.03.2011
della Regione Lombardia.
Alla luce di quanto illustrato, una “mano”
alla raccolta dei RAEE può venire, forse, da
quanto indicato dalla Regione Lombardia con
una nota del 02.03.2011, prot. n. 5911 della
Direzione Generale Territorio e Urbanistica,
Pianificazione dei Rifiuti, indirizzata a
Province e Comuni lombardi.
La nota, infatti, chiarisce che i RAEE
domestici, raccolti nell’ambito delle
procedure di cui al D.M. 08.03.2010, n. 65
(c.d. Decreto “uno contro uno”)
possono essere conferiti presso i centri di
raccolta di cui all’art. 6, comma 1, lett.
a) e c), del D.Lgs n. 151/2005 (Decreto RAEE),
autorizzati sia ai sensi del D.M. 08.04.2008
(come modificato dal D.M. 13.05.2009), sia
autorizzati in forma ordinaria o
semplificata ai sensi del D.Lgs. n. 152/2006
che rispettino, per quanto riguarda i RAEE,
nelle caratteristiche strutturali e nelle
modalità gestionali, i requisiti fissati
nell’Allegato 1 del DM 08.04.2008.
In buona sostanza, secondo la D.G.
Territorio e Urbanistica, Pianificazione dei
Rifiuti della Regione Lombardia, la
possibilità di accogliere i RAEE domestici
ricevuti dai distributori, dagli
installatori e dai centri di assistenza di
AEE deve essere riconosciuta a tutti i
centri di raccolta comunque autorizzati.
Due parole sul ritiro “uno
contro uno” e…
Come accennato, il c.d. “ritiro uno
contro uno” introdotto dal D.M.
08.03.2010, n. 65 permette al cittadino che
acquista una nuova apparecchiatura elettrica
o elettronica (cioè un’AEE) di lasciare al
negoziante quella vecchia: i commercianti,
dal canto loro, sono obbligatoriamente
tenuti al ritiro della vecchia AEE (che a
questo punto diventa un RAEE, e cioè un
Rifiuto da Apparecchio Elettrico ed
Elettronico) presso il loro punto vendita.
La normativa prevede che i RAEE raccolti in
tal modo dal rivenditore, vengano stoccati
in un apposito sito per il tempo massimo o
per un quantitativo massimo, raggiunto il
quale, i RAEE dovranno essere conferiti
presso un centro di raccolta di cui all'art.
6, comma 1, lett. a) e c), del D.Lgs. n.
151/2005.
… sui centri di raccolta.
I centri di raccolta dei rifiuti (le c.d.
eco-piazzole) possono essere sia privati sia
comunali. In via generale, ai sensi
dell’art. 183, comma 1, lettera mm) del
D.Lgs n. 152/2006, per “centro di
raccolta” si intende una “area
presidiata e allestita […] per l'attività di
raccolta mediante raggruppamento
differenziato dei rifiuti urbani per
frazioni omogenee conferiti dai detentori
per il trasporto agli impianti di recupero e
trattamento”.
La disciplina della gestione e della
relativa autorizzazione dei centri di
raccolta si rinviene nel citato D.M.
08.04.2008 (modificato dal D.M. 13.05.2009),
mentre la disciplina del ritiro gratuito
della vecchia apparecchiatura elettrica (per
es. frigorifero, etc.) da parte del
commerciante previo acquisto di quello nuovo
è contenuta nel parimenti citato D.M. n.
65/2010 che ha introdotto un regime
semplificato (sotto il profilo gestionale e
amministrative) a favore del commerciante.
Da quanto detto, l’autorizzazione dei centri
privati viene rilasciata ai sensi del D.Lgs.
n. 152/2006, mentre quella dei centri
comunali (anche nell’ipotesi di un
affidamento a terzi, cioè in pratica di una
gestione da parte dei privati) viene data,
in primo luogo, secondo le regole fissate
dal D.M. 08.04.2008, ed in secondo luogo, a
causa della confusione determinatasi per
l’accavallarsi delle norme in materia, anche
dalle disposizioni del D.Lgs. n. 152/2006.
I chiarimenti della nota
del 02.03.2011 della Regione Lombardia.
Secondo quanto si legge nella nota regionale
in commento, la disposizione di cui all’art.
8 del D.M. n. 65/2010, “pur essendo
intesa a ribadire che i nuovi centri di
raccolta RAEE sono realizzati e gestiti
sulla base della disciplina agevolativa, non
esclude la compresenza sul territorio di
centri di raccolta RAEE autorizzati sulla
base di altre discipline ritenute legittime
dall’ordinamento giuridico”.
Infatti, l’art. 8 del D.M. n. 65/2010
rinvia, per quanto riguarda le modalità di
realizzazione e gestione dei centri di
raccolta di cui all’art. 6, comma 1, lettere
a) e c) del D.Lgs. n. 151/2005, ai contenuti
del D.M. 08.04.2008 e s.m.i. e da ciò
discende che tali centri di raccolta sono
oggetto di una disciplina agevolata per la
loro realizzazione e funzionamento: orbene,
“Tale disciplina, dettata a livello
primario dalla definizione di cui all’art.
183, comma 1, lettera mm), del D.Lgs.
152/2006, coesiste attualmente con la
disciplina di autorizzazione ordinaria
applicabile agli impianti di gestione dei
rifiuti, tra i quali si annoverano
certamente anche i centri di stoccaggio di
cui all’art. 208 del D.Lgs. 152/2006, e con
tutte le altre discipline di settore
applicabili ai rifiuti”. Sotto tale
profilo, si rileva nella nota,
“L’autorizzazione unica di cui all’art. 208
del D.lgs. 152/2006 garantisce una tutela
ambientale che viene ritenuta piena dal
legislatore nazionale e, in molti casi,
presuppone la rispondenza a requisiti che
garantiscono una protezione dell’ambiente
ancor più elevata rispetto alle modalità
semplificate consentite dal DM 08.04.2008.”
Secondo l’ufficio regionale lombardo, nella
disposizione di cui all’art. 2, comma 7, del
D.M. 08.04.2008 –la quale esclude, per i
centri di raccolta operanti sulla base di
disposizioni regionali o di enti locali che
siano conformi alle disposizioni tecnico
gestionali previste dall’Allegato 1 del D.M.
08.04.2008, il rilascio di una nuova
autorizzazione comunale– “è possibile
ravvisare l’intenzione di assimilare,
sussistendo le condizioni citate, i centri
di raccolta già autorizzati come impianti o
operazioni gestionali ai centri di raccolta
disciplinati dal D.M. 08.04.2008”.
Come anticipato, la nota in parola
suggerisce in definitiva il riconoscimento “a
tutti i centri di raccolta, comunque
autorizzati in base a qualunque normativa,
la possibilità di ospitare i RAEE
provenienti da nuclei domestici raccolti
anche da parte dei distributori e degli
installatori di AEE nonché dei gestori dei
centri di assistenza tecnica di tali
apparecchiature”: secondo la Regione
Lombardia, “Tale conclusione, oltre ad
apparire atta ad offrire una soluzione
gestionale funzionale, risulta anche idonea
sia ad evitare conseguenze dannose in
termini di tutela ambientale, sia al fine di
incentivare il conferimento dei RAEE presso
i centri di raccolta di cui all’art. 6,
comma 1, lettere a) e c), del D.lgs.
151/2005”.
In tema di centri di raccolta, infine, si
segnala la recente pronuncia della S.C.
(Corte di Cassazione, Sezione III penale,
sentenza 17864 del 09.05.2011) che ha
confermato l’interpretazione di chi
sosteneva che nel caso in cui i centri di
raccolta comunali rispettino le disposizioni
del D.M. 08.04.2008, non è necessaria anche
l'autorizzazione regionale..
Regione Lombardia, Direzione Generale
Territorio e Urbanistica, Pianificazione dei
Rifiuti, nota 02.03.2011 n. 5911, Regime
autorizzativo impianti di conferimento dei
RAEE (rifiuti di apparecchiature elettriche
ed elettroniche) domestici
Per le informazioni ai consumatori in tema
di RAEE, si veda il nuovo sito di ReMedia:
www.remediapervoi.it Per maggiori
informazioni sulla Ricerca: ReMedia e GFK
Eurisko, in collaborazione con Remade in
Italy e ASSORAEE, "Gli Italiani e il
riciclo dei Piccoli Apparecchi Elettronici
Domestici" (20.07.2011 - commento tratto
da www.ipsoa.it). |
ESPROPRI: Opere
pubbliche in difetto. Si paga il valore
venale e il danno. Sanabili vent'anni di
espropri.
Cambia dal 6 luglio, con l'articolo 34 del
Dl 98 (legge 111/2011) il regime dei suoli
soggetti a procedure di esproprio per
pubblica utilità, qualora manchi l'atto
iniziale (dichiarazione di pubblica utilità)
o quello finale (il decreto di esproprio).
Se l'amministrazione ha acquisito immobili
con procedure errate, odi fatto, spetta oggi
il valore venale con l'incremento di importi
per l'occupazione abusiva (5% annuo) e per
danno non patrimoniale (10%, che raddoppia
in caso di perdita del bene destinato a
edilizia pubblica).
La novità interessa i proprietari che
abbiano perso la disponibilità dell'area
nell'arco degli ultimi 20 anni (termine di
usucapione a favore della Pa) qualora sia
mancato qualsiasi atto di procedura. Se
invece vi è un contenzioso, innanzi il
giudice ordinario (in materia di danni) o
innanzi il giudice amministrativo (in tema
di retrocessione o acquisizione) la norma
può sanare anche questioni ultraventennali.
Pagherà l'amministrazione che fruisce
dell'area, salvo rivalsa (se prevista) su
terzi quali i concessionari di un'area
sportiva, o i proprietari di unità di
edilizia pubblica su aree non correttamente
espropriate.
I presupposti per la sanatoria sono rigidi e
dettagliati, perché occorrono: 1) attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico;
2) ragioni che devono prevalere sui
contrapposti interessi privati dei
proprietari; 3) carenti alternative alla
sanatoria (articolo 42-bis, comma 4).
Ciò significa che un'area destinata a
strada, detenuta senza titolo
dall'amministrazione, sarà agevolmente
sanata con la nuova procedura: basta
sottolineare la destinazione collettiva,
priva di alternative; ma nel caso di un'area
attrezzata a parco pubblico, a campi da
tennis, o anche solo a scuola o caserma dei
vigili del fuoco (considerate utilizzazioni
reversibili), l'ente espropriante dovrà
valutare con attenzione gli interessi in
conflitto.
La scuola realizzata su un'area detenuta
senza titolo da un Comune potrebbe, per
esempio, tornare al privato proprietario
dell'area, che a sua volta potrebbe poi
darla in locazione ...
(articolo Il
Sole 24 Ore del 22.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Detrazioni,
basta richieste annuali. Inpdap: la
dichiarazione non va ripetuta.
Vita più facile ai
pensionati Inpdap (e non solo). La richiesta
di detrazioni per il carico familiare non va
più ripetuta ogni anno, ma soltanto in caso
di variazioni della dichiarazione
precedentemente presentata.
Lo spiega, tra l'altro, l'Inpdap nella
nota operativa n.
26/2011.
Richieste una volta per
sempre.
La novità arriva dalla legge n. 106/2011
(conversione dl n. 70/2011) che, tra
l'altro, ha modificato l'articolo 23 del dpr
n. 600/1973 in merito al diritto alle
detrazioni fiscali.
Praticamente, si torna alla vecchia
disciplina in virtù della quale le
detrazioni «sono riconosciute se il
percipiente dichiara di avervi diritto,
indica le condizioni di spettanza, il codice
fiscale dei soggetti per i quali si
usufruisce e si impegna a comunicare
tempestivamente le eventuali variazioni»,
cosicché la dichiarazione ha effetto anche
per i periodi d'imposta successivi.
La nuova normativa solleva quindi i
contribuenti dall'obbligo di presentare ogni
anno all'Inpdap (in via generale al
sostituto d'imposta), la domanda contenente
la richiesta delle detrazioni per carichi di
famiglia assieme alle condizioni di
spettanza e ai dati relativi ai familiari
per i quali richiedono l'attribuzione del
beneficio fiscale. L'adempimento deve essere
effettuato, tempestivamente, soltanto al
verificarsi di ogni variazione che rilevi ai
fini del diritto a fruire delle predette
detrazioni.
Novità dal 2011.
La novità ha effetto immediato per i
pensionati Inpdap. L'istituto, infatti,
spiega che riconoscerà le detrazioni per
carichi di famiglia sulla base dell'ultima
richiesta presentata dal contribuente il
quale, tuttavia, avrà l'obbligo di
comunicare tempestivamente ogni eventuale
variazione.
Di conseguenza, l'Inpdap non sospenderà
l'attribuzione del beneficio fiscale con la
rata del prossimo mese di agosto a coloro
che non abbiano presentato la prescritta
dichiarazione entro il 31 maggio,
diversamente da quanto aveva stabilito lo
stesso istituto previdenziale con la nota
operativa n. 7/2011 (su ItaliaOggi del 4
febbraio).
Infine l'Inpdap spiega che rimane invariato
quanto già in essere per le detrazioni sul
reddito che vengono attribuite direttamente
dall'istituto in base ai dati reddituali in
suo possesso
(articolo ItaliaOggi del
20.07.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Mintrasporti/
Nei garage si applica il codice.
Nell'autorimessa sotterranea aperta al
pubblico trova applicazione il codice della
strada. In caso di sosta a pagamento
andranno però predisposti nelle immediate
vicinanze anche stalli di sosta senza
vincoli.
Lo ha chiarito il ministero dei trasporti
con il parere n. 3485 del 23.06.2011.
La questione delle autorimesse sotterranee a
pagamento è sempre più frequente e per
questo motivo un comune ha richiesto
chiarimenti. A parere dell'organo centrale
di coordinamento costituisce strada «qualsiasi
area ad uso pubblico destinata alla
circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli
animali».
In pratica a prescindere dalla proprietà del
manufatto le norme del codice trovano
applicazione su qualsiasi spazio destinato
ad ospitare la mobilità di un numero
indistinto di persone. Ma attenzione alla
collocazione degli stalli.
Specifica infatti il ministero che se
l'autorimessa non ricade nelle aree
pedonali, nelle ztl o in zone di particolare
pregio urbanistico, «vige l'obbligo di
predisporre, nella stessa area, un congruo
numero di stalli senza dispositivi di
controllo della durata della sosta,
opportunamente disposti nell'area di sosta
già presente in superficie, ovvero in
entrambe»
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
MANOVRA CORRETTIVA/
Blocco assunzioni a lunga gittata. Un anno
in più, tranne che per forze dell'ordine e
agenzie. Operazione restyling per il calcolo
dell'indennità di vacanza.
Lacrime e sangue per
l'impiego pubblico, ma a partire dal 2013, a
meno che esigenze improvvise non richiedano
ulteriori anticipi degli effetti della
manovra varata ieri. I tagli alle spese
complessive per il personale pubblico
contribuiranno per circa 1.500.000 di euro
tra il 2013 e il 2016, con risparmi annui a
regime, a partire dal 2017, per 370 milioni.
Il tutto sarà rimesso, però, ad regolamenti
delegati di delegificazione che
interverranno con una serie di misure
specifiche, per assicurare i risparmi
previsti.
Il primo intervento della legge 111/2011
consiste nella proroga di un anno
dell'efficacia delle disposizioni in materia
di limitazione della possibilità di assumere
nuovi dipendenti per le amministrazioni
dello Stato, a esclusione dei Corpi di
polizia, del Corpo nazionale dei vigili del
fuoco, per le agenzie fiscali, per gli enti
pubblici non economici e per gli enti
dell'articolo 70, comma 4, del dlgs
165/2001. La disposizione riguarda
direttamente solo le amministrazioni
statali. Per gli enti locali non è
necessaria. Infatti le disposizioni sul
contenimento delle assunzioni di comuni e
province sono operative a regime, cioè con
disposizioni che valgono a tempo
indeterminato.
Il secondo intervento demandato ai
regolamenti delegati è la proroga fino al
31.12.2014 del congelamento al 2010 delle
retribuzioni dei dipendenti e dei fondi
decentrati per la contrattazione. I
regolamenti delegati potranno allentare sia
il blocco parziale delle assunzioni, sia il
congelamento degli stipendi e dei fondi
contrattuali, differenziando il regime di
contenimento della spesa per i comparti «virtuosi».
Ancora, si prevede una revisione delle
modalità di calcolo dell'indennità di
vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017:
potrebbe essere il preannuncio di ulteriori
congelamenti della contrattazione. I
risparmi passeranno anche per la
semplificazione ed il rafforzamento
dell'obbligatorietà delle procedure di
mobilità del personale tra le pubbliche
amministrazioni, per favorire la
redistribuzione territoriale dei dipendenti
pubblici, così da rimediare a problemi di
carenze in certe amministrazioni, cui fanno
fronte eccessi delle dotazioni di altre.
Allo scopo di uniformare la normativa, i
regolamenti delegati potranno anche
coinvolgere tutti i soggetti pubblici come
destinatari diretti delle misure di
razionalizzazione della spesa di personale;
faranno eccezione solo regioni e province
autonome, nonché gli enti del servizio
sanitario nazionale.
Infine i regolamenti delegati potranno
prevedere «ulteriori misure di risparmio,
razionalizzazione e qualificazione della
spesa delle amministrazioni centrali anche
attraverso la digitalizzazione e la
semplificazione delle procedure, la
riduzione dell'uso delle autovetture di
servizio, la lotta all'assenteismo anche
mediante estensione delle disposizioni di
cui all'articolo 71 del dl 25.06.2008, n.
112 convertito dalla legge 06.08.2008, n.
133 al personale del comparto sicurezza e
difesa con eccezione di quello impegnato in
attività operative o missioni».
Per contribuire ai risparmi, gli enti
avranno la facoltà di adottare entro il mese
di marzo di ogni anno «piani triennali di
razionalizzazione e riqualificazione della
spesa, di riordino e ristrutturazione
amministrativa, di semplificazione e
digitalizzazione, di riduzione dei costi
della politica e di funzionamento, ivi
compresi gli appalti di servizio, gli
affidamenti alle partecipate e il ricorso
alle consulenze attraverso persone
giuridiche», dai quali ricavare anche
finanziamenti per l'incentivazione del
personale.
Ancora, si impone espressamente ai dirigenti
pubblici di attuare sentenze della Corte
costituzionale che accertino
l'incostituzionalità di forme di assunzioni
a tempo indeterminato, incluse quelle frutto
della stabilizzazione o trasformazione di
rapporti a tempo determinato, nonché gli
inquadramenti e le promozioni
(articolo ItaliaOggi del 19.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Le pagelle per misurare le scelte
dei sindaci. Dal personale alle dismissioni,
i criteri che sceglieranno gli enti da
premiare.
Il principio è semplice: individuare gli
enti meglio gestiti , e le Giunte che sono
riuscite a risanare situazioni di difficoltà
ereditate dagli amministratori precedenti, e
riservare loro una maggiore autonomia e
regole più blande sui vincoli di bilancio.
L'attuazione, però, rischia di essere un
rompicapo di improbabile solcuzione.
La sfida di "virtuosità" degli enti locali
...
(articolo Il
Sole 24 Ore del 18.07.2011 -
tratto da www.ecostampa.it). |
APPALTI: Pagamenti.
La determinazione dell'Avcp. Tracciabilità
rigida sul fronte degli appalti.
Linea morbida su finanziamenti, utenze e
servizi sanitari, ma rigidità assoluta sugli
altri fronti: ecco ciò che emerge
dall'analisi di quella che può essere
definita la "guida Avcp" (Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici) per
l'applicazione dell'articolo 3 della legge
136/2010 in tema di tracciabilità dei
pagamenti.
Dalla
determinazione
07.07.2011 n. 4
la tracciabilità esce ridimensionata in
relazione ai finanziamenti pubblici: sono
sottoposti agli obblighi di tracciabilità i
soggetti, anche privati, destinatari di
finanziamenti pubblici solo se stipulano
contratti che rientrano nella definizione di
"appalto pubblico" ex articolo 3, comma 6, del Dlgs 163/2006.
Amministrazioni e imprese
pubbliche, poi, possono pagare luce, gas,
telefono e simili anche con la modalità Rid
e, quindi, senza indicare il Cig, che però
deve essere contenuto nella delega
all'addebito rilasciata a monte alla banca
designata. Infine i servizi sanitari:
esclusi dagli obblighi di tracciabilità i
pagamenti delle Asl per prestazioni
socio-sanitarie e di ricovero, di
specialistica ambulatoriale e diagnostica
strumentale erogate da soggetti privati in
regime di accreditamento, così come il
pagamento a fronte della fornitura diretta
di farmaci al cittadino da farmacie
convenzionate.
Molto rigide, invece, le posizioni Avcp
sull'obbligo di tracciabilità per la
"filiera delle imprese" coinvolte negli
appalti. La definizione interessa non solo
l'appaltatore ma anche la stazione
appaltante, obbligata a verificare
l'inserimento della clausola di
tracciabilità in tutti i contratti stipulati
dall'appaltatore e dal subappaltatore con i
subcontraenti della filiera delle imprese.
Per gli appalti di fornitura, l'ultimo
rapporto rilevante è quello relativo alla
realizzazione del bene oggetto della
fornitura principale, escluse le
sub-forniture destinate a realizzare il
prodotto finito. Non sono poi sottoposti a
tracciabilità gli acquisti di beni che
confluiscono nelle scorte di magazzino,
sempreché l'acquisto preceda la commessa
pubblica.
Gli esempi portati da Avcp (si veda la
tabella) manifestano un notevole rigore, che
spesso si scontrerà con difficoltà
applicative. Nemmeno i mutui sfuggono alla
tracciabilità, che tuttavia può realizzarsi
in forma attenuata: è utilizzabile il
sistema Rid, a patto che il Cig venga
indicato nella autorizzazione/delega
all'accredito in conto. Viene poi confermato
esplicitamente che non possono essere
esclusi dagli obblighi di tracciabilità i
rapporti fra enti/società pubbliche quando
sono attivati in condizioni di concorrenza
con operatori di mercato.
Particolare la
posizione Avcp sui rapporti con gli
operatori non stabiliti in Italia. A fronte
di un loro rifiuto di sottoscrivere le
clausole di tracciabilità, l'amministrazione
potrà contrarre solo se si tratta dell'unico
possibile contraente, e dimostrando di
essersi comunque attivata richiedendo
l'applicazione della tracciabilità.
Ulteriore settore di interesse operativo è
la formazione: viene confermata
l'applicabilità della 136/2010, ma la mera
partecipazione di un dipendente a un
seminario o a un convegno non integra la
fattispecie di appalto di servizi, e quindi
il pagamento non va tracciato.
Un ultimo aspetto operativo: la
comunicazione di conto dedicato deve essere
sottoscritta dal legale rappresentante
dell'impresa appaltatrice o da un soggetto
munito di apposita procura
(articolo Il Sole 24
Ore del 18.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
APPALTI SERVIZI: Corte
dei conti Lombardia. A volte riportare i
servizi all'interno è più conveniente.
Messo in discussione il dogma della
riduzione della spesa di personale. A fronte
della possibilità di reinternalizzare un
servizio, con conseguente oggettivo
risparmio in termini di costi, si può
giustificare un aumento della spesa per i
dipendenti?
Il problema è stato posto dal comune di
Porto Mantovano alla Corte dei conti
Lombardia, la quale, pur cavalcando una
soluzione favorevole all'ente locale,
rimette la questione alle Sezioni Riunite.
Il presupposto viene identificato in una
situazione considerata ottimale dal punto di
vista della gestione del personale, cioè un
rapporto fra spesa di personale e spesa
corrente che si aggira attorno al 22% e un
rapporto fra dipendenti e residenti pari a 1
ogni 400 circa.
Dati alla mano, il Comune dimostra che
riportare all'interno un'attività, prima
esternalizzata, comporta maggiori costi a
livello di personale, ma l'incremento viene
assorbito da minori oneri in termini di
uscite per servizi, con una differenza di
gran lunga a favore del comune. La Corte
lombarda osserva come le disposizioni sulla
riduzione della spesa di personale non
rappresentano mere indicazioni, ma devono
essere considerate veri e propri vincoli,
che si inseriscono in quel coordinamento
della finanza pubblica, previsto dal
l'articolo 119 della Costituzione.
D'altro
canto, però, i giudici contabili non si
nascondono che i principi di economicità e
di efficacia non rappresentano solo criteri
che devono guidare le scelte discrezionali
della pubblica amministrazione, ma devono
essere considerati elementi che
caratterizzano la legittimità del l'azione
amministrativa, di cui l'autorità
giudiziaria può ben chiederne conto. Si
colloca, quindi, in quell'alveo del buon
andamento tutelato dall'articolo 97 della
Costituzione.
Già in altra occasione, le Sezioni riunite
hanno sottolineato che sulla spesa di
personale è necessaria un'analisi molto più
dettagliata per arrivare a una
quantificazione più precisa. Il
coordinamento delle diverse esigenze
tutelate dalla stessa Costituzione diventa
sempre più complesso se si considera anche
il principio dell'autonomia organizzativa
degli enti territoriali previsto dal
l'articolo 114.
In altri termini, la Corte si chiede se
l'efficienza, l'efficacia e l'economicità
non costituiscano un confine invalicabile
anche per le esigenze di finanza pubblica,
che si reggono sui tagli alla spesa storica.
Le argomentazioni risultano estremamente
convincenti, anche se la Corte non ha
affondato il colpo, in quanto una crepa del
sistema potrebbe aprire il campo a
comportamenti elusivi che possono realmente
mettere in crisi i delicati equilibri dei
conti pubblici
(articolo Il Sole 24
Ore del 18.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Manovra.
Punito singolarmente chi viola le regole
sulla stabilità interna - Nulli i contratti
di servizio e gli atti elusivi. Sul Patto
sanzioni ad personam. Politici e dirigenti
rischiano fino a 10 volte l'indennità e il
triplo dello stipendio.
La manovra introduce la sanzione personale
per la violazione del Patto di stabilità
interno. Dall'entrata in vigore del Dl
98/2011, infatti, i contratti di servizio e
gli altri atti di regioni ed enti locali
elusivi delle regole del Patto sono colpiti
da nullità. Inoltre, qualora la Corte dei
conti accerti che il rispetto del Patto sia
stato artificiosamente conseguito grazie a
un'errata imputazione di entrate e/o uscite
rispetto ai pertinenti capitoli di bilancio
o ad altre forme elusive, gli amministratori
e il responsabile del servizio finanziario
che li abbiano posti in essere, possono
essere condannati, rispettivamente, a una
sanzione pecuniaria fino a un massimo di 10
volte l'indennità di carica percepita e fino
a 3 mensilità del trattamento retributivo,
al netto degli oneri fiscali e
previdenziali.
È una forma di responsabilità amministrativa
di tipo sanzionatorio, simile a quella che
prevede una sanzione parametrata
all'indennità percepita, per gli
amministratori degli enti territoriali che
ricorrano al debito per finanziare spese non
d'investimento (articolo 30, comma 15, della
legge 289/2002).
Ma torniamo alla norma della manovra
(articolo 20, commi 10, 11 e 12) che facendo
perno sulla nullità degli atti e sulla
responsabilità personale, vuole scoraggiare
manovre elusive nella gestione finanziaria,
finalizzate al conseguimento
formale-cartolare degli obiettivi del Patto,
senza tuttavia che a ciò si coniughi un
rispetto sostanziale degli stessi. Fra gli
artifici contabili più frequenti, si possono
elencare:
- l'errata imputazione di spese in sezioni
di bilancio non rilevanti ai fini del Patto
(soprattutto nei servizi in conto
terzi/partite di giro);
- il ricorso strumentale a rapporti
finanziari e di servizio con i soggetti
partecipati;
- la mancata iscrizione in bilancio di spese
da sostenere e la relativa formazione di
debiti fuori bilancio;
- il rinvio agli esercizi successivi di
pagamenti eccedenti i limiti imposti dal
Patto.
Sulla questione dell'indebitamento, la Corte
dei conti (sezioni riunite, sentenza
12/2007) ha fissato alcuni principi che
sembrano applicabili anche alla sanzione in
tema di Patto, chiarendo la natura
dell'ammenda di cui all'articolo 30, comma
15, della legge 282/2002:
- il procedimento per la sua applicazione è
quello previsto per l'ordinario giudizio di
responsabilità. Non è utilizzabile, invece,
la procedura relativa ai giudizi a istanza
di parte;
- per la condanna è necessario che ricorra
l'ordinario elemento soggettivo del dolo o
della colpa grave;
- il destinatario della sanzione è l'ente di
appartenenza degli amministratori e non
l'erario.
Per il calcolo dell'importo, la
configurazione dell'elemento soggettivo,
l'intermediazione di soggetti strumentali
dell'ente pubblico e le modalità di
dichiarazione della nullità, si segnalano le
decisioni 87/2008 della Corte conti Umbria,
444/2010 della Corte conti - sezione 1°
giurisdizionale centrale e 473/2011 della
Corte conti Lazio, nonché l'ordinanza
27092/2009 della Cassazione.
Il mancato rispetto del Patto, tuttavia,
presenta problemi applicativi maggiori. Nel
caso del debito, infatti, sono chiari il
momento e l'atto violativo del precetto
(l'esecuzione del contratto di finanziamento
in violazione dell'articolo 119, comma 6,
Costituzione). Inoltre è agevole individuare
i soggetti responsabili (gli amministratori
che hanno deliberato il ricorso al debito).
In tema di Patto, invece, è più difficile
identificare i comportamenti elusivi e i
relativi responsabili. La casistica,
difatti, è più ampia: alcuni esempi-tipo –quali lo stanziamento di maggiori spese per
garantire servizi essenziali, oppure
l'utilizzo strumentale degli enti
partecipati per le assunzioni o, ancora, gli
artifici di bilancio– sono elencati nella
tabella qui a fianco.
Occorreranno accertamenti complessi per
qualificare i provvedimenti e gli atti
elusivi, anche di tipo omissivo e per
individuare i responsabili, l'apporto
causale e il profilo soggettivo, tenendo
presente il ruolo assunto non tanto nella
compagine amministrativa, quanto nell'iter
procedurale che ha originato lo sforamento.
Riguardo alle modalità di violazione,
inoltre, andrà precisato il giudice
competente a dichiararne la nullità.
Se per
i contratti la Cassazione, nell'ordinanza
27092/2009, stabilisce la competenza
dell'autorità giudiziaria ordinaria (e non
della Corte dei conti), nel caso di
provvedimenti e atti amministrativi le
modalità sono ancora da definire. Ancor più
complesso, infine, è il caso dei
comportamenti di fatto (ad esempio: una
fattura nel cassetto), per i quali è
concettualmente arduo configurare una
nullità in senso tecnico.
Nonostante le difficoltà, è apprezzabile il
tentativo del legislatore di porre un altro
tassello nella costruzione di un sistema di
sanzioni personali per prevenire
comportamenti opportunistici in materia di
finanza pubblica
(articolo Il Sole 24
Ore del 18.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Piccoli Comuni: Regioni su
funzioni associate.
La Conferenza delle Regioni e delle Province
autonome riunitasi il 07.07.2011 ha dato il
via libera ad
un documento sul DPCM per l’esercizio in
forma obbligatoriamente associata delle
funzione fondamentali dei comuni con
popolazione inferiore ai 5000 abitanti.
Il tema era stato posto all’ordine del
giorno della Conferenza Unificata del 7
Luglio (poi rinviata) per una “informativa”
del Governo.
Si riporta di seguito il testo integrale.
Schema di D.P.C.M. recante “Esercizio
in forma obbligatoriamente associata delle
funzione fondamentali dei Comuni con
popolazione inferiore ai 5000 abitanti ai
sensi dell’articolo 14, comma 31, del
decreto legge 31.05.2010 n. 78, convertito
nella legge 30.07.2010 n. 122”.
Le Regioni, in relazione allo schema di
D.p.c.m. in oggetto, in più occasioni e da
ultimo nella seduta della Conferenza
Unificata del 03.03.2011 avevano richiesto
che si instaurasse sulle tematiche del
Decreto Legge 78 ed in particolare in
relazione alle norme che prevedono l’obbligo
per i Comuni di esercitare obbligatoriamente
in forma associata le funzioni fondamentali
ai sensi dell’articolo 117, comma 2, lettera
p), della Costituzione, un confronto ai fini
di una verifica complessiva anche per le
necessarie connessioni con la Legge 42 del
2009 e i decreti legislativi attuativi ed in
particolare per quello relativo al
federalismo municipale. Per questo, era
stato richiesto un formale passaggio dello
schema di D.p.c.m. attuativo dell’articolo
14, comma 31, del D.L. 78 del 2010 in sede
di Conferenza Unificata.
Nel prendere atto della decisione del
Governo di rendere esclusivamente una
informativa sul provvedimento, che proprio
per la complessità dei temi trattati avrebbe
richiesto un confronto tecnico di tutti i
livelli istituzionali per dirimere le
numerose questioni a livello interpretativo,
le Regioni ribadiscono la richiesta di
istituire in tempi brevi –considerati anche
i termini previsti dal provvedimento- il
Tavolo di confronto e nel merito formulano
le seguenti osservazioni:
1. in relazione al dato demografico per
l’attuazione dell’articolo 2 dello schema di
d.p.c.m. occorre chiarire quale sia il dato
da prendere in considerazione. Sarebbe utile
individuarlo tra quello dell’ultimo
censimento o il più aggiornato riferimento
Istat;
2. sempre in relazione all’articolo 2, comma
1, si suggerisce l’opportunità di integrare
il criterio del quadruplo del numero degli
abitanti del comune demograficamente più
piccolo con la previsione di considerare
comunque conseguita l’adeguatezza nel caso
in cui sia raggiunta la soglia dei 3000 o
5000 abitanti, ai sensi del comma 28
dell’articolo 14 del D.L. 78 a prescindere
dal numero dei comuni associati;
3. è necessario affrontare il caso in cui un
comune obbligato non sia in grado di
adempiere alle disposizioni della Legge per
mancanza di comuni limitrofi anch’essi
obbligati. Per questa particolare casistica,
non regolata dal D.p.c.m. ma non infrequente
nella pratica, occorre chiarire quali misure
dovranno essere adottate e quali conseguenze
ricadranno sul Comune (link a
www.regioni.it). |
GIURISPRUDENZA |
LAVORI PUBBLICI:
L'Anas paga i danni se il terreno
privato frana.
L’Anas deve pagare i
danni all’automobilista investito da una
frana anche se questa proviene dal terreno
di un privato.
La Corte di Cassazione, Sez. III civile, con
la
sentenza 18.07.2011 n. 15720
inchioda l’azienda alle sue responsabilità
escludendo la possibilità di scaricare su
terzi l’obbligo di segnalare rischi o porre
in sicurezza le aree in prossimità delle
strade statali.
La prevedibilità
dell’evento.
Gli ermellini hanno così ribaltato i
verdetti con cui sia del Tribunale sia della
Corte d’Appello di merito avevano negato il
diritto del ricorrente a ottenere un
indennizzo dall’Anas per i danni causati
alla sua automobile dal cedimento di un
terreno a monte della strada che stava
percorrendo.
Secondo i giudici di merito, infatti, la
responsabilità prevista dall’articolo 2051
del codice civile si applica alle situazioni
di pericolo che si possono verificare sulle
strade pubbliche o aperte al pubblico ma va
esclusa, quando l’evento è imprevedibile o
perché causato dallo stesso utente o perché
dovuto a un’alterazione “repentina dello
stato della cosa”, come avvenuto,
secondo la Corte d’Appello di Milano, nel
caso analizzato.
Per i giudici di secondo grado l’Anas,
infatti, non poteva ipotizzare né evitare
una frana che proveniva da un terreno di
proprietà di terzi e non aveva di
conseguenza alcun obbligo né di segnalare un
pericolo non individuabile né di mettere in
atto interventi di salvaguardia.
Non è d’accordo la Cassazione, che rinvia la
causa alla Corte d’Appello invitandola a
tenere nella debita considerazione
soprattutto due circostanze che proverebbero
la prevedibilità dell’evento. Negli anni
precedenti quel tratto stradale era già
stato interessato da sfaldamenti di piccola
entità, comunque tali da indurre le Ferrovie
dello stato a mettere in sicurezza i binari
a ridosso della zona. Crolli presi in
considerazione, come risultava da una
relazione tecnica, anche dalla stessa Anas,
che aveva predisposto delle opere, per
fronteggiare lo stesso problema (commento
tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti di produzione da fonti
rinnovabili - Sospensione della pratica DIA
in attesa dell’adozione di indirizzi
interpretativi - Illegittimità - Fondamento.
Secondo lo schema delineato dall’art. 23 del
T.U. edilizia non è consentita l’inibitoria
dell’intervento che si intende realizzare se
non per la riscontrata assenza di una o più
delle condizioni stabilite dalla normativa
vigente al momento della scadenza dei
termini previsti per la formazione del
titolo edilizio, senza poter mai invocare al
medesimo fine atti regolamentari che allo
stato risultano solo in corso di
predisposizione.
Un simile potere soprassessorio (sospensione
della pratica DIA in attesa della adozione
di indirizzi interpretativi ed operativi),
oltre a porsi in contrasto con quanto
previsto dall’art. 21-quater della l. n. 241
del 1990, non appare neppure contemplato
dalla normativa in materia di impianti di
produzione di energia da fonti rinnovabili
(d.lgs. n. 387 del 2003).
Peraltro, in applicazione del principio di
legalità dell’azione amministrativa ciascuna
amministrazione può esercitare soltanto i
poteri espressamente previsti dalla legge e
secondo le modalità da questa previste, e
ciò tanto più ove si tratti di incidere su
attività economiche soggette a (parziale)
liberalizzazione (cfr. art. 1 della legge n.
239 del 2004) e ritenute fondamentali per il
raggiungimento di obiettivi di politica
ambientale fissati a livello comunitario
(direttiva 2001/77/CE) e internazionale
(Protocollo di Kyoto).
In questa prospettiva, il provvedimento
inibitorio viola i principi fondamentali di
semplificazione stabiliti dal d.lgs. n. 387
del 2003, che prevede termini perentori per
la conclusione dei relativi procedimenti
amministrativi, sì da non tollerare una loro
sospensione ad tempus (cfr. Corte
cost., sent. n. 364 del 2006) o, a maggior
ragione, sine die (TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 18.07.2011 n. 1373 - link a
www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti di energie rinnovabili -
Leggi regionali dichiarate incostituzionali
- D.L. n. 105/2010, art. 1-quater - Salvezza
dei titoli abilitativi - Esercizio
dell’impianto entro 150 gg. dalla data di
entrata in vigore della norma - Ordine di
sospensione dei lavori o annullamento del
titolo - Conseguenze.
L’art. 1-quater del decreto legge n. 105 del
2010 consente la salvezza degli effetti dei
titoli abilitativi formatisi in relazione ad
impianti di energie rinnovabili recanti
soglie superiori rispetto alla disciplina
statale, per effetto di leggi regionali
dichiarate poi incostituzionali (nella
specie, sentenza Corte Cost. n. 119/2010).
L’articolo in esame subordina la salvezza
della DIA al completamento ed all’esercizio
dell’impianto entro una certa data (150 gg.
dal’entrata in vigore della norma), tenuto
conto, tra l’altro, dell’utilità che detti
impianti hanno per l’economia nazionale e
dell’affidamento riposto nella norma
dichiarata incostituzionale.
Se questo è vero per le procedure in
cui,fisiologicamente,alla DIA sono seguiti i
lavori, è parimenti vero per i casi in cui
l’intervento dell’autorità ha impedito
l’operatività della DIA. L’impossibilità di
eseguire i lavori dovuta ad un ordine di
sospensione o all’annullamento del titolo,
lungi dall’impedire la salvezza delle DIA,
comporta pertanto lo spostamento in là della
data ultima per il conseguimento della
salvezza (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 18.07.2011 n. 1365 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire - Art. 11
d.P.R. n. 380/2001 - Titolo idoneo a
legittimare la richiesta del permesso di
costruire - Situazione giuridica
assimilabile alla proprietà - Aspettativa
qualificata - Contratto di opzione.
L’art. 11 del DPR n. 380 del 2001, nel
prevedere che il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a
chi abbia titolo per richiederlo, richiede,
quale titolo astrattamente idoneo a
legittimare la richiesta del permesso di
costruire, la sussistenza di una situazione
giuridica assimilabile alla proprietà o,
eventualmente, alla qualificata aspettativa
di poter esercitare le prerogative del
proprietario sull’area in cui si intende
realizzare un determinato intervento:
rientra in tali ipotesi anche la
stipulazione di un contratto di opzione il
quale, per la sua configurazione di
sostanziale proposta irrevocabile (con
vincolo a carico del concedente e diritto
potestativo in favore dell’opzionario),
senz’altro è istituto idoneo a far
insorgere, in capo all’interessato, una
situazione di qualificata aspettativa; anzi,
in forza dell’assetto di poteri che si
instaura tra concedente ed opzionario (al
quale è rimesso il semplice esercizio di un
diritto potestativo ai fini del
perfezionamento del successivo contratto)
esso risulta persino più incisivo, sotto il
profilo della effettiva disponibilità
dell’immobile, rispetto al contratto
preliminare di vendita che è da tempo
ritenuto titolo idoneo a richiedere il
permesso di costruire (TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 18.07.2011 n. 1365 -
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EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Vincolo archeologico diretto - Imposizione -
Identificazione del deposito archeologico -
Precisa localizzazione dell’area.
In tema di imposizione di vincolo
archeologico diretto, è ritenuta
indefettibile, affinché siano evitati
inutili sacrifici delle proprietà incise,
un’adeguata identificazione del deposito
archeologico, accompagnata dalla precisa
localizzazione dell’area in cui lo stesso si
presume esistente, di modo che l’imposizione
del vincolo cada su una superficie
effettivamente interessata dai reperti
congruamente individuati, quanto a
rilevanza, consistenza, estensione e
ubicazione del relativo deposito. (Cons.
St., sez. VI, 05.10.2001, n. 5247; Cons.
St., sez. VI, 07.05.2001, n. 2522; Cons.
St., sez. VI, 26.01.2000, n. 357).
BENI CULTURALI E
AMBIENTALI - Vincolo archeologico diretto -
Imposizione - Estensione - Complesso
unitario inscindibile dei ruderi.
L’Amministrazione può estendere il vincolo
diretto ad intere aree in cui siano
disseminati ruderi archeologici
particolarmente importanti, richiedendosi,
tuttavia, che i ruderi stessi costituiscano
un complesso unitario inscindibile, tale da
rendere indispensabile il sacrificio totale
degli interessi contrapposti, in modo tale
da evitare che l’imposizione della
limitazione sia sproporzionata rispetto alle
finalità di pubblico interesse cui è
preordinata (Cons. St., sez. VI, 27.09.2005,
n. 5069) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 18.07.2011 n. 1358 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Impianti di energia rinnovabile -
Criteri di inserimento nel paesaggio -
Competenza - Conferenza Unificata - Linee
guida statali - Art. 12, c. 10 d.lgs. n.
387/2003 - Regioni - Competenza in via
attuativa - Province e comuni -
Incompetenza.
Le competenze in tema di individuazione di
aree idonee e di elaborazione di criteri di
corretto inserimento degli impianti di
energie rinnovabili nel paesaggio
appartengono unicamente alla Conferenza
Unificata (mediante linee guida c.d. statali
- cfr. art. 12, c. 10 d.lgs. n. 387/2003) in
via generale ed alle Regioni in via
meramente attuativa; non anche a province e
comuni, i quali potranno tutt’al più
provvedere, ai sensi dell’art. 117, sesto
comma, Cost., alla disciplina degli aspetti
più propriamente organizzativi e
procedimentali, nel rispetto di quanto già
stabilito in proposito dalle linee guida
statali e regionali, non anche gli aspetti
sostanziali come quelli che nella specie si
è inteso in senso assolutamente prevalente
regolare (cfr. TAR Lecce, sez. I,
26.01.2011, n. 140).
VIA - Impianti
fotovoltaici - Regolamento per la redazione
degli studi e la valutazione della
compatibilità ambientale - Provincia -
Incompetenza relativa.
L’incompetenza della Provincia
all’emanazione di un regolamento per la
redazione degli studi e la valutazione della
compatibilità ambientale di impianti
fotovoltaici deve essere ritenuta non
assoluta ma relativa.
E ciò in forza di una interpretazione più
restrittiva del concetto di incompetenza
assoluta che, anche a seguito della riforma
costituzionale del 2001, deve essere letta
come impossibilità non tanto di adottare il
singolo atto ma, piuttosto, di intervenire
in generale sull’intero settore di attività:
circostanza questa che nel caso di specie
non si verifica, posto che la Provincia
esercita comunque numerose competenze -anche
al di là di quelle specificamente delegate
in tema di VIA- in materia di tutela
dell’ambiente [cfr. art. 19, comma 1,
lettere a) ed e), del decreto legislativo n.
267 del 2000) e di valorizzazione delle
risorse energetiche [cfr. lettera b) della
stessa disposizione] (TAR Puglia Lecce, sez.
I, 29.06.2011 nn. 1215, 1216 e 1218 e
11.07.2011 n. 1286) (TAR Puglia-Lecce, Sez.
I,
sentenza 18.07.2011 n. 1356 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
VIA - Regione Puglia - Delega
alle province delle competenze sulla VIA -
L.r. Puglia n. 17/2007 - Titolarità del
potere - Regione - Istituto della
delegazione - Principi generali.
Se è pur vero che con la l.r. Puglia n. 17
del 2007 sono state delegate alle province
pugliesi le competenze sulla VIA, dall’altro
lato è anche vero che tale delega ha
riguardato soltanto l’esercizio delle
funzioni stesse, non anche la loro
titolarità. In questa direzione il delegante
conserva poteri di coordinamento e di alta
sorveglianza, e tra questi anche quello di
emanare direttive.
Del resto, in applicazione di principi
generali dell’ordinamento costituzionale ed
amministrativo l’istituto della delegazione
non spoglia il delegante del potere di
provvedere sulla materia delegata,
conservando anzi in merito ad esso il potere
di (re)intervenire in ogni momento: non è un
caso, infatti, che nulla è mutato in ordine
al potere della Regione Puglia di adottare
atti di indirizzo in materia di VIA (cfr.
art. 7 della legge regionale n. 11 del
2001).
VIA - Art. 7, c. 7
d.lgs. n. 152/2006 - Competenze in materia
di VIA - Principio di sussidiarietà
verticale.
Il codice dell’ambiente (cfr. art. 7, comma
7) assegna unicamente alle Regioni ed alle
province autonome il potere di disciplinare
in materia di VIA “le competenze proprie
e quelle degli altri enti locali”.
Si tratta di una applicazione del principio
di sussidiarietà verticale in base al quale
lo Stato, nell’esercizio della competenza
esclusiva in materia di tutela dell’ambiente
[cfr. art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost.], ha ritenuto di allocare tale
specifica competenza, per ragioni per
l’appunto di sussidiarietà, differenziazione
e adeguatezza, al livello di governo
regionale (TAR Puglia Lecce, sez. I,
29.06.2011 nn. 1215, 1216 e 1218 e
11.07.2011 n. 1286) (TAR Puglia-Lecce, Sez.
I,
sentenza 18.07.2011 n. 1356 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità
dell'esclusione di un concorrente da una
gara, motivata sulla base della lettera
d'invito, contenente una disciplina più
restrittiva rispetto alla normativa di gara.
E' illegittimo il provvedimento di
esclusione da una gara, adottato da una
stazione appaltante nei confronti di un RTI,
sulla base della disciplina contenuta nella
lettera d'invito, più restrittiva rispetto
alla normativa di gara, prevista nel bando.
Nel caso di specie, la lettera di invito
impone la disponibilità in proprietà od in
avvalimento di tutti i mezzi necessari per
l'esecuzione del contratto, in quanto
espressamente elenca le lavorazioni per le
quali i medesimi sono necessari. Il suddetto
enunciato è contrario alle disposizioni
della normativa di gara, contenute nelle
norme integrative al bando e nel capitolato
speciale prestazionale.
Trova, pertanto, applicazione il principio
secondo cui, in tema di gare pubbliche, nel
caso di contrasto tra il bando e la lettera
di invito, prevale il primo, quale lex
specialis della selezione concorsuale,
non modificabile mediante lettera d'invito
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.07.2011 n. 4278 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
VIA - Art. 5, c. 1, lett. c),
d.lgs. n. 152/2006 - Impatti cumulativi -
Insuscettibilità di analisi frazionata.
Quando l’intervento progettato, pur essendo
suddiviso in singole frazioni anche al solo
fine di soddisfare esigenze di snellezza
procedimentale dell’impresa, appare
riconducibile ad un unico programma
imprenditoriale, la conseguenza che si
registra sul terreno del doveroso
assoggettamento a VIA è senz’altro quella di
una analisi che tenga conto necessariamente
dei cd impatti cumulativi.
Il codice dell’ambiente, con l’art. 5, comma
1, lettera c, restituisce invero un concetto
di impatto ambientale che , per sua natura,
appare insuscettibile di analisi frazionata.
Logica conseguenza di questo approccio alla
nozione di impatto ambientale appare
l’obbligo, per l’imprenditore, di
evidenziare gli interventi connessi,
complementari o a servizio di quello
proposto -così come prescritto dall’art 3,
comma 2, lettera b), n. 2, del DPCM
27.12.1988- perché solo così è possibile una
verifica illuminante ed esaustiva della
incidenza ambientale di un progetto
complesso.
Ciò significa che, pur a fronte di una
pluralità di procedimenti amministrativi
messi in moto dall’imprenditore, l’organo
preposto a compiere la valutazione di
impatto ambientale ha il preciso dovere di
operarne la reductio ad unitatem,
specie in presenza di elementi sintomatici
della unicità di intervento (Consiglio
Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3849).
DIRITTO AMBIENTALE -
Principio di precauzione - Art. 3-ter d.lgs.
n. 152/2006.
Dal principio di precauzione (art. 3-ter
d.lgs. n. 152/2006) deriva l’esigenza di
un’azione ambientale consapevole e capace di
svolgere un ruolo teso alla salvaguardia
dell’ecosistema in funzione preventiva ,
anche quando non sussistono evidenze
scientifiche conclamate che illustrino la
certa riconducibilità di un effetto
devastante per l’ambiente ad una determinata
causa umana.
VIA - Tutela preventiva
dell’interesse pubblico ambientale -
Principio di precauzione.
La valutazione di impatto ambientale
comporta una valutazione anticipata
finalizzata, nel quadro del principio
comunitario di precauzione, alla tutela
preventiva dell'interesse pubblico
ambientale, con la conseguenza che, in
presenza di una situazione ambientale
connotata da profili di specifica e
documentata sensibilità, anche la semplice
possibilità di un'alterazione negativa va
considerata un ragionevole motivo di
opposizione alla realizzazione di
un'attività, sfuggendo, per l'effetto, al
sindacato giurisdizionale la scelta
discrezionale della p.a. di non sottoporre
beni di primario rango costituzionale, qual
è quello dell'integrità ambientale, ad
ulteriori fattori di rischio che, con
riferimento alle peculiarità dell'area,
possono implicare l'eventualità, non
dimostrabile in positivo ma neanche
suscettibile di esclusione, di eventi lesivi
(TAR Toscana Firenze, sez. II, 20.04.2010,
n. 986) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 14.07.2011 n. 1341 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: La
responsabilità precontrattuale della PA può
prescindere dalla legittimità del suo
operato.
Al fine del riconoscimento della
responsabilità precontrattuale non si deve
tener conto della legittimità dell’esercizio
della funzione pubblica cristallizzato nel
provvedimento amministrativo, bensì della
correttezza del comportamento
complessivamente tenuto dall’amministrazione
durante il corso delle trattative e della
formazione del contratto.
Sulla base di questo principio il Consiglio
di Stato, Sez. VI, con
sentenza 12.07.2011 n. 4196 ha
riconosciuto la responsabilità
precontrattuale per il comportamento tenuto
da un Comune e dalla regione Toscana che
dopo aver aggiudicato un appalto per la
realizzazione di un termovalorizzatore hanno
poi successivamente adottato atti e
provvedimenti tali da rendere
definitivamente impossibile la realizzazione
dell’impianto.
In particolare, successivamente
all’aggiudicazione dell’appalto, sull’area
di realizzazione dell’impianto venivano
posti una serie di vincoli ambientali,
paesaggistico e archeologici che di fatto
determinavano l’impossibilità della sua
realizzazione.
Avverso tali provvedimenti la società
aggiudicataria proponeva ricorso chiedendone
l’annullamento e il risarcimento dei danni.
In seguito al giudizio di primo grado svolto
dinanzi il TAR Toscana e nel quale erano
state rigettate le richieste della
ricorrente, veniva proposto appello al
Consiglio di Stato.
Il Consiglio di Stato adito, pur
riconoscendo la legittimità dei
comportamenti delle Pubbliche
amministrazioni che avevano determinato la
revoca dell’appalto, ha sottolineato come “…ai
fini della configurabilità della
responsabilità precontrattuale della p.a.,
non si deve tener conto della legittimità
dell’esercizio della funzione pubblica
cristallizzato nel provvedimento
amministrativo, bensì della correttezza del
comportamento complessivamente tenuto
dall’Amministrazione durante il corso delle
trattative e della formazione del contratto,
alla luce dell’obbligo delle parti di
comportarsi secondo buona fede ai sensi
dell’articolo 1337 c.c.[…] Se ciò è vero, ne
risulta confermata la configurabilità di cui
all’art. 1337 cod. civ. anche nell’ipotesi
in cui la mancata stipula del contratto sia
dipesa da fattori non imputabili
all’amministrazione (ad es., il factum
principis ovvero il radicale mutamento della
situazione di fatto sottesa alla vicenda di
causa – Cons. Stato, sent. 1763 del 2006
cit.), laddove –tuttavia– l’amministrazione
si sia comunque resa colpevole di un
contegno non compatibile con il generale
obbligo di realizzazione degli adempimenti
necessari a garantire la validità,
l’efficacia o l’utilità del rapporto
sostanziale”.
In conformità a tale principio i giudici
della VI sezione hanno riconosciuto la
responsabilità del Comune e della Regione
Toscana, per aver ritardato l’adozione di
alcuni provvedimenti di loro competenza
nonostante fossero già a conoscenza della
sopravvenuta impossibilità di realizzazione
dell’opera.
In merito al quantum del danno risarcibile è
stato precisato come generalmente in materia
di responsabilità precontrattuale sono
risarcibili le spese inutilmente sopportate
nel corso delle trattative svolte in vista
della conclusione del contratto, nonché il
ristoro della perdite, se adeguatamente
provate, di ulteriori occasioni di
stipulazione di altri contratti.
Tale criterio tuttavia è stato soggetto ad
alcuni temperamenti da parte dei giudici
della VI sezione in quanto, pur trattandosi
di comportamento contrario a buona fede in
senso soggettivo tenuto dall’amministrazione
nel corso della fase precontrattuale, la
mancata stipula del contratto “…non
costituisca un effetto di tale
comportamento, bensì l’effetto di fattori
ulteriori autonomamente idonei, sotto il
profilo causale, a determinare
l’impossibilità di stipulare il contratto”.
Sulla base di queste considerazioni il
Consiglio di Stato ha formulato il criterio
in base al quale le amministrazioni
condannate dovranno determinare la somma di
denaro da proporre alla società appellante.
In conclusione con la sentenza in commento è
stata valorizzata anche nei rapporti tra
privato e pubblica amministrazione la
necessità del rispetto del principio di
correttezza e buona fede il quale impone
alle parti del rapporto il dovere di agire
in modo da preservare gli interessi
dell’altra, a prescindere dall’esistenza di
specifici obblighi contrattuali o di quanto
espressamente stabilito da singole norme di
legge
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In tema di responsabilità per
danni contabili indiretti la prescrizione
inizia a decorrere dal momento in cui
avviene il pagamento della somma a titolo di
risarcimento del terzo danneggiato.
Con riferimento alla prospettata
prescrizione dell’azione risarcitoria,
occorre evidenziare come la giurisprudenza
prevalente di questa Corte dia rilevanza al
momento dell’adempimento dell’obbligazione,
individuando nella fase del pagamento il
dies a quo del termine di decorrenza.
Pertanto, in tema di responsabilità per
danni contabili indiretti, come nella
specie, la prescrizione inizia a decorrere
dal momento in cui avviene il pagamento
della somma a titolo di risarcimento del
terzo danneggiato, il che, nel caso di
specie, sarebbe accaduto con le delibere di
riconoscimento dei debiti fuori bilancio del
dicembre 2006.
D’altra parte ove si ammettesse la
possibilità di iniziare nei confronti
dell'amministratore o del dipendente
pubblico l'azione di responsabilità ancor
prima del verificarsi del pagamento, costui
potrebbe essere condannato a risarcire un
danno mai prodotto all'erario, e, più in
generale, che solo con l'effettuazione del
pagamento si può ritenere realizzata la
diminuzione patrimoniale per l'erario, e
quindi attualizzata la lesione del bene
giuridico protetto, e solo allora si ha la
possibilità di agire per ripristinare,
attraverso il risarcimento del danno, la
situazione giuridica violata (Corte dei Conti,
Sez. I d'appello,
sentenza 11.07.2011 n. 313 - link
a www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I beni demaniali non sono
suscettibili di usucapione in mancanza di
previa sdemanializzazione.
I beni demaniali, in quanto inalienabili ai
sensi dell'articolo 823, c.c. non sono
suscettibili di usucapione, in mancanza di
previa sdemanializzazione, e sono tutelabili
mediante i poteri di autotutela possessoria.
In particolare, il disuso prolungato di una
strada vicinale da parte della collettività
e l'inerzia dell'amministrazione nella cura
della stessa e/o nell'intervento riguardo ad
occupazioni o usi da parte di privati
incompatibili con la destinazione pubblica,
non bastano a comprovare inequivocamente la
cessata destinazione del bene (anche solo
potenziale) all'uso pubblico (c.d.
sdemanializzazione tacita), occorrendo che
detti indizi siano accompagnati da fatti
concludenti e da circostanze tali da non
lasciare adito ad altre ipotesi, salva
quella che la stessa abbia definitivamente
rinunciato al ripristino dell'uso stradale
pubblico (cfr. Cons. Stato, IV, 07.09.2006,
n. 5209; V, 06.10.2009, n. 6095; TAR
Lombardia, Brescia, I, 08.07.2009, n. 1450;
TAR Abruzzo, Pescara, I, 20.06.2009, n. 445;
TAR Emilia Romagna, Parma, 25.05.2005, n.
291)
(TAR Umbria,
sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Di fronte
al potere-dovere di reprimere gli abusi
edilizi, l’affidamento del privato è
tutelabile soltanto qualora sia stato
provato il lungo tempo trascorso dalla
realizzazione dell’abuso, e nel contempo
l’esistenza dell’abuso sia stata ritenuta
implicitamente regolare
dall’Amministrazione.
Il Collegio
ricorda che la giurisprudenza di questo
Tribunale è ferma nel ritenere che, di
fronte al potere-dovere di reprimere gli
abusi edilizi, l’affidamento del privato è
tutelabile (sia pure nel limitato senso di
esigere una motivazione rafforzata del
provvedimento sanzionatorio) soltanto
qualora sia stato provato il lungo tempo
trascorso dalla realizzazione dell’abuso, e
nel contempo l’esistenza dell’abuso sia
stata ritenuta implicitamente regolare
dall’Amministrazione (in occasione
dell’esame di precedenti pratiche edilizie,
o di attività di vigilanza sul territorio –
cfr. TAR Umbria, 18.03.2008, nn. 102-103;
18.08.2009, n. 492; 21.01.2010, n. 23)
(TAR Umbria,
sentenza 11.07.2011 n. 199 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
un momento successivo al rilascio della
concessione è possibile avanzare una
richiesta derogatoria se una nuova legge ne
preveda la facoltà.
Occorre premettere alcune considerazioni:
- deve ribadirsi, sotto il profilo
temporale, la regola per cui la
determinazione degli oneri di urbanizzazione
avviene, in via generale, secondo il
principio “tempus regit actum”;
- il rilascio della concessione segna il
momento costitutivo dell’obbligazione di
corrispondere gli oneri di urbanizzazione,
che deve avvenire alla luce di tutte le
norme applicabili alla fattispecie;
- la non corretta determinazione degli oneri
lede una posizione di diritto soggettivo,
regolata dalla legge, che può essere fatta
valere nell’ordinario termine di
prescrizione.
Ciò premesso la questione controversa si
caratterizza non per il fatto che il Comune,
in ossequio al principio del “tempus
regit actum”, ha applicato lo “ius
superveniens” alla domanda di
concessione (presentata peraltro sotto
l’impero delle precedente legge) e
costituito dalle nuove e più gravose
tabelle, ma perché, successivamente, il
concessionario (avvalendosi della cennata
norma transitoria della stessa legge) ha
richiesto la determinazione degli oneri in
base alla previgente normativa.
Osserva anzitutto il Collegio che, come il
rilascio della concessione, anche la
determinazione dei relativi oneri è avvenuta
sotto la vigenza della sopraggiunta legge
regionale n. 52/1999, della quale fa parte
incontestabilmente anche la norma
transitoria dell’art. 44.
Emerge poi che le nuove tabelle di
determinazione erano inapplicabili alla
fattispecie di riferimento, proprio per gli
effetti esplicati dalla norma transitoria
dell’art. 44; quest’ultima, in sostanza, sia
pure previa presentazione di specifica
domanda (che si avvicina all’esercizio di
una sorta di diritto potestativo), ha
introdotto una deroga al principio del “tempus
regit actum”, comportando l’applicazione
del previgente sistema di computo degli
oneri nonostante che ad esso si provveda in
relazione a concessione emessa sotto
l’imperio della nuova normativa.
Questa ricostruzione, ad avviso del
Collegio, opera necessariamente nei casi,
come quello in trattazione, in cui non si
rileva nella legge alcun termine entro il
quale il concessionario debba chiedere la
determinazione dell’importo degli oneri che
deve corrispondere. E poiché la posizione
tutelata dalla norma transitoria in
questione riveste natura di diritto
soggettivo (patrimoniale, ad una più
favorevole determinazione degli oneri) deve
concludersi che il concessionario può
esercitarlo (anche a contestazione della
pretesa comunale e mediante azione di
accertamento) sicuramente anche in un
momento successivo alla chiusura del
procedimento da parte dell’atto che assente
la concessione edilizia, purché sotto la
vigenza o per l’effetto di norma che quel
diritto prevede. Ne deriva che al diritto
del ricorrente come sopra delineato
corrisponde il dovere dell’amministrazione
di procedere alla determinazione degli oneri
secondo la legge anche a fronte di una
concessione già rilasciata.
Né questa tesi può essere validamente
smentita dal prosieguo delle motivazioni
rese dal TAR, per il quale è “logico
ritenere che la facoltà debba essere
esercitata nelle more del procedimento
destinato a concludersi con il rilascio
della concessione”. Il giudice di prima
istanza ha supportato questo orientamento
ritenendo che: “diversamente la norma
avrebbe previsto l’applicazione della
disciplina precedente -in modo automatico e
quindi a prescindere dalla “istanza” degli
interessati– a tutte le domande presentate
prima della entrata in vigore della nuova
legge”; ed ancora che: “una siffatta
interpretazione dell’art. 44, comma 1, in
esame, di contenuto derogatorio rispetto al
principio generale, deriva dalla natura
stessa della disposizione, inclusa tra le
norme transitorie che sono dirette proprio a
consentire il passaggio da una ad un’altra
normativa; che non è però consentito
attribuire alla norma un significato
ulteriormente derogatorio rispetto allo
schema legale tipico - che resta fondato, in
generale, sul momento del rilascio del
titolo edificatorio, quale elemento
temporale di individuazione delle tabelle
applicabili”.
Deve anzitutto essere esclusa la validità
logica dell’argomentazione per cui la
necessità della domanda militerebbe per
l’inapplicabilità del beneficio alle domande
presentate dopo la concessione; il fatto che
il beneficio non venga riconosciuto
d’ufficio non è di per sé un indice
interpretativo per negarne l’applicazione.
Ma, osserva il Collegio, la tesi del TAR non
può essere condivisa nella sua sostanza
giuridica poiché, dopo aver peraltro ammesso
la portata derogatoria della norma di legge,
il primo giudice ne esclude immotivatamente
ogni operatività, limitandosi ad affermare,
in assoluta ed apodittica prevalenza del
principio “tempus regit actum”, che
in un momento successivo all’emissione del
rilascio del titolo non sia possibile
avanzare la richiesta derogatoria. In tal
modo non viene data alcuna interpretazione
della norma in parola ma si provvede
semplicemente a non applicarla.
Per dare invece effettivo senso
all’esistenza della disposizione (secondo
noto canone interpretativo) va anche qui
ribadito che allorquando l’amministrazione
provveda a determinare gli oneri relativi ad
una concessione rilasciata sotto l’impero di
una nuova legge, la quale preveda tuttavia
l’applicazione a domanda di un regime
transitorio di maggior favore, si debba
tenere conto di tale istanza del
concessionario ove questa sia stata
presentata anche dopo il rilascio della
concessione; ed in particolare, se gli oneri
sono stati già determinati, che occorre
provvedere ad adeguarne il conteggio sulla
base della domanda di applicazione della
norma transitoria.
Un ultima osservazione, per completezza,
riguarda l’irrilevanza del fatto che la
domanda sia stata presentata nel periodo di
“vacatio” della legge n. 52/1999 e
quindi allorquando non era ancora
formalmente in vigore anche la norma
transitoria in quella legge inserita. Ed
invero da un lato la sopravvenuta vigenza
della disposizione che permette
l’applicazione del sistema precedente, non
esenta dall’esaminare la domanda anche se
presentata nel periodo di “vacatio legis”,
se la legge non prevede precisi ed
inderogabili termini procedimentali, in
applicazione dei quali l’istanza possa
essere giudicata intempestiva (come anche
tardiva) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 09.07.2011 n. 4133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
inammissibile l'impugnazione del bando da
parte dell'impresa non partecipante.
Secondo un condiviso orientamento
giurisprudenziale, è inammissibile
l'impugnazione del bando da parte
dell'impresa non partecipante, la quale
deduca che la formulazione dello stesso è
stata fatta in modo tale non da precludere
assolutamente, ma soltanto da rendere non
remunerativa, la partecipazione alla gara
stessa (in tal senso TAR Lombardia Milano,
I, 05.12.2008, n. 5755)
(TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 08.07.2011 n.
1330 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Bando di gara - Presentazione
delle offerte - Plico e buste sigillati e
controfirmati sui lembi di chiusura -
Finalità della previsione - Nozione di
“lembo di chiusura”.
La previsione del bando di gara, che impone
la presentazione da parte dei concorrenti di
plico e buste sigillati e controfirmati sui
lembi di chiusura, risponde alla ratio
di garantire la genuinità e paternità della
domanda di partecipazione e della
documentazione a questa allegata, la quale
può essere assicurata solo se la sigillatura
sia tale da impedire che il plico possa
essere aperto senza che ne resti traccia
visibile e possa essere anche solo
teoricamente manomesso (vedi Consiglio di
Stato, IV, 10.03.2011, n. 1553).
Tale previsione va, però, interpretata in
maniera non formalistica al fine di
garantire la massima partecipazione alla
gara e la concorrenza tra gli operatori del
settore.
Si è, pertanto, condivisibilmente ritenuto
che per "lembo di chiusura" di una
busta deve intendersi quello costituente
l'imboccatura della stessa soggetto ad
operazione di chiusura a sé stante, sicché è
sufficiente che l'adempimento formale
imposto al concorrente venga limitato ai
lembi della busta chiusi dall’utilizzatore,
con esclusione di quelli preincollati dal
fabbricante (in tal senso Consiglio di
Stato, VI, 04.06.2007, n. 2946 e 20.04.2006,
n. 2200) (TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 08.07.2011 n. 1315 -
link a www.ambientediritto.it). |
ENTI LOCALI:
Sulla sussistenza della
giurisdizione ordinaria per i danni causati
dalla mala gestio di amministratori di
società partecipate dalla P.A.
La responsabilità di amministratori e
sindaci, pur se nominati dallo Stato o dagli
enti pubblici, è disciplinata dall'art.
2449, c. 3, cod. civ. che dispone: "Essi
hanno i diritti e gli obblighi dei membri
nominati dall'assemblea".
Conseguentemente, gli amministratori di
società partecipate rispondono nei confronti
della società, dei soci, dei creditori, dei
terzi, a norma degli artt. 2392 -2395 cod.
civ. dovendosi escludere che il rapporto di
servizio tra società partecipata e P.A. sia
immediatamente riferibile agli
amministratori stante la rispettiva, diversa
personalità giuridica, e dovendosi
considerare che il danno cagionato dalla
loro mala gestio è al patrimonio
della società, che resta privato e autonomo
da quello dei suoi soci.
Ne deriva che l'azione di responsabilità nei
confronti dei suoi amministratori esperibile
dalla stessa previa delibera dell' assemblea
(art. 2393 cod. civ.), ovvero dai suoi soci
nel loro interesse, ma con diretto beneficio
alla società (art. 2393-bis cod. civ.)
appartiene alla giurisdizione ordinaria,
salva, la responsabilità amministrativa di
costoro se non esercitano colpevolmente
l'azione di responsabilità (Corte di
Cassazione, SS.UU. civili,
ordinanza 05.07.2011 n. 14655 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
piena conoscenza di un titolo edilizio,
dalla quale decorre il termine di
impugnazione, si realizza, per i proprietari
dei fondi vicini, quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo ed univoco
le essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa al
titolo o alla disciplina urbanistica:
pertanto, in mancanza di altri ed inequivoci
elementi probatori, il termine decorre non
con il mero inizio dei lavori, bensì con il
loro completamento, a meno che non venga
provata una conoscenza anticipata o si
deducano censure di assoluta inedificabilità
dell'area o analoghe censure, nel qual caso
risulta sufficiente la conoscenza
dell'iniziativa in corso.
Per costante giurisprudenza la piena
conoscenza di un titolo edilizio, dalla
quale decorre il termine di impugnazione, si
realizza, per i proprietari dei fondi
vicini, quando la costruzione realizzata
rivela in modo certo ed univoco le
essenziali caratteristiche dell'opera e
l'eventuale non conformità della stessa al
titolo o alla disciplina urbanistica:
pertanto, in mancanza di altri ed inequivoci
elementi probatori, il termine decorre non
con il mero inizio dei lavori, bensì con il
loro completamento, a meno che non venga
provata una conoscenza anticipata o si
deducano censure di assoluta inedificabilità
dell'area o analoghe censure, nel qual caso
risulta sufficiente la conoscenza
dell'iniziativa in corso (fra le tante,
Cons. Stato, sez. V, 23.05.2000, n. 2983;
TAR Liguria, sez. I - 19.12.2006 n. 1711;
TAR Veneto, sez. II - 25.05.2005 n. 2154;
TAR Lombardia, Brescia, 11.03.2002, n. 476)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.07.2011 n. 1763 -
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EDILIZIA PRIVATA: Nel
consentire modificazioni delle altezze di
colmo e di gronda e delle linee di pendenza
delle falde “unicamente al fine di
assicurare i parametri di cui all'articolo
63, comma 6” della L.R. 12/2005 (cioè
l’altezza media ponderale di metri 2,40), si
ribadisce che l’art. 64, primo comma, l.r.
12/2005 ammette l’incremento delle altezze
nei soli limiti strettamente funzionali ad
assicurare le condizioni minime di salubrità
agli spazi (resi) abitativi, sicché
l’altezza media di 2,40 metri deve ritenersi
ad un tempo altezza minima (per
l’abitabilità degli spazi) e altezza massima
(se comporta l’innalzamento delle linee di
colmo e di gronda del tetto).
Ai sensi
dell’art. 63, c. 6, l. reg. Lombardia n.
12/2005 “il recupero abitativo dei
sottotetti è consentito purché sia
assicurata per ogni singola unità
immobiliare l'altezza media ponderale di
metri 2,40, ulteriormente ridotta a metri
2,10 per i comuni posti a quote superiori a
seicento metri di altitudine sul livello del
mare, calcolata dividendo il volume della
parte di sottotetto la cui altezza superi
metri 1,50 per la superficie relativa”.
L’art. 64, c. 1, l. reg. Lombardia n.
12/2005, prevede che “gli interventi
edilizi finalizzati al recupero volumetrico
dei sottotetti possono comportare l’apertura
di finestre, lucernari, abbaini e terrazzi,
per assicurare l’osservanza dei requisiti di
aeroilluminazione e per garantire il
benessere degli abitanti, nonché, ove lo
strumento urbanistico generale comunale
vigente risulti approvato dopo l’entrata in
vigore della l.r. 51/1975, modificazioni
delle altezze di colmo e di gronda e delle
linee di pendenza delle falde, purché nei
limiti di altezza massima degli edifici
posti dallo strumento urbanistico ed
unicamente al fine di assicurare i parametri
di cui all’articolo 63, comma 6”.
Come questo Tribunale ha già affermato, nel
consentire modificazioni delle altezze di
colmo e di gronda e delle linee di pendenza
delle falde “unicamente al fine di
assicurare i parametri di cui all'articolo
63, comma 6” (cioè l’altezza media
ponderale di metri 2,40), che l’art. 64, primo
comma, l.r. 12/2005 ammette evidentemente
l’incremento delle altezze nei soli limiti
strettamente funzionali ad assicurare le
condizioni minime di salubrità agli spazi
(resi) abitativi, sicché l’altezza media di
2,40 metri deve ritenersi ad un tempo
altezza minima (per l’abitabilità degli
spazi) e altezza massima (se comporta
l’innalzamento delle linee di colmo e di
gronda del tetto) (Tar Lombardia, Milano,
sez. II, 29.10.2009, n. 4941).
Anche la sentenza di questo Tribunale,
22.01.2010, n. 195, invocata dalla difesa
dell’amministrazione resistente, non ha
affatto affermato principi contrastanti con
quelli qui richiamati: nel sostenere che,
nel caso in cui le necessità tecniche
rendano necessario realizzare altezze medie
ponderali sull’intera unità immobiliare
superiori, le altezze eccedenti debbono
essere costituite da vani tecnici od altre
strutture che escludano l’utilizzo a fini
abitativi (circostanza che nel caso di
specie non ricorre), ha comunque tenuto ben
ferma l’interpretazione dell’art. 63, c. 6,
l. reg. Lombardia n. 12/2005, secondo cui il
limite ivi previsto costituisce sia limite
minimo che limite massimo.
Il Collegio non condivide quanto affermato
dalla difesa dell’amministrazione circa la
sussistenza di un potere discrezionale della
p.a. finalizzato alla tutela del benessere
dei cittadini e della salubrità delle
abitazioni, ponendo la legge regionale il
limite di altezza quale requisito perché
l’intervento possa essere qualificato quale
recupero di sottotetto, senza lasciare,
dunque, alcuno spazio a valutazioni
discrezionali.
Le esigenze di salubrità degli ambienti sono
state oggetto di valutazione da parte del
legislatore regionale, senza che sia,
quindi, consentito all’amministrazione
comunale derogare al limite posto dalla
legge regionale, invocando differenti limiti
previsti dai regolamenti di igiene.
Essendo incontestato che l’intervento
edilizio in questione prevede la
realizzazione di appartamenti con altezze
medie ponderali superiori ai m. 2,40, le
denuncie di inizio attività impugnate si
pongono, dunque, in contrasto con la legge
regionale n. 12/2005
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.07.2011 n. 1763 -
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URBANISTICA: Laddove
il diritto del Comune di pretendere
l’adempimento delle obbligazioni assunte dal
lottizzante non si sia prescritto e,
tuttavia, la prestazione che forma oggetto
dell’obbligazione non possa più essere
adempiuta nei modi convenuti, a causa della
sopravvenuta modifica, mediante variante
urbanistica, del territorio interessato
dalla lottizzazione, la possibilità di
sostituire l’obbligazione originaria con una
nuova obbligazione non può essere attuata
senza il consenso della parte obbligata.
- Pur mostrandosi la giurisprudenza incline
ad applicare al Piano di lottizzazione un
termine massimo di durata, per esso non
espressamente previsto, ricavato in via
analogica da quello dettato dall’art. 16, co
5° cit., per il Piano particolareggiato,
tuttavia, l'individuazione di siffatto
termine viene ritenuta necessaria al solo
scopo di non attribuire alle lottizzazioni
convenzionate l'effetto di condizionare a
tempo indeterminato la pianificazione
urbanistica futura, rispondendo così ad un
preminente interesse pubblico, non soltanto
per l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione, ma anche per l'edificazione
dei lotti.
- In una convenzione di lottizzazione tra un
privato e un Comune, alle opere di
urbanizzazione il privato deve provvedere
via via che nascono gli insediamenti
abitativi e, comunque, prima della scadenza
del termine di efficacia della convenzione.
Ritiene il Collegio che, laddove il diritto
del Comune di pretendere l’adempimento delle
obbligazioni assunte dal lottizzante non si
sia prescritto e, tuttavia, la prestazione
che forma oggetto dell’obbligazione non
possa più essere adempiuta nei modi
convenuti, a causa della sopravvenuta
modifica, mediante variante urbanistica, del
territorio interessato dalla lottizzazione,
la possibilità di sostituire l’obbligazione
originaria con una nuova obbligazione non
può essere attuata senza il consenso della
parte obbligata (cfr., per la valorizzazione
della natura contrattuale del rapporto
nascente dalla convenzione di lottizzazione:
TAR Sicilia, Catania, sez. I, 29.09.2004, n.
2718).
Deve, pertanto, reputarsi illegittima la
pretesa del Comune di attuare
unilateralmente la sostituzione dell’oggetto
dell’obbligazione originariamente assunta
dalla parte lottizzante, mediante
ri-localizzazione delle aree da cedere per
urbanizzazioni, trattandosi di novazione
oggettiva dell’obbligazione originaria che
richiede, ai sensi degli artt. 1230 e ss.
c.c., l’accordo delle parti.
---------------
La società
ricorrente applica alla convenzione per cui
è causa il termine decennale fissato
dall’art. 16 della legge urbanistica per
l’attuazione del Piano particolareggiato,
giungendo a ritenere ormai inefficace la
convenzione che, sottoscritta nel 1989,
sarebbe scaduta sin dal dicembre del 1999.
Sul punto, è opportuno precisare che, pur
mostrandosi la giurisprudenza incline ad
applicare al Piano di lottizzazione un
termine massimo di durata, per esso non
espressamente previsto, ricavato in via
analogica da quello dettato dall’art. 16, co
5° cit., per il Piano particolareggiato,
tuttavia, l'individuazione di siffatto
termine viene ritenuta necessaria al solo
scopo di non attribuire alle lottizzazioni
convenzionate l'effetto di condizionare a
tempo indeterminato la pianificazione
urbanistica futura, rispondendo così ad un
preminente interesse pubblico, non soltanto
per l'esecuzione delle opere di
urbanizzazione, ma anche per l'edificazione
dei lotti (cfr. Consiglio Stato, sez. V,
12.10.2004 n. 6527; sez. VI, 20.01.2003 n.
200; IV, 11.03.2003 n. 1315; id. 16.03.1999,
n. 286; nonché Consiglio di Stato sez. IV,
02.06.2000 n. 3172, per cui si tratta di
termine applicabile soltanto alle
disposizioni a contenuto espropriativo e non
anche alle prescrizioni urbanistiche del
piano, destinate a rimanere pienamente
operanti e vincolanti senza limiti di tempo,
fino all’eventuale approvazione di un nuovo
piano attuativo).
---------------
Secondo la tesi esponente il termine di
prescrizione del diritto alla cessione delle
aree decorrerebbe dalla scadenza del termine
di adempimento previsto in convenzione e,
quindi, nel caso di specie, dalla scadenza
del termine massimo di quattro anni
stabilito dall’art. 9 della cit.
convenzione.
Sul punto, il Collegio deve preliminarmente
dare atto della mancanza di un orientamento
giurisprudenziale univoco in ordine
all’individuazione del dies a quo del
termine di prescrizione degli obblighi
convenzionali, per cui, a fronte di un
orientamento incline a far coincidere il
suddetto dies a quo con la scadenza
del termine di adempimento previsto nella
convenzione, si registra un opposto
schieramento favorevole all’individuazione
del dies a quo del termine decennale
di prescrizione dalla scadenza del termine
di dieci anni di validità del piano di
lottizzazione, di cui la convenzione
costituisce attuazione (cfr., nel primo
senso, tra le altre, TAR Toscana,
16.09.2009, n. 1446, per cui l'obbligazione
del privato diventerebbe esigibile proprio
alla scadenza del termine previsto in
convenzione e da quel momento decorrerebbe
l'ordinario termine di prescrizione.
Mentre, per la seconda opzione, che consente
di fissare il predetto termine in modo
certo, senza le variabili legate
all’interpretazione del contenuto
dell’accordo in ordine al termine di
adempimento, nonché, alle vicende legate al
comportamento in executivis delle
parti, cfr. TAR Veneto, Sez. II, 01.12.2010,
n. 6321, secondo cui, decorso l’ordinario
termine decennale di prescrizione ex art.
2946 c.c. dalla scadenza della convenzione,
il diritto dovrebbe dichiararsi prescritto
ai sensi del disposto di cui all'art. 2935
c.c., proprio poiché "la prescrizione
comincia a decorrere dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere", e,
pertanto, “il relativo dies a quo deve
individuarsi secondo i principi generali in
ordine all'esigibilità dell'adempimento, nel
giorno in cui il credito sia certo, liquido
ed esigibile, risultando definiti e certi
tutti gli elementi dell'obbligazione. Per
tale via, prosegue il TAR da ultimo cit.,
quand’anche la convenzione non indichi un
termine di adempimento, deve riconoscersi la
possibilità di pretendere l’adempimento
soltanto a decorrere dalla scadenza del
termine decennale di validità della
convenzione, che segna il termine finale di
eseguibilità delle opere in essa previste”;
analogamente, nel senso di ritenere che il
privato vanti dieci anni di tempo per
l'esecuzione delle opere previste in
convenzione, per cui solo dalla scadenza
della convenzione medesima è possibile
verificare se le opere siano state o meno
eseguite ed il Comune ha titolo a richiedere
la cessione delle aree e l’adempimento di
tutte le obbligazioni previste dalla
convenzione: TAR Lombardia, Brescia,
28.11.2001 n. 1126; TAR Lombardia, Brescia,
n. 65/2003; TAR Campania, Napoli, sez. II,
n. 2773/2007; nello stesso senso, cfr. anche
la decisione del Consiglio di Giustizia
Amministrativa per la Regione Siciliana, del
14.12.2009, n. 1187, secondo cui
l’inadempimento si può dire definitivamente
concretato “solo al compimento del
termine decennale di durata della
convenzione e non già dal momento della
assunzione dell’obbligo. Pertanto, solo
dall’anzidetto momento dell’inadempimento
poteva decorrere l’ordinario termine di
prescrizione. Tale conclusione non può
essere vanificata dalla clausola dell’art. 4
della convenzione, il cui scopo era limitato
ed inteso ad altre finalità nel senso di
subordinare il rilascio del certificato di
abitabilità alla realizzazione delle opere
di urbanizzazione. Solo l’inadempimento
definitivo legittimava il Comune ad agire e,
pertanto, nel 1999 non erano ancora decorsi
i termini di prescrizione”).
Tanto premesso, il Collegio ritiene che -per
la soluzione del caso in esame- risulta
addirittura superfluo prendere posizione
sulla predetta questione, non essendo stata
fornita agli atti di causa la prova della
decorrenza del termine quadriennale di
adempimento di cui all’art. 9 cit.
A ben vedere, infatti, la disciplina del “termine
di adempimento” solo apparentemente
risulta ricavabile con certezza dalla cit.
clausola, posto che essa àncora la
decorrenza del predetto quadriennio ad un
termine incerto (ovvero: “dalla data
odierna e comunque prima della dichiarazione
di ultimazione lavori dei singoli edifici”).
In tal senso, è bene evidenziare come la
ridetta previsione debba essere coordinata
con quella contenuta negli artt. 3 e 4 della
medesima convenzione, i quali, per la
cessione, rispettivamente, delle aree per
urbanizzazioni primarie e di quelle per
urbanizzazioni secondarie, subordinano
l’adempimento alla preventiva richiesta
dell’ente locale (cfr. gli artt. 3 e 4 cit.,
ove si prevede che la cessione avvenga “su
richiesta dell’amministrazione”).
Sul punto, è utile richiamare la sentenza
della Cassazione civile, sez. III,
11.01.2006, n. 261, ove la S.C. ha
riconosciuto corretta l’impostazione seguita
dal giudice di merito che non aveva ritenuto
-in una convenzione di lottizzazione tra un
privato e un Comune- che il termine ultimo
entro il quale il privato si sarebbe dovuto
attivare per compiere le opere di
urbanizzazione fosse ricavabile da una
singola clausola che stabiliva un termine
massimo, ma ritenendo piuttosto necessario
procedere all'interpretazione complessiva
delle clausole negoziali, da cui si ricavava
che, alle opere di urbanizzazione, il
privato doveva provvedere via via che
nascevano gli insediamenti abitativi e,
comunque, prima della scadenza del termine
di efficacia della convenzione.
In definitiva, tenuto conto che,
anteriormente al decorso del termine
decennale di validità della convenzione
(sottoscritta il 14.12.1989 e, dunque, sino
al 14.12.1999) non è stata dimostrata la
produzione della dichiarazione di
ultimazione dei lavori, si deve ritenere che
il predetto termine di quattro anni non
abbia mai iniziato a decorrere.
Ciò, con l’ulteriore conseguenza che, non
essendo stata dimostrata l’avvenuta
decorrenza, anteriormente alla scadenza del
termine decennale di validità della
convenzione (come sopra desunto dagli artt.
16, 5° co. e 28, 5° co., della legge
17.08.1942 n. 1150, nonché dall’art. 46, co.
2°, della legge reg. Lombardia n. 12/2005 ),
del diverso termine di adempimento fissato
all’art. 9 della convenzione, si deve
ritenere che il dies a quo del
termine di prescrizione debba essere
individuato alla data del 14.12.1999, con
conseguente individuazione del dies ad
quem entro cui il Comune avrebbe potuto
richiedere l’adempimento delle obbligazioni
convenzionali alla data del 14.12.2009.
Consegue da ciò l’infondatezza della dedotta
prescrizione atteso che, già con nota del
12.05.2008, agli atti, il Comune risulta
avere esplicitamente richiesto alla società
l’assolvimento degli obblighi de quibus,
richiesta poi ribadita con la comunicazione
di avvio del 24.11.2009, qui gravata, con
cui l’ente resistente ha manifestato in modo
non equivoco la volontà di esercitare il
proprio diritto alla cessione delle aree
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.07.2011 n. 1760 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
L'interpretazione di un atto
amministrativo a contenuto non normativo,
risolvendosi nell'accertamento della volontà
della p.a., ovverosia di una realtà
fenomenica e obiettiva, è riservata al
giudice di merito ed è incensurabile in sede
di legittimità se sorretta da motivazione
adeguata e immune dalla violazione di quelle
norme che, dettate per l'interpretazione dei
contratti, sono applicabili anche agli atti
amministrativi, tenendo peraltro conto della
natura dei medesimi nonché dell'esigenza
della certezza dei rapporti e del buon
andamento della pubblica amministrazione.
Alle Norme tecniche di attuazione di un
Piano regolatore generale deve essere data
lettura sistematica, per cui ciascuna di
esse va interpretata nel contesto e
nell'insieme di riferimento, ed
un'interpretazione utile, per cui ciascuna
di esse deve essere intesa non solo in modo
che abbia un senso, ma anche, tra più
possibili significati, quello maggiormente
conforme a Costituzione, la quale impone
vincoli espliciti e puntuali alla
possibilità edificatoria dei suoli.
Secondo la Cassazione (Cassazione civile,
sez. III, 10.03.2011, n. 5700; Cassazione
civile, sez. lav., 23.07.2010, n. 17367) <<L'interpretazione
di un atto amministrativo a contenuto non
normativo, risolvendosi nell'accertamento
della volontà della p.a., ovverosia di una
realtà fenomenica e obiettiva, è riservata
al giudice di merito ed è incensurabile in
sede di legittimità se sorretta da
motivazione adeguata e immune dalla
violazione di quelle norme -in particolare,
gli art. 1362, comma 2, 1363 e 1366- che,
dettate per l'interpretazione dei contratti,
sono applicabili anche agli atti
amministrativi, tenendo peraltro conto della
natura dei medesimi nonché dell'esigenza
della certezza dei rapporti e del buon
andamento della pubblica amministrazione>>.
Inoltre (cfr. Cons. di Stato 10.03.1981 n.
248; TAR Puglia Lecce, sez. I, 13.05.2004,
n. 2890) “Alle Norme tecniche di
attuazione di un Piano regolatore generale
deve essere data lettura sistematica, per
cui ciascuna di esse va interpretata nel
contesto e nell'insieme di riferimento, ed
un'interpretazione utile, per cui ciascuna
di esse deve essere intesa non solo in modo
che abbia un senso, ma anche, tra più
possibili significati, quello maggiormente
conforme a Costituzione, la quale impone
vincoli espliciti e puntuali alla
possibilità edificatoria dei suoli”)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 05.07.2011 n. 1752 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La chiusura di un porticato
configura una ristrutturazione parziale.
Invero, la chiusura di un porticato,
ancorché parzialmente chiuso, determina una
maggiore volumetria rispetto alla situazione
immediatamente preesistente (così Cons.
Stato, Sez. V, 26.10.1998, n. 1554). Un
siffatto intervento non può pertanto
considerarsi come rivolto a conservare
l’organismo edilizio, ma configura una
ristrutturazione parziale.
Anche nella prospettiva dell’art. 3 della
l.r. Umbria 18.02.2004, n. 1, che rileva in
questa sede, l’intervento in questione non è
riconducibile tra gli “interventi di
restauro e di risanamento conservativo”,
di cui alla lett. c), ma tra gli “interventi
di ristrutturazione edilizia”, di cui
alla successiva lett. d) (in termini TAR
Umbria, 11.08.2006, n. 418) (TAR Umbria,
sentenza 04.07.2011 n. 192 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti
e presentazione delle offerte, al bando chi
non rispetta il bando!
La presentazione delle
offerte nei bandi di gara pubblici deve
essere effettuata secondo le indicazioni
richieste dal bando di gara; la ditta
partecipante rischia di essere estromessa
dalla gara qualora presenti le offerte con
caratteristiche non previste dal bando.
La questione.
I giudici amministrativi hanno affrontato un
caso molto particolare che però ci è utile
per comprendere l’argomento oggetto del
presente commento: come la presentazione
delle offerte nei bandi di gara devono
essere pedissequamente osservate dai
partecipanti all’appalto.
Il caso preso in esame dai giudici
amministrativi riguarda l’impugnazione, da
parte di una società, della comunicazione di
esclusione dalla gara per l'affidamento
della fornitura di sistemi, infrastrutture
tecnologiche e servizi per l'archivio
digitale e cartaceo di una provincia
pugliese; il motivo dell’esclusione è che il
plico dell'offerta tecnica non contiene il
CD con i files su PDF come espressamente
previsto a pena d’esclusione dal
disciplinare di gara.
Il disciplinare di gara, infatti, prevede
espressamente che “ai fini di una più
agevole consultazione, dovrà essere
consegnata a pena di esclusione una copia
dell'offerta tecnica in formato elettronico
PDF memorizzato su supporto non modificabile
(es. CD.R o DVD.R) includendo gli eventuali
allegati”.
La procedura semplificata.
Per la risoluzione del caso è stata attuata
la procedura semplificata di cui
all’articolo 60 del nuovo codice del
processo amministrativo. Il Codice del
processo amministrativo approvato con il
decreto legislativo 02.07.2010, n. 104,
conferma la cd. definizione del giudizio con
sentenza in forma semplificata, ovvero la
possibilità che il collegio definisca
direttamente la causa in sede di decisione
della domanda cautelare.
E si ha salvezza del diritto di ciascuna
delle parti di chiedere termini per proporre
motivi aggiunti, ricorso incidentale,
regolamento di giurisdizione o di
competenza. In tal caso, ove necessario, il
collegio dispone l’integrazione del
contraddittorio e fissa contestualmente la
data per il prosieguo della trattazione.
La mancanza di questa previsione era innanzi
avvertita quale problematica, in quanto la
decisione di definire il giudizio nel merito
da parte del giudice, non permetteva alla
parte di lamentare ulteriori profili
dell’atto, tramite ricorso incidentale o
proposizione di motivi aggiunti.
La decisione dei giudici
amministrativi.
I giudici amministrativi della Puglia
ritengono che il ricorso presentato dalla
ditta avverso l’esclusione dalla
partecipazione alla gara sia da respingere .
Le clausole del bando sono chiare e
inequivoche nel stabilire l'esclusione dalla
gara nell'ipotesi di mancata produzione del
CD, per cui non vi è spazio per una
qualsiasi interpretazione di tipo
teleologico in relazione al “principio
del favor partecipationis”.
La richiesta di produrre il CD, inserita
nella lex specialis, non è neppure
incongrua, illogica o sproporzionata: si
tratta del deposito di supporti informatici
di facile e corrente utilizzo (soprattutto
per una società che si occupa proprio di
elaborazione dati), che appare funzionale
allo scopo evidenziato nel capitolato (di
rendere la procedura di gara celere e
sicura, concretizzando così una delle
direttive ispiratrici della disciplina, sia
sostanziale sia processuale, degli appalti
pubblici), senza comportare alcun aggravio
significativo a carico della concorrente.
Il TAR della Puglia respinge il ricorso e
condanna la società esclusa dal bando di
gara al pagamento nei confronti della
provincia pugliese dell’importo di euro
5.000,00 maggiorate di CPI e IVA (commento
tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Bari,
Sez. I,
sentenza 01.07.2011 n. 1007 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Indennità
da esproprio e plusvalenze, nessun contrasto
con la Cedu.
In tema di imposte sui
redditi, la S.C. ha affermato che non
contrasta con l'art. 1 del Protocollo
Addizionale n. 1 alla Convenzione Europea
per la Salvaguardia dei diritto dell'Uomo e
delle Libertà Fondamentali,
l'assoggettamento a tassazione delle
plusvalenze conseguenti alla percezione di
indennità di esproprio.
In tema di imposte sui redditi, la S.C. ha
affermato che non contrasta con l'art. 1 del
Protocollo Addizionale n. 1 alla Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei diritto
dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali,
l'assoggettamento a tassazione delle
plusvalenze conseguenti alla percezione di
indennità di esproprio, ai sensi dell'art.
11, comma 5, L. 30.12.1991, n. 413, atteso
che il "giusto equilibrio" tra le
esigenze dell'interesse generale della
comunità e il requisito della salvaguardia
del diritto fondamentale di proprietà,
enunciato dall'art. 1 cit., riguarda la
disciplina delle ipotesi di ingerenza
dell'Ente Pubblico sulla proprietà privata e
del "quantum" da corrispondere in
tali casi al privato spogliato del suo
diritto di proprietà, mentre l'art. 11 cit.
attiene al momento successivo dell'esercizio
del potere impositivo dello Stato sui propri
contribuenti, cioè ad un ambito, quello
fiscale, del tutto distinto dagli aspetti
sostanziali-indennitari della vicenda
espropriativa.
Va ricordato che l'art. 1 del Protocollo n.
1 dispone: "Ogni persona fisica o
giuridica ha diritto al rispetto dei suoi
beni. Nessuno può essere privato della sua
proprietà se non per causa di utilità
pubblica e nelle condizioni previste dalla
legge e dai principi generali di diritto
internazionale. Le precedenti disposizioni
non portano pregiudizio al diritto degli
Stati di mettere in vigore le leggi da essi
ritenute necessarie per disciplinare l'uso
dei beni in modo conforme all'interesse
generale o per assicurare il pagamento delle
imposte o di altri contributi oppure di
ammende".
Ricorda la S.C. che la Corte Europea ha più
volte affermato che l'art. 1 del Protocollo
n. 1 contiene tre norme distinte: "la
prima norma, esposta nella prima frase del
primo paragrafo, è di natura generale ed
enuncia il principio del diritto al rispetto
dei beni; la seconda norma, contenuta nella
seconda frase del primo paragrafo, riguarda
la privazione dei beni a certe condizioni;
la terza norma, nel secondo paragrafo,
riconosce che gli Stati Contraenti hanno il
diritto, tra l'altro, di controllare l'uso
dei beni in modo conforme all'interesse
generale.... Tali norme non sono "distinte"
nel senso che non hanno un legame tra loro:
la seconda e la terza norma, relative a
particolari casi di ingerenza nel diritto al
rispetto dei beni, devono essere
interpretate alla luce del principio
contenuto nella prima norma" (cfr. James
e altri a Regno Unito, 21.02.1986, Serie A
n. 98, che in parte ripete i termini della
tesi della Corte in Sporrong e Lonnroth c.
Svezia, 23.09.1982, Serie A n.52, p 24; cfr.
anche The Holy Monasteries c. Grecia,
sentenza del 9 dicembre 1994, Serie A n.
301-A; Iatridis c. Grecia GC, n. 31107/1996,CEDU
1999-11; e Beyeler c. Italia GC, n,
33202/1996, CEDU 2000-1)".
Tra le varie decisioni viene ricordata, in
particolare, il noto Provvedimento del
29.03.2006 Grande Camera, caso: Scordino
contro Italia, Ricorso n. 36813/1997,
secondo cui "l'ingerenza nel diritto al
rispetto dei beni deve contemperare un
"giusto equilibrio" tra le esigenze
dell'interesse generale della comunità e il
requisito della salvaguardia dei diritti
fondamentali dell'individuo (cfr, tra altre
autorità Sporrong e Ldnnroth, cit. supra).
La preoccupazione di conseguire tale
equilibrio si riflette nella struttura
dell'art. 1, visto nella sua interezza, e
che comprende quindi la seconda frase che
deve essere letta alla luce del principio
generale enunciato nella prima frase. In
particolare, deve sussistere un ragionevole
rapporto di proporzionalità tra i mezzi
impiegati ed il fine che si cerca di
realizzare con qualsiasivoglia misura
applicata dallo Stato, comprese le misure
che privano una persona dei suoi beni (cfr.
Pressos Campania Naviera S. A. e altri e.
Belgio, sentenza 20.11.1995, Serie A n. 332;
L'ex re di Grecia e altri c. Grecia GC, n.
25701/1994; e Sporrong e Lonnroth, city
supra)".
In definitiva, quindi, la misura nazionale
(rispetto alla quale "lo Stato gode di un
ampio margine di discrezionalità sia nello
scegliere i mezzi di attuazione che
nell'accertare se le conseguenze derivanti
dall'attuazione siano giustificate
nell'interesse generale per il conseguimento
delle finalità della legge" - cfr.
Chassagnou e altri c. Francia GC, n.
25088/94, 28331/95 e 28443/95) deve
rispettare il giusto equilibrio richiesto e
non deve imporre un onere sproporzionato sui
ricorrenti (cfr. Jahn e altri c. Germania GC,
n. 46720/1999,72203/2001 e 72552/2001).
Sulla base di questi principi la Corte
esclude che la disciplina dell'art. 11 cit.
non può in alcun modo incidere sul "giusto
equilibrio", attenendo non certo ai
fondamentali momenti sopra enunciati, ma
solo al momento successivo dell'esercizio
del potere impositivo delle Stato sui propri
contribuenti. La norma stabilisce che le
somme costituenti plusvalenze (costituite
dai corrispettivi pagati al proprietario
-non imprenditore- di terreni aventi
determinate destinazioni urbanistiche sotto
forma di indennità di esproprio per cessione
volontaria in sede espropriativa o di
indennizzo per acquisizione coattiva,
conseguente ad occupazione d'urgenza
divenuta illegittima) siano (ovviamente e
regolarmente) tassate attraverso due
modalità, la cui scelta è rimessa al
contribuente: o quest'ultimo opterà per la
tassazione ordinaria, oppure l'ente erogante
opererà su dette plusvalenze una ritenuta
del venti per cento, a titolo d'imposta.
Ad avviso della S.C. appare chiaro che, in
entrambi i casi, è in discussione non il
principio di un risarcimento commisurato
alla restituito in integrum o quello
di un'indenità ragionevolmente rapportata al
valore dei beni, bensì la scelta operata
discrezionalmente e legittimamente dal
legislatore italiano sulle modalità
attraverso le quali tassare una plusvalenza
realizzata da un contribuente.
Cioè ad un ambito, quello fiscale, del tutto
distinto L'attinenza del "giusto
equilibrio" ai soli aspetti
sostanziali-indennitari della vicenda
espropriativa e la distinzione tra questi e
quello strettamente fiscale viene
riscontrata dalla S.C. alla luce delle
pronunce della Corte Costituzionale sulla
legittimità costituzionale dell'art. 11 cit.
(Sent. n. 283 del 1993 e n. 148 del 1999).
La sentenza ha poi precisato che il regime
fiscale in tema di plusvalenze realizzate
mediante percezione della indennità di
esproprio a seguito di una procedura di
espropriazione per pubblica utilità o di
cessione di terreni fabbricabili, opera "quale
che sia la finalità concreta -realizzazione
di un'opera pubblica o di un'opera di
pubblica utilità, categoria quest'ultima
nella quale rientrano gli insediamenti
produttivi e gli impianti industriali, pur
se realizzati da privati, previsti dagli
strumenti urbanistici- a cui la medesima
procedura sia preordinata.
Pertanto, attesa la irrilevanza sia del
titolo sia della finalità dell'opera che
realizza il trasferimento, la plusvalenza è
soggetta a tassazione tanto se il
trasferimento avviene a seguito di cessione
a titolo oneroso, riconducibile ad una
scelta libera ed autonoma del cedente,
quanto se il trasferimento avviene
forzosamente a seguito di espropriazione, di
cessione volontaria o di occupazione
appropriativa per la realizzazione di
un'opera pubblica o di pubblica utilità".
Nella specie la S.C. ha ritenuto applicabile
l'art. 11 cit. con riferimento alle
plusvalenze realizzate a seguito di
procedura espropriativa finalizzata alla
realizzazione di un P.I.P., in cui solo una
parte delle aree occupate era stata
destinata a infrastrutture urbane, mentre la
restante parte era stata destinata alla
successiva assegnazione in lotti ad imprese
private (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte di Cassazione, Sez. civile,
sentenza 30.06.2011 n. 14362). |
ENTI LOCALI: Enti
locali, no alla finanza creativa se manca la
copertura normativa.
Con la sentenza che si
presenta il giudice amministrativo si
pronuncia sulla possibilità o meno, per gli
enti locali, di prescrivere ai propri
cittadini particolari prestazioni
patrimoniali, esaminando, nel concreto, un
regolamento comunale che impone ai
concessionari di suolo pubblico la
corresponsione di somme per il "degrado del
suolo stradale", in aggiunta al canone per
l'occupazione e alle spese di risistemazione
del manto stradale.
In particolare, le norme regolamentari da
cui scaturisce la vicenda, consentono al
Comune di pretendere il pagamento di somme a
fronte dell'esecuzione d'interventi di
manomissione e di ripristino dei sedimi
stradali da parte dei soggetti erogatori di
pubblici servizi.
Il sistema tariffario è basato sulla zona
dell'intervento e il tipo di pavimentazione
e, inoltre, sono previste specifiche
sanzioni pecuniarie per l'inosservanza delle
disposizioni regolamentari.
In buona sostanza, dette previsioni
regolamentari, nelle parti di specifico
interesse, definiscono i presupposti e i
contenuti delle obbligazioni a carico dei
soggetti interessati al rilascio delle
concessioni di scavo, ovvero che sarebbero
incorsi nella violazione dei precetti
regolamentari.
Il contenzioso deciso dal giudice, prende
avvio dalle richieste di pagamento inviate
dal Comune a una società, attiva nel settore
delle comunicazioni elettroniche, che nel
territorio comunale aveva realizzato
infrastrutture costituite da condotti
predisposti per l'installazione di fibre
ottiche, provvedendo a interrarli lungo il
reticolo stradale urbano.
La società, destinataria delle predette
richieste di pagamento, le impugna,
travolgendo nel ricorso anche gli atti
presupposti (regolamento e relativa delibera
consiliare di approvazione).
Nella sentenza 30.06.2011, n. 708, il TAR
Piemonte-Sez. I, ritiene di accogliere le
doglianze della ricorrente e, in
particolare, la denunciata violazione
dell'art. 23 Cost., in quanto le vagliate
disposizioni regolamentari comunali, che
impongono ai concessionari la corresponsione
di somme per il degrado del suolo stradale
(in aggiunta al canone per l'occupazione del
suolo pubblico e alle spese di
risistemazione a carico del concessionario),
danno vita a veri e propri interventi
ablatori, in assenza della copertura
legislativa richiesta dalla previsione
costituzionale.
Infatti, il precetto contenuto nella
richiamata norma costituzionale, comporta
che le prestazioni patrimoniali imposte
dagli enti pubblici (non importa se di
natura tributaria o meno) devono essere
previamente contemplate in una fonte
legislativa di rango primario, mancante nel
caso di specie; peraltro, il TAR ricorda che
la giurisprudenza amministrativa formatasi
con precipuo riferimento alla materia degli
scavi per la realizzazione d'impianti di
telecomunicazione, ha costantemente
affermato la necessità di una disposizione
primaria che legittimi l'imposizione di
prestazioni patrimoniali ai soggetti
obbligati.
Da quanto sopra esposto, ne consegue
l'illegittimità delle impugnate previsioni
regolamentari, che prevedono il potere del
Comune d'imporre le prestazioni patrimoniali
in questione e relative al presunto degrado
del suolo pubblico cagionato dagli
interventi di posa di cavidotti, nonché
degli atti che ne hanno fatta applicazione
nel caso concreto, atteso che tali
previsioni configurano vere e proprie
prestazioni patrimoniali imposte, e non
semplici rimborsi o indennizzi da
corrispondersi per il ripristino del suolo
stradale manomesso, in quanto la stessa
previsione di un meccanismo ex ante di
rimborso delle spese ne rende evidente la
natura, non potendosi quantificare il costo
effettivo degli interventi di ripristino in
via presuntiva, ma solo a posteriori.
Secondariamente, il TAR ricorda la
previsione dell'art. 93, comma 1, D.Lgs.
01.08.2003, n. 259, secondo cui "Le
pubbliche amministrazioni, le regioni, le
province ed i comuni non possono imporre,
per l'impianto di reti o per l'esercizio dei
servizi di comunicazione elettronica, oneri
o canoni che non siano stabiliti per legge",
norma che ha reso esplicito, nella specifica
materia, il divieto posto a livello generale
dall'art. 23 Cost..
Il regolamento, approvato dal Comune quando
detta previsione legislativa era già in
vigore, viola apertamente tale divieto in
quanto, come già precisato, non prevede un
meccanismo di rimborso delle spese per la
risistemazione del suolo stradale, ma un
vero e proprio canone ex ante a carattere
tariffario.
La questione, peraltro, era già stata
esaminata dallo stesso giudice (Sent. n.
2362 dell'08.05.2010), affermando il
principio "per il quale il tassativo
disposto dell'art. 93, comma 2, D.Lgs. n.
259 del 2003 esclude la legittimità
dell'imposizione agli operatori di
telecomunicazione per gli interventi di
manomissione della sede stradale, di oneri
finanziari o reali diversi rispetto alla
tassa di occupazione di suolo pubblico e al
canone per l'occupazione di suolo o aree
pubbliche e, in particolare, di indennizzi
per il degrado e il deterioramento dei beni
demaniali".
Sulla base di tale principio, la cui
validità il TAR ritiene di dover confermare,
determina ancora una volta lo stesso giudice
ad accogliere la domanda d'annullamento
proposta in giudizio, poiché le impugnate
norme regolamentari contribuiscono a
disegnare, in violazione dell'art. 93,
D.Lgs. n. 259 del 2003, il sistema
tariffario relativo agli oneri per il
deterioramento generale della sede stradale.
Da ultimo, il TAR esamina la denunciata
violazione dell'art. 1, comma 1, L.
24.11.1981, n. 689 ("Nessuno può essere
assoggettato a sanzioni amministrative se
non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima della commissione della
violazione"), con riferimento alle somme
pretese dal comune a titolo d'ammenda, e
alle previsioni regolamentari che fondavano
l'esercizio del potere sanzionatorio
esercitato nella fattispecie, ritenendo
fondata anche questa censura, non rinvenendo
nella materia de qua una previsione
legislativa che, in ossequio al principio di
legalità fissato dalla richiamata norma,
legittimasse il Comune a imporre le sanzioni
congegnate a livello regolamentare, e così
imposte con una disposizione di carattere
autoritativo: conseguentemente, dispone
l'annullamento delle prescrizioni
regolamentari che hanno previsto il potere
sanzionatorio in questione, nonché degli
atti che ne hanno fatto puntuale
applicazione nei confronti della ricorrente.
E' di piena evidenza come tutti gli
ulteriori atti con cui è richiesto il
pagamento delle somme contabilizzate, ovvero
ne viene effettuato il sollecito, sono
affetti dagli stessi vizi che inficiano
quelli impugnati col ricorso principale, per
invalidità derivata dalle disposizioni
regolamentari che ne costituiscono il
presupposto, risultando meritevoli, perciò,
di annullamento.
Il monito che ci deriva dalla sentenza, può
essere riassunto nella massima secondo cui i
Comuni non possono imporre prestazioni
patrimoniali in assenza di una fonte
legislativa che lo consenta e, circa la
fattispecie esaminata, la pretesa
dell'Amministrazione al pagamento di somme a
titolo di ristoro del degrado del corpo
stradale, in quanto avente natura di
prestazione patrimoniale obbligatoriamente
imposta, è illegittima in quanto priva di
fondamento normativo (commento tratto da
www.ipsoa.it - TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 30.06.2011 n. 708 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’edificio oggetto di recupero
del sottotetto, pur rientrando in zona A di
PRG, è frontista di un edificio ricadente in
zona F2 posto a distanza inferiore a mt. 10
dal medesimo, e il DM 1444/1968 non prevede
deroga della distanza minima di mt. 10 dai
fabbricati se non esclusivamente nell’ambito
di pianificazione urbanistica ovvero
mediante l’approvazione di appositi piani
attuativi fra edifici omogenei.
- Il recupero di un sottotetto a fini
abitativi va considerato correttamente come
nuova costruzione ed è poi, comunque,
soggetto alla disciplina del D.M. 02.04.1968
n. 1444 in tema di distanze.
- Il problema relativo alla distanza tra
fabbricati si pone non fra immobili siti
entrambi in zona A, ma fra l’edificio del
ricorrente in zona A e altro sito in zona
F2. Ciò posto, se anche si ammettesse la
possibilità di una deroga alla norma
generale dell’art. 9 D.M. 1444/1968 per il
caso di nuove costruzioni che interessino la
sola zona A, detta deroga non si potrebbe
estendere al caso presente, di immobili siti
in zone diverse. A ciò osta in primo luogo
il carattere di norma imperativa del D.M.
1444/1968, che, come correttamente rilevato
dalla difesa comunale, ammette deroga solo
nell’ambito di una ragionata pianificazione
urbanistica. Osta poi in secondo luogo la
mancanza di identità fra i due casi: una
deroga interpretativa per la sola zona A
potrebbe giustificarsi in base all’esigenza
di preservare il carattere “spontaneo” dei
centri storici, cresciuti in aderenza fra i
vari edifici, esigenza non ricorrente nel
rapporto fra zone diverse.
Il provvedimento in epigrafe, prodotto in
copia dal ricorrente sub A, denega il
rilascio del richiesto permesso di costruire
“considerato che l’edificio oggetto
dell’intervento proposto, pur rientrando in
zona A di PRG, è frontista di un edificio
ricadente in zona F2 posto a distanza
inferiore a mt. 10 dal medesimo, e il DM
1444/1968 non prevede deroga della distanza
minima di mt. 10 dai fabbricati se non
esclusivamente nell’ambito di pianificazione
urbanistica ovvero mediante l’approvazione
di appositi piani attuativi fra edifici
omogenei”, deroghe tutte che, come
pacifico in causa, nella specie non
constano.
---------------
Il recupero di un sottotetto a fini
abitativi va considerato correttamente come
nuova costruzione, come risulta da C.d.S.
sez. V 24.02.1999 n. 195 nonché da TAR
Lombardia Milano sez. II 10.12.2010 n. 7505
e, nella giurisprudenza della Sezione, dalla
sentenza sez. I 29.09.2009 n. 1712, citata
anche dal ricorrente; è poi comunque
soggetto alla disciplina del D.M. 02.04.1968
n. 1444 in tema di distanze, così come
ritenuto da C.d.S. sez. V 19.10.1999 n.
1565, pure citata dal ricorrente.
---------------
Non appare pertinente al caso di specie la
questione relativa alla applicabilità del
limite di distanza di 10 metri per il caso
di nuove costruzioni anche al caso in cui
esse si collochino in zona A.
Infatti, come evidenzia il provvedimento
impugnato, il problema relativo alla
distanza si pone non fra immobili siti
entrambi in zona A, ma fra l’edificio del
ricorrente in zona A e altro sito in zona
F2. Ciò posto, se anche si ammettesse la
possibilità di una deroga alla norma
generale dell’art. 9 D.M. 1444/1968 per il
caso di nuove costruzioni che interessino la
sola zona A, detta deroga non si potrebbe
estendere al caso presente, di immobili siti
in zone diverse.
A ciò osta in primo luogo il carattere di
norma imperativa del D.M. 1444/1968, che,
come correttamente rilevato dalla difesa
comunale, ammette deroga solo nell’ambito di
una ragionata pianificazione urbanistica.
Osta poi in secondo luogo la mancanza di
identità fra i due casi: una deroga
interpretativa per la sola zona A potrebbe
giustificarsi in base all’esigenza di
preservare il carattere “spontaneo”
dei centri storici, cresciuti in aderenza
fra i vari edifici, esigenza non ricorrente
nel rapporto fra zone diverse
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 996 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
merito alla quantificazione della sanzione
pecuniaria ex art. 52, comma 2, L.R. 12/2005
(Qualora il mutamento di
destinazione d’uso senza opere edilizie,
ancorché comunicato ai sensi dell’articolo
52, comma 2, risulti in difformità dalle
vigenti previsioni urbanistiche comunali, si
applica la sanzione amministrativa
pecuniaria pari all’aumento del valore
venale dell’immobile o sua parte, oggetto di
mutamento di destinazione d’uso, accertato
in sede tecnica e comunque non inferiore a
mille euro), la
determinazione dell’entità della sanzione
pecuniaria, avvenuta utilizzando le
valutazioni tecniche effettuate
dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (O.M.I.)
tenuto dall’Agenzia del Territorio,
rappresenta espressione di discrezionalità
tecnica dell’amministrazione, che può essere
sindacata soltanto sotto l’aspetto
dell’attendibilità delle operazioni
tecniche, sotto il duplice profilo della
correttezza del criterio tecnico individuato
e della correttezza del procedimento
applicativo seguito dalla autorità per
l’applicazione dello stesso.
Il giudice è qui chiamato ad accertare non
se quella cui è giunta l'Amministrazione sia
l'unica soluzione possibile (perché il
carattere elastico ed opinabile dei
parametri utilizzati implica che non esiste
un unico risultato esatto), ma se quella
soluzione sia, pur nella sua fisiologica
opinabilità, tecnicamente attendibile.
Quanto al secondo motivo, lo stesso
ricorrente fa leva sulla violazione e falsa
applicazione dell’art. 53, co. II, L.R.
Lombardia n. 12/2005 e sull’eccesso di
potere per difetto di motivazione,
illogicità e difetto di istruttoria.
In particolare, in via subordinata
l’esponente si duole della quantificazione
della sanzione pecuniaria, che dovrebbe
essere operata secondo la tecnica
estimativa, con assoluta contestualità nella
individuazione dei valori iniziale e finale
e avendo presente come epoca di riferimento
quella della commissione dell’abuso. Nei
fatti, invece, l’amministrazione si sarebbe
limitata, in modo del tutto illegittimo, a
recepire le valutazioni espresse
dall’Agenzia delle Entrate, che, però, non
sarebbero rispondenti ai criteri della
corretta tecnica estimatoria, non essendo
stati precisati né i listini di riferimento,
né la tipologia di fabbricato cui è stato
attribuito il valore massimo e neppure
l’epoca di riferimento dei valori indicati.
La difesa esponente conclude, quindi,
richiedendo C.T.U. ai fini della
quantificazione di cui sopra.
...
La determinazione dell’entità della sanzione
pecuniaria, avvenuta utilizzando le
valutazioni tecniche effettuate
dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (O.M.I.)
tenuto dall’Agenzia del Territorio,
rappresenta espressione di discrezionalità
tecnica dell’amministrazione, che può essere
sindacata soltanto sotto l’aspetto
dell’attendibilità delle operazioni
tecniche, sotto il duplice profilo della
correttezza del criterio tecnico individuato
e della correttezza del procedimento
applicativo seguito dalla autorità per
l’applicazione dello stesso (cfr. la nota
decisione del Consiglio di Stato, sez. IV,
del 09.04.1999 n. 601 che, innovando
l’orientamento preesistente, ha riconosciuto
la possibilità di un sindacato “forte”
sulla discrezionalità tecnica).
In conformità della suesposta impostazione
si spiega l’attuale orientamento
giurisprudenziale che, a proposito del
sindacato giurisdizionale sulle valutazioni
connotate da discrezionalità tecnica,
ritiene che il giudice amministrativo possa
censurare dette valutazioni solo laddove
risultino tecnicamente inattendibili o
affette da evidenti illogicità (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 21.03.2011, n.
1699).
Detto in altri termini, il giudice è qui
chiamato ad accertare non se quella cui è
giunta l'Amministrazione sia l'unica
soluzione possibile (perché il carattere
elastico ed opinabile dei parametri
utilizzati implica che non esiste un unico
risultato esatto), ma se quella soluzione
sia, pur nella sua fisiologica opinabilità,
tecnicamente attendibile (cfr. Consiglio
Stato, sez. VI, 21.03.2011, n. 1712).
Ebbene, in relazione al caso che qui occupa,
il Collegio ritiene che il giudizio espresso
dall’Agenzia del Territorio non possa essere
considerato inattendibile, atteso che:
- promana da un soggetto avente personalità
giuridica di diritto pubblico a cui
istituzionalmente compete la “gestione
dell’osservatorio del mercato immobiliare e
di servizi estimativi che può offrire sul
mercato” (cfr. art. 4, lett. g, dello
Statuto definitivo, di cui al “Testo
deliberato nella riunione del Comitato
Direttivo del 13.12.2000, coordinato con le
modifiche ed integrazioni deliberate nella
riunione del Comitato Direttivo del
19.01.2001”);
- la determinazione del “valore
complementare”, ovvero dell’“aumento
di valore venale dell’immobile”
conseguente al cambio di destinazione d’uso,
effettuata sulla base dei listini
dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare,
tenuto dalla stessa Agenzia, risulta esente
da vizi sia con riguardo ai parametri
utilizzati che alla loro concreta
applicazione al caso che qui occupa.
In tal senso, giova considerare come i
valori risultanti dalla banca dati dell’O.M.I.
(che, stando alla giurisprudenza tributaria,
integrano presunzioni semplici - Cfr., al
riguardo, Comm. trib. prov.le Modena, sez.
IV, 20.04.2010, n. 84; Comm. trib. reg.
Bari, sez. VII, 01.09.2009, n. 96), non
risultano affatto smentiti dai dati forniti
da parte ricorrente, la quale, a ben vedere,
ne contesta soltanto l’applicazione fattane
dall’Agenzia, allorché:
- avrebbe attribuito un “basso valore
alla funzione uffici”;
- avrebbe attribuito un valore alla funzione
residenziale dei medesimi uffici diversa da
quella “normale”.
In realtà, sul primo aspetto, va rimarcato
come il valore attribuito dall’Agenzia, come
pure si evince dai listini depositati in
atti dalla stessa ricorrente, corrisponda a
quello degli uffici in ottimo stato
conservativo (sia pure individuato,
nell’intervallo tra una soglia minima e
massima, in prossimità della prima anziché
della seconda); quanto al secondo aspetto,
va precisato come sarebbe stato tutt’altro
che logico valutare, come vorrebbe
l’esponente, i medesimi immobili, in “ottimo
stato conservativo”, per la loro
quotazione come uffici (corrispondente alla
loro destinazione d’uso prima del mutamento)
e in “normale stato conservativo” per
la loro quotazione come residenza
(corrispondente a quella successiva al
mutamento stesso), al fine di assottigliare
il più possibile l’incremento di valore (cd.
valore complementare) derivante dalla
operazione in questione.
Non v’è dubbio, infatti, che il raffronto
debba essere operato fra i valori assegnati
agli immobili in relazione al medesimo stato
di conservazione, così come correttamente
operato da parte dell’amministrazione in
causa.
L’attendibilità, quindi, della stima –non
contraddetta da elementi in grado di
infirmarla (non ricavabili dai contratti di
compravendita prodotti dalla ricorrente, che
non risultano riferiti ad unità residenziali
di “eguali caratteristiche … ubicazionali”
a quelle di che trattasi)– esclude la
necessità di disporre, al riguardo, una
C.T.U
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 27.06.2011 n. 1730 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Mancata presentazione del
contratto di avvalimento: legittima
esclusione da gara.
La mancata produzione
del contratto di avvalimento, nell’ambito
della documentazione amministrativa da
presentare in sede di gara, legittima la
stazione appaltante alla esclusione del
concorrente inadempiente.
E’ questo il principio stabilito dal TAR
Toscana, Sez. I, con
sentenza 27.06.2011 n. 1110.
Nel caso di specie il ricorrente aveva
partecipato, in costituendo raggruppamento
di imprese, alla gara indetta per
l’affidamento dell’incarico di redazione del
Regolamento urbanistico e di costruzione del
SIT a supporto dell’atto di governo. In
assenza di produzione del contratto di
avvalimento, il ricorrente è stato escluso
dalla gara. Conseguentemente viene
contestata l’esclusione dalla gara, facendo
riferimento all’istituto dell’avvalimento in
ambito comunitario.
In particolare, il ricorrente sostiene che
tale istituto è funzionale a garantire la
massima partecipazione dei concorrenti alle
gare pubbliche e, pertanto, la stazione
appaltante avrebbe dovuto chiedere
chiarimenti in luogo di escludere il
concorrente sulla base della mancata
produzione del contratto di avvalimento.
Al contrario, osservano i giudici del TAR
Toscana, l’articolo 49 del Codice degli
appalti stabilisce che in caso di ricorso
all’istituto dell’avvalimento il concorrente
deve produrre una serie di documenti tra cui
“una dichiarazione sottoscritta
dall’impresa ausiliaria con cui quest’ultima
si obbliga verso il concorrente e verso la
stazione appaltante a mettere a disposizione
per tutta la durata dell’appalto le risorse
necessarie di cui è carente il concorrente”
(cfr. lett. d]) nonché “in originale o
copia autentica il contratto in virtù del
quale l’impresa ausiliaria si obbliga nei
confronti del concorrente a fornire i
requisiti e a mettere a disposizione le
risorse necessarie per tutta la durata
dell’appalto” (cfr. lett. f]).
Nel caso affrontato è di tutta evidenza che
la stazione appaltante nel disciplinare di
gara ha richiesto, oltre alla dichiarazione
sottoscritta dall’impresa ausiliaria, anche
il contratto in originale o in copia
autenticata. Altrettanto chiaro è che la
parte ricorrente non ha prodotto copia del
contratto, giacché si sostiene che lo stesso
è stato concluso in forma verbale e non era
quindi possibile produrne una copia
cartacea. Si sostiene altresì che comunque
la stazione appaltante avrebbe dovuto
ritenere sufficiente la dichiarazione
prodotta dalla ditta ausiliaria.
Richiamando, la giurisprudenza più recente
il TAR ha evidenziato la estrema importanza
della cognizione in sede di gara di tale
contratto anche al fine di poter esaminare
in concreto le pattuizioni stabilite tra le
parti e poter quindi appurare se dalle
stesse emerga una concreta cessione di mezzi
e risorse tra ausiliaria e concorrente, tale
da dare concretezza all’istituto dell’avvalimento
stesso (Cons. Stato, sez. III, 18.04.2011,
n. 2344).
La necessaria produzione in giudizio del
contratto di avvalimento appare quindi
tutt’altro che eccessiva o irrazionale e
comporta che gli accordi tra le parti in
tale materia dovranno senz’altro rivestire
una forma scritta, tale da poter essere
prodotti nella documentazione di gara. Deve
quindi evidenziarsi che, contrariamente a
quanto sostenuto in ricorso, la semplice
dichiarazione di impegno della ausiliaria a
fornire al concorrente quanto necessario per
l’esecuzione del contratto non può dirsi
sostituiva e assorbente rispetto alla
produzione del vero e proprio contratto di
avvalimento, giacché soltanto quest’ultimo
contiene le specifiche pattuizioni tra
impresa ausiliaria e concorrente e consente
quindi la verifica della serietà degli
impegni assunti dall’ausiliaria anche in
termini di messa a disposizione di mezzi e
risorse a favore dell’impresa che partecipa
alla gara.
Sulla base di queste valutazioni, il TAR
Toscana ha respinto il ricorso e condannato
il ricorrente al pagamento delle spese di
giudizio liquidate in € 2000 (link a
www.altalex.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La mera circostanza che la
commissione non sia composta almeno per un
terzo da donne non vizia le operazioni
concorsuali.
Con ricorso presentato nella pronuncia in
rassegna i ricorrenti avevano chiesto al
Tribunale di annullare, previa sospensione
dell’efficacia, la determina del Direttore
del Servizio Risorse Umane di un Comune
avente ad oggetto “Selezione pubblica a
15 posti di dirigente. Recepimento della
graduatoria finale”, la determina del
Direttore Generale di individuazione della
Commissione esaminatrice e della Segreteria
tecnica, il provvedimento contenente la loro
esclusione dalla prova orale e la
graduatoria finale degli idonei predisposta
dalla Commissione Giudicatrice, nonché tutti
gli atti preordinati, consequenziali e
comunque connessi del relativo procedimento,
ivi compresi gli atti di nomina dei
vincitori.
Non condivisibili, secondo il tribunale
amministrativo di Torino sono, tra le altre
contestazioni, le argomentazioni relative
alla pretesa violazione, sempre nella nomina
della Commissione, delle pari opportunità,
per la presenza, all’interno dell’organo
collegiale, solo di componenti di sesso
maschile: come evidenziato da costante
giurisprudenza, ricordano i giudici
torinesi, “la mera circostanza che una
commissione di concorso non sia composta
almeno per un terzo da donne (così come
prescritto dall'art. 9, comma 2, d.P.R n.
487 del 1994) non esplica di per sé effetti
vizianti delle operazioni concorsuali: tale
violazione, infatti, è rilevante soltanto in
presenza di una condotta discriminatoria del
collegio in danno dei concorrenti di sesso
femminile” (Cons. St., sez. VI,
27/12/2006, n. 7962; Cons. St., sez. V,
23/10/2007 n. 5572; TAR Campania, Napoli,
sez. III, 03/02/2010 n. 558).
Nella vicenda in commento, concludono i
giudici sabaudi, di una simile condotta,
anche alla luce dei risultati della
selezione, che hanno visto l’affermazione di
numerose concorrenti nelle prime posizioni
della graduatoria, non si riscontra, in
verità, alcun concreto indizio nella
procedura oggetto di causa (commento tratto
da www.documentazione.ancitel.it - TAR Piemonte,
Sez. II,
sentenza
26.06.2011 n.
677 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Responsabile
il lavoratore per l'imprudente violazione di
idonee misure di sicurezza.
Sussiste continuità
normativa tra l'art. 34, lett. b), del
d.P.R. n. 547/1955 e l'All. IV del D.Lgs. n.
81/2008 che vieta, nelle aziende o
lavorazioni in cui esistono pericoli
specifici di incendio, l'uso di apparecchi a
fiamma libera e di manipolare re materiali
incandescenti, a meno che non siano adottate
misure di sicurezza; in caso di violazione
del predetto divieto, risponde della
relativa violazione non soltanto il datore
di lavoro, ma anche il lavoratore che operi
imprudentemente violando idonee misure di
sicurezza.
Interessante sentenza quella qui esaminata
con cui la Corte si pronuncia, per la prima
volta dopo l'entrata in vigore del D.Lgs.
09.04.2008, n. 81, sulla questione relativa
alla configurabilità di una peculiare
fattispecie penale contemplata in materia di
disciplina dei luoghi di lavoro e,
soprattutto, sull'addebitabilità della
stessa, oltre che al datore di lavoro, anche
ai lavoratori dipendenti che imprudentemente
non osservano i divieti imposti dalla legge.
La Corte, nel risolvere la questione, si
pronuncia affermativamente sul primo
quesito, ritenendo esistente una successione
di leggi penali che non ha comportato alcun
effetto abrogativo della fattispecie
esaminata e, quanto al secondo quesito, ha
esteso l'ascrivibilità soggettiva del fatto
anche al lavoratore che imprudentemente non
abbia osservato quanto richiesto dalla
normativa a tutela della propria ed altrui
incolumità fisica.
Il caso.
La vicenda processuale che ha offerto
l'occasione agli Ermellini per occuparsi
della questione traeva origine da una
sentenza di condanna di un lavoratore che,
alle dipendenze di una S.n.c., effettuava
lavori di saldatura elettrica su tubazioni
facenti parte di un impianto di
distribuzione stradale gpl, senza adottare
idonee misure di sicurezza atte ad evitare
pericoli di incendio o di propagazione
fiamme.
Riteneva, in particolare, il Tribunale che
la responsabilità dell'imputato emergesse in
modo inequivocabile dalle risultanze
processuali, avendo egli agito con
grossolana imprudenza e senza adottare le
necessarie precauzioni, pur svolgendosi
l'attività di saldatura nelle vicinanze di
un serbatoio di GPL.
Il ricorso.
Resisteva alla condanna la difesa
dell'operaio contestando, da un lato, il
fatto che il Tribunale non avesse tenuto
conto che, a seguito dell'entrata in vigore
del D.Lgs. n. 81/2008, la violazione
contestata non costituisse per i lavoratori
subordinati un'ipotesi di reato: il nuovo
T.U.S., a dire della difesa, avrebbe infatti
abrogato il d.P.R. n. 547/1955 e la condotta
contestata sarebbe sanzionata penalmente
solo se attribuibile a soggetti diversi dal
lavoratore subordinato (v. artt. 63 e 68,
all. 4, D.Lgs. n. 81/2008); dall'altro,
contestava la sussistenza della violazione
ipotizzata, essendo emerso dall'istruttoria
dibattimentale che l'imputato non aveva
usato fiamme libere e tanto meno manipolato
materiali incandescenti.
Le cause dell'infortunio occorso al collega
di lavoro, a giudizio della difesa,
esulavano completamente dall'oggetto della
contestazione, sicché il Tribunale avrebbe
omesso di accertare se la saldatura
elettrica fosse sussumibile nell'ipotesi
prevista dall'art. 34 d.P.R. n. 547/1955.
Tale norma, oggi abrogata, non vietava l'uso
di scintille ma l'uso di fiamme libere: in
sintesi, nella motivazione il tribunale non
avrebbe spiegato perchè l'utilizzo di
scintille o la saldatura elettrica fossero
sussumibili nell'ipotesi contravvenzionale
contestata.
La decisione della
Cassazione.
La Corte di Cassazione, pur annullando senza
rinvio per prescrizione la sentenza di
condanna ritenendo che in relazione al reato
di pericolo contestato occorresse accertare
se la saldatura elettrica potesse essere
sussunta nelle ipotesi previste dalla norma,
ha colto l'occasione per fare chiarezza sui
nodi principali della vicenda.
Anzitutto, evidenzia la Cassazione come il
nuovo T.U.S. che ha abrogato il d.P.R.
27.04.1955, n. 547, prevede oggi all'all. 4
una disposizione identica all'art. 34, lett.
b), del decreto abrogato ("4.1 nelle
aziende o lavorazioni in cui esistono
pericoli specifici di incendio: 4.1.2 è
vietato usare apparecchi a fiamma libera e
manipolare materiali incandescenti, a meno
che non siano adottate misure di sicurezza").
Non può però sostenersi, come fa invece la
difesa, che tale norma sia sanzionata
penalmente solo quando la violazione sia
commessa dai datori di lavoro. Ed invero,
precisano gli Ermellini, pur essendo vero,
da un lato, che l'art. 63, comma 1, T.U.S.
prevede che i luoghi di lavoro debbano
essere conformi ai requisiti indicati
nell'allegato 4 e che, dall'altro, l'art. 64
prevede che tale obbligo gravi sul datore di
lavoro prevedendosi, in caso di mancata
ottemperanza, l'applicazione di una sanzione
penale a suo carico (art. 68); è, tuttavia,
altrettanto vero che lo stesso T.U.S.
contempla, all'art. 59 (come sostituito dal
D.Lgs. 03.08.2009, n. 106, art. 36) sanzioni
penali anche per i lavoratori "per la
violazione dell'articolo 20 comma 2 lettera
b), c), d), e), f), g), h) ed i), e articolo
43, comma 3, primo periodo".
Orbene, tra le violazioni sopra indicate
rientrano, per i giudici di Piazza Cavour,
anche quelle riguardanti la osservanza delle
disposizioni e delle istruzioni ai fini
della protezione collettiva ed individuale,
la corretta utilizzazione delle attrezzature
di lavoro, delle sostanze e dei preparati
pericolosi, nonché dei dispositivi di
sicurezza, e la utilizzazione in modo
appropriato dei dispositivi di protezione.
Poiché, dunque, al lavoratore era stato
addebitato di aver operato imprudentemente
in violazione di idonee misure di sicurezza,
vi è "continuità normativa" con la
previgente disciplina e sicura ascrivibilità
soggettiva del fatto sia al lavoratore
dipendente che al datore di lavoro.
Non può che convenirsi con
la soluzione cui è pervenuta la Suprema
Corte.
Sull'esistenza di un rapporto di continuità
normativa tra le disposizioni in materia di
luoghi di lavoro dettate dall'abrogato
d.P.R. n. 547/1955 e quelle contenute nel
nuovo D.Lgs. n. 81/2008 si è già, peraltro,
pronunciata più volte la Corte (v., ad es.:
Cass. pen., Sez. 3, n. 23976 del 07/05/2009,
dep. 11/06/2009, imp. P.M. in proc. D., in
Ced Cass. 244083, sulla continuità normativa
tra l'art. 8 dell'abrogato d.P.R. n. 547 e
la nuova fattispecie prevista dal combinato
disposto degli artt. 63, 64 e 68, lett. b),
in relazione all'All. IV, punto 1.4.1,
D.Lgs. n. 81 del 2008; Sez. 3, n. 17218 del
03/03/2009, dep. 23/04/2009, imp. G., in Ced
Cass. 243756, sulla continuità normativa tra
l'art. 34 del d.P.R. n. 547 del 1955 e gli
artt. 63 e 64 del D.Lgs. n. 81 del 2008,
riguardanti le misure necessarie ai fini
della prevenzione incendi).
Quanto, poi, alla responsabilità del
lavoratore per l'imprudente violazione di
norme di sicurezza, non v'è dubbio che, in
generale, l'art. 20 T.U.S., nel declinare
gli obblighi dei lavoratori, impone a
quest'ultimo di "prendersi cura della
propria salute e sicurezza e di quella delle
altre persone presenti sul luogo di lavoro,
su cui ricadono gli effetti delle sue azioni
o omissioni, conformemente alla sua
formazione, alle istruzioni e ai mezzi
forniti dal datore di lavoro",
dettagliando al comma 2 gli obblighi
specifici su ciascun dipendente incombenti,
tra cui rientrano quelli di "utilizzare
correttamente le attrezzature di lavoro, le
sostanze e i preparati pericolosi, i mezzi
di trasporto, nonché i dispositivi di
sicurezza" (lett. c), di "utilizzare
in modo appropriato i dispositivi di
protezione messi a loro disposizione" (lett.
d) ed, infine, di "non compiere di propria
iniziativa operazioni o manovre che non sono
di loro competenza ovvero che possono
compromettere la sicurezza propria o di
altri lavoratori" (lett. g).
L'osservanza di detti obblighi, oltre ad
essere penalmente sanzionata, costituisce un
utile parametro di riferimento normativo
della loro condotta (commento tratto da
www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez.
penale, sentenza 23.06.2011 n. 25205). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire -
Difformità totale - Nozione - Presupposti -
Art. 44, lett. c), DPR 380/2001.
La difformità totale di un manufatto dalla
concessione edilizia si delinea allorché le
modifiche comportino un'alterazione del
progetto originario nelle sue
caratteristiche essenziali di struttura,
aspetto estetico, architettura, destinazione
e, nel caso in cui vengano realizzati volumi
edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto, allorquando i volumi realizzati in
eccesso costituiscano un organismo edilizio
o parte di esso con specifica rilevanza ed
autonomamente utilizzabile (Cass. Sez. 3, n.
3350 del 29/01/2004, Lasi).
In conclusione, la totale difformità non
coincide solo con la modifica volumetrica
del manufatto rispetto a quanto assentito.
Errore tecnico -
Vigilanza sulla conformità dell'opera -
Obblighi e responsabilità del committente -
Fattispecie.
In edilizia, l'obbligo di esercitare la
dovuta vigilanza sulla conformità dell'opera
alla legge fa carico al committente
dell'opera stessa. Né può essere invocato
l'errore tecnico, quale elemento viziante
della conoscenza, e quindi della
volontarietà del fatto.
Nel caso di specie, lo spostamento della
collocazione del manufatto da realizzare fu
decisa dalla stessa committente, la quale
non poteva certo ignorare lo stato dei
luoghi e comunque era tenuta a controllare
in corso d'opera quanto era facilmente
visibile, senza necessità di uno specifico
expertise (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 23.06.2011 n. 25191 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sagoma di un edificio - Nozione.
Per sagoma di un edificio si deve fare
riferimento alla conformazione
planivolumetrica della costruzione ed al suo
perimetro inteso sia in senso verticale sia
orizzontale (Cass. Sez. 3, n. 8081 del
15/07/1994, Soprani) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 23.06.2011 n. 25191 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Risarcimento dei danni - Parte
civile - Presupposti - Onere della prova -
Esclusione - Accertamento sulla misura ed
esistenza del danno - Giudice della
liquidazione - Competenza.
In materia di risarcimento dei danni, ai
fini della pronuncia di condanna generica in
favore della P.C. non è necessario che il
danneggiato provi la effettiva sussistenza
dei danni ed il nesso di causalità tra
questi e l'azione dell'autore dell'illecito,
essendo sufficiente l'accertamento di un
fatto potenzialmente produttivo di
conseguenze dannose.
La suddetta pronuncia infatti costituisce
una mera declaratoria juris da cui
esula ogni accertamento relativo sia alla
misura sia alla stessa esistenza del danno,
il quale è rimesso al giudice della
liquidazione (così, Sez. 6, n. 12199 del
29/03/2005, Molisso) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 23.06.2011 n. 25191 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Difformità totale.
La difformità totale di un manufatto dalla
concessione edilizia si delinea allorché le
modifiche comportino un’alterazione del
progetto originario nelle sue
caratteristiche essenziali di struttura,
aspetto estetico, architettura, destinazione
e, nel caso in cui vengano realizzati volumi
edilizi oltre i limiti indicati nel
progetto, allorquando i volumi realizzati in
eccesso costituiscano “un organismo
edilizio o parte di esso con specifica
rilevanza ed autonomamente utilizzabile”.
Pertanto, la totale difformità non coincide
solo con la modifica volumetrica del
manufatto rispetto a quanto assentito (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.06.2011 n.
25191 - tratto da
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Società in nome
collettivo.
La responsabilità per le violazioni
contravvenzionali commesse nell’ambito di
una società in nome collettivo grava su
ciascun socio in quanto titolare del
diritto-dovere di amministrare, essendo
irrilevante l’esercizio di fatto di mansioni
diverse da parte dei singoli soci
(fattispecie in tema di rifiuti) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2011 n. 25045 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Concorso nel reato
dell’appaltatore.
In materia di rifiuti il committente dei
lavori edili e il direttore del lavori non
possono essere ritenuti responsabili a
titolo di concorso con l’appaltatore per la
raccolta e lo smaltimento abusivi del
rifiuti non pericolosi connessi all’attività
edificatoria: infatti nessuna fonte legale,
né scaturente da norma extrapenale, né da
contratto, pone in capo a tali soggetti
l’obbligo di garanzia in relazione
all’interesse tutelato ed il correlato
potere giuridico di impedire che
l’appaltatore commetta il reato di abusiva
gestione dei rifiuti (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 22.06.2011 n. 25041 - tratto
da www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ruscellamento liquami.
In assenza di una condotta di scarico, le
acque reflue devono qualificarsi rifiuti
liquidi il cui versamento sul suolo ovvero
la cui immissione in acque superficiali o
sotterranee, senza autorizzazione, è
sanzionata penalmente dall’art. 256, commi 1
e 2, del D.Lv. 152/2006 (fattispecie in tema
di "ruscellamento") (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2011 n.
25037 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è necessaria la presentazione
della scia per l’adeguamento di un impianto
radioelettrico preesistente.
Nella pronuncia in rassegna il titolare di
un impianto di telefonia GSM regolarmente
autorizzato, ubicato in un Comune lombardo,
ha presentato allo stesso Ente una DIA, ai
sensi dell’art. 87-bis del Codice delle
Comunicazioni, al fine di adeguarlo alle più
moderne tecnologie. Dopo aver ricevuto la
nota con cui il Responsabile dello Sportello
Unico del Comune ha comunicato che
l’intervento denunciato non sarebbe più
soggetto a DIA ma a SCIA, ritenendo l’atto
illegittimo, la società lo ha impugnato
deducendo violazione di legge ed eccesso di
potere sotto diversi profili.
I giudici del Tribunale amministrativo di
Brescia, accogliendo il ricorso, ricordano
che la materia delle telecomunicazioni è
disciplinata dal Testo Unico approvato con
D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, cosiddetto Codice
delle Comunicazioni Elettroniche, il quale
all’art. 4, tra gli obiettivi generali della
disciplina, prevede la promozione della
semplificazione dei procedimenti
amministrativi e la partecipazione ad essi
dei soggetti interessati, attraverso
l'adozione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti nei confronti
delle imprese che forniscono reti e servizi
di comunicazione elettronica.
Nell’ottica della semplificazione, spiegano
i giudici lombardi, per evitare il
proliferare di reti di telefonia, il
legislatore, in sede di conversione del D.L.
25.03.2010, n. 40, è intervenuto, con la L.
22.05.2010, n. 73, aggiungendo al corpo del
Decreto l’art. 5-bis, con cui è stato
inserito nel Codice delle Comunicazioni
Elettroniche l’art. 87-bis a mente del quale
“Al fine di accelerare la realizzazione
degli investimenti per il completamento
della rete di banda larga mobile, nel caso
di installazione di apparati con tecnologia
UMTS, sue evoluzioni o altre tecnologie su
infrastrutture per impianti radioelettrici
preesistenti o di modifica delle
caratteristiche trasmissive, fermo restando
il rispetto dei limiti, dei valori e degli
obiettivi di cui all'articolo 87 nonché di
quanto disposto al comma 3-bis del medesimo
articolo, è sufficiente la denuncia di
inizio attività, conforme ai modelli
predisposti dagli enti locali e, ove non
predisposti, al modello B di cui
all'allegato n. 13. Qualora entro trenta
giorni dalla presentazione del progetto e
della relativa domanda sia stato comunicato
un provvedimento di diniego da parte
dell'ente locale o un parere negativo da
parte dell'organismo competente di cui
all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n.
36, la denuncia è priva di effetti”.
Detta norma è entrata in vigore, in uno con
la legge di conversione n. 73/2010, il
26.05.2010.
A distanza di circa due mesi il D.L.
31.05.2010, n. 78 (Manovra economica), con
l’art. 49, comma 4-bis ha sostituito l'art.
19 della legge 07.08.1990, n. 241, con
l’art. 19 (Segnalazione certificata di
inizio attività - SCIA). Dopo alcune
iniziali incertezze interpretative è
intervenuto il Ministro per la
Semplificazione, con la nota P.C.M. del
16.09.2010, chiarendo che la S.C.I.A. deve
ritenersi applicabile al T.U. dell’edilizia
n. 380/2001, mediante il meccanismo della
sostituzione automatica di norme; osservano
i giudici bresciani, tuttavia, come identico
discorso non possa farsi per il Codice delle
Comunicazioni Elettroniche in quanto la
disciplina in esso contenuta si pone in
rapporto di specialità rispetto al Testo
unico dell’Edilizia.
In proposito deve ribadirsi la sostanziale
esigenza di semplificazione sottesa a tale
disciplina, che risulterebbe vanificata
dall’applicabilità della SCIA, richiamandosi
quanto affermato dal Giudice delle Leggi
nella pronuncia n. 223/2005 laddove afferma
che la disposizione che ammette la
formazione del titolo per silentium
prevede moduli di definizione del
procedimento, informati alle regole della
semplificazione amministrativa e della
celerità, espressivi in quanto tali di un
principio fondamentale di diretta
derivazione comunitaria. In altri termini,
la disciplina dettata dal D.Lgs. 259/2003
costituisce normativa speciale e, come tale,
non suscettibile di essere modificata da
quella generale dettata dal T.U.
dell'edilizia.
La compiutezza della suddetta disciplina
speciale induce a ritenere che i titoli
abilitativi da esso previsti (autorizzazione
e denuncia di inizio attività) malgrado la
identità del nomen con gli istituti
previsti dal T.U. dell'edilizia, siano
provvedimenti del tutto autonomi che
assolvono integralmente le esigenze proprie
delle telecomunicazioni e quelle
territoriali alla cura degli enti locali,
come è desumibile dalla singolarità del
procedimento, dalla qualificazione di opere
di urbanizzazione primaria, nonché dalla
necessità cui è finalizzata la disciplina
del D.Lgs. 259/2003 di semplificare
l'attività edilizia relativa alle
infrastrutture di comunicazione elettronica
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2010, n.
4557; v. anche TAR Lazio Roma, sez. II,
19.07.2006, n. 6056) (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza
22.06.2011 n. 1660 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulle condizioni che devono
sussistere affinché una società capogruppo
possa essere chiamata a rispondere di
responsabilità amministrativa, ai sensi del
d.lgs. n. 231 del 2001.
Una società capogruppo può essere chiamata a
rispondere, ai sensi del d.lgs. n. 231 del
2001, per il reato commesso nell'ambito
dell'attività di altra società del gruppo,
purché nella sua consumazione concorra una
persona fisica che agisca per conto della
holding perseguendo anche l'interesse di
quest'ultima (Corte di Cassazione, Sez. V
penale,
sentenza 20.06.2011 n. 24583 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Gestione dei rifiuti, il titolare
risponde per il fatto del dipendente.
Risponde del reato di
gestione non autorizzata dei rifiuti (art.
256, comma 1, D.Lgs. 03.04.2006, n. 152) il
titolare, legale rappresentante, della ditta
per conto della quale viene svolta
l'attività illecita, a nulla rilevando che
egli fosse stato assente il giorno di
commissione dell'illecito ne' che sul luogo
fosse presente un suo dipendente.
La sentenza in esame offre un'utile
occasione alla Suprema Corte per soffermarsi
sul tema della ripartizione delle
responsabilità penali tra i soggetti
dell'impresa con riferimento al reato di
gestione non autorizzata di rifiuti,
contemplato dall'art. 256, comma 1, del
D.lgs. 03.04.2006, n. 152.
La Corte, nel ripercorrere l'evoluzione
giurisprudenziale formatasi sotto la vigenza
del T.U.A., ribadisce –attualizzandolo alle
modifiche introdotte con il recente D.Lgs.
n. 205/2010– che in tema di gestione dei
rifiuti, le responsabilità per la sua
corretta effettuazione, in relazione alle
disposizioni nazionali e comunitarie gravano
su tutti i soggetti coinvolti nella
produzione, distribuzione, utilizzo e
consumo dei beni dai quali originano i
rifiuti stessi, e le stesse si configurano
anche a livello di semplice istigazione,
determinazione, rafforzamento o
facilitazione nella realizzazione degli
illeciti.
Il concetto di “coinvolgimento”
trovava specificazione nelle disposizioni
poste dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 10 ed
attualmente D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 188
(fatte salve le ipotesi di concorso di
persone nel reato), ma anche la mera
osservanza delle condizioni di cui all'art.
10 non vale ad escludere le responsabilità
dei detentori e/o produttori di rifiuti
allorquando costoro si siano resi
responsabili di comportamenti materiali o
psicologici tali da determinare una
compartecipazione, anche a livello di
semplice facilitazione, negli illeciti
commessi dai soggetti dediti alla gestione
dei rifiuti. I principi sopra richiamati
risultano, infatti, per la Corte,
sostanzialmente ribaditi anche allo luce del
D.L.vo 03.12.2010, n. 205 (artt. 2 e 16).
Il caso.
La vicenda processuale che ha offerto alla
Corte l'occasione per ribadire la linea
giurisprudenziale di legittimità formatasi
sotto la vigenza del decreto Ronchi, vedeva
imputato il socio accomandatario, quale
legale rappresentante ex lege, di una
società esercente attività di raccolta,
smaltimento e stoccaggio di rifiuti speciali
non pericolosi misti, provenienti da
attività di rifacimento del manto stradale,
contenenti scarti di cemento, bitume
catramato e terriccio, in mancanza della
prescritta autorizzazione.
Secondo il giudice di merito, risultava
provata l'attività illecita riguardante i
rifiuti non pericolosi e, per quanto qui di
interesse, del relativo reato doveva essere
chiamato a rispondere il titolare della
società, essendo l'attività della stessa
riconducibile al medesimo né risultando che
nell'ambito aziendale fosse stata rilasciata
una valida delega di funzioni ad altri
soggetti.
Il ricorso.
Resisteva alla sentenza di condanna la
difesa dell'imputato. In particolare,
riteneva che la condanna fosse fondata
esclusivamente sulla veste legale di
amministratore ex lege della S.a.s.,
non potendo a lui muoversi alcun addebito
personale, in quanto, da un lato, egli non
aveva effettuato il trasporto e, dall'altro,
non risultava aver impartito direttive.
Inoltre, aggiungeva la difesa, il reato
contestato (art. 256, comma 1, D.Lgs. n.
152/2006), a differenza di quello previsto
dal comma 2 della citata norma, è reato
comune a condotta attiva e non un reato
proprio dell'imprenditore o del responsabile
dell'Ente.
Diversamente, secondo la difesa, risultava
che il formulario di trasporto rifiuti era
stato predisposto da un dipendente della
società, mentre il titolare della stessa si
trovava fuori sede, a tal fine contestando
la circostanza che nessun addebito fosse
stato a lui mosso né a titolo di concorso
nel reato né fosse stata individuata una
posizione di garanzia.
La decisione della
Cassazione.
La Corte di Cassazione, nel rigettare il
ricorso, ha ritenuto del tutto sfornita di
pregio giuridico la tesi sostenuta dalla
difesa, procedendo ad attualizzare i
principi elaborati dalla giurisprudenza di
legittimità in materia, alla nuova
disciplina dettata dal T.U.A. come
modificato dal D.Lgs. n. 205/2010.
La norma contestata, com'è noto, è
costituita dall'art. 256, comma 1, del
T.U.A. che, sotto la rubrica "Attività di
gestione di rifiuti non autorizzata",
punisce come reato contravvenzionale la
condotta di «Chiunque effettua una
attività di raccolta, trasporto, recupero,
smaltimento, commercio ed intermediazione di
rifiuti in mancanza della prescritta
autorizzazione, iscrizione o comunicazione».
Il comma 2 della disposizione in esame,
richiamato dalla difesa del ricorrente,
punisce con le stesse sanzioni indicate dal
comma 1, i «titolari di imprese ed ai
responsabili di enti che abbandonano o
depositano in modo incontrollato i rifiuti
ovvero li immettono nelle acque superficiali
o sotterranee in violazione del divieto di
cui all'articolo 192, commi 1 e 2».
Sembrerebbe, quindi, che solo nelle ipotesi
del comma 2 e non in quelle del comma 1
debba venire in rilievo la responsabilità
penale del titolare dell'impresa o
dell'ente, soggetti espressamente richiamati
dalla stessa fattispecie penale quali
responsabilità del reato di abbandono o
deposito incontrollato di rifiuti. Può
dunque fondatamente ritenersi che, per i
reati previsti dal comma 1, debba escludersi
la responsabilità del titolare dell'impresa
nei casi in cui la commissione dell'illecito
penale sia, nella sua materialità,
ascrivibile ad un dipendente?
La risposta fornita dai
giudici di Piazza Cavour è, correttamente,
negativa.
Ed infatti, come ricordato dagli Ermellini
nella sentenza qui esaminata, in tema di
gestione dei rifiuti le responsabilità per
la sua corretta effettuazione, in relazione
alle disposizioni nazionali e comunitarie
gravano su tutti i soggetti coinvolti nella
produzione, distribuzione, utilizzo e
consumo dei beni dai quali originano i
rifiuti stessi, e le stesse si configurano
anche a livello di semplice istigazione,
determinazione, rafforzamento o
facilitazione nella realizzazione degli
illeciti.
Il concetto di “coinvolgimento”
trovava, infatti, specificazione nelle
disposizioni poste dall'art. 10
dell'abrogato decreto Ronchi (D.Lgs. n. 22
del 1997) ed, attualmente, dall'art. 188 del
D.Lgs. n. 152/2006 (fatte salve le ipotesi
di concorso di persone nel reato), ma anche
la mera osservanza delle condizioni di cui
all' art. 10 non valeva ad escludere l
responsabilità dei detentori e/o produttori
di rifiuti allorquando costoro si fossero
resi responsabili di comportamenti materiali
o psicologici tali da determinare una
compartecipazione, anche a livello di
semplice facilitazione, negli illeciti
commessi dai soggetti dediti alla gestione
dei rifiuti (v., tra le tante: Cass. pen.,
Sez. 3, n. 7746 del 27/11/2003, dep.
24/02/2004, imp. T. e altro, in Ced Cass.
227400; Sez. 3, n. 32338 del 12/06/2007,
dep. 09/08/2007, imp. P., in Ced Cass.
237820).
I principi sopra richiamati, ricorda la
Corte, risultano sostanzialmente ribaditi
anche allo luce del D.L.vo 03.12.2010, n.
205 (artt. 2 e 16). Ed infatti, da un lato,
mentre l'art. 2 apporta modifiche all'art.
178 del T.U.A. che fissa i principi
applicabili in tema di gestione dei rifiuti,
dall'altro, l'art. 16 apporta modifiche, per
quanto qui di interesse, all'art. 188 T.U.A.
che riguarda la responsabilità della
gestione dei rifiuti. Le modifiche in esame,
in particolare, ribadiscono l'importanza e
l'attualità del principio della cosiddetta
responsabilità "condivisa" nella
gestione dei rifiuti.
Ciò, in altri termini, significa che
l'affermazione (corretta) secondo cui il
reato di cui al comma 1 dell'art. 256 T.U.A.
sia un reato comune e non un reato proprio
(nel senso che non deve essere commesso per
forza da soggetti esercenti
professionalmente l'attività di gestione dei
rifiuti, facendo la norma riferimento,
quanto al soggetto attivo, a «chiunque»),
è tuttavia indubbio che, in presenza di
un'attività di gestione svolta da un'impresa
valgono i principi in precedenza richiamati,
in tema di responsabilità condivisa, al fine
di individuare i soggetti responsabili.
Conferma di tale soluzione, infatti, è
rinvenibile anche nella giurisprudenza
antecedente all'entrata in vigore del D.Lgs.
03.04.2006, n. 152, essendo stato invero
affermato che la responsabilità per la
attività di gestione non autorizzata non
attiene necessariamente al profilo della
consapevolezza e volontarietà della
condotta, potendo scaturire da comportamenti
che violino i doveri di diligenza, per la
mancata adozione di tutte le misure
necessarie per evitare illeciti nella
predetta gestione, e che legittimamente si
richiedono ai soggetti preposti alla
direzione dell'azienda. (In applicazione
di tali principi la Corte ha ritenuto la
responsabilità dei titolari di una impresa
edile produttrice di rifiuti per il
trasporto e lo smaltimento degli stessi, con
automezzo di proprietà della società, in
assenza delle prescritte autorizzazioni:
Cass. pen., Sez. 3, n. 47432 del 05/11/2003,
dep. 11/12/2003, imp. B. e altri, in Ced
Cass. 226868).
Per quanto, invece, riguarda la fattispecie
prevista dal comma 2 dell'art. 256 T.U.A.,
la giurisprudenza afferma tradizionalmente
che il reato di abbandono incontrollato di
rifiuti è ascrivibile ai titolari di enti ed
imprese ed ai responsabili di enti anche
sotto il profilo della omessa vigilanza
sull'operato dei dipendenti che hanno posto
in essere la condotta di abbandono.
(Fattispecie nella quale il sequestro
preventivo riguardava un autocarro adibito
al trasporto di rifiuti abbandonati in modo
incontrollato e condotto da un dipendente
del titolare dell'impresa: Cass. pen., Sez.
3, n. 24736 del 18/05/2007, dep. 22/06/2007,
imp. S., in Ced Cass. 236882) (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione, Sez. penale, sentenza
15.06.2011 n. 23971). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'ordine di servizio illegittimo non dà
luogo a mobbing.
Il quesito: Esiste una soglia di non
punibilità per gli atti emulativi che la
P.A. compie ai danni di un dipendente?
Il caso.
Con distinti ricorsi, un funzionario
dell'Isvap impugnava una serie di atti di
gestione del rapporto di lavoro, asserendone
l'illegittimità e la finalità mobbizzante.
Il Tar Lazio accoglieva un ricorso
concernente l'illegittimità di un atto,
mentre ne respingeva un altro per mobbing.
Avverso la reiezione del ricorso per mobbing
il ricorrente proponeva appello al Consiglio
di Stato.
Inquadramento della
problematica.
La prova dell'esistenza di un disegno
persecutorio –nelle fattispecie di mobbing–
è ulteriore rispetto alla dimostrazione di
una pluralità di condotte lesive poste in
essere nei confronti del dipendente.
La decisione.
La sentenza in esame si occupa di una
fattispecie di asserito mobbing nell'ambito
delle categorie di rapporti di pubblico
impiego la cui cognizione è riservata alla
giurisdizione del G.A.
La persecuzione datoriale costituisce
materia sensibile, che ha molto affaticato
la giurisprudenza (non sempre conscia delle
acquisizioni della psicologia del lavoro),
la quale, dopo alcune iniziali aperture (nei
giudizi di merito) ha da alcuni anni assunto
posizioni che paiono molto prudenti.
In tale ultimo orientamento pare inscriversi
anche la decisione in commento, ponendo
alcuni punti fermi ai fini della
configurazione della fattispecie del mobbing
all'interno dei rapporti di lavoro alle
dipendenze delle PP.AA..
I giudici di Palazzo Spada ritengono che,
pur in presenza di determinazioni
sfavorevoli per il dipendente adottate da
parte datoriale (nella fattispecie,
trasferimento ad altro servizio, mancati
incrementi stipendiali e mancata
attribuzione di premi legati al rendimento),
non è possibile configurare attività
persecutoria qualora sia ravvisabile una
ragionevole spiegazione alternativa al
comportamento tenuto dalla P.A..
L'approccio adottato parrebbe segnalare
l'esistenza di una sorta di atteggiamento
benevolo di fondo per la condotta gestionale
delle PP.AA., il che, tenuto conto
dell'oggettivo incremento del contenzioso
per condotte mobbizzanti registratosi
nell'ultimo decennio non può ritenersi
rassicurante dal punto di vista dei
lavoratori pubblici.
Purtuttavia, il G.A. ritiene che la mera
concatenazione degli atti (illeciti o anche
apparentemente e/o astrattamente leciti)
idonei a spiegare efficacia lesiva dei
diritti morali e/o professionali del
lavoratore non sia, di per sé sola, idonea a
costituire prova del loro connotato
emulativo e vessatorio.
Pertanto, lungi dall'accogliere quelle
istanze anche dottrinali secondo cui il
disegno persecutorio andrebbe colto “sottotraccia”,
il G.A. puntualizza che, al contrario,
perché di mobbing possa parlarsi occorre un
“sovrastante disegno persecutorio, tale
da piegare alle sue finalità i singoli atti
cui viene riferito”.
Dunque, il piano persecutorio viene dal G.A.
posto a monte, per tal via onerandosi il
ricorrente di fornire una prova diabolica:
se il mobbing non si evince dalle evidenze
fattuali, come è possibile risalire alle
intenzioni datoriali, riconducendole,
successivamente, ad un piano squisitamente
oggettivo quale quello dibattimentale?
Appare indubbio che gli orientamenti
giurisprudenziali non possano –ai fini
dell'affermazione della sussistenza della
fattispecie- tralatiziamente rinviare per
intero agli elementi di prova allegati (offensività
della condotta, direzione univoca degli atti
persecutori e pretestuosi), altrimenti si
darebbe ingresso ad una quota di contenzioso
certamente volta a lucrare indebiti benefici
risarcitori.
E', tuttavia, parimenti indubitabile che la
crescita della conflittualità in seno agli
ambienti di lavoro pubblico spinge ad
interrogarsi sull'opportunità di ricercare
nuovi punti di equilibrio in ordine alla
individuazione dei profili
dell'intenzionalità delle condotte
datoriali, onde non porre i lavoratori
ricorrenti nella condizione di dover fornire
prova di elementi soggettivi sottesi alle
condotte gestionali delle PP.AA.,
difficilmente oggettivabili ove non
presuntivamente ricavati dal quadro
complessivo delle determinazioni datoriali
assunte nei confronti del dipendente
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3648 -
link a www.altalex.com). |
ENTI LOCALI:
Provvedimenti istitutivi di zone
a traffico limitato (z.t.l.).
Discrezionalità dei Comuni.
I provvedimenti limitativi della
circolazione veicolare all’interno dei
centri abitati sono espressione di scelte
latamente discrezionali, che coprono un arco
molto esteso di soluzioni possibili,
incidenti su valori costituzionali spesso
contrapposti, i quali devono essere
contemperati secondo criteri di
ragionevolezza (Cfr., ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. V, 04.03.2008, n. 824;
id., 11.12.2007, 6383; id., 29.05.2006, n.
3259; Ad. Plen., 06.02.1993, n. 3).
Avverso i provvedimenti istitutivi di zone a
traffico limitato nei centri storici dei
Comuni, non sono proponibili doglianze con
cui si lamenta la violazione degli artt. 16
e 41 Cost. quando non sia vietato tout court
l’accesso e la circolazione all’intero
territorio, ma solo a delimitate, seppur
vaste, zone dell’abitato urbano
particolarmente esposte alle conseguenze
dannose del traffico; viceversa, deve
ritenersi che la parziale limitazione della
libertà di locomozione e di iniziativa
economica sia sempre giustificata quando
derivi dall’esigenza di tutela rafforzata di
patrimoni culturali ed ambientali di
assoluto rilievo mondiale o nazionale. La
gravosità delle limitazioni si giustifica
anche alla luce del valore primario ed
assoluto riconosciuto dalla Costituzione
all’ambiente, al paesaggio, alla salute
(Cfr. Corte cost., 07.11.2007, n. 367).
E’ legittima la deliberazione 29.07.2006, n.
410, con la quale il Comune di Roma,
all’esito di una accurata istruttoria, e nel
quadro di una più ampia manovra volta a
ridurre gli effetti nocivi del traffico
veicolare all’interno del centro storico, ha
rimodulato il sistema tariffario relativo al
rilascio dei permessi di accesso alle zone a
traffico limitato individuate nel centro
abitato, prevedendo in particolare:
1) che ad ogni permesso di accesso, di
qualsivoglia categoria, venga abbinata una
sola targa;
2) il divieto di rilascio di permessi di
accesso senza targa;
3) il rilascio di non più di tre permessi di
accesso, con tariffe e durata variamente
modulate per ogni nucleo familiare residente
nel centro;
4) il rilascio, in favore dei residenti, di
un apposito permesso di solo transito di
durata annuale e ad un costo prestabilito di
duecento euro (Cfr. Cons. Stato, Sez. V,
13.02.2009 n. 825 ed ivi ult. riferimenti)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.05.2011 n.
3073 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire per la
realizzazione di una canna fumaria. Mancato
rispetto delle distanze di cui all’art. 6,
commi 15 e 17, del D.P.R. n. 1391 del 1970.
E’ illegittimo un permesso di costruire per
la realizzazione di una canna fumaria (nella
specie utilizzata per l’attività di
panetteria), rilasciato in violazione delle
distanze di cui all’art. 6, commi 15 e 17,
del D.P.R. 22.12.1970 n. 1391, secondo cui:
"Le bocche dei camini devono risultare
più alte di almeno un metro rispetto al
colmo dei tetti, ai parapetti ed a qualunque
altro ostacolo o struttura distante meno di
10 metri"; né può avere rilevanza, ai
fini della legittimità del permesso di
costruire, il fatto che il proprietario
dell’immobile posto a distanza inferiore a
quella legale abbia prestato il proprio
consenso alla realizzazione del manufatto,
atteso che le suddette disposizioni hanno
finalità diverse da quelle in materia di
rispetto delle distanze tra le costruzioni,
essendo previste a tutela del superiore
interesse della protezione dall’inquinamento
e, quindi, le norme in questione sono da
ritenere inderogabili (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 12.05.2011 n.
718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Verande in condominio tra limiti
e divieti.
Una recente sentenza
della Corte di Cassazione ribadisce un
consolidato indirizzo: i lavori di chiusura
di un balcone necessitano di un permesso di
costruire e non possono essere considerati
interventi di manutenzione straordinaria.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, è
intervenuta recentemente, con la nuova
sentenza 11.05.2011 n. 18507 con cui non
solo ribadisce ma consolida ulteriormente un
orientamento che, negli ultimi anni, sia la
stessa Corte sia i giudici amministrativi
avevano già confermato.
In buona sostanza, i giudici della Suprema
Corte ribadiscono che: “La trasformazione
di un balcone o di un terrazzino circondato
da muri perimetrali in veranda, o di un
terrapieno et similia mediante chiusura a
mezzo di installazione di pannelli di vetro
su intelaiatura metallica o altri elementi
costruttivi, non costituisce intervento di
manutenzione straordinaria, di restauro o
pertinenziale, ma è opera già soggetta a
concessione edilizia e attualmente a
permesso di costruire”.
Nel ribadire tale principio i giudici, nel
corso della motivazione, si rifanno a
molteplici pronunzie dello stesso ente
giudicante (Cass., Sez., sent. n. 35011/2007
e sent. n. 25588/2004).
Inoltre lo stesso orientamento è stato
confermato dai giudici amministrativi (Cons.
Stato, Sez. V, sent. n. 394 dell’08.04.1999
e sent. n. 675 del 22.07.1992, Cons. giust.
amm. Sic., Sez. riunite, sent. n. 345 del
15.10.1991).
Problemi definitori e
requisiti tecnici per la costruzione.
Il codice civile non contiene una disciplina
specifica in materia di verande in
condominio. Quindi potremmo considerare la
veranda come “un manufatto costruttivo
che determina una modifica esterna della
facciata dell’edificio, suscettibile di
rilievo urbanistico, ma privo di
individualità propria, in quanto destinato a
integrare il restante edificio” [1].
Tale manufatto va considerato come un nuovo
locale autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà,
trattandosi di opera destinata non a
sopperire a esigenze temporanee con la
successiva rimozione, ma a durare nel tempo,
ampliando così il godimento dell’immobile
[2].
La lacuna codicistica viene comunque
superata mediante l’interpretazione fornita
dalla giurisprudenza in riferimento alla
disciplina contenuta nel D.P.R. 380 del
06.06.2001 (T.U. edilizia) e nella legge 47
del 28.02.1985 (Norme in materia di
controllo dell’attività urbanistico-edilizia,
sanzioni, recupero e sanatoria delle opere
edilizie).
Secondo la giustizia amministrativa,
premesso che la realizzazione di una veranda
comporti l’aumento della superficie utile di
un appartamento e la modifica esterna della
sagoma dell’edificio, ne discende che il
suddetto intervento richieda il previo
rilascio della concessione di costruzione
(Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 394
dell’08.04.1999 e sent. n. 675 del
22.07.1992).
Vi è da precisare che a questo assunto ci si
è arrivati dopo un lungo iter interpretativo
perché per quanto riguarda poi la nozione di
“costruzioni” ai fini del rilascio
della concessione edilizia, il Consiglio di
Stato, accogliendo il costante orientamento
della giurisprudenza di merito, ha stabilito
che per “costruzioni” ai fini del
rilascio del suddetto provvedimento
concessorio debbano intendersi le opere che
attuano una trasformazione urbanistico-
edilizia del territorio, con perdurante
modifica dello stato dei luoghi, a
prescindere dalla circostanza che essa
avvenga mediante realizzazione di opere
murarie: è infatti irrilevante che le opere
siano realizzate in metallo, in laminati di
plastica, in legno o altro materiale,
laddove comportino la trasformazione del
tessuto urbanistico ed edilizio.
Inoltre si precisa che, pure nel caso di
costruzioni non infisse al suolo ma aderenti
a esso che alterino in modo rilevante e
duraturo nel tempo lo stato del terreno,
quali una roulotte con veranda su pavimento
in cemento e piattaforma di legno, si
dispone la necessità del rilascio della
concessione edilizia. Infatti per “sagoma
di un edificio” si intende la figura
piana risultante dal contorno esterno
dell’edificio, proiettato sul piano
orizzontale e sui piani verticali, con
esclusione delle sporgenze che non
concorrono alla definizione di superficie
coperta, come i balconi, gli aggetti
ornamentali e le tettoie a sbalzo; di
conseguenza, non possono esservi dubbi sulla
circostanza che per la realizzazione della
veranda sia obbligatorio il rilascio della
concessione di costruzione (TAR Veneto, Sez.
II, sent. n. 1216 del 10.02.2003).
Il principio giuridico richiamato viene
ulteriormente ribadito dall’ulteriore
previsione secondo la quale il carattere di
precarietà, addebitabile alla
struttura-veranda da realizzare, non esime
l’interessato a munirsi della concessione a
costruire: in particolare, “sono soggette
a concessione edilizia non le sole attività
di edificazione, ma tutte quelle consistenti
nella modificazione dello stato materiale e
della conformazione del suolo per adattarlo
a un impiego diverso da quello che gli è
proprio, in relazione alla sua condizione
naturale e alla sua qualificazione
giuridica, e a nulla rileva l’eventuale
precarietà della struttura da realizzare”
(TAR Campania, Sez. IV, sent. n. 2451 del
28.02.2006).
Tipologie di verande e
relativa concessione edilizia richiesta.
Dal punto di vista strutturale possiamo
distinguere diverse tipologie di verande:
- pannelli in vetro e alluminio sul
parapetto di un balcone già chiuso;
- veranda-ripostiglio;
- veranda con pannelli scorrevoli o
struttura grigliata in cemento.
Pannelli in vetro e
alluminio sul parapetto di un balcone già
chiuso.
Per tali fattispecie è sancito l’obbligo
della concessione edilizia per il condomino
che procedeva all’installazione di pannelli
in vetro e alluminio sul parapetto di un
balcone già chiuso per i restanti lati da
muri perimetrali dell’edificio preesistente,
in ragione del fatto che l’installazione di
tali pannelli determinava:
a. la realizzazione di un nuovo locale
autonomamente utilizzabile;
b. l’aumento della superficie utile;
c. la modifica della sagoma dell’edificio
stesso [3].
Veranda-ripostiglio.
Di medesimo avviso è la pronuncia del TAR
Campania, in cui si è escluso che possa
farsi rientrare nella categoria degli
interventi di manutenzione straordinaria la
realizzazione di una veranda-ripostiglio che
doti l’appartamento di una struttura nuova e
aggiuntiva, estranea morfologicamente e
funzionalmente all’originaria conformazione
dell’immobile condominiale (TAR Campania,
sent. n. 2708 del 12.06.2001).
Veranda con pannelli
scorrevoli o struttura grigliata in cemento.
La giurisprudenza ha ritenuto che in questo
caso non si verifichi un ampliamento di
volume, con la conseguenza che il condomino,
ove decida di realizzare tale struttura, non
deve munirsi di concessione edilizia (TAR
Sardegna, sent. n. 856 del 10.07.2003; TAR
Liguria, sent. n. 843 del 03.07.2003).
Quando si richiede [4]
Non di rado si verifica l’ipotesi in cui sia
chiuso a veranda uno spazio già inglobato
nelle preesistenti parti dell’edificio: in
tal caso le verande installate sono da
considerarsi come elementi accessori a un
fabbricato, con funzione di riparo dagli
agenti atmosferici e di protezione
dall’accesso furtivo di terzi
nell’abitazione. In merito a tale
fattispecie, si ritiene la non necessità
della concessione edilizia: il condomino
dovrà dunque munirsi solo di DIA dal momento
che la strutturaveranda accessoria al
fabbricato assolve alla mera finalità di
conservazione [5].
Sono assoggettati al regime della semplice
denuncia di inizio di attività quegli
interventi, diretti alle predette finalità,
che consistono nell’installazione di “elementi
compatibili con le esigenze dell’ordinario
uso dell’edificio o della parte di esso cui
accedono nel rispetto degli elementi
tipologici formali e strutturali dello
stesso edificio e della destinazione
edilizio-urbanistica delle varie parti di
cui esso si compone” (TAR Lazio, Sez. II-ter, sent. n. 1550 del 28.02.2002) [6].
Dal permesso di costruire
alla SCIA [7]
L’attività di costruzione dei privati è
vincolata da modalità e strumenti normativi
che hanno subìto, nel tempo, sostanziali
modifiche: si è passati dalla licenza
edilizia di cui alla legge 1150 del
17.08.1942, alla concessione edilizia di cui
alla legge 10 del 28.01.1977 (legge
Bucalossi), sino al permesso di costruire di
cui al D.P.R. 380/2001.
La “licenza edilizia” era
originariamente prevista soltanto per ciò
che riguardava le edificazioni da effettuare
sul territorio urbano ed era gratuita;
inoltre, era un provvedimento di natura
autorizzatoria che, a seguito di verifica
della conformità tra l’attività costruttiva
richiesta e le previsioni degli strumenti
urbanistici, consentiva al privato
l’esercizio della facoltà di costruire,
immanente al diritto di proprietà.
Con la legge 10/1977 (legge Bucalossi), la
licenza edilizia fu sostituita dalla “concessione
edilizia”: la facoltà di costruire
veniva scissa dal diritto di proprietà,
sicché lo ius aedificandi diventava
l’oggetto di uno specifico provvedimento
concessorio da parte della Pubblica
amministrazione. Tuttavia, con la sent. n. 5
del 30.01.1980, era intervenuta apportando
delle precisazioni relativamente alla
facoltà dello ius aedificandi.
Anche a seguito di queste indicazioni, nel
2001, con il D.P.R. 380, entra in vigore il
T.U. edilizia e la concessione edilizia
viene sostituita dal “permesso di
costruire”, rilasciato dallo Sportello Unico
per l’edilizia (art. 5).
Con l’approvazione del “D.L. Sviluppo”,
il cui testo è ormai definitivo dopo la
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (la n.
110 di venerdì 13.05.2011), vengono
apportate sostanziali modifiche al Testo
Unico dell’edilizia, definendo la procedura
per il rilascio del titolo abilitativo.
Per il rilascio del permesso di costruire
viene introdotto il silenzio-assenso entro
un termine massimo di 90 giorni (180 per i
comuni con oltre centomila abitanti), salvo
i casi ove sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici e culturali.
Il termine per le verifiche ex post da parte
delle amministrazioni sugli interventi
realizzati con (segnalazione certificata di
inizio attività) viene dimezzato da 30
giorni. L’ambito di applicazione viene
esteso agli interventi edilizi che, prima
del “D.L. Sviluppo”, erano soggetti a
DIA, ma non sostituisce , né i nulla osta e
le autorizzazioni concedibili in caso di
vincoli paesaggistici, ambientali o
culturali. Inoltre, vengono liberalizzati i
cambiamenti di destinazione in deroga ai
piani regolatori, e fino all’eventuale
entrata in vigore di leggi regionali
specifiche sull’attività edilizia.
Riportiamo nella tabella 1 l’excursus
normativo e le attuali disposizioni.
Considerazioni conclusive.
Dall’iter giurisprudenziale tracciato
possiamo trarre le seguenti conclusioni:
a.
il condomino che intenda realizzare una
struttura-veranda dovrà sempre munirsi di
concessione edilizia;
b.
invece, se si tratta di una struttura
precaria, destinata a far fronte a sue
esigenze momentanee e a essere rimossa dopo
l’uso temporaneo; oppure è diretta al
recupero del patrimonio edilizio già
esistente, o viene realizzata al solo scopo
di protezione dagli agenti atmosferici
esterni nei limiti della funzionalità
dell’immobile, non è necessaria la
concessione edilizia;
c.
il condomino che realizzi una veranda senza
il permesso di costruire si renderebbe
fautore di abusi edilizi, con conseguente
addebito di responsabilità amministrative e
penali;
d.
la chiusura di una veranda senza concessione
rientra tra gli interventi abusivi di
ristrutturazione edilizia la cui repressione
comporta l’ingiunzione alla spontanea
rimozione dell’abuso: allo scadere del
termine all’uopo fissato, è prevista la
demolizione d’ufficio, a spese del
responsabile, o, se il ripristino non sia
possibile, l’irrogazione di una sanzione
pecuniaria pari al doppio dell’aumento di
valore dell’immobile conseguente alla
realizzazione dell’opera, da determinarsi
con riguardo alla data di ultimazione dei
lavori;
e.
L’autorizzazione assembleare risulta
necessaria qualora la realizzazione del
manufatto possa arrecare pregiudizio ad
alcuni condomini (cfr. Cass., sent. n. 10704
del 24 dicembre 1994 e sent. n. 5652 del
21.10.1980), o perché non vengano rispettate
le distanze legali fra le due proprietà
(Cass., sent. n. 5652 del 21.10.1980).
In questa seconda ipotesi è opportuno che
l’autorizzazione venga formalizzata con atto
notarile e successiva trascrizione presso
dei registri immobiliari. Tale formalità
consentirà di cautelarsi da eventuali azioni
che potrebbero essere intentate
dall’acquirente in caso di vendita
dell’appartamento da parte del confinante
[8].
Inoltre sarà opportuno in sede assembleare
che il condomino sottoponga il relativo
progetto corredato da tutte le informazioni
inerenti il materiale e le modalità di
costruzione del manufatto. Ma anche in caso
di delibera favorevole, adottata a
maggioranza, non potrà evitare eventuali
azioni legali da parte di singoli condomini
(cfr. Cass., sent. n. 3510 del 28.05.1980)
che dovesse invocare per esempio
l’alterazione del decoro architettonico o
l’alterazione del profilo igienico (Cass.,
sent. n. 2543 del 07.07.1976).
TABELLA 1
- La disciplina della veranda abitabile
costruita su un terrazzo.
--------------------------------
Agevolazioni fiscali
Non è prevista la detrazione del 36% perché
la costruzione della veranda costituisce un
incremento volumetrico.
La disciplina condominiale
Dal punto di vista della disciplina
condominiale se la veranda è costruita sul
terrazzo è considerata sopraelevazione;
pertanto è da corrispondere ai condomini
l’indennità dell’art. 1127 cod. civ. L’opera
non può essere vietata dai condomini purché
rispetti il decoro architettonico, la
sicurezza strutturale dell’edificio e se non
è esclusa dal regolamento contrattuale.
In presenza del riscaldamento centralizzato,
la trasformazione del balcone in veranda
comporta la revisione della tabella di
riscaldamento.
La modifica della tabella di proprietà non è
strettamente necessaria, laddove non venga
alterato in maniera notevole il rapporto
millesimale tra le proprietà esclusive,
all’interno del condominio.
Qualora il giudice ritenga che
effettivamente vi sia stata una notevole
alterazione dei rapporti millesimali, la
perizia con cui si determinano i nuovi
millesimi può tener conto solo della nuova
superficie aggiunta se l’ampliamento
riguardi piani o porzioni di piano della
stessa altezza degli altri.
Se, invece, l’addizione riguarda una serra o
un sottotetto che hanno parte della loro
altezza inferiore alle altre, non abitabile,
il criterio corretto è quello del volume
(Cass., sent. n. 7300/2010).
Permessi
Alcuni comuni non richiedono permessi se si
tratta di un ridotto ampliamento. Comunque
devono essere sempre rispettate le distanze
legali.
IVA
Se l’ampliamento riguarda un’abitazione
acquistata con i benefici “prima casa”,
l’IVA si applica al 4% (Ag. entrate, circ.
n. 19 dell’01.3.2001).
_____________________
[1] In dottrina vi sono diverse definizioni: alcuni
identificano la veranda nella chiusura, prevalentemente con
vetri, supportati su metallo o legno, di spazi scoperti come
balconi o terrazze, con opere effettuate dopo l’ultimazione
dell’edificio (F. Tamborrino, Codice tecnico-legale del
condominio, Milano, 2a ed., 2006, pagg. 125-126). Mentre De
Tilla la considera come balcone aggettante dalle mura
perimetrali di un edificio chiuso con vetrate. Cfr.
Dizionario del condominio, Milano, 2007, pag. 693.
[2] Secondo un’interpretazione giurisprudenziale
consolidata, una veranda non è da intendersi quale opera
precaria, in quanto non è destinata a sopperire a esigenze
temporanee e contingenti e quindi a essere rimossa, ma a
durare nel tempo, configurandosi quale nuovo locale
autonomamente utilizzabile e destinato ad ampliare il
godimento dell’immobile (Cass., sent. n. 24086 del
13.06.2008).
[3] Sulla fattispecie vedasi sent. n. 42318 del 18.09 cui ha
affermato, sulla base di consolidata giurisprudenza, che “la
realizzazione di una veranda, anche mediante chiusura a
mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica o altri elementi costruttivi, non costituisce
intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è
opera soggetta a permesso di costruire”. In un altro caso
sempre affrontato dalla Cassazione si è stabilito che anche
la trasformazione di un balcone o di un terrazzino
circondato da muri perimetrali in veranda è opera soggetta a
concessione edilizia (Cass., sent. n. 3879 del 27.03.2000;
Trib. Chieti 19.04.2007).
[4] Il recente “Decreto Sviluppo”, emanato in data
05.05.2011 apportato notevoli modifiche in merito a questo
istituto. Si rimanda il lettore, per ulteriori
approfondimenti, all’articolo pubblicato sul C.I. n. 885,
pag. 1036.
[5] P. Marzaro Gamba, La denuncia d’inizio di attività
edilizia: profili sistematici, sostanziali e processuali,
Milano 2005, pagg. 65-91.
[6] Però, su una fattispecie analoga, lo stesso TAR Lazio
(sent. n. 9570 del 05.11.2003) ha escluso l’esentabilità dal
regime della concessione edilizia per una veranda apposta da
un condomino su un terrazzino del proprio appartamento,
confinante con quello condominiale, ritenendo che tale
intervento non avesse esclusivamente una finalità di riparo
compatibile con l’uso ordinario dell’abitazione: con la
costruzione si era infatti creato un nuovo spazio
interamente chiuso, utilizzabile come nuovo piccolo locale,
e che arrecava una visibile alterazione allo stesso terrazzo
condominiale.
[7] Per approfondimenti sulle recenti novità introdotte sul
Piano casa si rinvia a S. Rezzonico-G. Tucci (a cura di),
Casa, tutti gli adempimenti e le agevolazioni per
ristrutturare, le Guide del Consulente immobiliare, giugno
2011, pagg. 33 e segg.
[8] G. Palmieri., Dizionario pratico del condominio, Milano,
2000, pag. 125
(tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sistema di classificazione –
comparto Regioni-Enti locali – categoria D –
posizioni differenziate.
L’art. 4 del CCNL del 31.03.1999 del
comparto Regioni-Enti locali prevede che “Gli
enti disciplinano, con gli atti previsti dai
rispettivi ordinamenti, nel rispetto dei
principi di cui all’art. 36, d.lgs. n.
29/1993 come modificato dagli artt. 22 e 23
del d.lgs. n. 80/1998 e tenendo conto dei
requisiti professionali indicati nelle
declaratorie delle categorie di cui
all’allegato A, le procedure selettive per
la progressione verticale finalizzate al
passaggio dei dipendenti alla categoria
immediatamente superiore del nuovo sistema
di classificazione, nel limite dei posti
vacanti della dotazione organica di tale
categoria che non siano stati destinati
all’accesso dall’esterno. Analoga procedura
può essere attivata dagli enti per la
copertura dei posti vacanti dei profili
delle categorie B e D di cui all’art. 3,
comma 7, riservando la partecipazione alle
relative selezioni al personale degli altri
profili professionali delle medesime
categorie”.
Sicché per il passaggio all’interno della
stessa categoria D ad uno dei profili
professionali superiori –(rectius
alla posizione economica superiore)– è
prevista la stessa procedura selettiva
prevista per il passaggio da una categoria
all’altra, nel presupposto che si sia di
fronte a posizioni economiche distinte cui
corrisponde anche un differente contenuto
professionale e in ragione della diversa
professionalità di provenienza (ex 7^ e 8^
qualifica funzionale) (Corte di Cassazione,
Sez. lavoro,
sentenza 18.03.2011 n. 6295 -
link a
www.amministrazioneincammino.luiss.it). |
CONDOMINIO: Riparazione
dei balconi aggettanti e frontalini: oneri
di ripartizione.
In tema di parti comuni e relativo obbligo
di manutenzione vige una disciplina
differente per i balconi cosiddetti
“aggettanti” e per gli elementi decorativi
presenti sugli stessi.
I balconi aggettanti, i
quali sporgono dalla facciata dell'edificio,
costituiscono solo un prolungamento
dell'appartamento dal quale protendono e
rientrano nella proprietà esclusiva dei
titolari degli appartamenti cui accedono.
Non fungono da copertura del piano inferiore
in quanto essi, dal punto di vista
strutturale sono del tutto autonomi rispetto
agli altri piani, poiché possono sussistere
indipendentemente dall'esistenza di altri
balconi nel piano sottostante o sovrastante
e non avendo, quindi, funzione di copertura
del piano sottostante, il balcone aggettante
non soddisfa una utilità comune ai due piani
e non svolge neppure una funzione a
vantaggio di un condomino diverso dal
proprietario del piano.
Detti balconi e le relative solette non
svolgendo alcuna funzione di sostegno, né di
necessaria copertura dell'edificio, non
possono considerarsi a servizio dei piani
sovrapposti e, quindi, di proprietà comune
dei proprietari di tali piani e ad essi non
può applicarsi il disposto dell'articolo
1125 c.c. secondo cui le spese per la
ricostruzione e manutenzione dei soffitti,
delle volte e dei solai sono sostenute in
parti uguali dai proprietari dei due piani
l’uno all’altro sovrastanti, restando a
carico del proprietario del piano superiore
la copertura del pavimento e a carico del
piano inferiore l’intonaco, la tinta e la
decorazione del soffitto.
E’ quanto ha ribadito sostanzialmente la
Corte di cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 12.01.2011 n. 587 e con la
sentenza 05.01.2011 n. 218,
confermando in tal modo un orientamento
ormai consolidato e superando
definitivamente la posizione secondo cui,
invece, la soletta è soggetta al regime di
comunione tra proprietario che usa il
balcone e proprietario dell’unità
immobiliare sottostante, con applicabilità
dell’articolo 1125 del codice civile quale
criterio di ripartizione delle spese (Cass.
n. 4821/1983; n. 283/1987).
La Corte di Cassazione ha puntualizzato che
seppure volesse riconoscersi alla soletta
del balcone una funzione di copertura
rispetto al balcone sottostante, tuttavia,
trattandosi di copertura disgiunta dalla
funzione di sostegno e, quindi, non
indispensabile per l'esistenza stessa dei
piani sovrapposti, non può parlarsi di
elemento a servizio di entrambi gli immobili
posti su piani sovrastanti, né, quindi, di
presunzione di proprietà comune del balcone
aggettante riferita ai proprietari dei
singoli piani (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 30.07.2004 n. 14576).
I balconi aggettanti e le relative solette
rientrano nella proprietà esclusiva dei
titolari degli appartamenti cui accedono,
conseguentemente le spese di riparazione
gravano solo sugli stessi. Soggetti a un
regime diverso, invece, sono tutti gli
elementi decorativi del balcone.
Ed invero i cementi decorativi dei frontali
e dei parapetti, nonché le viti di ottone e
i piombi ai pilastri della balaustra, le
aggiunte sovrapposte con malta cementizia
dei balconi, in virtù della funzione di tipo
estetico che essi svolgono rispetto
all’intero edificio, del quale accrescono il
pregio architettonico, sono considerati
parti comuni ai sensi dell’art. 1117 del
cod. civ.
La spesa per la loro riparazione o
ricostruzione ricade su tutti i condomini,
proporzionalmente al valore della proprietà
di ciascuno.
I frontalini dei balconi e la parte
inferiore degli stessi, anche per il solo
fatto di essere costruiti con
caratteristiche uniformi, hanno una funzione
ben precisa nell'estetica e nel decoro
architettonico di un edificio, che può
essere esclusa solo in presenza di una
precisa prova contraria, da cui risulti che
trattasi di un fabbricato privo di qualsiasi
uniformità architettonica, o che trovasi in
uno stato di scadimento estetico tale da
rendere irrilevante l'arbitrarietà
costruttiva o di manutenzione dei singoli
particolari
(commento tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).
---------------
Per ulteriori
approfondimenti si legga:
-
la voce "balconi". |
URBANISTICA: Nelle
zone in cui il piano particolareggiato è
decaduto è comunque consentita la
costruzione di nuovi fabbricati nel rispetto
della normativa urbanistico-edilizia di zona
che resta automaticamente ultrattiva a tempo
indeterminato per la parte che disciplina
l'edificazione nelle sue linee fondamentali
ed essenziali.
Le aree all'interno del piano
particolareggiato attuato ma decaduto,
infatti, in forza del suddetto art. 17 della
Legge n. 1150/1942, non restano prive di
regolamentazione urbanistica, in quanto
permane la disciplina di pianificazione
generale e quella di linea fondamentale ed
essenziale di pianificazione attuativa fino
a quando non subentri una nuova disciplina.
Il Collegio non ha motivo, nel caso in
esame, per scostarsi dall’ormai costante
orientamento giurisprudenziale in forza del
quale nelle zone in cui il piano
particolareggiato è decaduto è comunque
consentita la costruzione di nuovi
fabbricati nel rispetto della normativa
urbanistico-edilizia di zona che resta
automaticamente ultrattiva a tempo
indeterminato per la parte che disciplina
l'edificazione nelle sue linee fondamentali
ed essenziali (cfr. Cons. Stato, Sez. V,
07.04.2004, n. 1968; idem 09.12.1996 n. 1491
e, da ultimo, TAR Campania Salerno, Sez. II,
20.07.2006, n. 1108; TAR Lazio-Latina,
10.06.2006, n. 367; TAR Liguria, Sez. II,
20.01.2006, n. 40).
Le aree all'interno del piano
particolareggiato attuato ma decaduto,
infatti, in forza del suddetto art. 17 della
Legge n. 1150/1942, non restano prive di
regolamentazione urbanistica, in quanto
permane la disciplina di pianificazione
generale e quella di linea fondamentale ed
essenziale di pianificazione attuativa fino
a quando non subentri una nuova disciplina.
Nel caso in esame, pertanto,
l’Amministrazione non avrebbe potuto negare
la concessione edilizia sul semplice rilievo
dell’avvenuta scadenza della convenzione, ma
avrebbe dovuto verificare se il piano di
lottizzazione fosse stato effettivamente
attuato nella parte che qui interessa
attraverso la realizzazione di tutte le
opere di urbanizzazione previste dallo
stesso (cfr. TAR Marche, 14.04.2004, n.
158), atteso che il citato art. 17,
consentendo anche la costruzione di nuovi
edifici, implicitamente non include gli
stessi nel concetto di attuazione (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 16.05.2007 n.
423 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
In un piano attuativo, la
convenzione, liberamente sottoscritta dalle
parti e contenente l’obbligo a carico della
società di realizzare le opere in essa
specificamente indicate, integra un accordo
consensualmente pattuito che non può essere
modificato unilateralmente. Inoltre, la
mancanza nella convenzione di una clausola
espressa che escluda lo scomputo è
irrilevante, atteso che lo scomputo non
costituisce un diritto del privato
costruttore ma deve essere espressamente
accettato dall’amministrazione.
La convenzione urbanistica –sia di
lottizzazione ovvero accessiva alla
concessione edilizia- rappresenta un
istituto di complessa ricostruzione, a causa
dei profili di stampo giuspubblicistico che
si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la
giurisprudenza è concorde nel ritenere che
esso sia frutto dell’incontro di volontà
delle parti contraenti nell’esercizio
dell’autonomia negoziale retta dal codice
civile. Tale ricostruzione conserva la sua
validità anche nelle ipotesi in cui alcuni
contenuti dell’accordo vengono proposti
dall’Amministrazione in termini non
modificabili dal privato, essendo evidente
che una tale evenienza non esclude che la
parte che abbia sottoscritto la convenzione,
conoscendone il contenuto, abbia inteso
aderirvi e ne resti vincolata, salvo il
ricorso agli strumenti di tutela in caso di
invalidità del contratto.
Si osserva che:
a). la convenzione, liberamente sottoscritta
dalle parti e contenente l’obbligo a carico
della società di realizzare le opere in essa
specificamente indicate, integra un accordo
consensualmente pattuito che non può essere
modificato unilateralmente;
b). la mancanza nella convenzione di una
clausola espressa che escluda lo scomputo è
irrilevante, atteso che lo scomputo non
costituisce un diritto del privato
costruttore ma deve essere espressamente
accettato dall’amministrazione.
---------------
Com’è noto, la
convenzione urbanistica –sia di
lottizzazione ovvero accessiva alla
concessione edilizia- rappresenta un
istituto di complessa ricostruzione, a causa
dei profili di stampo giuspubblicistico che
si accompagnano allo strumento
dichiaratamente contrattuale. Tuttavia la
giurisprudenza è concorde nel ritenere che
esso sia frutto dell’incontro di volontà
delle parti contraenti nell’esercizio
dell’autonomia negoziale retta dal codice
civile (cfr., da ultimo, Sez. V, 10.01.2003,
n. 33).
Tale ricostruzione conserva la sua validità
anche nelle ipotesi, come quella in esame,
in cui alcuni contenuti dell’accordo vengono
proposti dall’Amministrazione in termini non
modificabili dal privato, essendo evidente
che una tale evenienza non esclude che la
parte che abbia sottoscritto la convenzione,
conoscendone il contenuto, abbia inteso
aderirvi e ne resti vincolata, salvo il
ricorso agli strumenti di tutela in caso di
invalidità del contratto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
28.07.2005 n. 4014 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
Comuni, pur non potendo rilasciare titoli
edificatori quando vi sia lesione dei
diritti reali dei terzi, non sono tuttavia
tenuti a indagare d’ufficio la situazione
dominicale alla ricerca di una bilanciata
composizione degli interessi dei privati.
Deve osservarsi che i Comuni, pur non
potendo rilasciare titoli edificatori quando
vi sia lesione dei diritti reali dei terzi,
non sono tuttavia tenuti a indagare
d’ufficio la situazione dominicale alla
ricerca di una bilanciata composizione degli
interessi dei privati.
Questi ultimi, infatti, conservano il potere
di tutelarsi davanti al giudice ordinario
nei confronti dei vicini che attraverso atti
amministrativi abbiano ottenuto una
posizione di vantaggio in contrasto con i
diritti reali esistenti (cfr. Tar Lombardia
Brescia, 27.10.2004, n. 1430) (TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 23.05.2005 n.
541 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Sanatoria ex
art. 31 L. 47/1985 - Vincoli di inedificabilità ex art. 33 L. 47/1985 -
Efficacia all'epoca del rilascio -
Necessità.
2. - Sanatoria ex
art. 31 L. 47/1985 - Valutazione dell'opera
abusiva - Normativa applicabile e
compatibilità attuale con il vincolo.
1. - I vincoli di inedificabilità preclusivi
del condono edilizio ex art. 33 L. 47/1985
devono essere efficaci al momento del
rilascio della concessione in sanatoria e
non scaduti.
2. - Ai fini del rilascio della concessione
edilizia in sanatoria l'opera abusiva deve
essere valutata alla stregua della normativa
vigente all'epoca dell'emanazione del
provvedimento da parte dell'amministrazione,
dovendosi comunque valutare l'attuale
compatibilità con il vincolo, dell'opera
realizzata abusivamente, a prescindere
dall'epoca di introduzione del vincolo
stesso.
__________________
1. - Cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 16.10.1998 n. 1306, in Rass. Cons. di
Stato, 1998, pag. 1520, Consiglio di Stato,
A.P., 22.07.1999 n. 20, in Rass. Cons.
di Stato, 1999, pag. 1080.
2. - Cfr. TAR Toscana, III Sezione,
09.11.2000 n. 2322 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 06.11.2000 n.
2265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: 1. - Bando
di gara per l'affidamento del servizio di
tesoreria - Clausola che richiede
l'erogazione di contributi e
sponsorizzazioni - Contenuto estraneo al
servizio - Illegittimità.
2. - Bando -
Criteri di valutazione delle offerte -
Inscindibilità - Illegittimità di alcuni
criteri - Conseguenze - Illegittimità
integrale della gara.
1. - Costituisce violazione del principio
della par condicio tra le imprese
concorrenti l'inserimento, nel bando di gara
per l'affidamento del servizio di tesoreria,
di clausole concernenti la richiesta di
erogazione di contributi e di
sponsorizzazioni, attesa l'assoluta
estraneità di tali prestazioni rispetto al
costo e all'efficienza del servizio.
2. - Posto che i criteri prefissati nel
bando di gara per la valutazione delle
offerte nonché quelli per la valutazione di
elementi aggiuntivi (nella specie
consistenti nella disponibilità o meno ad
erogare contributi e sponsorizzazioni),
costituiscono un corpus unico preordinato a
scegliere l'offerta più vantaggiosa, la
riconosciuta illegittimità di taluni dei
criteri comporta l'annullamento integrale
del bando in quanto, diversamente, allorché
il giudice eliminasse i soli aspetti
ritenuti viziati, risulterebbe
arbitrariamente alterata la logica sottesa
alla procedura stessa secondo la quale
spetta unicamente all'amministrazione, a
seguito dell'annullamento degli atti
compiuti, porre nuovi criteri, conformi a
parametri di legittimità (nella fattispecie
è stato precisato che la procedura dovrà
essere riaperta dalla fase della
presentazione delle domande, limitatamente
ai soggetti che erano già stati ammessi a
partecipare alla gara stessa).
_________________
1. - In tal senso anche Cons. Stato, sez. V,
20.08.1996, n. 937, in Rass. Cons.
Stato, 1996, I, 1181 e TAR Toscana, II
sezione, 18.12.1998, n. 1077 in Rass.
TAR, 1999, I, 626.
2. - In materia vedi la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. VI, 05.11.1999, n. 1745, in Rass.
Cons. Stato, 1999, I, 1915, in motivazione
pag. 1917 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 27.10.2000 n.
2215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo amministrativo
- Impugnazione - Legittimazione attiva -
Associazioni ambientaliste riconosciute -
Quando sussiste.
Le Associazioni ambientaliste, pur se
riconosciute con decreto del Ministero
dell'Ambiente, sono legittimate ad agire in
proprio, in forza dell'art. 18 L. n.
349/1986, per far valere interessi diffusi,
solo quando l'interesse all'ambiente assume
qualificazione normativa, nei limiti di cui
alla L. n. 349/1986 o di altre fonti
legislative intese ad identificare beni
ambientali in senso giuridico, con
esclusione degli atti che abbiano una mera
valenza urbanistica.
Tale legittimazione deve essere esclusa
soprattutto allorché risulti accertato che
l'area non è oggetto di una specifica
disciplina normativa, tale da
differenziarla, sotto il profilo della
tutela ambientale, da tutte le altre
(fattispecie relativa ad impugnazione di
variante urbanistica e concessione edilizia)
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
27.10.2000 n. 2195 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Parcheggio - Art. 9 l.
n. 122/1989 e art. 17, comma 90, l. 127/1997
- Applicabilità - Presupposti.
Atteso che ai sensi degli artt. 9 legge
24.03.1989 n. 122 e 17, comma 90, legge
n. 127/1997 la relazione tra la
realizzazione di parcheggi e la nascita del
vincolo pertinenziale con le rispettive
unità immobiliari deve essere immediata,
legittimati ad usufruire della previsione
normativa sono esclusivamente i proprietari
di unità immobiliari esistenti, e solo essi
possono realizzare parcheggi anche nel
sottosuolo di aree pertinenziali esterne al
fabbricato, tra cui le aree libere come ad
esempio cortili, piazzali e giardini
ricompresi nel lotto originario sul quale
insiste il fabbricato (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.10.2000 n.
2194 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni - Ingiunzione a
demolire ex art. 7 Legge 47/1985 - Scogliera
- Realizzazione senza titolo - Legittimità
della sanzione.
La realizzazione di una scogliera su
area sottoposta a vincolo ambientale-paesaggistico
e idrogeologico (di dimensioni notevoli e
maggiori della preesistente che aveva subito
il fenomeno erosivo) costituente un enorme
piazzale fornito di recinzione è una
trasformazione urbanistica che, in assenza
di titolo, appare meritevole di subire il
regime sanzionatorio di cui all'art. 7 Legge
47/1985 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 02.10.2000 n.
2007 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Diniego - Illegittimità
- Fascia di rispetto stradale -
Computabilità ai fini della volumetria
edificabile.
Il vincolo derivante da una fascia di
rispetto stradale ha l'effetto urbanistico
di prescrivere un semplice obbligo di
distanza, ma non quello di rendere
inedificabile l'area che vi ricade,
pertanto, posto che la "ratio"
delle disposizioni che danno origine alla
c.d. "zona di rispetto viario" sono
quelle di garantire la sicurezza della
circolazione stradale, tali aree possono
essere computabili ai fini della volumetria
edificabile e deve conseguentemente
ritenersi illegittimo il diniego di
concessione edilizia adottato per
l'insufficienza del possesso del lotto
minimo necessario poiché la porzione di
lotto compresa nella fascia di rispetto
stradale non è stata ritenuta computabile
come superficie edificabile
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
22.09.2000 n. 1982
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Processo amministrativo - Controinteressato - Piano regolatore -
Configurabilità - Criterio.
1. - Qualora siano oggetto di impugnativa
disposizioni di P.R.G., il cui annullamento
incide su particolari soggetti in concreto
titolari di specifiche posizioni di
vantaggio qualificate direttamente dalle
norme impugnate, tali soggetti rivestono la
natura di controinteressati in senso
sostanziale e altresì la posizione di
controinteressati in senso formale ove siano
espressamente o agilmente individuabili;
pertanto l'omessa notificazione del ricorso
a tali soggetti ne comporta
l'inammissibilità.
_________________
1. - Cfr. Tar Toscana, sez. III, 19.07.2000 n. 1713
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
13.09.2000 n. 1926 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Atto amministrativo -
Comunicazione di avvio del procedimento -
Vincolo storico artistico - Termine di 60
giorni ex art. 20 L. 1089/1939 per
l'imposizione del vincolo - Non occorre
comunicazione.
1. - Con riguardo all'imposizione del
vincolo storico e artistico, deve essere
respinta la censura di violazione dell'art.
7 L. 241/1990 per mancata comunicazione
dell'avvio del procedimento quando, in
conseguenza di lavori in corso rispetto ai
quali era stata notificata la sospensione da
parte del Comune, l'Amministrazione era
tenuta ad attivarsi nel breve termine di
sessanta giorni di cui all'art. 20 della
legge 1089/1939, e pertanto, ben poteva
usufruire della deroga al procedimento
generale derivante "da particolari esigenze
di celerità", di cui all'art. 7 della legge
n. 241/1990.
__________________
1. - Sulla necessità della comunicazione di
avvio del procedimento in caso di
imposizione di vincolo storico e artistico
ai sensi della legge 1089/1939 cfr. Cons. di
Stato 08.03.2000 n. 1171, in Rass. Cons.
di Stato, 2000, pag. 524; Cons. di Stato 20.01.2000 n. 262, in Rass. Cons. di
Stato, 2000, pag. 83; Cons. di Stato 22.07.1999 n. 1005, in Rass.
Cons. di Stato, 1999, pag. 1203 (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
13.09.2000 n. 1923 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Sanatoria ex
artt. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Silenzio-assenso e prescrizione del diritto
al conguaglio dell'oblazione - Palese
sproporzione tra importo autoliquidato ed
effettivamente dovuto - Non si forma il
silenzio assenso e non interviene la
prescrizione.
Nell'ambito del condono edilizio, la
palese sproporzione tra l'importo autoliquidato
e quello effettivamente dovuto è elemento
che denota, di per sé, la volontà di
sottrarsi all'integrale pagamento di tutte
le somme dovute a titolo di oblazione,
condizione, invece, richiesta dal comma
dodicesimo dell'articolo 35 della legge n.
47/1985, affinché la domanda possa
intendersi accolta, per effetto del decorso
del termine biennale.
Conguagli e rimborsi, pertanto, possono
ritenersi corrispondenti a mere rettifiche
degli importi corrisposti, per errori di
calcolo o anche interpretativi, non tali
tuttavia da porre in dubbio -in base a
regole di logica e di comune buon senso- la
reale volontà dell'Amministrato di
corrispondere il saldo di quanto
effettivamente dovuto.
La prescrizione del diritto ai medesimi
conguagli e rimborsi, dunque non può nemmeno
entrare in discussione quando non risulti
soddisfatta la condizione procedurale, cui
lo stesso tacito condono è subordinato,
ovvero il "pagamento di tutte le somme
... dovute." (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 01.09.2000 n.
1879 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: 1. - Lottizzazione abusiva -
Esclusione - Elementi indiziari previsti
dall'art. 18, comma 1, L. 47/1985 - Necessità.
2. - Lottizzazione abusiva -
Interpretazione restrittiva dell'art. 18,
comma 1, L. 47/1985.
1. - Deve ritenersi illegittima la
convinzione del Sindaco della presenza di
una abusiva lottizzazione dei terreni a
scopo edificatorio, basata essenzialmente
sugli intervenuti frazionamenti catastali
richiesti dall'interessato, atteso che il
solo frazionamento dell'originario terreno e
la vendita dei relativi lotti non è
sufficiente a dimostrare l'intento di
lottizzazione abusiva, ove non sia
accompagnato dagli ulteriori e concorrenti
elementi indiziari previsti dall'art. 18, L.
28.02.1985 n. 47, (rappresentati
dall'infima entità dei lotti compravenduti,
dalla circostanza che gli acquirenti non
siano dediti ad attività agricola ovvero
dalla insuscettibilità dei terreni ad essere
utilizzati ai fini agricoli, dalla maggiore
o minore prossimità dei terreni oggetto di
vendita in serie frazionata a località
abitativo-residenziale o
turistico-residenziale), né risulti iniziata
alcuna opera idonea alla trasformazione
urbanistico o edilizia del terreno
interessato.
2. - L'art. 18, comma 1, seconda parte, L. 28.02.1985
n. 47 va interpretato restrittivamente, nel
senso che il concetto di non equivocità
della destinazione del terreno a scopi
edificatori reintroduce la necessità che al
mero frazionamento di un terreno in lotti
sul piano giuridico segua qualche attività
materiale, mentre la vendita frazionata può
solo costituire il presupposto per attivare
una maggiore vigilanza del territorio
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
04.08.2000 n. 1830
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Atto amministrativo -
Vizi - Incompetenza - Atto vincolato -
Irrilevanza - In tema di appalto.
L'incompetenza deve configurarsi come
vizio rilevante solo a carico dei
provvedimenti di natura discrezionale, la
cui rimeditazione da parte di autorità
differente potrebbe legittimamente condurre
a differenti determinazioni, non così per
gli atti il cui contenuto risulti vincolato,
per effetto della legge o di pronunzia
giurisdizionale che essa espliciti.
Deve ritenersi pertanto legittimo il
provvedimento di esclusione dell'offerta
adottato in una procedura di appalto dal
Dirigente (il quale ha altresì presieduto la
commissione di gara) anziché dalla Giunta
-come invece previsto dall'art. 30 del
regolamento comunale sui contratti- ove,
verificata in sede giurisdizionale la
legittimità della procedura selettiva sotto
il profilo del rispetto delle norme che ne
regolano i meccanismi, la verifica in sede
amministrativa (cui assolve l'atto di
approvazione) non potrebbe avere alla luce
della legge esito differente se ad essa
procedesse un diverso organo dell'Ente o
diversa autorità a ciò preposta
dall'ordinamento (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza
20.07.2000 n. 1731 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Motivazione - Necessità anche in
caso di assenso - Annullamento ministeriale
- Legittimità.
2. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Prescrizioni e condizioni -
Possibilità - Limiti.
1. - In sede di esercizio del potere, ex
art. 7 della legge n. 1497/1939, di
autorizzazione paesaggistica, la motivazione
è necessaria non solo in caso di diniego ma
anche per l'assenso, dovendosi dare conto,
in quest'ultimo caso, dell'iter logico
seguito per verificare e riconoscere la
compatibilità effettiva degli interventi
edificatori, nella loro globalità, in
riferimento agli specifici valori
paesaggistici dei luoghi; è pertanto
legittimo il provvedimento del Ministro per
i Beni Culturali e Ambientali di
annullamento dell'autorizzazione
paesaggistica (rilasciata nel procedimento
di condono edilizio) pronunciato per
riscontrata carenza di motivazione e quindi
per la mancanza dell'elemento essenziale
della valutazione che deve essere alla base
del provvedimento autorizzatorio: ossia il
giudizio di compatibilità dell'opera con il
contesto ambientale tutelato.
2. - Se è vero che l'Amministrazione, in
sede di autorizzazione paesaggistica, può
suggerire modificazioni ritenute opportune
per ottenere l'armonizzazione delle nuove
costruzioni con l'ambiente circostante, è
altrettanto indubbio che si tratta pur
sempre di una facoltà di cui
l'Amministrazione può avvalersi solo a
condizione che la prescrizione impartita
consenta l'eliminazione degli inconvenienti
che impediscono un armonico inserimento
dell'opera nel contesto ambientale; e ciò
senza trascurare che ove si consentisse una
modifica materiale dell'opera ai fini del
condono edilizio, si verrebbero a sanare non
già le opere realizzate ed ultimate entro
una certa data (01.10.1983) ma opere
diverse, in realtà ultimate successivamente,
oltre i precisi limiti temporali
inderogabilmente previsti dalla legge.
_________________
1. - Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 19.07.1996, n. 968, in Rass. Cons. Stato 1996,
pag. 1209 e Cons. Stato, sez. VI, 05.07.1990, n. 692, in Rass. Cons. Stato 1990,
pag. 994.
2. - Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18.10.1999, n. 1437, in Rass. Cons. Stato 1999,
pagg. 1689 e segg. e nel senso di escludere
la possibilità di imporre prescrizioni e
condizioni Tar Toscana, sez. I, 17.07.2000 n. 1691
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza
17.07.2000 n. 1695 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Annullamento ministeriale -
Termine di 60 giorni - Applicabilità alla
comunicazione o alla notificazione -
Esclusione.
2. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Annullamento ministeriale -
Termine di 60 giorni - Decorrenza -
Completezza della documentazione -
Necessità.
3. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Prescrizioni e condizioni -
Possibilità - Condono edilizio - Esclusione.
1. - Il termine di sessanta giorni di cui
all'art. 82 del D.P.R. n. 616/1977, nel testo
modificato dalla legge n. 431/1985, ancorché
perentorio, attiene al solo esercizio del
potere di annullamento -da parte
dell'amministrazione statale- delle
autorizzazioni regionali in materia di
costruzioni nelle zone soggette a vincolo
paesistico di cui all'art. 7 L. 1497/1939,
restando estranea alla previsione normativa
l'ulteriore fase della comunicazione o
notificazione.
2. - Il termine di sessanta giorni di cui
all'art. 82 del D.P.R. n. 616/1977 decorre
dalla data di ricezione, da parte
dell'amministrazione centrale, del
provvedimento regionale completo dell'intera
documentazione, salva la possibilità di
disporre integrazioni istruttorie che
interrompono il predetto termine perentorio.
Tale possibilità di interruzione è connessa
alla circostanza di fatto che la decorrenza
del termine presuppone la completezza della
documentazione necessaria alla formulazione
del giudizio di legittimità rimesso
all'amministrazione statale preposta alla
tutela del vincolo, salva la possibilità
(per l'interessato) di dimostrare che la
richiesta istruttoria di ulteriore
documentazione è del tutto ingiustificata e
volta ad eludere la perentorietà del termine
stabilito.
3. - Ai fini della sanatoria -e,
correlativamente, del nulla osta
paesaggistico laddove trattasi di opere
eseguite su aree sottoposte a vincolo-
occorre aver riferimento alla data di
ultimazione delle stesse e, quindi, agli
elementi strutturali o estetici che già
connotano le opere eseguite, dovendosi
valutare la sanabilità o, prima ancora in
caso di contrasto con un vincolo ambientale,
la compatibilità della costruzione, così
come essa si presenta e non come potrebbe
essere qualora fossero realizzate
determinate modifiche, strutturali o meno,
che ne consentirebbero l'inserimento
nell'ambiente circostante.
Infatti l'oggetto
della valutazione di compatibilità
ambientale, richiesta all'autorità
competente, non può che essere il manufatto
edilizio così come esso si presenta alla
data fissata dalla legge ai fini della
sanatoria dell'opera abusiva; il parere
favorevole condizionato a eventuali
modifiche della stessa è illegittimo in
quanto determinerebbe, in pratica,
l'elusione del termine di ultimazione del
manufatto, il cui rispetto costituisce
invece il presupposto di ammissibilità alla
procedura di sanatoria ed alla conseguente,
ove necessaria, valutazione di compatibilità
ambientale della costruzione.
E' pertanto
legittimo il decreto ministeriale di
annullamento del parere favorevole alla
sanatoria rilasciato dal Comune nel
procedimento ex art. 32 L. 47/1985 a
condizione che siano realizzate "falde
inclinate di copertura in cotto" (ritenuto
necessario dalla medesima autorità comunale
ai fini del rispetto del vincolo
paesaggistico).
_________________
1. - 2. - Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 03.02.2000, n. 628, in Rass. Cons. Stato
2000, pag. 219 e Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2000, n. 403, in Rass. Cons. Stato
2000, pag. 124.
3. - In argomento, sulla possibilità di
imporre prescrizioni e condizioni, si veda
Tar Toscana, sez. I, 17.07.2000 n. 1695
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza
17.07.2000 n. 1691 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: 1. -
Concorso di progettazione - Procedura
ristretta ex D.Lgs. 157/1995 - Criteri -
Sommatoria dei punteggi ottenuti in sede di prequalificazione ed in sede di gara vera e
propria - Illegittimità.
2. - Servizi -
Concorso di progettazione - D.Lgs. 157/1995 -
Criteri - Principio generale di netta
separazione tra fase di qualificazione e
fase di valutazione delle offerte -
Sussistenza.
3. - Processo amministrativo - Impugnazione
- Interesse - Appalti e forniture - Servizi
- Bando - Dies a quo - Individuazione.
4. -
Risarcimento del danno - Annullamento
giurisdizionale della lex specialis, "in
parte qua", e della conseguente
aggiudicazione - Accoglimento della domanda
di risarcimento del danno in forma specifica
proposta dal ricorrente secondo
classificato, ex art. 35 D.Lgs. 80/1998 -
Accertamento e dichiarazione del diritto del
ricorrente all'aggiudicazione della gara
d'appalto - Sussistenza.
1. - E' illegittimo il bando di gara nella
parte in cui viene prevista, ai fini della
formazione della conclusiva graduatoria dei
partecipanti alla selezione, la sommatoria
dei punteggi agli stessi attribuiti sia
nella fase di prequalificazione, che in sede
di valutazione comparativa dei progetti
esaminati.
2. - All'interno del sistema delineato dal
D.Lgs 157/1995 è chiaramente individuabile un
principio di netta separazione fra la fase
della qualificazione (disciplinata quanto ai
relativi requisiti, dagli artt. 12-17) e
quella della valutazione dell'offerta (in
ordine alla quale gli elementi rilevanti
vengono individuati dall'art. 23).
3. - L'interesse all'impugnazione del bando
di gara, nella parte in cui prevede, ai fini
della formazione della conclusiva
graduatoria dei partecipanti alla selezione,
la sommatoria dei punteggi da ciascuno di
essi conseguiti nella fase di
prequalificazione e nella fase di gara vera
e propria, assume il necessario carattere di
concretezza ed attualità solo al momento ed
in conseguenza dell'approvazione della
conclusiva graduatoria e dell'accessiva
aggiudicazione, atteso che la valenza
pregiudizievole di tale disposizione della "lex
specialis" della gara, è venuta ad emersione
in conseguenza e per l'effetto
dell'attribuzione (operata nei confronti del
controinteressato raggruppamento) di un
punteggio complessivo che ha a quest'ultimo
consentito di conseguire un poziore
collocamento nella conclusiva graduatoria.
4. - Per effetto dell'annullamento del bando
di gara "in parte qua" (ovvero, nella
specie, limitatamente alla previsione, in
esso contenuta, della sommatoria dei
punteggi conseguiti dai partecipanti alla
selezione ai fini della formazione della
graduatoria finale) e del conclusivo
provvedimento di aggiudicazione, è accoglibile la domanda di risarcimento in
forma specifica, svolta ai sensi dell'art.
35 D.Lgs 80/1998 (nel caso di specie, il
giudice amministrativo ha accertato e
dichiarato il diritto del ricorrente
all'aggiudicazione della gara d'appalto, in
ragione del maggior punteggio da questi
conseguito in sede di valutazione delle
soluzioni progettuali presentate).
___________________
1. - 2. - Con espresso riferimento al
caso di specie, si vedano altresì le
seguenti determinazioni dell'Autorità per la
Vigilanza sui Lavori Pubblici: n. 9/99
dell'08.11.1999 (in G.U. 107 del 10.05.2000)
e n. 17/2000 dell'05.04.2000 (in G.U. 120
del 25.05.2000) (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 12.07.2000 n.
1640 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. - Contratti - Concessione - Gestione di
teatro comunale - Attinenza ad un bene
pubblico - Convenzione - Disciplina degli
obblighi e delle condizioni per l'esercizio
dell'attività.
2. - Contratti - Concessione - Rinnovo
condizionato - Atto unilaterale della p.a. -
Accordo dei contraenti in ordine alle
condizioni essenziali - Necessità.
3. - Contratti - Concessione condizionata -
Interruzione delle trattative da parte della
p.a. - Interesse del privato - Sussistenza -
Tutelabilità davanti al G.A.
4. - Contratti - Concessione - Rinnovo -
Modifiche alla convenzione - Richiesta del
concessionario - Mancato perfezionamento di
un elemento essenziale del contratto -
Conclusione delle trattative - Esclusione.
5. - Atto amministrativo - Comunicazione di
avvio del procedimento - Contratti -
Partecipazione del privato alla trattativa -
Non occorre.
1. - Il rapporto che ha per oggetto la
concessione ad un privato della gestione di
un teatro comunale deve qualificarsi come
concessione che attiene ad un bene pubblico
e all'attività riferibile all'ente locale;
alla concessione accede la convenzione che
disciplina gli obblighi e le condizioni per
l'esercizio dell'attività.
2. - Nel caso che l'Amministrazione deliberi
di procedere al rinnovo della concessione
anche per l'anno successivo "alle stesse
condizioni, con i medesimi prezzi e medesimi
patti", tale provvedimento costituisce un
atto unilaterale della P.A. ed il rinnovo
deve considerarsi subordinato al
raggiungimento dell'accordo tra i contraenti
in ordine a dette condizioni essenziali, tra
cui anche la definizione del programma della
stagione teatrale.
3. - Nell'ambito del sistema della
concessione-convenzione e dello specifico
strumento della concessione condizionata,
deve ritenersi sussistente l'interesse del
privato, tutelabile dinanzi al Giudice
Amministrativo, a sentire accertare la
legittimità dell'atto con cui
l'Amministrazione comunale dichiara
interrotte le trattative e delibera di
iniziare nuove trattative con soggetti
diversi.
4. - La richiesta del concessionario della
gestione del teatro di stralciare dalla
bozza di convenzione predisposta dal Comune
alcune previsioni relative al piano
finanziario dell'attività e dal programma
della stagione, senza fare proposte concrete
in vista del raggiungimento dell'accordo,
impedisce -per libera scelta dello stesso
concessionario- il perfezionarsi di uno
degli elementi essenziali dello stipulando
contratto (art. 1325 C. civ.) e comporta che
le trattative non possano ritenersi
concluse.
5. - Non sussiste l'obbligo di informare il
privato dell'avvio di un procedimento che si
conclude con l'atto che dichiara terminata
la trattativa con il privato stesso, qualora
quest'ultimo abbia attivamente partecipato
alla trattativa (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 11.07.2000 n.
1615 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: 1. - Atto amministrativo - Motivazione -
Delibera di interruzione delle trattative -
Sintetico richiamo alle vicende che hanno
caratterizzato il rapporto - Sufficienza.
2. - Atto amministrativo - Delibera del
consiglio comunale - Mancata indicazione
nell'ordine del giorno - Delibera meramente
applicativa di precedente determinazione -
Irregolarità formale - Insussistenza -
Legittimità.
3. - Atto amministrativo - Pareri preventivi
ex art. 53 L. 142/1990 - Omissione - Assenza
di valutazioni di carattere tecnico e di
impegni di spesa - Possibilità.
1. - Deve ritenersi adeguatamente motivata
la delibera che dà atto dell'interruzione
delle trattative con colui che era il
concessionario della gestione per l'anno
precedente, richiamandosi -seppure in modo
sintetico- alle vicende che hanno
caratterizzato il rapporto e comportato il
suo deterioramento, quali le contestazioni
tra le parti, la richiesta di contributi non
previsti che contrasta con l'impegno assunto
dal concessionario a gestire l'attività alle
medesime condizioni dell'anno precedente,
richiesta che conferma una situazione
economica e patrimoniale del teatro incerta
e instabile, con la chiara prevedibilità di
un ulteriore certo e futuro contenzioso.
2. - Non costituisce irregolarità formale,
come tale rilevante ai fini della
legittimità dell'atto, la mancata
indicazione nell'ordine del giorno della
seduta del Consiglio Comunale delle
possibili determinazioni in ordine alla
gestione del teatro, nel caso in cui queste
vengano trattate nell'ambito delle
comunicazioni del sindaco previste dal
suddetto ordine del giorno e comportino la
adozione di una delibera meramente
applicativa di altra determinazione
precedentemente assunta dal competente
organo .
3. - I pareri preventivi ex art. 53 L
n. 142/1990 anche in ordine alla copertura
finanziaria dell'atto possono essere omessi
qualora il provvedimento non implichi
valutazioni di carattere tecnico e non
contenga impegni di spesa.
__________________
3. - Cfr. . di Stato, Sez. VI, n. 513/1996 in Rass. Cons. di Stato, 1996, pag. 508 e Sez.
V n. 442/1994, in Rass. Cons. di Stato,
1994, pag. 754 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 11.07.2000 n.
1615 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Diniego -
Illegittimità - Manufatto adibito ad
assistenza e riabilitazione di invalido -
Legge 104/1992 - Ragioni eccezionali - Assentibilità dell'intervento fino all'esaurimanto
della causa.
È illegittimo il provvedimento con il
quale il Comune, in ordine ad una richiesta
di concessione edilizia per la "creazione"
di un alloggio finalizzato ad accogliere una
persona affetta da invalidità totale e
permanente (posizionato al piano terreno di
un fabbricato urbano e costituito da una
stanza con servizi igienici e piccola
palestra), rigetta l'anzidetta domanda in
quanto la legge n. 104/1992 deve essere
interpretata -nel caso di adibizione dei
progettati manufatti alle funzioni di
assistenza e riabilitazione delle quali
l'invalido ha estremo e indispensabile
bisogno- nel senso di consentire l'assentibilità
dell'intervento edilizio proposto al fine di
permettere l'esercizio dei diritti di
libertà e autonomia della persona
handicappata, nonché il recupero funzionale
dell'invalido, sicché l'esaurirsi di una
siffatta causa porterà necessariamente al
venir meno delle ragioni del tutto
eccezionali che legittimano, ora, l'assentibilità
alla realizzazione delle opere stesse (che
dovranno quindi essere successivamente
rimosse) (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 09.06.2000 n.
1151 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Diniego -
Sanatoria art. 13 L. 47/1985 - Contrasto con
profili di tipo igienico-sanitario -
Legittimità.
E' legittimo il diniego avverso la
richiesta di concessione in sanatoria ai
sensi dell'art. 13 L. 47/1985 ove, pur non
ostandovi interessi urbanistici, sussistono
interessi altrettanto essenziali e
meritevoli di tutela afferenti all'igiene ed
alla sanità che richiedono la demolizione
dell'opera abusiva dal momento che un'opera,
ancorché sanabile dal punto di vista
strettamente urbanistico-edilizio, non può
però essere assentita allorché contrasta con
aspetti altrettanto essenziali e meritevoli
di tutela quali quelli connessi alla
igienicità e salubrità dei locali
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
19.05.2000 n. 928
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Diniego -
Volumetria - Area già computata in occasione
di precedente concessione - Calcolo sulla
parte residua - Legittimità.
Un'area già computata ai fini del
calcolo della volumetria consentita non può
essere considerata libera ai fini di una
seconda concessione richiesta (quest'ultima,
nella perdurante esistenza della prima
edificazione), a nulla rilevando che la
proprietà dell'intera, originaria area sia
stata nel frattempo frazionata o trasferita.
Deve pertanto ritenersi legittima la
determinazione dell'amministrazione comunale
che nel verificare l'assentibilità del
progetto edificatorio proposto dai
ricorrenti ai fini del rilascio di una
seconda concessione tenga conto della
residua volumetria edificabile della
porzione di terreno di proprietà degli
interessati, rilevando, in concreto, il
sopravvenuto esaurimento della capacità
edificatoria della parte del lotto
interessata alla costruzione dei manufatti
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
19.05.2000 n. 927 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Annullamento ministeriale -
Giudizio di compatibilità con il vincolo
paesistico - Profilo di legittimità -
Attinenza.
2. - Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Annullamento ministeriale -
Motivazione - Necessità - Fattispecie -
Sufficienza - Manufatti similari nella zona
- Irrilevanza.
1. - Dal momento che il rilievo ministeriale
d'incompatibilità di un'opera con l'ambiente
circostante, lungi dal costituire
un'ingerenza nel giudizio di merito di
competenza dell'Ente locale, concerne il
necessario giudizio di compatibilità
dell'autorizzazione con il vincolo, attiene
al profilo di legittimità -rientrando nella
più generale figura di eccesso di potere-
la considerazione dell'autorizzazione ex
art. 7 della legge 1497/1939 in rapporto alle
esigenze di tutela del vincolo paesistico,
dovendosi ritenere che, essendo scopo
dell'autorizzazione quello di amministrare
il vincolo garantendo la conservazione dei
valori oggetto di tutela, tale atto sia
affetto da un vizio funzionale allorché
l'iter del procedimento ed in generale la
circostanza connessa alla sua adozione
rendano palese che vengono consentite
trasformazioni in contrasto con il pregio
ambientale.
2. - L'obbligo di motivazione (ex art. 82,
nono comma, D.P.R. 616/1977) del
provvedimento di annullamento
dell'autorizzazione rilasciata ex art. 7 L.
1497/1939 -a mezzo del quale il Ministro è
tenuto ad esternare completamente le ragioni
della ritenuta incompatibilità dell'opus con
l'ambiente circostante- risulta essere
stato sufficientemente soddisfatto mediante
il rilievo che l'opera risulta addirittura
"assemblata" e che introduce "aspetti di
degrado nella configurazione del sito",
avendo avuto cura l'Autorità ministeriale di
evidenziare come la permanenza di tali opere
ha comportato l'alterazione dell'assetto estetico-tradizionale oltreché panoramico
della località protetta.
E' del tutto
irrilevante che nelle vicinanze del
fabbricato esistano altri fabbricati
similari che anzi imprimono il carattere
della doverosità all'intervento di
annullamento del Ministero volto ad impedire
l'ulteriore degrado dell'intera area.
_________________
1. - Vedi Consiglio di Stato, VI Sez., 04.11.1991, n. 828, in Rass. Cons. di
Stato, 1991, in motivazione pag. 1744.
2. - Cfr., in tema di motivazione
dell'annullamento ministeriale, TAR Toscana,
III Sez., 07.04.2000, n. 604 (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
19.05.2000 n. 924 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Comunicazione
di avvio del procedimento - Procedimenti ad
iniziativa di parte - Esclusione.
L'obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento di cui al comma 1 dell'art. 7
L. 241/1990 deve ritenersi escluso
nell'ipotesi di procedimenti attivati ad
iniziativa di parte invero, essendo la
comunicazione preordinata a far conoscere in
via preliminare le intenzioni
dell'amministrazione, nel caso in cui sia la
parte ad attivare il procedimento la
finalità della norma può dirsi pienamente
soddisfatta (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
19.05.2000 n. 924 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Atto amministrativo - Comunicazione di
avvio del procedimento - Ingiunzione a
demolire - Non occorre.
2. - Sanzioni - Ingiunzione a
demolire art. 7 L. 47/1985 - Trasformazione di
volume tecnico in volume abitativo -
Ampliamento del manufatto preesistente -
Legittimità della sanzione.
3. - Sanzioni - Ingiunzione a
demolire - Mancata individuazione dei beni
da acquisire - Non inficia l'ingiunzione.
1. - Non sussiste l'obbligo di osservanza
delle prescrizioni di carattere garantistico
previste dall'art. 7 L. 241/1990 a carico del
Comune nel caso di ordinanza di demolizione
poiché trattasi di attività vincolata, come
tale esente dall'obbligo di avviso.
2. - L'uso della sanzione amministrativa
prevista dall'art. 7 della legge n. 47/1985 si
rileva corretto in caso di trasformazione
del volume tecnico in un volume abitativo
poiché costituisce una nuova opera urbanisticamente rilevante in ampliamento
del manufatto preesistente, che in mancanza
di titolo, è soggetta alla sanzione della
demolizione prevista dal citato articolo.
3. - L'ingiunzione di demolire ha l'effetto
di diffidare il destinatario all'adempimento
dell'ordine in esso contenuto, in difetto
del quale il Comune provvede
all'acquisizione del bene e dell'area di sedime, ma una non esatta individuazione dei
beni da acquisire non ha valenza inficiante
sull'ordine medesimo (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
19.05.2000 n. 924 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Dichiarazione
di pubblica utilità - Termini - Scadenza -
Decreto di esproprio - Illegittimità -
Termine quinquennale di occupazione di
urgenza - Irrilevanza.
Il termine di validità della
dichiarazione di pubblica utilità,
indifferibilità ed urgenza dei lavori (che
non è fissato in alcun provvedimento
legislativo) è determinato di volta in volta
dalle Amministrazioni nei provvedimenti di
approvazione dei progetti esecutivi in
rapporto alla tipologia e durata dei lavori
da eseguire; pertanto è illegittimo il
decreto di esproprio intervenuto dopo la
scadenza del termine massimo di quarantotto
mesi fissato nei provvedimenti con i quali è
stata dichiarata la pubblica utilità
dell'opera in questione, a nulla rilevando
la disciplina del D.L. 534/1987 e della L.
158/1991 concernente esclusivamente la proroga
del termine di occupazione quinquennale
fissato dall'art. 20 della legge 865/1971
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 18.04.2000 n. 703 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: 1. -
Risarcimento del danno - Illegittimità
dell'aggiudicazione per contraddittorietà ed
ingiustizia e disparità di trattamento -
Colpa della P.A. - Sussistenza.
2. -
Risarcimento del danno - Esclusione
illegittima - Mancata aggiudicazione -
Risarcimento automatico - Impossibilità -
Onere della prova - Contenuto.
3. -
Risarcimento del danno - Esclusione
illegittima - Criterio ex art. 345 L.
20.3.1865 n. 2248 all. F - Impossibilità.
4. - Lavori -
Risarcimento del danno - Esclusione
illegittima - Perdita di chance -
Determinazione - Criteri.
5. -
Risarcimento del danno - Esclusione
illegittima - Perdita di chance -
Liquidazione del danno - Metodo - Prova del
danno - Criterio.
6. -
Risarcimento del danno - Esclusione
illegittima - Responsabilità precontrattuale
- Risarcibilità dell'interesse negativo -
Criterio.
7. - Processo amministrativo - Risarcimento
del danno - Domanda (solo) per mancata
aggiudicazione - Interpretazione da parte
del giudice come domanda di risarcimento per
perdita di chance - Impossibilità - Ragioni
- Risarcimento per responsabilità
precontrattuale - Impossibilità per le
stesse ragioni.
8. - Lavori -
Risarcimento del danno - Prescrizione -
Decorrenza del termine.
1. - Nel caso di accertata illegittimità
dell'aggiudicazione dell'appalto (con
sentenza passata in giudicato), su
impugnativa di un concorrente escluso, per "contradddittorietà
ed ingiustizia" e per "disparità di
trattamento" devono ravvisarsi sussistenti i
profili di colpa della P.A. giustificativi
dell'imputabilità ad essa dell'evento
dannoso, ritenendosi violate le regole di
imparzialità, di correttezza e di buona
amministrazione alle quali l'esercizio della
funzione pubblica deve ispirarsi.
2. - La concorrente illegittimamente esclusa
da una gara per l'aggiudicazione di un
contratto della P.A., ai fini
dell'accoglimento della domanda di
risarcimento del danno per mancata
aggiudicazione, deve provare il proprio
"diritto all'aggiudicazione" ossia la sicura aggiudicabilità dell'appalto in suo favore e
la diminuzione dell'integrità patrimoniale
subita per effetto degli atti
illegittimamente posti in essere dalla P.A.,
non conseguendo questo automaticamente
dall'accoglimento del ricorso proposto
avverso l'esclusione riconosciuta
illegittima.
3. - Ai fini della quantificazione del
risarcimento, nell'ipotesi di concorrente
illegittimamente esclusa da una gara per
l'aggiudicazione di un contratto della P.A.,
non può invocarsi la disposizione di cui
all'art. 345 della l. 20.03.1865, n.
2248, all. F (che, nel dare atto della
facoltà della P.A. "di risolvere in
qualunque tempo il contratto", ricongiunge
l'esercizio di tale potere "al pagamento dei
lavori eseguito e del valore dei materiali
utili esistenti in cantiere, oltre al decimo
dell'importare delle opere non eseguite")
che presuppone un illegittimo esercizio del
potere di revoca del bando di gara che,
intervenuto successivamente
all'aggiudicazione della gara, si riveli
assimilabile ad un atto di "recesso".
4. - Nell'ipotesi di concorrente
illegittimamente escluso da una gara per
l'aggiudicazione di un contratto della P.A.,
il risarcimento del danno (che non possa
essere integrato dal danno per la mancata
aggiudicazione, nella specie per difetto di
prova del "diritto all'aggiudicazione") può
configurarsi in relazione alla c.d. "perdita
di chance", riferita alla possibilità di
conseguire un risultato utile (chance), la
cui risarcibilità è conseguenza del
verificarsi di un danno emergente da perdita
di possibilità attuale e non di un futuro
risultato utile.
5. - Il danno da "perdita di chance" va
liquidato assumendo come parametro di
valutazione l'utile economico
complessivamente realizzabile dal
danneggiato, diminuito di un coefficiente di
riduzione proporzionato al grado di
possibilità di conseguirlo; ovvero, ove tale
metodologia risulti di difficilmente
applicazione, con ricorso al criterio
equitativo ex art. 1226 c.c..
Al fine di
ottenere il risarcimento per perdita di una
chance, è necessario che il danneggiato
dimostri (anche in via presuntiva, ma pur
sempre sulla base di circostanze di fatto
certe e puntualmente allegate) la
sussistenza di un valido nesso causale tra
il danno e la ragionevole probabilità della
verificazione futura del danno e provi
quindi la realizzazione in concreto almeno
di alcuni dei presupposti per il
raggiungimento del risultato sperato e
impedito dalla condotta illecita della quale
il danno risarcibile deve essere conseguenza
immediata e diretta.
6. - La responsabilità precontrattuale viene
in considerazione laddove sia dimostrata
l'esistenza di una perdita patrimonialmente
rilevante connessa alle spese incontrate per
prendere parte ad una gara per
l'aggiudicazione di un contratto di appalto,
aggiudicazione alla quale la parte non abbia
potuto concretamente essere posta in
condizione di aspirare per fatto imputabile
a comportamento dalla P.A. assunto in
violazione degli obblighi di affidamento ex
art. 1337 c.c..
In caso di lesione
dell'interesse giuridico al corretto
svolgimento delle trattative, il danno
risarcibile (liquidabile anche in via
equitativa) si sostanzia unicamente nelle
perdite derivate dall'aver fatto affidamento
nella conclusione del contratto e nei
mancati guadagni verificatisi in conseguenza
delle altre occasioni contrattuali perdute
7. - In presenza di una domanda di parte
concernente il (solo) danno da mancata
aggiudicazione, non è dato al Giudice
operare una "modificazione" (quasi a
realizzare una "mutatio", o, quantomeno, una
"emendatio libelli" d'ufficio)
dell'originaria pretesa, ammettendo a
delibazione (e, nel caso di dimostrata
fondatezza della domanda, a risarcimento)
l'inammissibile tipologia di illecito
riveniente dalla perdita di chance.
Infatti,
la pretesa dedotta, presupponendo la
certezza dell'esito favorevole della
procedura, non è in alcun modo assimilabile
alla diversa domanda con la quale, in
relazione alla mera probabilità di esito
favorevole della selezione, venga invocato
il risarcimento del pregiudizio da perdita
di chance.
Le medesime considerazioni
precludono la delibabilità della proposta
pretesa risarcitoria sotto profilo -pur
astrattamente ipotizzabile- del
risarcimento per culpa in contrahendo (c.d.
responsabilità precontrattuale), costituito
dalle spese inutilmente effettuate in vista
della conclusione del contratto, sia dalla
perdita di ulteriori occasioni contrattuali,
ugualmente o maggiormente vantaggiose.
8. - Il termine prescrizionale per
l'esercizio della pretesa risarcitoria del
concorrente escluso da una gara d'appalto
decorre dal passaggio in giudicato della
decisione giurisdizionale di illegittimità
delle determinazioni con le quali
l'Amministrazione ha disposto
l'aggiudicazione dell'appalto (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. II,
sentenza
13.04.2000 n. 660 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
- Diniego - Sanatoria ex artt. 31 e ss. L.
n. 47/85 - Vincolo ambientale - Parere
negativo della Commissione Beni Ambientali -
Motivazione - Necessità - Fattispecie -
Sufficienza.
Ai fini del condono edilizio ex art. 31
e ss. L n. 47/1985, la valutazione negativa
dell'autorità preposta alla tutela del
vincolo ambientale (Commissione Beni
Ambientali) costituisce atto di
discrezionalità tecnica che deve essere
adeguatamente motivato sulle valutazioni
compiute in ordine alla prevalenza
dell'interesse pubblico giustificativo del
sacrificio imposto al privato.
Risulta
adeguatamente motivato il parere sfavorevole
reso "poiché i manufatti costituiscono
elementi di disordine compositivo
volumetrico e materico, manifestamente
evidenziato dalla eterogeneità dei materiali
applicati, dalla geometria delle
intersezioni a livello di copertura"
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
07.04.2000 n. 602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione gratuita L.
n. 94 del 1992 - Opere realizzate in zona paesisticamente protetta - Esclusione.
Le opere edilizie realizzate in zona paesisticamente
protetta non sono in ogni caso assentibili
mediante autorizzazione gratuita di cui alla
legge n. 94 del 1992, per l'esplicita
esclusione stabilita dallo stesso
legislatore (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 07.04.2000 n.
602 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: 1. - Processo amministrativo - Impugnabilità
dell'atto - Aggiudicazione - Aggiudicazione
provvisoria - Consegna e svolgimento del
servizio - Immediata lesività -
Impugnabilità.
2. - Gara -
Certificato di qualità - Criteri di
attribuzione del punteggio - Determinazione
prima della conoscenza dell'offerta -
Necessità.
1. - E' suscettibile di impugnazione
immediata l'aggiudicazione provvisoria di
una gara per l'affidamento di un appalto -indipendentemente dall'esistenza o meno di
un vero e proprio provvedimento di
approvazione della stazione appaltante- in
caso di consegna e svolgimento del servizio
e stipulazione del contratto, atteso che
l'immediata attività esecutiva posta in
essere dall'Amministrazione la rende idonea
a ledere immediatamente la sfera giuridica
dei terzi.
2. - Incorre nella violazione del principio
generale della predeterminazione dei criteri
di valutazione delle offerte,
l'Amministrazione che non esplicita
puntualmente i criteri di attribuzione del
punteggio concernente il certificato di
qualità della ditta invitata alla gara prima
dell'apertura della busta contenente
l'offerta economica e la relazione
progettuale e cioè, in sostanza, prima di
conoscere tutti i dati dell'offerta
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. II,
sentenza
15.03.2000 n. 450
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Processo amministrativo - Impugnazione
- Decorrenza del termine - Edilizia
residenziale pubblica - Piani di zona -
Assegnazione aree - Dies a quo -
Individuazione.
Poiché per gli atti per i quali non è
richiesta la notificazione e per i quali sia
prevista la pubblicazione obbligatoria il
termine per impugnare decorre dall'ultimo
giorno della pubblicazione all'albo pretorio
-operando, infatti, tale pubblicazione come
presunzione di conoscenza da parte degli
interessati- è tardiva l'impugnazione
proposta dopo la scadenza del termine così
determinato, avverso il provvedimento di
assegnazione dei terreni di una zona Peep
con esclusione dei ricorrenti (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 14.03.2000 n. 441 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Piano
regolatore - Variante - Motivazione
specifica - Quando occorre.
1. - Nell'ipotesi di approvazione da parte
del Comune di una variante al Piano
Regolatore, modificante la disciplina
urbanistica della zona, non sussiste
l'obbligo di motivazione specifica sulla
nuova destinazione, che si rende invece
necessaria nelle ipotesi in cui la scelta
incida su aspettative assistite da una
speciale tutela o da uno speciale
affidamento, quali quelle derivanti da un
piano di lottizzazione debitamente approvato
e convenzionato.
_________________
1. - Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 06.03.1998
n. 382 in Rass. Cons. Stato 1998, pag. 340
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 14.03.2000 n. 435 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
temporanea e d'urgenza - Scadenza termini
per compimento di espropriazione senza
adozione del relativo provvedimento -
Effetti sulla dichiarazione di pubblica
utilità e sul provvedimento di occupazione
d'urgenza.
1. - Il decorso dei termini finali fissati
ex art. 13 della Legge 2359/1865 nell'atto
dichiarativo della pubblica utilità senza la
realizzazione dell'opera e/o la emanazione
del decreto di esproprio comporta
l'inefficacia, ex tunc, della originaria
dichiarazione di pubblica utilità,
determinando l'illegittimità ab initio della
intera procedura espropriativa e della
connessa occupazione d'urgenza che risulta
così disposta sine titulo.
_________________
1. - La decisione afferma innovativamente la
illegittimità della intera procedura
espropriativa e della connessa occupazione
d'urgenza per il solo fatto dello scadere
dei termini finali della dichiarazione di
pubblica utilità (senza la tempestiva
emanazione del decreto di esproprio) così da
determinarsi ex tunc l'inefficacia della
medesima dichiarazione.
La tradizionale
giurisprudenza risulta, invece, orientata
nel senso che lo scadere di detti termini
comporta l'illegittimità del decreto di
esproprio tardivamente adottato (vds. Cons.
Stato, Sez. V, 23.10.1981 n. 518; Sez. IV,
09.07.1974 n. 531), senza "retroagire" sull'atto
dichiarativo della p.u. (per i profili
risarcitori conseguenti alla realizzazione
dell'opera pubblica vds. per tutte la
"fondamentale" Cass. Sez. Un. 28.02.83 n.
1464, nonché, per gli effetti restitutori e
di decorrenza del termine di prescrizione,
Cass. Sez. Un. 04.03.1997 n. 1907 e Cass. Sez.
I, 15.12.1995 n. 12841) (massima tratta
da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza
14.03.2000 n. 426 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni – Ingiunzione a
demolire – In pendenza di domanda di condono
ex art. 31 L. 47/1985 sul manufatto originario
- Realizzazione nuova costruzione –
Legittimità della sanzione.
È legittimo il provvedimento con il
quale l’Amministrazione ingiunge la
demolizione di una nuova costruzione
realizzata previo abbattimento del manufatto
precedente -di dimensioni, caratteristiche
e volumi nettamente (tre volte) inferiori-
già oggetto di domanda di condono ex art. 31
L. 47/1985 ancora pendente
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
03.03.2000 n. 405
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Processo amministrativo
- Impugnazione - Interesse – Carenza
sopravvenuta – Appalti e forniture –
Esclusione dalla gara – Impugnazione –
Successiva aggiudicazione – Mancata
impugnazione - Improcedibilità.
1. – Il provvedimento di aggiudicazione
dell’appalto non impugnato determina
l’improcedibilità per sopravvenuta carenza
di interesse del ricorso avverso
l’esclusione dalla licitazione, posto che
l’eventuale annullamento di quest’ultima non
produce l’automatico travolgimento dell’atto
di aggiudicazione.
________________
1. - conforme sentenza TAR Toscana n. 402
dell'01.03.2000
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. II,
sentenza
01.03.2000 n. 400
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: 1. - Dichiarazione di pubblica
utilità - Carenza - Decreto di occupazione
d'urgenza - Carenza di potere - Esclusione.
2. - Processo cautelare - Espropriazione e
occupazione - Occupazione temporanea e
d'urgenza - Azione di reintegrazione nel
possesso di fronte al G.A. - Mancata
impugnazione nei termini - Inammissibilità -
Domanda cautelare ex art. 21 L. n.
1034/1971- Necessità - Rigetto.
1. - In tema di espropriazione per pubblica
utilità, la carenza della dichiarazione di
pubblica utilità determina l'illegittimità
del decreto di occupazione d'urgenza per
difetto del presupposto e non la sua nullità
per carenza di potere ablativo (secondo il
consolidato orientamento della
giurisprudenza amministrativa che si
differenzia da quello delle Sezioni Unite
della Corte di Cassazione).
2. - Non può accogliersi la domanda diretta
alla reintegrazione del possesso di terreni
oggetto di provvedimenti di occupazione
d'urgenza non impugnati nei termini (ed a
torto ritenuti nulli per difetto della
dichiarazione di p.u.) posto che, a
prescindere dall'applicabilità nel processo
amministrativo degli strumenti interinali
disciplinati dal codice di rito (nonché
dalla riconducibilità della controversa
fattispecie nell'ambito della giurisdizione
esclusiva ex art. 34 d.lgs. 80/1998),
l'interessato avrebbe dovuto proporre in via
incidentale, nella tempestiva impugnativa
dei decreti di occupazione, domanda di
sospensione dell'esecuzione ex art. 21,
u.cpv. L. n. 1034/1971 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
ordinanza 24.02.2000
n. 265). |
AGGIORNAMENTO AL 18.07.2011 |
ã |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia,
Piano Casa 2011: timeline secondo la
legge n. 106/2011.
E' stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale
n. 160 del 12.07.2011 la legge 12.07.2011 n.
106 di conversione, con modificazioni, del
decreto legge 13.05.2011, n. 70, noto come ^Decreto
Sviluppo^.
La timeline del Piano Casa é stata
quindi aggiornata secondo le nuove scadenze
(link a www.studiospallino.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Lavoratori esposti al sole: obbligo del
datore di lavoro proteggerli adeguatamente!
I "lavoratori outdoor" sono coloro
che svolgono una frazione significativa del
proprio orario lavorativo all'aperto e sono
esposti a patologie correlate con la
radiazione solare. Tra le categorie dei
lavoratori che possono essere soggette a
questi rischi ci sono: agricoltori,
giardinieri, portuali, operai di cantiere,
istruttori di sport all'aperto, benzinai,
postini, bagnini, vigili urbani e tanti
altri.
La radiazione solare ultravioletta deve
essere considerata a tutti gli effetti un
rischio di natura professionale che va
trattato alla stregua di tutti gli altri
rischi (chimici, fisici, biologici) presenti
nell'ambiente di lavoro. La permanenza al
sole per un periodo più o meno prolungato
(la variabilità è soggettiva) può provocare
danni seri all’organismo umano.
I datori di lavoro devono mettere in atto
strategie di protezione dai raggi solari.
Vediamone qualcuna: ... (link a
www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Domande e risposte sulla sicurezza nei
cantieri e nei luoghi di lavoro.
- Quali sono i requisiti per svolgere la
funzione di R.S.P.P.?
- Come vanno trattati i lavoratori
occasionali?
- E’ obbligatorio tenere a bordo dei mezzi
d’opera cassette di medicazione?
- Il C.I.P. allegato al DURC appena scaduto
può considerarsi sostituivo dello stesso?
La risposta a queste e molte altre domande è
contenuta nella pubblicazione “Quesiti
sulla sicurezza nei luoghi di lavoro” a
cura del servizio “Info.Sicuri” della
Regione Piemonte.
Nel documento che alleghiamo a questo
articolo sono presenti una serie di domande
a cui la Regione Piemonte ha fornito precise
risposte.
Queste sono relative a:
- Applicazione generale del D.Lgs. 81/2008 e
smi – Titolo I
- Luoghi di lavoro, macchine e DPI – Titolo
II e III
- Cantieri – Titolo IV
- Segnaletica di sicurezza, movimentazione
manuale dei carichi, videoterminali – Titoli
V, VI, VII
- Agenti fisici, sostanze pericolose, agenti
biologici, protezione da atmosfere esplosive
– Titoli VIII, IX, X, XI (link a
www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quarto Conto Energia: arrivano le Regole
Tecniche e le Regole Applicative.
Il GSE (Gestore di Servizi Energetici) ha
pubblicato le “Regole Applicative”
sul quarto Conto Energia (D.M. 05.05.2011).
Il documento del GSE, ha lo scopo di
assicurare chiarezza e trasparenza sui
sistemi di incentivazione degli impianti
fotovoltaici. Esso definisce:
- le modalità di individuazione della
tariffa incentivante a cui l'impianto
fotovoltaico può accedere;
- le modalità di definizione delle
maggiorazioni e del premio abbinato all’uso
efficiente dell’energia;
- le modalità di accesso alle tariffe.
Vengono, inoltre, definite le modalità di
accesso alla maggiorazione del 10% sulla
tariffa incentivante per l'utilizzo di
componenti prodotti nell'Unione Europea.
Il secondo documento pubblicato è relativo
alle Regole Tecniche, che completano e
integrano le informazioni che il GSE ha già
pubblicato nei giorni scorsi relativamente
alla iscrizione al Registro per i grandi
impianti fotovoltaici (link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
16.07.2011 n. 164 "Conversione in
legge, con modificazioni, del decreto-legge
06.07.2011, n. 98 recante disposizioni
urgenti per la stabilizzazione finanziaria"
(Legge
15.07.2011 n. 111). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del
15.07.2011, "Modifiche ed integrazioni al
d.d.u.o. n. 1556 del 21.02.2011 sulle
modalità di accesso e di funzionamento della
procedura informatizzata per il taglio di
boschi, in attuazione dell’art. 11, comma 2,
del r.r. 5/2007 (Norme forestali regionali)"
(decreto
D.U.O. 08.07.2011 n. 6288). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del
14.07.2011, "Definizione delle
caratteristiche dei capi di abbigliamento
delle guardie ecologiche volontarie (art. 3,
c. 1, lett. E), l.r. 9/2005)"
(deliberazione
G.R. 06.07.2011 n. 1951). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 28 del
13.07.2011 "Pubblicazione ai sensi
dell’articolo 5 del Regolamento Regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei “Tecnici
competenti” in acustica ambientale
riconosciuti dalla Regione Lombardia alla
data del 04.07.2011, in attuazione dell’art.
2, commi 6 e 7 della legge 26.10.1995, n.
447, della deliberazione 17.05.2006, n.
8/2561 e del decreto 30.05.2006, n. 5985"
(comunicato
regionale 06.07.2011 n. 74). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Sistri e recepimento della Dir. n.
2008/99/Ce: da quando diverranno applicabili
le sanzioni?
Domanda.
Le norme relative al Sistri stanno per
essere nuovamente cambiate a seguito del
recepimento della direttiva 2008/99/CE sulla
tutela penale dell'ambiente ma non appare
chiaro da quando diverranno (e in che modo)
applicabili le sanzioni. Potreste chiarirci
tale aspetto?
Risposta.
Le
nuove sanzioni del SISTRI -introdotte nel
D.Lgs. n. 152/2006 dal D.Lgs. n. 205/2010-
saranno applicabili al termine del periodo
c.d. "a doppio binario" (la fase
transitoria durante la quale è prevista la
convivenza degli obblighi documentali del
registro di carico e scarico e del
formulario di identificazione dei rifiuti
col SISTRI) il cui termine è regolato
dall'art. 12, comma 2, del D.M. 17.12.2009.
Come è noto tale termine ha subìto varie
modifiche e da ultimo è stato prorogato dal
D.M. 26.05.2011, che ha previsto una
partenza scaglionata del SISTRI a seconda
delle categorie di imprese considerate.
Pertanto, quindi, le sanzioni entreranno in
vigore per tali imprese solo dopo il
rispettivo termine ad esse relativo
Il comma 1 dell'art. 39 del D.Lgs. n.
205/2010 ha confermato che le sanzioni del
SISTRI entreranno in vigore a decorrere dal
giorno successivo alla scadenza del termine
di cui all'art. 12, comma 2, del D.M.
17.12.2009.
Il comma 2 dell'art. 39, però, ha previsto
che tali sanzioni fossero introdotte con
gradualità ("Al fine di graduare la
responsabilità nel primo periodo di
applicazione"), per consentire agli
operatori del settore di superare le
difficoltà derivanti dell'applicazione del
nuovo sistema.
Più precisamente tale disposizione ha
stabilito che i soggetti obbligati
all'iscrizione che omettano l'iscrizione
(fattispecie prevista dall'art. 260-bis,
comma 1, TUA) o il relativo versamento nei
termini previsti (fattispecie prevista
dall'art. 260-bis, comma 2, TUA), fermo
restando l'obbligo di adempiere
all'iscrizione al SISTRI con pagamento del
relativo contributo, vengano puniti con
sanzioni commisurate al ritardo, per ciascun
mese o frazione di mese di ritardo ed in
particolare:
- se l'inadempimento si verifica nel periodo
01/01/2011-30/06/2011 [primo semestre], il
soggetto obbligato all'iscrizione che omette
iscrizione o versamento è punito con una
sanzione pari al 5% dell'importo annuale
dovuto per l'iscrizione;
- se l'inadempimento si verifica (o comunque
si protrae) nel periodo
01/07/2011-31/12/2011 [secondo semestre], il
soggetto obbligato all'iscrizione che omette
iscrizione o versamento è punito con una
sanzione pari al 50% dell'importo annuale
dovuto per l'iscrizione.
Tuttavia, il legislatore nell'introdurre una
previsione così puntuale, non aveva certo
immaginato che a seguito delle successive
proroghe la data d'inizio di questo
meccanismo di attenuazione delle sanzioni
sarebbe poi risultato "superato" e
non più coordinato con la data (rectius,
le date) del pieno avvio del SISTRI (si
veda, da ultimo la partenza "scaglionata"
prevista per le differenti categorie di
soggetti interessati dal D.M. 26.05.2011).
Si è così deciso di dover correre nuovamente
ai ripari e di introdurre nuove modifiche
(le stesse, probabilmente, a cui si fa
riferimento nel quesito).
Si è scelto di utilizzare a questo scopo lo
schema di decreto legislativo di attuazione
delle direttive 2008/99/CE (tutela penale
dell'ambiente) e 2009/123/CE (inquinamento
provocato dalle navi), non ancora pubblicata
in GU.
L'ultima versione del decreto -quella
definitivamente approvato dal Consiglio dei
Ministri n. 145 del 07.07.2011- precisa la
portata temporale della riduzione delle
sanzioni, chiarendo che sino alla piena
operatività del SISTRI, saranno ridotte, ad
eccezione dei casi di comportamenti
fraudolenti:
- a 1/10 le sanzioni per le violazioni
compiute negli otto mesi successivi alla
decorrenza degli obblighi di operatività per
ciascuna categoria di operatori, enti o
imprese
- a 1/5 le sanzioni per le violazioni
compiute dalla scadenza dell'ottavo mese e
per i successivi quattro mesi.
Quindi, al posto delle date già indicate, si
ricorre ad un periodo, rispettivamente, di
otto e quattro mesi, a partire dai termini
di piena operatività ex art. 12, comma 2, DM
del 17.12.2009 e s.m.i., durante il quale le
sanzioni saranno più soft.
Si segnala, da ultimo, che il termine di
avvio della piena operatività del SISTRI per
le microimprese (fino a 10 dipendenti)
produttrici di rifiuti pericolosi subirà una
ulteriore proroga a seguito della norma
all'uopo inserita nel testo del c.d. "decreto
Sviluppo" (D.L. n. 70/2011)
definitivamente approvato da parte del
Senato: la norma non precisa la nuova data
ma questa dovrà essere comunque "non
antecedente all'01.06.2012". La data
fissata dal D.M. 26.05.2011 è (era), invece,
quella del 02.01.2012 (14.07.2011 - tratto
da www.ipsoa.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI: La determina dell'Authority sui pagamenti.
Tracciabilità dovuta.
Acquisizioni in economia coinvolte.
Tracciabilità dei pagamenti obbligatoria
anche per le acquisizioni in economia
mediante amministrazione diretta, quando sia
necessario approvvigionarsi dei beni e
servizi necessari per l'effettuazione
dell'opera o del servizio. L'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori
servizi e forniture rivede il suo precedente
avviso e corregge il tiro.
Il punto 3.13
della
determinazione
07.07.2011 n. 4, che
contiene le linee guida sulla tracciabilità
dei flussi finanziari ai sensi dell'articolo
3 della legge 136/2010 prende atto che gli
appalti necessari all'amministrazione
diretta non possono sfuggire alla
tracciabilità.
La precedente determinazione 10/2010
dell'Authority aveva indirettamente
qualificato l'istituto dell'amministrazione
diretta, escludendo che si tratti di un
contratto d'appalto con un operatore
economico, cioè con uno dei soggetti
considerati dall'articolo 3, commi 19 e 22,
del codice dei contratti. Da qui la
conclusione della sua sottrazione agli
obblighi sulla tracciabilità.
Il
provvedimento del 2010 aveva, tuttavia,
trascurato la circostanza che gli enti per
svolgere in amministrazione diretta servizi
o forniture debbono disporre materialmente
dei mezzi di produzione. O, in mancanza,
acquisirli. Era evidente, allora, che gli
appalti finalizzati appunto ad ottenere
detti mezzi di produzione, proprio in quanto
appalti, non potessero sfuggire alla
disciplina della tracciabilità: in
particolare, l'obbligo di acquisire il
codice identificativo della gara (Cig) e
tutte le regole sulle clausole contrattuali
necessarie a garantire il rispetto
dell'obbligo di tracciare i pagamenti
mediante conti correnti specificamente
indicati.
La determinazione 4/2011 spiega meglio
la questione. L'Authority ritiene di
specificare che «le acquisizioni di beni e
servizi effettuate dal responsabile del
procedimento per realizzare le fattispecie
in economia sono soggette agli obblighi di
cui all'art. 3 della legge n. 136/2010
qualora siano qualificate come appalti». Il
che avviene sempre appunto per le
acquisizioni dei mezzi di produzione, a meno
che non si tratti di mere spese economali,
sottratte agli obblighi sulla tracciabilità.
Il punto 3.13 della determinazione 4/2011 torna a
precisare invece che «sono soggetti agli
obblighi di tracciabilità gli acquisti in
economia mediante procedura di cottimo
fiduciario, ivi compresi gli affidamenti
diretti di cui all'articolo 125, comma 8,
ultimo periodo e comma 11, ultimo periodo»
del codice dei contratti
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011 - link a
www.corteconti.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Amministratori, rimborsi se
assolti.
Quesito: Sono rimborsabili le spese legali
sostenute da ex amministratori comunali
coinvolti in un procedimento penale?
Non esiste una disposizione che obblighi il
comune a tenere indenni gli amministratori
delle spese processuali sostenute in giudizi
penali concernenti imputazioni
oggettivamente connesse all'espletamento
dell'incarico, espressamente prevista,
invece, per i dipendenti comunali.
La
disposizione ex art. 28 Ccnl dipendenti
degli enti locali del 14/09/2000 è stata
considerata dalla giurisprudenza
«applicabile in via retroattiva ed in via
estensiva agli amministratori e non solo ai
dipendenti pubblici -“in considerazione del
loro status di pubblici funzionari”- ma si
è ritenuta limitata ai procedimenti
giurisdizionali, senza che ciò escluda
tuttavia la rimborsabilità della spese
sopportate in sede di indagine penale,
potendosi fare ricorso alla azione di
ingiustificato arricchimento» (cfr. Cons. di
stato, sez. VI, sent. n. 5367/2004).
In
forza di tale norma «hanno titolo al
rimborso delle spese legali il dipendente e
quindi l'amministratore legale, sottoposti a
giudizio penale per fatti o atti
direttamente connessi all'espletamento del
servizio e all'adempimento dei compiti
d'ufficio, sempreché il giudizio non sia
concluso con una sentenza di condanna e non
vi sia conflitto di interessi con
l'amministrazione di appartenenza...» (cfr
Cons. di stato, sez. V, sent. n. 3946/2001).
Altra parte della giurisprudenza (cfr. Cons.
di stato, sez. V n. 2242/2000) ha, invece,
applicato l'analogia iuris -tramite il
richiamo all'art. 1720, comma 2, c.c., in
base al quale «Il mandante deve inoltre
risarcire i danni che il mandatario ha
subito a causa dell'incarico»- ed ha,
comunque, evidenziato la sostanziale
eccezionalità del rimborso delle spese
legali ribadendo, con richiamo alla
giurisprudenza ordinaria che, ai fini del
rimborso, è necessario accertare che le
spese siano state sostenute a causa e non
semplicemente in occasione dell'incarico e
sempre entro il limite costituito dal
positivo e definitivo accertamento della
mancanza di responsabilità penale degli
amministratori che hanno sostenuto le spese
legali.
Il giudice ordinario ha, peraltro,
chiarito ulteriormente tale concetto
precisando che il rimborso previsto dalla
norma del codice civile concerne solo le
spese sostenute dal mandatario in stretta
dipendenza dall'adempimento dei propri
obblighi, quelle, cioè, effettuate per
l'espletamento di attività che il mandante
ha il potere di esigere e che, per loro
natura, si collegano necessariamente
all'esecuzione dell'incarico conferito,
rappresentando il rischio a questo inerente.
L'ipotesi, non si verifica quando tale
attività abbia in qualsiasi modo dato luogo
a un'azione penale contro il mandatario e
questi abbia dovuto effettuare spese di
difesa delle quali intenda chiedere il
rimborso ex art. 1720 c.c. Ciò è evidente
nel caso in cui l'azione si riveli, a esito
del procedimento penale, fondata, ed il
mandatario-reo venga condannato, giacché la
commissione di reato non può rientrare nei
limiti di un mandato validamente conferito
(artt. 1343 e 1418 cc).
Il rimborso non è
possibile neppure quando il
mandatario-imputato, venga prosciolto,
giacché in tal caso la necessità di
effettuare le spese di difesa non si pone in
nesso di causalità diretta con l'esecuzione
del mandato, ma tra l'uno e l'altro fatto si
pone un elemento intermedio, dovuto
all'attività di una terza persona, pubblica
o privata, e dato dall'accusa poi rivelatasi
infondata. Anche in questa eventualità non è
dunque ravvisabile il nesso di causalità
necessaria tra l'adempimento del mandato e
la perdita pecuniaria, di cui perciò il
mandatario non può pretendere il rimborso
(cfr. Corte suprema di cassazione, sez. I
civ., del 20/12/2007, depositata il 16/04/2008,
n. 10052).
Alla luce degli orientamenti
giurisprudenziali della Cassazione e del
Consiglio di stato, pertanto, le spese
legali possono essere rimborsate solo
qualora vi sia una sentenza definitiva di
assoluzione nel merito dalle imputazioni
contestate che escluda, oltre alla
responsabilità del dipendente o
dell'amministratore, anche un eventuale
conflitto d'interesse con l'Ente (cfr. Corte
dei conti, sez. Giur. Reg. Liguria, sent. n.
580 del 13.10.2008).
È infatti opinione dominante, nella
giurisprudenza contabile, che per non
configurare conflitto di interessi occorre
una sentenza emessa con la formula più ampia
possibile, tale da far ritenere il
comportamento degli amministratori e/o
dipendenti improntato al rispetto del
principio cardine dell'art. 97 Costituzione
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011). |
ENTI LOCALI: Rendiconto
d'obbligo per i comuni che hanno usufruito
del 5 per mille.
Tutti i comuni, cui sono state destinate
somme per effetto della scelta dei
contribuenti ai fini del cinque per mille,
sono tenuti alla redazione del rendiconto e
della relazione sulle modalità di utilizzo.
I comuni destinatari di contributi di
importo inferiore a 20 mila euro dovranno
conservare per dieci anni la
rendicontazione, mentre le amministrazioni
locali che hanno ricevuto somme pari o
maggiori di 20 mila euro devono trasmettere
la rendicontazione al Ministero
dell'interno. In caso di inadempienza,
scatterà nei confronti delle amministrazioni
locali, l'iter per il recupero delle somme.
Lo precisa la
circolare
13.07.2011 n. 8/2011 del
Dipartimento della Finanza Locale del
Viminale, che fa chiarezza sulle modalità
per la predisposizione da parte dei comuni,
del rendiconto sulla destinazione delle
quote del 5 per mille dall'anno d'imposta
2008.
Come noto, l'articolo 63-bis del dl n.
112/2008 ha previsto la facoltà di destinare
una quota pari al 5 per mille anche a
sostegno delle attività sociali svolte dal
comune di residenza. La legge prevede che i
soggetti beneficiari del 5 per mille, sono
tenuti alla redazione, entro un anno dalla
ricezione delle somme ad essi destinate, di
un rendiconto dal quale risulti, anche
grazie a una relazione illustrativa, in modo
chiaro e trasparente, la destinazione delle
somme ad essi attribuite.
La circolare in oggetto, pertanto, precisa
che i comuni devono provvedere alla
rendicontazione delle somme relative agli
esercizi finanziari 2009, 2010 e 2011,
rispettivamente per i periodi d'imposta
2008,2009 e 2010. Per far ciò possono
utilizzare un rendiconto, il cui schema
generale è allegato alla circolare in esame
e altresì disponibile sul sito della
direzione centrale della finanza locale del
Viminale (www.finanzalocale.interno.it). Il
rendiconto dovrà essere firmato dal
responsabile dei servizi sociali, da quello
del servizio finanziario e dal collegio dei
revisori dei conti (ovvero dal revisore
unico), corredato da una relazione che
illustri quanto riportato sinteticamente nel
citato rendiconto.
Tutti i comuni, quindi, sono tenuti alla
redazione del rendiconto e della relazione
illustrativa entro un anno dall'effettiva
percezione dell'importo spettante. Ai fini
del calcolo del termine, si fa riferimento
alla data in cui la somma viene accreditata
presso la sezione della Tesoreria
provinciale dello Stato. In particolare, i
comuni percettori di somme inferiori a 20
mila euro sono tenuti alla sola
conservazione di detti documenti per dieci
anni. Documenti che potrebbero, infatti,
essere oggetto di apposite verifiche da
parte dello stesso Ministero dell'interno. I
comuni, invece, percettori di somme pari o
superiori a 20 mila euro sono ulteriormente
tenuti a trasmettere il carteggio alla
stessa Direzione centrale della Finanza
Locale, entro 30 giorni dalla scadenza
prevista per la redazione.
Per effetto delle disposizioni contenute
all'articolo 12 del Dpcm 03/04/2009, i
comuni che non rendicontano le somme, quelli
che, pur percependo somme inferiori a 20
mila euro non ottemperano alla richiesta
ministeriale di trasmettere il carteggio e i
comuni percettori di somme superiori a tale
soglia che non trasmettono il rendiconto e
la relazione, saranno oggetto di
provvedimenti di recupero
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI: L'apprendistato ora apre alla p.a..
Assunzioni con contratto di mestiere o per
formazione/ricerca.
Cosa prevede l'accordo siglato nei giorni
scorsi dal governo e dalle organizzazioni
sindacali.
L'apprendistato apre alla pubblica
amministrazione. L'accordo
sull'apprendistato siglato da governo e
sindacati (si veda ItaliaOggi del 13 luglio
scorso) prevede per la prima volta che anche
gli enti pubblici potranno assumere
apprendisti, in particolare in applicazione
della tipologia di contratti prevista
dall'articolo 1, comma 2, lettere b) e c),
del testo unico, e cioè l'apprendistato
professionalizzante (o contratto di
mestiere), nonché l'apprendistato di alta
formazione e ricerca. Resta escluso, invece,
l'apprendistato per la qualifica
professionale.
Per le pubbliche amministrazioni si tratta
certo di un'opportunità da cogliere, anche
se il percorso per rendere operativo il
reclutamento degli apprendisti appare
piuttosto complesso.
L'articolo 7, comma 8, del Testo unico
intanto demanda a successivi provvedimento
la soluzione del principale problema da
risolvere nell'esportazione di questa
tipologia di lavoro nella pubblica
amministrazione: cioè le modalità di
assunzione. La norma stabilisce che la
regolamentazione del reclutamento e
dell'accesso all'impiego nella p.a., sarà
definita da un decreto del presidente del
Consiglio dei ministri, su proposta del
ministro perla pubblica amministrazione e
l'innovazione e del ministro del lavoro e
delle politiche sociali di concerto con il
ministro dell'economia e delle finanze,
sentite le parti sociali e la Conferenza
unificata, entro 12 mesi dalla data di
entrata in vigore del presente decreto.
Verosimilmente, non si potrà fare a meno di
condizionare il reclutamento ad un concorso
pubblico, come impone l'articolo 97, comma
3, della Costituzione, come già del resto
avviene per l'assunzione mediante contratto
di formazione e lavoro. A maggior ragione
l'assunzione di apprendisti nella p.a. non
potrà prescindere dal concorso: l'articolo
2, comma 1, del Testo unico chiarisce a
livello normativo e, dunque, fugando ogni
residuo dubbio, che il contratto di
apprendistato è a tempo indeterminato, anche
se caratterizzato dalla «libera recedibilità»
tra le parti. Infatti, l'ultimo periodo del
citato articolo 2, comma 1, chiarisce che
«se nessuna delle parti esercita la facoltà
di recesso al termine del periodo di
formazione il rapporto prosegue come
ordinario rapporto di lavoro subordinato a
tempo indeterminato».
Il Dpcm cui rinvia il testo unico potrebbe,
tuttavia, non essere sufficiente. Infatti,
il testo unico rimette ai contratti
collettivi la disciplina di dettaglio
dell'apprendistato professionalizzante;
specifiche leggi regionali, nonché, per i
soli profili che attengono alla formazione,
accordi con le associazioni territoriali dei
datori di lavoro e dei prestatori di lavoro
comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale, le università, gli istituti
tecnici e professionali e altre istituzioni
formative o di ricerca, saranno il
presupposto per l'apprendistato di alta
formazione e ricerca. È facile constatare
come attualmente la contrattazione
collettiva dei comparti pubblici non preveda
nulla in merito.
In effetti, l'estensione alla p.a. del
contratto di apprendistato appare
estremamente utile, per provare a rilanciare
un ringiovanimento dei ranghi dei dipendenti
pubblici: l'età media in questi ultimi anni
si è alzata oltre i 47 anni, anche a causa
dei vincoli alle assunzioni disposti dalle
varie leggi finanziarie.
Non solo. Come tipico contratto a causa
mista, l'apprendistato ha una duplice
funzione: non solo la regolamentazione del
rapporto di lavoro, ma anche una specifica
funzione formativa per il lavoratore, cui
corrispondono simmetrici oneri organizzativi
a carico del datore, da cui discendono
alcune specifiche agevolazioni tipiche del
negozio. Tra queste, può rivelarsi di
particolare interesse per le amministrazioni
pubbliche e tanto più per gli enti locali la
possibilità espressamente prevista
dall'articolo 2, comma 1, lettera c), del
Testo unico «di inquadrare il lavoratore
fino a due livelli inferiori rispetto alla
categoria spettante, in applicazione del
contratto collettivo nazionale di lavoro, ai
lavoratori addetti a mansioni o funzioni che
richiedono qualificazioni corrispondenti a
quelle al conseguimento delle quali è
finalizzato il contratto ovvero, in
alternativa, di stabilire la retribuzione
dell'apprendista in misura percentuale e in
modo graduale alla anzianità di servizio».
Poiché gli enti locali debbono contenere le
assunzioni entro il 20% del costo delle
cessazioni avvenute l'anno precedente, sul
piano finanziario le assunzioni in
apprendistato potrebbero rivelarsi
convenienti. Naturalmente, però, la sola
valutazione del vantaggio finanziario non è
sufficiente. La qualità della formazione è
altrettanto importante ed occorre che gli
enti assicurino un'effettiva ed efficace
azione di miglioramento della
professionalità degli apprendisti, perché il
sistema risponda pienamente e correttamente
agli intenti del legislatore
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Più flessibile l'utilizzo delle visite
fiscali.
L'uso delle visite mediche di controllo (le
c.d. visite fiscali) nei confronti dei
dipendenti pubblici assenti per malattia
diventa più flessibile, lasciando alle
singole amministrazioni maggiore spazio di
manovra, ma mantenendo comunque inalterato
l'obiettivo di perseguire l'assenteismo.
Possono essere così sintetizzate le
modifiche apportate dalla manovra
correttiva. Appare opportuno che i comuni e
gli altri enti locali si diano, attraverso
norme regolamentari, criteri di carattere
generale per decidere le modalità di
utilizzazione di questo strumento.
Sulla base delle disposizioni
precedentemente in vigore tutte le PA, anche
nel caso di assenze per malattia di un solo
giorno, erano obbligate a richiedere le
visite fiscali. Solo in casi eccezionali,
quali ad esempio il ricovero in una
struttura ospedaliera, non sussisteva tale
vincolo. Il che si è dimostrato molto
oneroso, visto che il costo delle visite
fiscali è stato posto dalla Corte
costituzionale a carico delle singole
amministrazioni. E molto spesso si è
rilevato inutile, visto che in molte realtà
a seguito delle numerose richieste le visite
fiscali non possono essere effettuate,
quanto meno in tempi utili.
Con le nuove disposizioni, le
amministrazioni dovranno decidere il ricorso
alle visite mediche di controllo sulla base
dei seguenti tre fattori: l'esigenza di
contrastare l'assenteismo, la storia dei
singoli dipendenti e gli oneri che esse sono
chiamate a sostenere. Il modo con cui
mettere insieme questi fattori deve essere
scelto da ogni singolo ente. Per cui appare
opportuno che si approvi un regolamento,
assai snello, con cui dettare i principi di
carattere generale a cui fare riferimento.
Ad esempio, se un dipendente non si è mai
assentato per malattia negli ultimi 10 anni,
è assai probabile che il suo malessere
corrisponda ad una condizione di effettiva
patologia; se tra l'assenza e la malattia di
cui in modo certo il dipendente è affetto vi
è un nesso immediato, può essere inutile
richiedere la visita.
Ed ancora, nell'ambito
delle risorse disponibili, si possono dare
delle priorità. Ed inoltre, si può rimettere
al dirigente competente una valutazione
discrezionale nei casi in cui vi siano dei
dubbi sulla effettività della malattia.
Peraltro, in questa sede è bene decidere se
il dirigente competente è uno solo
nell'intero ente, nel qual caso non può che
essere quello del personale, o se la
competenza è attribuita a tutti i dirigenti
o se vi è una decisione da assumere con il
concorso del dirigente del settore e di
quello preposto alla gestione delle risorse
umane.
Il legislatore ha inoltre stabilito che le
visite fiscali debbano necessariamente
essere richieste, anche nel caso di assenze
per una sola giornata, quando la malattia
segue o precede immediatamente una giornata
o un periodo non lavorativo. Il riferimento
va al venerdì ed al lunedì, ai giorni
immediatamente precedenti o seguenti le
ferie, ai giorni in cui si può fare ponte.
Questa disposizione sembra quanto mai
opportuna visto che l'esperienza e i dati ci
dicono che in queste giornate si registrano
picchi di assenze per malattia. Per cui le
singole amministrazioni non hanno in questa
materia alcun margine di autonomia ed il
mancato rispetto della prescrizione
determina l'insorgere di responsabilità in
capo al dirigente competente.
Il provvedimento interviene anche sulle cd
fasce di reperibilità, cioè le ore nelle
quali i dipendenti assenti per malattia
devono necessariamente essere presenti nel
proprio domicilio per le eventuali visite di
controllo. Si conferma che la loro durata
giornaliera viene fissata dal ministro della
pubblica amministrazione e della Innovazione
con un proprio decreto. Si stabilisce, norma
che per il personale degli enti locali era
già presente nel Ccnl, che l'eventuale
assenza dal proprio domicilio durante tali
ore deve essere preventivamente comunicata
all'ente. Questa mancata comunicazione deve
necessariamente essere sanzionata in via
disciplinare.
Nel ricordare la necessità che
il dipendente fornisca comunque idonea
giustificazione, la stessa può essere
costituita dalla produzione della
certificazione di essersi recati a una
visita medica o di essere stati sottoposti
ad un esame clinico, diagnostico ecc.
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
A casa per
inidoneità fisica.
E in caso di pericolo scatterà la
sospensione. Lo prevede lo schema di dpr
attuativo della riforma del pubblico impiego.
Dipendenti pubblici, l'inidoneità
psicofisica assoluta fa scattare il
licenziamento. Inoltre, in presenza di
comportamenti gravi e ripetuti del
dipendente statale (ovvero in presenza di
condizioni fisiche critiche), quando ci sia
il fondato motivo che tali fattispecie
possano generare pericolo per sé, per gli
altri lavoratori o per l'utenza, la pubblica
amministrazione può disporre la sua
sospensione cautelare dal servizio.
Queste
alcune delle disposizioni contenute nello
schema di dpr, approvato dal Consiglio dei
Ministri lo scorso 7 luglio, attuativo delle
disposizioni ex articolo 55-octies del dlgs
165/2011 (riforma del pubblico impiego).
Le
disposizioni si applicano ai dipendenti,
anche con qualifica dirigenziale, delle
amministrazioni dello Stato, anche ad
ordinamento autonomo, degli enti pubblici
non economici, degli enti di ricerca e delle
università, nonché al personale delle
Agenzie fiscali.
Restano escluse le
categorie del personale cosiddetto non contrattualizzato (es. prefetti, professori
universitari, magistrati).
L'iter. L'iniziativa per avviare la
procedura per l'accertamento dell'inidoneità
psicofisica permanente spetta
all'amministrazione ovvero al dipendente.
L'inidoneità può essere assoluta, nel caso
di dipendente che a causa di infermità o di
difetto fisico o mentale «si trovi
nell'assoluta e permanente impossibilità di
svolgere qualsiasi attività lavorativa». È
invece relativa, nel caso di dipendente che,
per le predette cause, non può svolgere
alcune o tutte le mansioni che sono proprie
dell'area, categoria o qualifica posseduta.
La p.a., precisa l'art. 3, deve avviare
«d'ufficio» l'iter per l'accertamento
dell'inidoneità psicofisica del dipendente,
quando si protragga l'assenza per malattia
del dipendente, oltre il primo periodo
previsto dal Ccnl quale conservazione del
posto, quando si è in presenza di disturbi
gravi, evidenti e ripetuti che «facciano
fondatamente presumere l'esistenza
dell'inidoneità permanente o relativa»,
ovvero in presenza di condizioni fisiche che
facciano presumere l'inidoneità fisica
permanente assoluta o relativa dal servizio.
Nel primo dei casi evidenziati,
l'amministrazione, prima di concedere
l'ulteriore periodo di malattia al
dipendente, procede all'accertamento delle
condizioni di salute dello stesso, per il
tramite delle commissioni mediche presso le
Asp. Come detto, in presenza di condotte
gravi che possano essere nocive allo stesso
dipendente, ai colleghi o all'utenza,
l'amministrazione può disporre la
sospensione dal servizio sino a quando il
dipendente non si sottoporrà alla visita
medica. Se il dipendente «salterà» la visita
medica per ben due volte, l'amministrazione
ha facoltà di risolvere il rapporto di
lavoro.
Il dipendente sottoposto all'iter di
accertamento per la verifica di
comportamenti gravi o in presenza di
condizioni fisiche nocive, spetta il
trattamento economico previsto in caso di
assenza per malattia. Al dipendente sospeso
per mancata presentazione alla (prima)
visita medica di idoneità spetta il
trattamento economico previsto per chi è
sottoposto a sospensione cautelare per
procedimento penale (il trattamento meglio
noto come «assegno alimentare»).
Le conseguenze. Se viene accertata
l'inidoneità permanente relativa alle
mansioni del profilo assegnato al
dipendente, l'amministrazione dovrà
attivarsi per «rinquadrarlo» in mansioni
equivalenti, ovvero in altro profilo
professionale, assicurando un percorso di
riqualificazione. Potrà eventualmente
assegnarlo anche a mansioni inferiori,
assicurando al dipendente il trattamento
economico dell'area e fascia di provenienza,
mediante la corresponsione di un assegno
ad personam. Ma se non sarà possibile
collocare in alcun modo il dipendente,
questi sarà messo in «soprannumero»,
rendendo indisponibile il relativo posto.
La
p.a. potrà anche avviare una consultazione
con altre amministrazioni nell'ambito
territoriale della provincia, ai fini della
ricollocazione del dipendente interessato.
Nel caso di dirigenti, l'amministrazione
dovrà trovare altro incarico dirigenziale e,
nel caso di indisponibilità di posti,
collocarli a disposizione nei ruoli, senza
incarico. Tuttavia, se il dipendente viene
riconosciuto inidoneo assoluto al servizio,
l'amministrazione, previa comunicazione,
risolve il rapporto di lavoro e corrisponde,
se dovuta, l'indennità di preavviso (articolo ItaliaOggi del
14.07.2011 - link a
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI: In
tema di gare pubbliche, nel caso di
contrasto tra il bando e la lettera di
invito, prevale il primo, quale lex
specialis della selezione concorsuale, non
modificabile mediante lettera d'invito.
Osserva il Collegio che la lettera di invito
contiene una disciplina dei requisiti di
ammissione alla procedura più restrittiva di
quella prevista dal bando, o meglio dalle
sue norme integrative.
Deve essere poi osservato che la stazione
appaltante non propone alcuna
giustificazione del suddetto contrasto.
Torva quindi applicazione il principio,
affermato da Cons. Stato, V, 29.03.2004, n.
1660, secondo cui in tema di gare pubbliche,
nel caso di contrasto tra il bando e la
lettera di invito, prevale il primo, quale
lex specialis della selezione
concorsuale, non modificabile mediante
lettera d'invito (nello stesso senso C.G.A.,
18.05.2005, n. 349, Cons. Stato, II,
07.03.2001, n. 149/2001)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 14.07.2011 n. 4278 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le spese contrattuali gravano
sull’affidatario. La terminologia, anche
generica di contraente, utilizzata nel r.d.
del 1924 non è dirimente nel senso di
ritenere che esse possano essere pretese
solo dopo la stipulazione del contratto;
anzi, la natura stesse di tali spese
(imposte, bolli, ecc.) ne implica una
contestualità/anteriorità con la
stipulazione. D’altro canto l’art. 139 del
d.p.r. 207/2010 chiarisce che le spese di
contratto sono a carico dell’"affidatario”.
La vigente normativa preclude la
stipulazione del contratto in ipotesi di
mancanza attuale di correntezza
contributiva, sicché la stazione appaltante
correttamente ha preso atto
dell’impossibilità di stipulare il
contratto, unitamente alla circostanza
correttamente già contestata, revocando
l’affidamento con determinazione per tale
profilo vincolata.
E’ pacifico che le spese contrattuali
gravino sull’affidatario. La terminologia,
anche generica di contraente, utilizzata nel
r.d. del 1924 non è dirimente nel senso di
ritenere che esse possano essere pretese
solo dopo la stipulazione del contratto;
anzi la natura stesse di tali spese
(imposte, bolli, ecc.) ne implica una
contestualità/anteriorità con la
stipulazione. D’altro canto l’art. 139 del
d.p.r. 207/2010 chiarisce che le spese di
contratto sono a carico dell’"affidatario”
(in tal caso quindi espressamente
utilizzando una qualificazione che esclude
l’intervenuta stipulazione del contratto).
La ricorrente deduce di avere eccepito in
compensazione crediti derivanti
dall’anticipata esecuzione dei lavori.
Poiché per altro la stessa ricorrente
dichiara che trattavasi di crediti che
sarebbero emersi da un sal non ancora
emesso, come eccepito dall’amministrazione,
il credito eccepito in compensazione non era
né liquido né esigibile sicché alcun onere
dell’amministrazione vi era di considerarlo.
Né pare corretta la censura di “sproporzione”
poiché rilevante è non tanto l’importo in
contestazione quanto l’ostacolo che la
condotta della ricorrente ha
ingiustificatamente frapposto alla
stipulazione del contratto; inoltre, a
contrario, proprio l’indisponibilità a
versare una somma non rilevante e comunque
presupposta per la stipulazione del
contratto poneva la vicenda contrattuale in
inevitabile fase di stallo e risultava
sintomatica di non solvibilità dell’impresa.
A ciò si aggiunga che, nelle more del
procedimento di revoca, è emersa una
inadempienza contributiva della ricorrente
(per altro la seconda, essendone emersa una
prima, poi sanata, a ridosso
dell’aggiudicazione).
Sul punto occorre precisare che trova
applicazione non solo l’art. 38 co. 2 lett.
i), come sostenuto in ricorso, bensì l’art.
38 co. 3, quanto al rapporto tra correntezza
contributiva e stipulazione del contratto;
detto comma oltre alla verifica delle
dichiarazioni rese in sede di
partecipazione, tra cui quella di cui
all’art. 38 lett. i), ai fini di una
eventuale esclusione, per quanto in
specifico riguarda l’”affidatario” e
quindi la stipulazione del contratto, rinvia
all’art. 2 del d.l. n. 210/2002 il quale
recita: “Le imprese che risultano
affidatarie di un appalto pubblico sono
tenute a presentare alla stazione appaltante
la certificazione relativa alla regolarità
contributiva a pena di revoca
dell'affidamento”.
Si ritiene pertanto che la vigente normativa
precluda la stipulazione del contratto in
ipotesi di mancanza attuale di correntezza
contributiva, sicché la stazione appaltante
correttamente ha preso atto
dell’impossibilità di stipulare il
contratto, unitamente alla circostanza
correttamente già contestata, revocando
l’affidamento con determinazione per tale
profilo vincolata.
Il regolamento del codice appalti prevede
poi la verifica di gravità, con riscontro di
almeno due durc negativi, nei confronti
dell’appaltatore già firmatario del
contratto; analoga previsione non è
richiamata per quanto concerne le
irregolarità riscontrate al momento della
stipulazione del contratto
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 14.07.2011 n. 783 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nel
caso di costruzione da parte del vicino, la
conoscenza di una situazione potenzialmente
lesiva non obbliga il titolare
dell'interesse legittimo oppositivo ad
attivarsi immediatamente in sede
contenziosa. Dato che, l’edificazione
potrebbe, ad esempio, essere anche abusiva,
il termine decadenziale per l'impugnazione
decorre solo dalla piena conoscenza
dell'esistenza e dell'entità o delle
violazioni urbanistiche; o dal contenuto
specifico della concessione; ovvero comunque
del progetto edilizio.
Nel caso di costruzione da parte del vicino,
la conoscenza di una situazione
potenzialmente lesiva non obbliga il
titolare dell'interesse legittimo oppositivo
ad attivarsi immediatamente in sede
contenziosa.
Dato che, l’edificazione potrebbe, ad
esempio, essere anche abusiva, il termine
decadenziale per l'impugnazione decorre solo
dalla piena conoscenza dell'esistenza e
dell'entità o delle violazioni urbanistiche;
o dal contenuto specifico della concessione;
ovvero comunque del progetto edilizio (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n.
8705; Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010,
n. 8705; Consiglio Stato, sez. V,
24.08.2007, n. 4485)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.07.2011 n. 4234 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di autorimesse e parcheggi
sulla base del presupposto normativo della
disciplina dell’art. 9, 1° co., della l.
122/1989, è condizionata dal fatto che
questi siano realizzati nel sottosuolo per
l’intera altezza.
In altre parole, la deroga per la
realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi
da destinare a pertinenza di singole unità
immobiliari, siano totalmente al di sotto
dell’originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale
condizione, la realizzazione di
un’autorimessa, non può dirsi realizzata nel
sottosuolo, per cui in tali casi si applica
la disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal
PRG, anche per quanto concerne quindi il
pagamento dei contributi concessori.
La norma
dell'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122, che
consente di realizzare gratuitamente “nel
sottosuolo” parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari,
è una norma che ponendosi in deroga “…agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti…” è di stretta
interpretazione per cui deve trovare
rigorosa applicazione solo nelle fattispecie
in essa espressamente previsti.
Al riguardo la giurisprudenza unanime ha
sempre affermato che la realizzazione di
autorimesse e parcheggi sulla base del
presupposto normativo della disciplina
dell’art. 9, 1° co., della l. 122/1989, è
condizionata dal fatto che questi siano
realizzati nel sottosuolo per l’intera
altezza.
In altre parole, la deroga per la
realizzazione di autorimesse e parcheggi
prevista dall'art. 9, l. 24.03.1989 n. 122,
opera cioè solo nel caso in cui, i parcheggi
da destinare a pertinenza di singole unità
immobiliari, siano totalmente al di sotto
dell’originario piano naturale di campagna.
Qualora invece non si rispetti tale
condizione, la realizzazione di
un’autorimessa, non può dirsi realizzata nel
sottosuolo, per cui in tali casi si applica
la disciplina urbanistica dettata per le
ordinarie nuove costruzioni fuori terra dal
PRG, anche per quanto concerne quindi il
pagamento dei contributi concessori (cfr.
Consiglio Stato , sez. IV, 27.11.2010, n.
8260; Consiglio Stato, sez. IV, 23.02.2009,
n. 1070).
In conseguenza, vi è un regime di
sostanziale alternatività tra la fattispecie
di carattere eccezionale dell’art. 9 e la
ordinaria disciplina urbanistica in materie
di autorimesse dei singoli Comuni.
Nel caso in esame, deve rilevarsi che,
risultando un riporto di terra nel limite di
1 mt., ne consegue che l’autorimessa non
risulta integralmente realizzata “nel
sottosuolo”, ma è solamente “seminterrata”
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.07.2011 n. 4234 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA -
URBANISTICA: Qualora
un atto amministrativo a carattere generale
sia sottoposto a plurime forme di
pubblicità, la decorrenza del termine di
impugnazione deve essere ancorata alla
scadenza dell’ultima forma di pubblicità
prevista dalla legge o in base alla legge.
- L’interesse all’impugnazione da parte dei
destinatari delle scelte urbanistiche,
proprio per evitare di addivenire ad una
legitimatio generalis, richiede che le
“determinazioni lesive” fondanti siffatto
interesse siano effettivamente
“condizionate”, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo alle
preliminari conclusioni raggiunte in sede di
VAS.
- Sono inammissibili le censure concernenti
la disciplina urbanistica di aree estranee a
quelle di proprietà del ricorrente, sul
presupposto che le prescrizioni dello
strumento urbanistico vanno considerate
scindibili ai fini del loro eventuale
annullamento in sede giurisdizionale,
rimanendo salva la possibilità eccezionale
di proporre impugnativa solo quando la nuova
destinazione urbanistica, pur concernendo
un'area non appartenente al ricorrente,
incida direttamente sul godimento o sul
valore di mercato dell'area stessa, o
comunque su interessi propri e specifici del
medesimo esponente. Si rammenti l’importanza
dei limiti che si frappongono alla
configurabilità dell’interesse c.d.
strumentale all’impugnazione di uno
strumento urbanistico, nel senso che tale
impugnazione deve pur sempre ancorarsi a
specifici vizi ravvisati con riferimento
alle determinazioni adottate
dall’Amministrazione in ordine al regime dei
suoli in proprietà del ricorrente, e non può
fondarsi sul generico interesse a una
migliore pianificazione del proprio suolo,
che in quanto tale non si differenzia
dall’eguale interesse che quisque de populo
potrebbe nutrire.
- La destinazione data alle singole aree non
necessita di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico-discrezionale
seguiti nell’impostazione del piano, salvo
che particolari situazioni non abbiano
creato aspettative o affidamenti in favore
di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni. In
sostanza, le evenienze che giustificano una
più incisiva e singolare motivazione degli
strumenti urbanistici generali sono soltanto
quelle:
a) del superamento degli standards minimi di
cui al d.m. 02.04.1968, con riferimento alle
previsioni urbanistiche complessive di
sovradimensionamento, indipendentemente dal
riferimento alla destinazione di zona di
determinate aree;
b) della lesione dell’affidamento
qualificato del privato, derivante da
convenzioni di lottizzazione e accordi di
diritto privato intercorsi fra il Comune e i
proprietari delle aree;
c) delle aspettative nascenti da giudicati
di annullamento di concessioni edilizie o di
silenzio rifiuto su una domanda di
concessione e, infine,
d) dalla modificazione in zona agricola
della destinazione di un’area limitata,
interclusa da fondi edificati in modo non
abusivo.
Come già chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, IV,
31.05.2011 n. 3297; Cons. Stato, sez. IV, 19.01.1988, n. 3; TAR Lombardia,
Milano, II, 27.01.2010 n. 187), qualora un
atto amministrativo a carattere generale sia
sottoposto a plurime forme di pubblicità, la
decorrenza del termine di impugnazione deve
essere ancorata alla scadenza dell’ultima
forma di pubblicità prevista dalla legge o
in base alla legge (art. 41, co. 2° c.p.a.).
Ebbene, con particolare riguardo alla
Regione Lombardia, la L.R. 11-3-2005 n. 12
(Legge per il governo del territorio)
all’art. 13 (Approvazione degli atti
costituenti il piano di governo del
territorio), ha previsto che (comma 11°):
<<Gli atti di PGT acquistano efficacia con
la pubblicazione dell'avviso della loro
approvazione definitiva sul Bollettino
Ufficiale della Regione, da effettuarsi a
cura del comune…>>.
Ne consegue che, quando –come nel caso che
qui occupa- la deliberazione di
approvazione del P.G.T. sia stata dapprima
pubblicata sull’Albo Pretorio e solo in
seguito assoggettata alla pubblicazione sul
B.U.R., la presunzione legale di conoscenza
non avrà luogo sino a che non si sia
perfezionata l'intera fase della pubblicità
legale.
---------------
Come rammentato
anche di recente dalla giurisprudenza
amministrativa, l’interesse all’impugnazione
da parte dei destinatari delle scelte
urbanistiche, proprio per evitare di
addivenire ad una legitimatio generalis,
richiede che le “determinazioni lesive”
fondanti siffatto interesse siano
effettivamente “condizionate”, ossia
causalmente riconducibili in modo decisivo
alle preliminari conclusioni raggiunte in
sede di VAS (così Consiglio di Stato, IV,
12.01.2011 n. 133).
-------------
È
utile rammentare il
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui sono inammissibili le censure
concernenti la disciplina urbanistica di
aree estranee a quelle di proprietà del
ricorrente, sul presupposto che le
prescrizioni dello strumento urbanistico
vanno considerate scindibili ai fini del
loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale, rimanendo salva la
possibilità eccezionale di proporre
impugnativa solo quando la nuova
destinazione urbanistica, pur concernendo
un'area non appartenente al ricorrente,
incida direttamente sul godimento o sul
valore di mercato dell'area stessa, o
comunque su interessi propri e specifici del
medesimo esponente (cfr. Cons. Stato IV, 24.12.2007 n. 6619; Cons. Stato, sez. IV,
10.06.2004, n. 3755; sez. IV, 05.09.2003, n. 4980).
Ebbene, nel caso in esame non sussiste
affatto la prova di tale diretta incidenza
della nuova destinazione urbanistica delle
aree agricole sull’indice edificatorio
dell’area a destinazione produttiva
dell’istante.
Per cogliere al meglio tale aspetto, è
sufficiente richiamare, anche qui,
l’orientamento espresso dalla più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato, la
quale ha sottolineato l’importanza dei
limiti che si frappongono alla
configurabilità dell’interesse c.d.
strumentale all’impugnazione di uno
strumento urbanistico, nel senso che: <<tale
impugnazione deve pur sempre ancorarsi a
specifici vizi ravvisati con riferimento
alle determinazioni adottate
dall’Amministrazione in ordine al regime dei
suoli in proprietà del ricorrente, e non può
fondarsi sul generico interesse a una
migliore pianificazione del proprio suolo,
che in quanto tale non si differenzia
dall’eguale interesse che quisque de populo
potrebbe nutrire>> (cfr. Consiglio di Stato, IV, 12.01.2011 n. 133; Cons. Stato, sez. IV,
13.07.2010, nr. 4546).
In altri termini, sempre a mente del Supremo
Consesso: <<l’utilità rappresentata dal
possibile vantaggio che astrattamente il
ricorrente potrebbe ottenere per effetto
della riedizione dell’attività
amministrativa non è ex se indicativa della
titolarità di una posizione di interesse
giuridicamente qualificata e differenziata,
idonea a legittimare la tutela
giurisdizionale>> (cfr. decisione n.
133/2011 cit.).
Né, sempre secondo la cit. decisione, tale
utilità potrebbe essere ravvisata nella
“reviviscenza” del previgente e più
favorevole P.R.G., che si avrebbe per
effetto dell’annullamento giurisdizionale
del P.G.T., posto che tale utilità, <<oltre
a essere anch’essa non indicativa
dell’esistenza di un interesse
giuridicamente tutelabile, quand’anche
effettivamente sussistente sarebbe comunque
provvisoria, essendo jus receptum che
l’effetto immediato dell’annullamento di uno
strumento urbanistico consiste nel dovere
dell’Amministrazione di riesercitare la
propria potestà di pianificazione del
territorio>> (cfr. dec. n. 133/2011 cit.,
nonché: Cons. Stato, sez. IV, 07.06.2004, nr. 3563; Cons. Stato, sez. V, 23.04.2001, nr. 2415).
---------------
È
oltremodo pacifico che anche
la destinazione data alle singole aree non
necessiti di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico-discrezionale
seguiti nell’impostazione del piano, salvo
che particolari situazioni non abbiano
creato aspettative o affidamenti in favore
di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni.
In
sostanza, le evenienze che giustificano una
più incisiva e singolare motivazione degli
strumenti urbanistici generali sono soltanto
quelle:
a) del superamento degli standards
minimi di cui al d.m. 02.04.1968, con
riferimento alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b)
della lesione dell’affidamento qualificato
del privato, derivante da convenzioni di
lottizzazione e accordi di diritto privato
intercorsi fra il Comune e i proprietari
delle aree;
c) delle aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di concessioni
edilizie o di silenzio rifiuto su una
domanda di concessione e, infine,
d) dalla
modificazione in zona agricola della
destinazione di un’area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo (cfr.
ex plurimis Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2010, nr. 7492; id.,
04.05.2010, nr.
2545; id., 28.09.2009, nr. 5834; id.,
21.06.2007, nr. 3400) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.07.2011 n. 1882 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Sentenza cds.
Azione popolare a metà.
L'azione popolare ex art. 9 dlgs n. 267 del
2000 (Tuel) ha natura sostitutiva o
presupposto necessario per l'azione va
rinvenuto soltanto nell'omissione, da parte
dell'ente, dell'esercizio delle proprie
azioni, ma non è esperibile al fine di
rimuovere gli errori e le illegittimità da
questo commessi.
Lo ha chiarito il Consiglio di stato, Sez. IV con la
sentenza 09.07.2011 n.
4130.
Nel caso in esame la società Acegas–Aps
s.p.a. aveva impugnato la sentenza con la
quale il Tar Friuli–Venezia Giulia aveva
annullato, a seguito di azione popolare, la
concessione edilizia rilasciata dal Comune
di Trieste in favore della Ericsson per la
realizzazione di una stazione radio.
La sentenza appellata fondava tale
annullamento sulla circostanza che «la
concessione edilizia impugnata è stata
rilasciata in assenza del consenso dell'ente
proprietario del suolo», ente identificato
nel Comune di Trieste e non nell'Acegas.
Contro tale decisione, l'Acegas aveva
proposto appello lamentando che non era
possibile per i ricorrenti agire in nome e
per conto del Comune, ai sensi dell'art. 9
dlgs n. 267/2000, «dal momento che tale ente
agirebbe contro se stesso, in quanto
emanante il provvedimento impugnato».
Il Consiglio di stato accoglie l'appello.
Secondo i giudici di Palazzo Spada, infatti,
l'azione popolare costituisce uno dei casi
in cui, derogando all'art. 81 cod. proc.
civ., può aversi un legittimo fenomeno di
sostituzione processuale.
La disposizione, di stretta interpretazione,
si limita ad attribuire una «speciale»
legittimazione attiva, la quale, pur non
fondata sulla titolarità propria e diretta
di una posizione giuridica, costituisce
tuttavia titolo autonomo -fondato solo
sulla previsione di legge e sul presupposto
(essere cittadino elettore) da questa
previsto- per adire il giudice, sebbene la
titolarità delle posizioni giuridiche che si
intendono tutelare sia dell'ente locale.
Non è, invece, possibile che l'elettore
agisca in sostituzione dell'ente (da lui
considerato inadempiente), contro atti
adottati dall'ente medesimo, dal momento che
in tali casi quest'ultimo, qualora
sussistano i presupposti, dovrà agire in
autotutela, e non essendo l'azione ex art. 9
di tipo «correttivo»
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011). |
URBANISTICA:
La ripubblicazione del piano
regolatore generale non è necessaria se le
modifiche sono "obbligatorie".
Osserva il Collegio che la giurisprudenza di
questa Sezione ha avuto modo di precisare,
con avviso del tutto condivisibile, che la
ripubblicazione del piano regolatore
generale non è necessaria se le modifiche
sono “obbligatorie” e ciò perché è
proprio il carattere dovuto dell’intervento
dell’Autorità competente all’approvazione
dello strumento urbanistico che rende
superfluo l’apporto collaborativo del
privato, superato e ricompreso nelle scelte
pianificatorie operate in sede regionale e
comunale (cfr. ad es. C.d.S., sez. IV, n.
1516 del 2008; 30.09.2002, n. 4984;
05.09.2003, nn. 2977 e 4984) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 07.07.2011 n. 4074 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
VIA - Opera pubblica di rilevanza
statale o regionale - Individuazione
dell’ente competente in materia di VIA -
Disciplina previgente al T.U.A. - Criterio
ontologico strutturale.
Per stabilire, ai fini della individuazione
dell’ente competente in materia di VIA, se
una determinata opera pubblica sia di
rilevanza regionale o statale, occorre
verificare se tale opera incida o meno su un
perimetro circoscritto del territorio.
Nella disciplina previgente al testo unico
(o codice) ambientale di cui al d.lgs. 152
del 2006 -che oggi rinvia agli allegati ai
fini della ripartizione di competenze tra
Stato e Regioni (articolo 7 che rinvia agli
allegati alla parte seconda)- sia la
normativa nazionale (art. 1 DPCM 10.08.1988,
n. 377) che quella regionale ligure,
facevano riferimento ad un criterio
ontologico strutturale e non già funzionale
per stabilire la competenza sulla VIA.
VIA - Progettazione
preliminare e definitiva - Opera pubblica
approvata con progetto preliminare -
Sensibile variazione in sede di approvazione
del progetto definitivo - Nuova
sottoposizione a VIA - D.lgs. n. 113/2007 -
Art. 185 d.lgs. n. 163/2006.
Tra i due elaborati di progettazione
preliminare e definitiva è ragionevole che
emerga una differenza nella parte in cui la
progettazione definitiva raccoglie i
suggerimenti emersi nel corso della
conferenza di servizi; si tratta di una
integrazione che la normativa (artt. 18 e 25
D.P.R. 554 del 1999) e le fasi dei diversi
livelli di progetto considerano fisiologica.
Infatti, non avrebbe avuto significato la
previsione di distinti momenti e livelli
progettuali, ove fosse stato fin da subito
prevedere tutta la conformazione possibile
dell’opera.
La normativa successiva, in piena aderenza
alla normativa comunitaria, ha previsto (con
modifiche introdotte dal decreto legislativo
n. 113 del 31.07.2007 all’art. 185 codice
dei contratti pubblici) che l’opera pubblica
approvata con progetto preliminare debba
essere nuovamente sottoposta a valutazione
ambientale, ove vi sia stata in sede di
approvazione del progetto definitivo una
sensibile variazione rispetto alla
valutazione effettuata al momento del
progetto preliminare e vi sia stata una
significativa modificazione dell’impatto
globale del progetto sull’ambiente, in
conformità con le direttive in materia
(85/337CE e 97/11/CE) che prevede che la
valutazione ambientale debba coincidere con
l’atto che autorizza alla realizzazione
dell’intervento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.07.2011 n. 4072 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
E’ consentito effettuare la
richiesta di documentazione dei requisiti da
parte dei concorrenti sia prima che dopo
l’apertura delle buste.
E' sicuramente illegittimo il “modus
procedendi” della commissione giudicatrice
di un pubblico concorso che, dopo aver
aperto le buste contenenti le domande di
partecipazione, recanti l'indicazione dei
nominativi e dei titoli in possesso dei
partecipanti, proceda alla determinazione
dei criteri di valutazione dei titoli da
essi posseduti, atteso che la semplice
apertura delle buste dà luogo alla
conoscenza potenziale del contenuto e,
quindi, all'oggettiva ed astratta
possibilità che possa essere influenzata la
fissazione dei criteri, con violazione della
“par condicio”.
Osserva la
Sezione che è sicuramente illegittimo il “modus
procedendi” della commissione
giudicatrice di un pubblico concorso che,
dopo aver aperto le buste contenenti le
domande di partecipazione, recanti
l'indicazione dei nominativi e dei titoli in
possesso dei partecipanti, proceda alla
determinazione dei criteri di valutazione
dei titoli da essi posseduti, atteso che la
semplice apertura delle buste dà luogo alla
conoscenza potenziale del contenuto e,
quindi, all'oggettiva ed astratta
possibilità che possa essere influenzata la
fissazione dei criteri, con violazione della
“par condicio”.
Eguale rigore non può, tuttavia, adottarsi
in relazione alla fattispecie per cui è
causa, atteso che la possibilità (a seguito
della conoscenza della entità delle offerte,
in pendenza del procedimento di verifica dei
requisiti) di influenzare e determinare le
sorti dell'aggiudicazione dell'appalto in
dipendenza della risposta fornita o meno
alla richiesta di documentazione dei
requisiti da parte dei concorrenti
sorteggiati appare astratta e niente affatto
oggettiva.
Peraltro l’art. 48 del d.lgs. n. 163/2006
prevede, al comma 1, che le stazioni
appaltanti prima di procedere all'apertura
delle buste delle offerte presentate,
richiedono ad un numero di offerenti non
inferiore al 10 per cento delle offerte
presentate scelti con sorteggio pubblico, di
comprovare, entro dieci giorni dalla data
della richiesta medesima, il possesso dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa, eventualmente
richiesti nel bando di gara, presentando la
documentazione indicata in detto bando o
nella lettera di invito. Al comma 2, prevede
che la richiesta di cui al comma 1 è,
altresì, inoltrata, entro dieci giorni dalla
conclusione delle operazioni di gara, anche
all'aggiudicatario e al concorrente che
segue in graduatoria, qualora gli stessi non
siano compresi fra i concorrenti
sorteggiati.
E’ quindi consentito, in base a dette
disposizioni, effettuare detta richiesta sia
prima che dopo l’apertura delle buste, il
che esclude che il legislatore abbia voluto,
con la disposizione in esame, impedire che
possano essere influenzate e determinate le
sorti dell'aggiudicazione dell'appalto in
dipendenza della risposta fornita alla
richiesta di documentazione.
Aggiungasi che deve concordarsi con il
Giudice di prime cure che non è stato
comunque provato che l’inversione de qua
abbia compromesso la trasparenza e
l’imparzialità della procedura, avendo
formulato al riguardo l’appellante solo mere
ipotesi ed avendo avanzato solo il “sospetto”
che la conoscenza dei ribassi abbia potuto
condizionare il seggio di gara,
influenzandone le determinazioni in merito
all’ammissione o all’esclusione delle
imprese sorteggiate per la verifica.
Peraltro la stazione appaltante era tenuta a
verificare secondo un criterio oggettivo i
requisiti effettivamente posseduti dai
partecipanti, sorteggiati ai fini del
controllo, il che impediva apprezzamenti
discrezionale circa il possesso degli
stessi, che difficilmente avrebbero potuto
essere falsati da essi partecipanti al
surrettizio fine di falsare gli esiti della
gara.
In ogni caso, la stazione appaltante ha
asserito al riguardo che la verifica dei
requisiti di capacità economico-finanziaria
e tecnico-organizzativa era avvenuta
mediante acquisizione dei dati del
casellario delle imprese istituito presso
l’Autorità di Vigilanza dei Lavori Pubblici
con l’accertamento della sussistenza di
eventuali annotazioni a carico delle imprese
interessate ostative alla permanenza in
gara, e che solo dopo tale verifica aveva
proceduto all’apertura delle offerte
economiche
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 07.07.2011 n. 4053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 38, d.lgs. n. 163/2006
indica una differenza tra la regolarità
contributiva richiesta al partecipante alla
gara ai sensi del comma 1, lettera i), di
detto articolo, e la regolarità contributiva
richiesta all'aggiudicatario al fine della
stipula del contratto.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta
norma, può essere escluso solo in presenza
di gravi violazioni, definitivamente
accertate, sicché le violazioni non gravi, o
ancora non definitive, non sono causa di
esclusione.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta
norma, può essere escluso solo in presenza
di gravi violazioni, definitivamente
accertate, sicché le violazioni non gravi, o
ancora non definitive, non sono causa di
esclusione. Invece, al fine della stipula
del contratto, l'affidatario deve presentare
la certificazione di regolarità contributiva
ai sensi dell'art. 2, d.l. n. 210/2002.
---------------
La disposizione di cui all'art. 38, comma 1,
lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, deve
essere interpretata nel senso che il
concorrente, in presenza di un bando di gara
che richieda genericamente una sua
dichiarazione di insussistenza delle cause
di esclusione di cui alla citata lett. i),
possa essere escluso soltanto qualora la
stazione appaltante sia oggettivamente certa
che l'eventuale debito contributivo
dichiarato sia grave e definitivamente
accertato, e cioè non esistano in atti di
gara elementi che possano condurre a diversa
conclusione, autonomamente dalle risultanze
del D.U.R.C., mediante accertamenti
ulteriori.
Osserva il
Collegio che l'art. 38, d.lgs. n. 163/2006,
come correttamente dedotto con l’atto di
appello, indica una differenza tra la
regolarità contributiva richiesta al
partecipante alla gara ai sensi del comma 1,
lettera i), di detto articolo, e la
regolarità contributiva richiesta
all'aggiudicatario al fine della stipula del
contratto.
Infatti, il concorrente, ai sensi di detta
norma, può essere escluso solo in presenza
di gravi violazioni, definitivamente
accertate, sicché le violazioni non gravi, o
ancora non definitive, non sono causa di
esclusione.
Invece, al fine della stipula del contratto,
l'affidatario deve presentare la
certificazione di regolarità contributiva ai
sensi dell'art. 2, d.l. n. 210/2002 (ex art.
38, co. 3, d.lgs. n. 163/2006, che prevede
che “resta fermo, per l'affidatario,
l'obbligo di presentare la certificazione di
regolarità contributiva di cui all'articolo
2, del decreto-legge 25.09.2002, n. 210,
convertito dalla legge 22.11.2002, n. 266 e
di cui all'articolo 3, comma 8, del decreto
legislativo 14.08.1996, n. 494 e successive
modificazioni e integrazioni”); detto
art. 2 del d.l. n. 210/2002, a sua volta,
prevede il rilascio del D.U.R.C., che
attesta contemporaneamente la regolarità
contributiva quanto agli obblighi nei
confronti dell'I.N.P.S., dell'I.N.A.I.L. e
delle Casse edili.
La disposizione di cui all'art. 38, comma 1,
lett. i), d.lgs. n. 163 del 2006, deve
essere interpretata nel senso che il
concorrente, in presenza di un bando di gara
che richieda genericamente una sua
dichiarazione di insussistenza delle cause
di esclusione di cui alla citata lett. i),
possa essere escluso soltanto qualora la
stazione appaltante sia oggettivamente certa
che l'eventuale debito contributivo
dichiarato sia grave e definitivamente
accertato, e cioè non esistano in atti di
gara elementi che possano condurre a diversa
conclusione, autonomamente dalle risultanze
del D.U.R.C., mediante accertamenti
ulteriori (Consiglio Stato, sez. V,
11.01.2011, n. 83).
Nel caso che occupa, tuttavia, la lettera di
invito, sullo specifico punto non impugnata,
prevedeva che la stazione appaltante avrebbe
dovuto procedere alla verifica d’ufficio, ai
fini degli accertamenti relativi alle cause
di esclusione “ai sensi dell’art. 38,
comma 3, D.Lgs. 163/2006” nei confronti
dei soggetti sorteggiati, cioè sulla base
della certificazione di regolarità
contributiva di cui all'articolo 2, del d.l.
n. 210/2002.
Non è quindi applicabile alla fattispecie
l’orientamento giurisprudenziale per il
quale l'art. 38, comma 1, lett. i), del
d.lgs. n. 163 del 2006) deve essere
interpretato nel senso che il principio
dell'autonomia del procedimento di rilascio
del D.U.R.C. impone che la stazione
appaltante, pur dovendo basarsi sulle
certificazioni risultanti da quest'ultimo
documento (prendendole come un dato di fatto
inoppugnabile), debba altresì valutare,
innanzi tutto, se sussistono procedimenti
diretti a contestare gli accertamenti degli
enti previdenziali riportati nel DURC, o
condoni, ed in secondo luogo se la
violazione riportata nel DURC, in relazione
all'appalto o fornitura in questione o alla
consistenza economica della ditta
concorrente o ad altre circostanze, risulti
o no "grave” (Consiglio Stato, sez.
IV, 15.09.2010, n. 6907).
Sulla base della clausola della lettera di
invito, legittimamente, nel caso che occupa,
la stazione appaltante ha fatto riferimento
alle risultanze dei certificati di
regolarità contributiva in questione, senza
procedere ad ulteriori indagini.
Aggiungasi che, alla stregua di quanto
chiarito con il d.m. 24.10.2007 del
Ministero del lavoro e della previdenza
sociale, in attuazione dell'art. 1, co.
1176, l. n. 296/2006, si può affermare che
il D.U.R.C. attesta solo le irregolarità
contributive “definitivamente accertate”,
e solo quelle che superano una “soglia di
gravità”, fissata autonomamente dal
citato d.m., con la conseguenza che la
declaratoria di non regolarità contributiva
è grave indizio, ai fini dell'art. 38, co.
1, lett. i), codice appalti, che sia stata
commessa una violazione grave e
definitivamente accertata.
La censura in esame non può quindi essere
positivamente valutata, considerato altresì
sia che al c.d. “principio
sostanzialistico” non è possibile
ricorrere quando una disposizione della "lex
specialis", non impugnata, preveda
espressamente una clausola di esclusione
particolare rispetto alla normativa generale
e sia che non risulta violato l’art. 29
della Direttiva del Consiglio 18.06.1992
92/50/CEE, richiamato dalla sentenza della
Corte di Giustizia CE n. C-226/04 del 2006,
perché (anche se il legislatore nazionale
non ha previsto) la regolarizzazione
successiva dell’inadempimento, tuttavia la
stazione appaltante si è conformata a
principi di trasparenza e par condicio,
definendo in anticipo, con la clausola della
“lex specialis” suddetta, le
condizioni sostanziali e procedurali
relative alla partecipazione della gara
de qua (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 07.07.2011 n. 4053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sebbene la legge non qualifichi
come perentorio il termine per la produzione
della documentazione richiesta a comprova
dei requisiti ai sensi dell'art. 48, comma
1, del d.lgs. n. 163 del 2006,
l'orientamento prevalente ritiene che il
termine in questione avrebbe natura
perentoria perché, pur non essendo
qualificato tale dalla lettera della norma,
la perentorietà sarebbe insita nella
automaticità della comminatoria prevista per
la sua inosservanza.
Osserva il Collegio che, sebbene la legge
non qualifichi come perentorio il termine
per la produzione della documentazione
richiesta a comprova dei requisiti ai sensi
dell'art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163 del
2006, l'orientamento prevalente ritiene che
il termine in questione avrebbe natura
perentoria perché, pur non essendo
qualificato tale dalla lettera della norma,
la perentorietà sarebbe insita nella
automaticità della comminatoria prevista per
la sua inosservanza.
In conformità al principio generale per il
quale il termine è perentorio solo ove sia
espressamente qualificato come tale, o non
sia stata apposta la specifica indicazione
delle relative conseguenze, il seguente,
comma 2, del citato art. 48, prevede, a
differenza di quanto stabilito per il
controllo a campione previsto dal comma 1
dello stesso articolo, un termine di natura
ordinatoria per la presentazione dei
documenti comprovanti il possesso dei
requisiti di capacità economica-finanziaria
e tecnico-organizzativa da parte
dell'aggiudicatario provvisorio.
Identiche considerazioni vanno effettuate
con riguardo al termine di dieci giorni
dalla conclusione delle operazioni di gara,
previsto dal comma 2 del ridetto art. 48 per
l’inoltro della richiesta di prova del
possesso dei requisiti anche
all'aggiudicatario e al concorrente che
segue in graduatoria, qualora gli stessi non
siano compresi fra i concorrenti sorteggiati
(Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 07.07.2011 n. 4053 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI -
VARI: Affitto
casa.
Proprietari alleggeriti della Tia.
Sono illegittime le disposizioni di un
regolamento comunale per l'applicazione
della Tia nella parte in cui prevedono il
pagamento della tariffa da parte dei
proprietari nel caso di affitto
dell'abitazione per un breve periodo.
Lo ha sancito il TAR Toscana, Sez. II con la
sentenza 06.07.2011 n. 1162.
La controversia verte in merito al
regolamento del Comune di Prato per
l'applicazione della Tariffa di igiene
ambientale – disciplinata dall'art. 49,
comma 2, del dlgs n. 22/1997 (ed ora
dall'art. 238 del dlgs n. 152/2006) nelle
parti in cui ha addossato ai proprietari
l'obbligo di pagare la tariffa stessa nelle
seguenti ipotesi:
a) affitto (locazione) di abitazione per
breve periodo, che si esaurisca prima del
termine di ventiquattro mesi;
b) affitto (locazione) per utenze non
domestiche di durata inferiore a
ventiquattro mesi;
c) conduzione di immobile a titolo diverso,
come ad es. il comodato, la concessione
d'uso, l'usufrutto.
Il Tar per la Toscana ne dichiara
l'illegittimità.
Dopo aver ricordato come la Tia rientri
nella nozione di «prestazione imposta» di
natura patrimoniale di cui all'art. 23
Cost., anche a seguito dell'art. 14, comma
33, del dl n. 78/2010, convertito con legge
n. 122/2010, sussistendone i requisiti di
coattività e di autoritatività, dispone
l'annullamento della disposizione
regolamentare.
Nonostante lo scopo sia quello di
fronteggiare i fenomeni di diffusa morosità
nel pagamento della tariffa, riscontrati in
prevalenza a carico di quanti occupano
locali per periodi di tempo inferiori a
ventiquattro mesi, i giudici riconoscono la
violazione della riserva di legge ex art. 23
Cost..
Più precisamente la norma
regolamentare comporterebbe un «illegittimo
mutamento del presupposto della tariffa» che
non viene più rinvenuto nel possesso o
detenzione a qualsiasi titolo dei locali che
producono rifiuti urbani, come vuole la
legge: esso viene, invece, rinvenuto nella
proprietà del bene, anche disgiunta dal
possesso o detenzione.
È stata rilevata, infine, la violazione del
principio «chi inquina, paga» secondo il
quale l'obbligo di pagamento della Tia
scaturisce «dall'utilizzazione di
superfici potenzialmente idonee a produrre
rifiuti e dalla potenziale fruizione del
servizio di smaltimento»
(articolo ItaliaOggi
del 15.07.2011). |
APPALTI:
Nell'ipotesi di costituenda
associazione temporanea d'imprese (ATI), la
cauzione provvisoria deve essere intestata a
tutte le imprese associate.
In tema di contratti pubblici, vige la
regola per cui, nel caso di costituenda
associazione temporanea d'imprese, la
cauzione provvisoria deve essere intestata a
tutte le associate, che sono individualmente
responsabili delle dichiarazioni rese per la
partecipazione alla gara, diversamente
configurandosi una carenza di garanzia per
la stazione appaltante quante volte
l'inadempimento non dipenda dalla capogruppo
designata, ma dalle mandanti; pertanto, il
fidejussore deve richiamare la natura
collettiva della partecipazione alla gara di
più imprese, identificandole singolarmente e
contestualmente e deve dichiarare di
garantire con la cauzione provvisoria non
solo la mancata sottoscrizione del
contratto, ma anche ogni altro obbligo
derivante dalla partecipazione alla gara,
obbligo prettamente solidale nell'ipotesi di
partecipazione in r.t.i. e presentazione di
un'unica offerta a tale centro di
imputazione riconducibile.
Proprio la natura di garanzia per la
stazione appaltante e la funzione aggiuntiva
di risarcimento "forfetario" del
maggior danno pretendibile nei confronti
dell'impresa escussa non solo comportano che
la responsabilità delle false dichiarazioni
è ascrivibile all'intera compagine
associanda sotto il profilo della garanzia
prestata e della relativa escussione ma
anche che non è possibile compensare il
maggior danno eventualmente subito dalla
stazione appaltante dall'aggiudicazione ad
un'offerta potenzialmente più onerosa, come
pure lamentato dalla ricorrente (TAR
Toscana, Sez. II,
sentenza 06.07.2011 n. 1146 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La qualifica giuridica di
proprietario di un bene immobile confinante
deve di per sé ritenersi idonea a radicare
la legittimazione e l'interesse al ricorso.
Secondo la
giurisprudenza prevalente, e comunque
condivisa da questo Collegio, “il terzo
ha titolo ad adire il giudice amministrativo
quando esista una situazione soggettiva ed
oggettiva di stabile collegamento con la
zona coinvolta da una costruzione che, se
illegittimamente assentita, sia idonea ad
arrecare pregiudizio ai valori urbanistici
della zona medesima, onde la qualifica
giuridica di proprietario di un bene
immobile confinante deve di per sé ritenersi
idonea a radicare la legittimazione e
l'interesse al ricorso, non occorrendo
altresì la verifica della concreta lesione
di un qualsiasi altro interesse
giuridicamente rilevante” (così C.d.S.,
IV, 29.07.2009, n. 4756; conf., ex multis,
IV, 31.05.2007, n. 2849).
Non ritiene dunque il Collegio di
discostarsi sul punto dalla precedente
decisione della Sezione, per cui “ferma
ed incontestata … la legittimazione ad
impugnare della ricorrente (derivante dalla
vicinitas dei due fondi), il concreto
interesse all’impugnazione deriva dal
pregiudizio, oggettivamente sussistente -è,
peraltro, oggetto della presente causa la
ricomprensione o meno del denunciato
pregiudizio entro i limiti di accettabilità
stabiliti dalle norme vincolistiche che
tutelano la specifica zona- che la
costruzione concessionata comporta al
paesaggio”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 06.07.2011 n. 1142 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per la decorrenza del termine per
l'impugnazione di una concessione edilizia
rilasciata a terzi, l'effettiva conoscenza
dell'atto si verifica quando la costruzione
realizzata rivela in modo certo ed univoco
le essenziali caratteristiche dell'opera.
Ciò normalmente accade al completamento dei
lavori: vi fa peraltro eccezione il caso che
venga provata una conoscenza anticipata o si
deducano censure di assoluta inedificabilità
dell'area o analoghe censure, nel qual caso
risulta sufficiente la conoscenza
dell'iniziativa in corso.
Orbene, la precedente sentenza, poi
annullata in grado d’appello, si è già
occupata dell’eccezione, osservando che “la
prova della piena ed effettiva conoscenza
della concessione edilizia rilasciata ad un
terzo (e, quindi, anche delle corrispondenti
autorizzazioni paesaggistiche) –da
dimostrarsi in modo rigoroso da chi
eccepisce la tardività dell’impugnazione–
deve intendersi concretata, in assenza di
inequivoci elementi di segno contrario, non
con il mero inizio dei lavori (o con
l’apposizione delle prescritte insegne), ma
solo con la loro ultimazione o, almeno,
quando i lavori stessi siano giunti ad uno
stato di avanzamento tale che non si possa
avere più alcun dubbio in ordine alla
consistenza, all’entità e alla reale portata
dell’intervento edilizio assentito
(giurisprudenza pacifica: cfr., ex pluribus,
CdS, VI, 12.02.2007 n. 540)”.
Questo Collegio condivide, in linea di
principio, le precedenti considerazioni, ma
deve peraltro tenere conto delle ulteriori
argomentazioni e degli elementi istruttori
introdotti dai controinteressati nella nuova
fase del giudizio di I grado.
Anzitutto, invero, è bensì vero che, per la
decorrenza del termine per l'impugnazione di
una concessione edilizia rilasciata a terzi,
l'effettiva conoscenza dell'atto si verifica
quando la costruzione realizzata rivela in
modo certo ed univoco le essenziali
caratteristiche dell'opera.
Ciò normalmente accade al completamento dei
lavori: vi fa peraltro eccezione il caso che
venga provata una conoscenza anticipata o si
deducano censure di assoluta inedificabilità
dell'area o analoghe censure, nel qual caso
risulta sufficiente la conoscenza
dell'iniziativa in corso (così, ex multis,
C.d.S., IV, 10.12.2007, n. 6342) (TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 06.07.2011 n. 1142 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il dovere di soccorso ex art. 46
del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei
contratti) non è esercitabile in sede di
offerta pena l'alterazione della par
condicio.
Il DUVRI (documento valutazione rischi)
presuppone che l'amministrazione abbia
valutato l'esistenza di interferenze
tecniche con scelta discrezionale.
L'art. 46 del d.lgs. n. 163/2006 (codice dei
contratti) ed il relativo dovere di soccorso
alle imprese non è invocabile, quando la
procedura di gara è prevenuta alla fase di
valutazione dell'offerta.
Invero, il perimetro applicativo del citato
art. 46 resta circoscritto e contenuto alla
fase della prequalificazione, atteso che la
norma dispone che la stazione appaltante
invita i concorrenti a chiarire il contenuto
di dichiarazioni o documenti presentati in
sede di offerta ed è doverosamente
delimitato temporalmente e confinato alla
fase nella quale l'Amministrazione deve
ammettere alla gare le imprese.
Viceversa la norma non può trovare
applicazione per interpretare, chiarire
completare dati afferenti alla successiva
fase dell'offerta in senso proprio, pena la
violazione della par condicio.
---------------
Il DUVRI presuppone che la stazione
appaltante abbia previamente valutato
l'esistenza di interferenze tecniche
correlate all'espletamento del servizio,
rientrando pertanto nella sua
discrezionalità tecnica predisporre il
Documento già in fase di redazione del
contratto d'appalto ovvero rinviarne
l'elaborazione una volta prescelto
l'aggiudicatario (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 06.07.2011 n. 739 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Le indicazioni fornite dalla
stazione appaltante nella modulistica
"ufficiale", difformi rispetto alle
prescrizioni della lex specialis, non
possono pregiudicare la partecipazione alla
gara del concorrente.
La circostanza che un concorrente abbia
puntualmente seguito le indicazioni fornite
dalla medesima stazione appaltante nella
modulistica "ufficiale" non può
andare in danno del medesimo, se detta
modulistica risulta poi non esattamente
conforme alle prescrizioni della "lex
specialis” di gara; deve prevalere in
tal caso, a fronte di una obiettiva
incertezza ingenerata dagli atti predisposti
dalla stazione appaltante e della buona fede
che va riconosciuta al concorrente, il
principio del “favor partecipationis”.
La carenza riscontrata non poteva pertanto
comportare l'esclusione dalla procedura
concorsuale del concorrente interessato (la
stazione appaltante, semmai, avrebbe
potuto invitare il concorrente stesso ad
integrare la documentazione carente, ferma
restando, in caso di aggiudicazione, la
verifica dell’effettivo possesso anche dei
requisiti di cui si tratta).
Nel caso che occupa la dichiarazione
relativa al possesso dei requisiti di cui
all’art. 28 del d.P.R. n. 34/2000 era
espressamente richiesta dal disciplinare di
gara, alla voce riguardante "Modalità di
presentazione e criteri di ammissibilità
delle offerte", con riguardo ai
documenti che dovevano essere contenuti
nella busta "A", a pena di esclusione, con
specifico riferimento alla ipotesi che il
concorrente non fosse in possesso
dell'attestato SOA.
Il modello di dichiarazione sostitutiva
predisposto dalla stazione appaltante,
allegato al disciplinare, e poi
effettivamente utilizzato dalle società di
cui trattasi, non conteneva invero alcun
riferimento alla dichiarazione relativa al
possesso dei requisiti ex art. 28 del citato
d.P.R. (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 05.07.2011 n. 4029 -
link a www.mediagraphic.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La fissazione di limiti di età
per l'accesso ai pubblici impieghi è una
facoltà riservata alla discrezionalità
dell’Amministrazione.
L’art. 3, comma 6, della legge 15.05.1997, n.
127, prevede che la partecipazione a
concorsi indetti da pubbliche
amministrazioni non è soggetta a limiti di
età, salvo deroghe dettate da regolamenti
delle singole amministrazioni connesse alla
natura del servizio o ad oggettive
necessità.
Le ricorrenti con il primo ed il secondo
motivo lamentano la violazione di tale norma
perché il Comune di Padova avrebbe
introdotto un limite d’età per la
partecipazione al concorso per l’assunzione
a tempo indeterminato di un insegnante di
scuola dell’infanzia, senza le elevazioni
previste dalla legge, direttamente in un
bando, in assenza di una previsione
regolamentare e di una motivazione.
L’assunto è privo di fondamento.
Sul punto va premesso che l’art. 48, comma
3, del Dlgs. 18.06.2000, n. 267, e l’art.
35, comma 7, del Dlgs. 30.03.2001, n. 165,
demandano alla Giunta dell’ente locale la
competenza ad adottare il regolamento
sull'ordinamento degli uffici e dei servizi,
che comprende anche i requisiti di accesso
alle procedure concorsuali.
Nel costituirsi in giudizio il Comune di
Padova ha depositato (cfr. doc. 8 allegato
alle difese del Comune) la deliberazione
della Giunta comunale n. 2003/0952
dell’01.12.2003, con cui è stato modificato
il regolamento dei concorsi relativo al “limite
d’età per l’accesso a particolari figure
professionali” approvato con
deliberazione della Giunta comunale n. 1237
del 17.11.1997.
Nella motivazione è espressamente indicato
che “l’amministrazione con atto del
consiglio comunale n. 156/1995 aveva già
considerato la gravosità di alcuni profili,
tra cui l’educatore di asilo nido, nel senso
di prevedere il collocamento in profili di
corrispondente categoria di area diversa
dopo un periodo definito di servizio o al
raggiungimento di una individuata età; in
applicazione del citato atto è stato
richiesto un numero sempre maggiore di
cambio di profilo per età
anagrafica/anzianità di servizio (infatti al
31.12.2003 il 50% del personale del comparto
avrà più di 45 anni)”, e che pertanto
viene ritenuto opportuno “in accordo con
il dirigente del settore servizi scolastici
(cfr. nota 177258 del 10.09.2003) abbassare
il limite massimo di età per il reclutamento
del personale con profilo di educatore di
asilo nido a 40 anni, modificando così
l’art. 6-bis del regolamento concorsi”.
Da quanto esposto emerge che, contrariamente
a quanto dedotto, la norma invocata risulta
rispettata, atteso che la fissazione di
limiti di età, anche insuperabili come nel
caso di specie (infatti il bando precisa che
il limite d’età è comprensivo di ogni
elevazione prevista e si prescinde dallo
stesso solo per i candidati dipendenti a
tempo indeterminato delle pubbliche
amministrazioni), per l'accesso ai pubblici
impieghi, è una facoltà riservata alla
discrezionalità dell’Amministrazione, e non
può ritenersi illegittima quando sia
motivatamente esercitata con atto
regolamentare e venga correlata alla
probabilità, statisticamente giustificata,
di una duratura conservazione dei requisiti
necessari all’ottimale esercizio
dell'attività relativa al posto messo a
concorso (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI,
30.05.2007, n. 2753; Tar Lazio, Roma, Sez.
I-bis. Sez. I, 09.09.2002, n. 1504) (TAR Veneto,
Sez. III,
sentenza 04.07.2011 n. 1138 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Raggruppamenti temporanei di
imprese, fidejussione per tutte.
Nel caso di partecipazione di un costituendo
raggruppamento temporaneo di imprese ad una
gara di appalto, la polizza fideiussoria,
mediante la quale viene costituita la
cauzione provvisoria, deve essere intestata
non solo alla società capogruppo, ma anche
alle mandanti.
La doglianza chiama in causa l'art. 75
d.lgs. n. 163/2006 ed il punto 5, paragrafo
VI, del disciplinare, in tema di cauzione
provvisoria.
In giurisprudenza si è da tempo affermato il
principio per cui, nel caso di
partecipazione di un costituendo
raggruppamento temporaneo di imprese ad una
gara di appalto, la polizza fideiussoria,
mediante la quale viene costituita la
cauzione provvisoria, deve essere intestata
non solo alla società capogruppo, ma anche
alle mandanti.
Ciò al fine di evitare il configurarsi una
carenza di garanzia per la stazione
appaltante con riferimento a quei casi in
cui l'inadempimento non dipenda dalla
capogruppo designata, ma appunto dalle
mandanti (Cons. Stato, Ad.Pl.. n. 8/2005; VI,
23.07.2009, n. 4648).
La stessa giurisprudenza ha precisato,
peraltro, che il fidejussore, per assicurare
in modo pieno l'operatività della garanzia
di fronte ai possibili inadempimenti da "coprire"
con la cauzione provvisoria, deve richiamare
la natura collettiva della partecipazione
alla gara di più imprese, identificandole
singolarmente e contestualmente, e deve
dichiarare di garantire con la cauzione
provvisoria non solo la mancata
sottoscrizione del contratto, ma anche ogni
altro obbligo derivante dalla partecipazione
alla gara, pena l'esclusione dal
procedimento (Consiglio Stato Ad. Pl.,
04.10.2005, n. 8).
Da tale clausola si desume, invero: che il
Consorzio ha stipulato la scrittura
fideiussoria nella propria specifica qualità
di capogruppo mandataria, in procinto di
presentare offerta in gara per l'affidamento
dell'appalto in discussione; di riflesso,
che la garanzia prestata, che riguarda il "pagamento
delle somme dovute dal contraente per il
mancato adempimento degli obblighi ed oneri
inerenti alla partecipazione alla gara",
attiene a tutti gli obblighi discendenti
dalla partecipazione del raggruppamento alla
gara, e quindi non solo a quelli che gravano
il predetto Consorzio in proprio, ma anche a
quelli che gli si riversano quale
mandatario, onde la stessa garanzia è
destinata ad operare per tutte le somme che
nella detta qualità possano essere pretese
nei confronti del medesimo Consorzio.
Rientrano, dunque, nella portata della
garanzia anche le inadempienze ascrivibili a
fatti -non della capogruppo ma- di una delle
imprese mandanti, di cui la mandataria
dovrebbe pur sempre rispondere, per il
vincolo di solidarietà che discende dalla
presentazione dell'offerta congiunta, anche
ai sensi dell'art. 6 del disciplinare di
gara.
E questo è esattamente quanto richiesto
dalla giurisprudenza dominante e dalla
normativa di gara, la quale ultima, con la
prescrizione per cui "la cauzione dovrà
prestarsi a nome di tutte le imprese facenti
parte del raggruppamento... non ancora
costituito", esigeva proprio -e
semplicemente- che la garanzia coprisse
anche i fatti imputabili alle imprese
mandanti (cfr. C.d.S., V, 21.04.2009, n.
2400).
Solo per completezza si ricorda, quindi, che
nella sentenza n. 8/2005 dell'Adunanza
Plenaria si è ritenuta decisiva, per
pervenire al risultato dell'inidoneità della
garanzia, la circostanza che nella polizza
fideiussoria del caso non si facesse
riferimento (contrariamente a quanto occorso
nella presente vicenda) al fatto che
l'impresa cui la polizza era intestata aveva
partecipato all'incanto in qualità di
mandataria di una costituenda ATI (nel senso
dell'essenzialità di tale puntualizzazione
ai fini della completezza della garanzia v.
anche C.d.S., V, 28.05.2010, n. 3401).
La conclusione della regolarità della
cauzione provvisoria presentata dall'attuale
appellata trova ulteriore fondamento in ciò,
che "la non necessità della
sottoscrizione da parte dei soggetti che
concorrono alla gara ai fini del
perfezionamento di un contratto che può
soggiacere al procedimento semplificato di
formazione di cui all'art. 1333 c.c., non
toglie che l'intervento della
sottoscrizione... sia comunque apprezzabile,
congiuntamente a tutti gli ulteriori
elementi sopra specificati, al fine di
individuare i soggetti beneficiari della
polizza e, quindi, la perimetrazione del
rischio garantito" (C.d.S., V,
07.04.2011 n. 2169) (commento tratto da
www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2011 n. 3924 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La motivazione di "non gravità"
del reato è implicita nell'ammissione alla
gara.
Il codice degli appalti
non richiede l’esplicitazione del giudizio
di ammissione di un concorrente per quanto
riguarda i precedenti penali che non
incidono sull’affidabilità professionale
dell’impresa.
E’ questo il principio che è stato espresso
con la
sentenza 30.06.2011 n. 3924 dalla
V sezione del Consiglio di Stato.
Il ricorso aveva origine con l’impugnazione
degli atti relativi all’aggiudicazione della
procedura aperta per l’affidamento della
gestione integrata del patrimonio
immobiliare e dei servizi per il
funzionamento delle scuole d’infanzia. In
particolare il ricorrente contestava come la
stazione appaltante non avesse espresso
alcun giudizio di affidabilità morale e
professionale, relativamente ad una serie di
condanne penali dichiarate dal legale
rappresentante della società
controinteressata, nonostante che tale
giudizio fosse richiesto dal disciplinare di
gara.
Il Consiglio di Stato, in conformità con la
decisione del 1° grado, ha precisato come
l’esigenza di un giudizio espresso di
ammissione di un concorrente potrebbe al più
essere imposto per quanto riguarda i
precedenti penali che obiettivamente si
presentino, prima facie,
riconducibili ai “reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità” e che
incidono sulla morale professionale; al
contrario un giudizio espresso non è
richiesto per tutti gli altri casi in cui i
precedenti penali dichiarati non manifestino
alcuna incidenza sull’affidabilità
professionale dell’impresa.
In particolare è stato chiarito come “A
conferma della legittimità dell’azione
amministrativa si osserva che, né la
disciplina speciale di gara, né il Codice
degli appalti, prescrivono che il giudizio
favorevole all’ammissione di un concorrente
debba essere necessariamente esplicitato e
formalizzato. La giurisprudenza di questo
Consiglio è infatti nel senso che la
Stazione appaltante, che non ritenga il
precedente penale dichiarato dal concorrente
incisivo della sua moralità professionale,
non è tenuta ad esplicitare in maniera
analitica le ragioni di siffatto
convincimento, potendo la motivazione di non
gravità del reato risultare anche implicita
o per facta concludentia, ossia con
l'ammissione alla gara dell'impresa, mentre
è la valutazione di gravità, semmai, che
richiede l'assolvimento di un particolare
onere motivazionale (C.d.S., III,
11.03.2011, n. 1583). La stazione appaltante
deve invero motivare puntualmente le
esclusioni, e non anche le ammissioni, se su
di esse non vi è, in gara, contestazione
(C.d.S. VI, 24.06.2010, n. 4019)”.
In conclusione secondo i giudici del
Consiglio di Stato la stazione appaltante
non è tenuta ad esplicitare le ragioni in
base alle quali ammette un concorrente alla
gara ritenendo che i precedenti penali
dichiarati non siano incisivi sulla moralità
professionale dell’impresa (commento tratto
da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Non basta la promozione da parte
di una ONLUS a dimostrare l’interesse
pubblico di un’opera.
Il carattere di
interesse pubblico di una data opera va
apprezzato in termini di compresenza di
requisiti sia oggettivi, attinenti alle
caratteristiche intrinseche della stessa,
sia soggettivi, e quindi la sua promozione
da parte di una ONLUS, o più genericamente,
da parte di un soggetto che non agisce a
fini di lucro, di per sé sola è non
decisiva.
I giudici del Tribunale amministrativo di
Brescia hanno formulato tale qualifica di
opera di interesse pubblico, in una causa in
cui si discuteva di tale peculiare stato in
relazione alla particolare attribuzione
soggettiva delle controinteressate in causa,
che sono ONLUS, costituite rispettivamente
in forma di fondazione e di cooperativa
sociale. E’ infatti noto, spiegano i giudici
lombardi, che le ONLUS, in base al d.lgs.
04.12.1997 n. 460, debbono svolgere appunto
“attività genericamente qualificate come
di utilità sociale, riconducibili
all’assistenza e alla promozione dei diritti
dei cittadini”.
ONLUS di tipo particolare sono poi le
cooperative sociali, le quali ai sensi
dell’art. 1 l. 08.11.1991 n. 381, hanno lo
scopo di “perseguire l'interesse generale
della comunità alla promozione umana e
all'integrazione sociale dei cittadini”,
e quindi possono, come si è detto, gestire
anche attività “agricole, industriali,
commerciali o di servizi” purché le stesse
siano “finalizzate all'inserimento
lavorativo di persone svantaggiate”.
In base a tale ultima previsione normativa,
è quindi indubbio che la gestione di
un’opera come quella di cui si parla nella
causa in commento, qualificata come
complesso alberghiero e quindi funzionale ad
una attività commerciale, non è
ontologicamente incompatibile con la qualità
di ONLUS delle controinteressate che la
promuovono, a prescindere dalla possibilità,
non affermata, ma nemmeno esclusa, di
affidarla a terzi: essa è senz’altro
consentita ad una cooperativa sociale come
quella di cui si discute. Potrebbe però
ipotizzarsi che detta opera, in quanto
promossa da siffatto soggetto, assuma per
definizione “interesse pubblico”.
Ad avviso dei giudici bresciani tale lettura
non è condivisibile. Essa creerebbe infatti
una sorta di “proprietà transitiva”,
per cui “il carattere di interesse
sociale riconosciuto in astratto dalla legge
ad una certa categoria di soggetti –appunto
le cooperative sociali- si trasmette senza
limiti a ciascuna delle attività che tali
soggetti vanno a svolgere, con un duplice
risultato inaccettabile: da un lato, quello
di configurare a carico dei soggetti stessi
un indubbio status di privilegio, dall’altro
quello di stravolgere in potenza ogni
previsione limitativa che riguardi
determinate attività oggettivamente
considerate” (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza
28.06.2011 n.
957 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Il contenuto delle disposizioni
del piano territoriale provinciale deve
essere recepito nella disciplina urbanistica
comunale.
Come è noto, il piano territoriale
provinciale è strumento programmatorio di
carattere intermedio (v., ex multis,
TAR Emilia-Romagna, Parma, 10.03.2008 n.
130), onde non si può prescindere dalle
norme di dettaglio adottate in sede locale
per ricavare le regole da applicare al caso
concreto
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 28.06.2011 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La consulenza tecnica d’ufficio
non può essere disposta al fine di esonerare
la parte dal fornire le prove di quanto
assume ed è quindi legittimamente negata dal
giudice qualora la parte tenda con esso a
supplire alle deficienze delle proprie
allegazioni ovvero a compiere un’indagine
esplorativa alla ricerca di elementi di
fatto o circostanze non provati.
La consulenza
tecnica d’ufficio, in quanto mezzo di
indagine finalizzato ad aiutare il giudice
nella valutazione degli elementi acquisiti o
nella soluzione di questioni che comportino
specifiche conoscenze, non può essere
disposta al fine di esonerare la parte dal
fornire le prove di quanto assume ed è
quindi legittimamente negata dal giudice
qualora la parte tenda con esso a supplire
alle deficienze delle proprie allegazioni
ovvero a compiere un’indagine esplorativa
alla ricerca di elementi di fatto o
circostanze non provati (v., ex multis,
Cons. Stato, Sez. V, 29.10.2009 n. 6688)
(TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 28.06.2011 n. 220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Telecomunicazioni:
la disciplina dettata dal D.Lgs. 259/2003
costituisce normativa speciale e, come tale,
non suscettibile di essere modificata da
quella generale dettata dal T.U.
dell'edilizia.
La compiutezza della suddetta disciplina
speciale induce a ritenere che i titoli
abilitativi da esso previsti (autorizzazione
e denuncia di inizio attività) malgrado la
identità del nomen con gli istituti previsti
dal T.U. dell'edilizia, siano provvedimenti
del tutto autonomi che assolvono
integralmente le esigenze proprie delle
telecomunicazioni e quelle territoriali alla
cura degli enti locali, come è desumibile
dalla singolarità del procedimento, dalla
qualificazione di opere di urbanizzazione
primaria, nonché dalla necessità cui è
finalizzata la disciplina del D.Lgs.
259/2003 di semplificare l'attività edilizia
relativa alle infrastrutture di
comunicazione elettronica.
La materia delle telecomunicazioni è
disciplinata dal Testo Unico approvato con
D.Lgs. 01.08.2003, n. 259, cosiddetto Codice
delle Comunicazioni Elettroniche, il quale
all’art. 4, tra gli obiettivi generali della
disciplina, prevede la promozione della
semplificazione dei procedimenti
amministrativi e la partecipazione ad essi
dei soggetti interessati, attraverso
l'adozione di procedure tempestive, non
discriminatorie e trasparenti nei confronti
delle imprese che forniscono reti e servizi
di comunicazione elettronica.
In tale ottica l’art. 87 prevede che
l’installazione di tali impianti avvenga con
autorizzazione unica da richiedere all’Ente
locale, conseguibile con il sistema del
silenzio-assenso: procedura ritenuta
conforme al parametro costituzionale con
sentenza della Corte cost. n. 336 del
27.07.2005; è inoltre specificato che nel
caso di installazione di impianti, con
tecnologia UMTS od altre, con potenza in
singola antenna uguale od inferiore ai 20
Watt, fermo restando il rispetto dei limiti
di esposizione, dei valori di attenzione e
degli obiettivi di qualità indicati, è
sufficiente la denuncia di inizio attività,
conforme ai modelli predisposti dagli Enti
locali e, ove non predisposti, al modello B
di cui all'allegato n. 13.
Sempre nell’ottica della semplificazione,
per evitare il proliferare di reti di
telefonia, il legislatore, in sede di
conversione del D.L. 25.03.2010, n. 40, è
intervenuto, con la L. 22.05.2010, n. 73,
aggiungendo al corpo del Decreto l’art.
5-bis, con cui è stato inserito nel Codice
delle Comunicazioni Elettroniche l’art.
87-bis a mente del quale “Al fine di
accelerare la realizzazione degli
investimenti per il completamento della rete
di banda larga mobile, nel caso di
installazione di apparati con tecnologia
UMTS, sue evoluzioni o altre tecnologie su
infrastrutture per impianti radioelettrici
preesistenti o di modifica delle
caratteristiche trasmissive, fermo restando
il rispetto dei limiti, dei valori e degli
obiettivi di cui all'articolo 87 nonché di
quanto disposto al comma 3bis del medesimo
articolo, è sufficiente la denuncia di
inizio attività, conforme ai modelli
predisposti dagli enti locali e, ove non
predisposti, al modello B di cui
all'allegato n. 13. Qualora entro trenta
giorni dalla presentazione del progetto e
della relativa domanda sia stato comunicato
un provvedimento di diniego da parte
dell'ente locale o un parere negativo da
parte dell'organismo competente di cui
all'articolo 14 della legge 22.02.2001, n.
36, la denuncia è priva di effetti”.
Detta norma è entrata in vigore, in uno con
la legge di conversione n. 73/2010, il
26.05.2010.
A distanza di circa due mesi il D.L.
31.05.2010, n. 78 (Manovra economica), con
l’art. 49, comma 4-bis, ha sostituito l'art.
19 della legge 07.08.1990, n. 241, con il
seguente: "Art. 19. (Segnalazione
certificata di inizio attività - SCIA) - 1.
Ogni atto di autorizzazione, licenza,
concessione non costitutiva, permesso o
nulla osta comunque denominato, comprese le
domande per le iscrizioni in albi o ruoli
richieste per l'esercizio di attività
imprenditoriale, commerciale o artigianale
il cui rilascio dipenda esclusivamente
dall'accertamento di requisiti e presupposti
richiesti dalla legge o da atti
amministrativi a contenuto generale, e non
sia previsto alcun limite o contingente
complessivo o specifici strumenti di
programmazione settoriale per il rilascio
degli atti stessi, è sostituito da una
segnalazione dell'interessato, con la sola
esclusione dei casi in cui sussistano
vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali e degli atti rilasciati dalle
amministrazioni preposte alla difesa
nazionale, alla pubblica sicurezza,
all'immigrazione, all'asilo, alla
cittadinanza, all'amministrazione della
giustizia, all'amministrazione delle
finanze, ivi compresi gli atti concernenti
le reti di acquisizione del gettito, anche
derivante dal gioco, nonché di quelli
imposti dalla normativa comunitaria. ……2.
L'attività oggetto della segnalazione può
essere iniziata dalla data della
presentazione della segnalazione
all'amministrazione competente. 3.
L'amministrazione competente, in caso di
accertata carenza dei requisiti e dei
presupposti di cui al comma 1, nel termine
di sessanta giorni dal ricevimento della
segnalazione di cui al medesimo comma,
adotta motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell'attività e di rimozione
degli eventuali effetti dannosi di essa,
salvo che, ove ciò sia possibile,
l'interessato provveda a conformare alla
normativa vigente detta attività ed i suoi
effetti entro un termine fissato
dall'amministrazione, in ogni caso non
inferiore a trenta giorni. E' fatto comunque
salvo il potere dell'amministrazione
competente di assumere determinazioni in via
di autotutela, ai sensi degli articoli
21-quinquies e 21-nonies…..4. Decorso il
termine per l'adozione dei provvedimenti di
cui al primo periodo del comma 3,
all'amministrazione è consentito intervenire
solo in presenza del pericolo di un danno
per il patrimonio artistico e culturale, per
l'ambiente, per la salute, per la sicurezza
pubblica o la difesa nazionale e previo
motivato accertamento dell'impossibilità di
tutelare comunque tali interessi mediante
conformazione dell'attività dei privati alla
normativa vigente…..".
L'art. 1 della L. 30.07.2010, n. 122, in
sede di conversione, ha poi aggiunto il
comma 4ter, il quale precisa che “Il
comma 4-bis attiene alla tutela della
concorrenza ai sensi dell'articolo 117,
secondo comma, lettera e), della
Costituzione, e costituisce livello
essenziale delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali ai sensi della
lettera m) del medesimo comma. Le
espressioni "segnalazione certificata di
inizio attività" e "SCIA" sostituiscono,
rispettivamente, quelle di "dichiarazione di
inizio attività” e "DIA", ovunque ricorrano,
anche come parte di una espressione più
ampia, e la disciplina di cui al comma 4bis
sostituisce direttamente, dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione
del presente decreto, quella della
dichiarazione di inizio attività recata da
ogni normativa statale e regionale”.
Detta norma è entrata in vigore il
31.07.2010.
Dopo alcune iniziali incertezze
interpretative è intervenuto il Ministro per
la Semplificazione, con la nota P.C.M. del
16.09.2010, chiarendo che la S.C.I.A. deve
ritenersi applicabile al T.U. dell’edilizia
n. 380/2001, mediante il meccanismo della
sostituzione automatica di norme; peraltro
da ultimo tale applicabilità è stata
espressamente sancita dall’art. 5 del D.L.
13.05.2011 n. 70, a tenore del quale: ”1.
Per liberalizzare le costruzioni private
sono apportate modificazioni alla disciplina
vigente nei termini che seguono: ….b)
estensione della segnalazione certificata di
inizio attivita' (SCIA) agli interventi
edilizi precedentemente compiuti con
denuncia di inizio attivita' (DIA)…”.
Osserva il Collegio come identico discorso
non possa, tuttavia, farsi per il Codice
delle Comunicazioni Elettroniche in quanto
la disciplina in esso contenuta si pone in
rapporto di specialità rispetto al Testo
unico dell’Edilizia.
In proposito deve ribadirsi la sostanziale
esigenza di semplificazione sottesa a tale
disciplina, che risulterebbe vanificata
dall’applicabilità della SCIA, richiamandosi
quanto affermato dal Giudice delle Leggi
nella suindicata pronuncia n. 223/2005
laddove afferma che la disposizione che
ammette la formazione del titolo per
silentium “prevede moduli di
definizione del procedimento, informati alle
regole della semplificazione amministrativa
e della celerità, espressivi in quanto tali
di un principio fondamentale di diretta
derivazione comunitaria. Del resto,
l'evoluzione attuale dell'intero sistema
amministrativo si caratterizza per una
sempre più accentuata valenza dei "principi
di semplificazione" nella regolamentazione
di talune tipologie procedimentali ed in
relazione a determinati interessi che
vengono in rilievo (cfr. artt. 19 e 20 della
legge n. 241 del 1990, come modificati
dall'art. 3 del decreto-legge 14.03.2005, n.
35, recante «Disposizioni urgenti
nell'ambito del Piano di azione per lo
sviluppo economico, sociale e territoriale»,
convertito, con modificazioni, nella legge
14.05.2005, n. 80). Nel caso di specie, la
pluralità delle esigenze e dei valori di
rilevanza costituzionale sottesi alle
"materie" nel cui ambito rientrano le
disposizioni censurate, in una con la
finalità complessiva di garantire un rapido
sviluppo dell'intero sistema delle
comunicazioni elettroniche (cfr. sentenza n.
307 del 2003) secondo i dettami sanciti a
livello comunitario, induce a ritenere che
le norme in esame siano espressione di
principi fondamentali….. In definitiva, le
norme impugnate perseguono il fine, che
costituisce un principio dell'urbanistica,
che la legislazione regionale e le funzioni
amministrative in materia non risultino
inutilmente gravose per gli amministrati e
siano dirette a semplificare le procedure
(sentenza n. 303 del 2003, punto 11.2. del
Considerato in diritto)”.
In altri termini, la disciplina dettata dal
D.Lgs. 259/2003 costituisce normativa
speciale e, come tale, non suscettibile di
essere modificata da quella generale dettata
dal T.U. dell'edilizia.
La compiutezza della suddetta disciplina
speciale induce a ritenere che i titoli
abilitativi da esso previsti (autorizzazione
e denuncia di inizio attività) malgrado la
identità del nomen con gli istituti
previsti dal T.U. dell'edilizia, siano
provvedimenti del tutto autonomi che
assolvono integralmente le esigenze proprie
delle telecomunicazioni e quelle
territoriali alla cura degli enti locali,
come è desumibile dalla singolarità del
procedimento, dalla qualificazione di opere
di urbanizzazione primaria, nonché dalla
necessità cui è finalizzata la disciplina
del D.Lgs. 259/2003 di semplificare
l'attività edilizia relativa alle
infrastrutture di comunicazione elettronica
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 15.07.2010, n.
4557; v. anche TAR Lazio Roma, sez. II,
19.07.2006, n. 6056).
Da quanto precede discende l’illegittimità
del provvedimento comunale impugnato per
aver postulato la necessità di presentare la
SCIA per l’adeguamento di un impianto
radioelettrico preesistente mediante
modifica della SRB per il sistema GSM, per
il sistema DCS e per il sistema UMTS,
laddove l’art. 87-bis del D.Lgs. 259/2003
espressamente indica come “sufficiente”
la DIA
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.06.2011 n. 1660 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
restauro e risanamento conservativo
presuppone la realizzazione di opere che
lascino inalterata la struttura
dell’edificio e la distribuzione interna
della sua superficie, cosa che nel caso di
specie fa difetto, in quanto l'intervento
effettuato dalla ricorrente muta
completamente la struttura dell'edificato
sostituendo ad un edificio adibito a
destinazione direzionale-commerciale un
fabbricato adibito prevalentemente a
residenza (per la precisione, il Comune ha
riscontrato che la superficie attuale
dell’immobile è ripartita in mq 5.315,51 di
residenza, mq 1.472,61 di uffici, mq 517,57
di laboratori)”.
Il primo motivo del ricorso principale e dei
motivi aggiunti ripropone la questione della
qualificazione dell’intervento edilizio,
sostenendone la natura di semplice
restauro-risanamento, non oneroso.
Il motivo è infondato.
Sul punto è sufficiente richiamare la
sentenza 93/2009 nella parte in cui ha
ritenuto la qualificazione dell’intervento
effettuata dall’Amministrazione “corretta,
dal momento che il restauro e risanamento
conservativo presuppone la realizzazione di
opere che lascino inalterata la struttura
dell’edificio e la distribuzione interna
della sua superficie (Tar Lombardia, Milano,
sez. II, 14.05.2007, n. 3070), cosa che nel
caso di specie fa difetto, in quanto
l'intervento effettuato dalla ricorrente
muta completamente la struttura
dell'edificato sostituendo ad un edificio
adibito a destinazione
direzionale-commerciale un fabbricato
adibito prevalentemente a residenza (per la
precisione, il Comune ha riscontrato che la
superficie attuale dell’immobile è ripartita
in mq 5.315,51 di residenza, mq 1.472,61 di
uffici, mq 517,57 di laboratori)”.
Da tale qualificazione discende quindi
l’onerosità dell’intervento
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.06.2011 n. 1627 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'Amministrazione
non ha l'obbligo, a fronte del ritardato
pagamento degli oneri concessori, di
escutere la fideiussione, evitando in tal
modo di applicare la sanzione.
Infatti, la fideiussione che accompagna la
rateizzazione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione non ha la finalità di
agevolare l'adempimento del soggetto
obbligato al pagamento, bensì costituisce
una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla
quale non incombe alcun obbligo di
preventiva escussione del fideiussore
Sul punto si
richiama l’orientamento di questa sezione,
secondo cui l'Amministrazione non ha
l'obbligo, a fronte del ritardato pagamento
degli oneri concessori, di escutere la
fideiussione, evitando in tal modo di
applicare la sanzione.
Infatti, la fideiussione che accompagna la
rateizzazione del pagamento degli oneri di
urbanizzazione non ha la finalità di
agevolare l'adempimento del soggetto
obbligato al pagamento, bensì costituisce
una garanzia personale prestata unicamente
nell'interesse dell'amministrazione, sulla
quale non incombe alcun obbligo di
preventiva escussione del fideiussore (ex
multis TAR Lombardia Milano, sez. II,
21.07.2009, n. 4405) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.06.2011 n. 1627 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ogni
procedura amministrativa volta alla
liquidazione ed al pagamento di oneri
edilizi in senso lato non necessita di
una specifica motivazione, dal momento che i
conteggi sono la risultante di un'operazione
di calcolo matematico, effettuata sulla base
di taluni parametri fissati da norme
legislative e sub-legislative
Ogni procedura amministrativa volta alla
liquidazione ed al pagamento di oneri
edilizi in senso lato attiene ad attività
non autoritativa e si fonda
sull'applicazione automatica di regole di
calcolo previste da fonte normativa, senza
alcun contenuto di discrezionalità per
l'amministrazione; pertanto non è necessaria
una specifica motivazione, dal momento che i
conteggi sono la risultante di un'operazione
di calcolo matematico, effettuata sulla base
di taluni parametri fissati da norme
legislative e sub-legislative (TAR Lombardia
Brescia, sez. I, 01.12.2009, n. 2382; TAR
Emilia Romagna Parma, sez. I, 06.07.2010, n.
351) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 22.06.2011 n. 1627 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L'ordinanza
di ripristino del pubblico transito di una
strada, nella specie nel ripristino d’un
passaggio di uso pubblico su di una strada
che si assume utilizzata dalla collettività,
si connota sicuramente come atto gestionale
di spettanza della dirigenza comunale senza
che vengano in rilievo le specifiche
problematiche di competenza sollevate per
l’art. 378 della legge n. 2248 del 1865,
allegato F.
In ogni caso, anche con riguardo al potere
specificamente previsto dal suddetto art.
378, è da ritenere che tale competenza si
sia trasferita in capo alla dirigenza
comunale a seguito del principio introdotto
dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000,
che ha devoluto ai dirigenti l’adozione di
tutti gli di gestione e dei provvedimenti
amministrativi già spettanti agli organi di
governo dell’ente, salvo le ipotesi ivi
previste.
L’esercizio del potere di cui all’art. 378
della legge n. 2248 del 1865, allegato F, da
un lato, difatti, si qualifica come atto
gestionale, a tutela dell’uso dei beni
pubblici, scevro da profili di indirizzo e
controllo politico-amministrativo e come
tale attribuito alla competenza generale
della dirigenza comunale, dall’altro non
rientra nelle ipotesi previste dagli
indicati artt. 50, comma 3, e 54.
A quest’ultimo riguardo il potere attribuito
dall’art. 378 non rientra tra i compiti
conferiti al sindaco quale ufficiale del
Governo di cui all’art. 54. Inoltre, alla
luce dell’indicata natura del potere
attribuito ai sensi dello stesso art. 378
-che risulta volto non alla stretta
salvaguardia della circolazione stradale
bensì in modo più ampio a tutela delle
strade pubbliche e quindi non è limitato al
profilo della loro fruibilità- si ritiene
comunque che lo stesso non rientri nelle
leggi in materia di ordine e sicurezza
pubblica legge, di cui all’art. 54 del
D.Lgs. 18-08-2000, n. 267.
Il D.Lgs. n. 267 del 2000 ha, come è noto,
sancito, nell’art. 107, un criterio di
ripartizione delle attribuzioni di
competenza in ambito comunale che affida
alla dirigenza gli atti gestionali e lascia
agli organi di governo, quale il Sindaco,
solo gli atti attinenti alle funzioni di
indirizzo e controllo
politico-amministrativo degli organi
comunali.
A norma del principio sancito dall'art. 107
del citato D.Lgs., la competenza ad adottare
provvedimenti amministrativi, consistenti in
atti autoritativi posti in essere dalla p.a.
nell'espletamento di una potestà
amministrativa e aventi rilevanza esterna, è
stata devoluta ai dirigenti degli enti
locali -fatti salvi solo l’esercizio dei
poteri di indirizzo e controllo
politico-amministrativo spettanti agli
organi di governo– con l’attribuzione ai
dirigenti dei compiti non compresi
espressamente dalla legge o dallo statuto
fra le funzioni degli organi di governo o
fra quelle del segretario comunale o del
direttore generale.
L’art. 107 del D.Lgs. in questione prevede
altresì che, a decorrere dalla data di sua
entrata in vigore, le disposizioni che
conferiscono agli organi di governo
dell’ente "l'adozione di atti di gestione
e di atti o provvedimenti amministrativi, si
intendono nel senso che la relativa
competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto
previsto dall'articolo 50, comma 3, e
dall'articolo 54".
L'articolo 50, comma 3, prevede che, salvo
quanto previsto dall'articolo 107, il
sindaco e il presidente della provincia "esercitano
le funzioni loro attribuite dalle leggi,
dallo statuto e dai regolamenti e
sovrintendono altresì all'espletamento delle
funzioni statali e regionali attribuite o
delegate al comune e alla provincia".
L’articolo 54 descrive le attribuzioni del
sindaco nei servizi di competenza statale
indicando che lo stesso sovraintende, quale
ufficiale del Governo: "a) all'emanazione
degli atti che gli sono attribuiti dalla
legge e dai regolamenti in materia di ordine
e sicurezza pubblica; b) allo svolgimento
delle funzioni affidategli dalla legge in
materia di pubblica sicurezza e di polizia
giudiziaria; c) alla vigilanza su tutto
quanto possa interessare la sicurezza e
l'ordine pubblico, informandone
preventivamente il prefetto".
Alla luce di tale premessa la censura si
rivela infondata, come evidenziato di
recente in giurisprudenza (cfr. TAR Friuli
Venezia Giulia, I, 08/04/2011 n. 184).
In primo luogo, il Collegio ritiene che
l’Amministrazione abbia agito in virtù di un
più ampio potere di autotutela
amministrativa spettante alla stessa sui
beni demaniali ex art. 823 cod. civ. (ed in
forza dell’art. 825 cod. civ. anche sui
diritti reali che spettano allo Stato, alle
province e ai comuni su beni appartenenti ad
altri soggetti quando sono stati costituiti
per l'utilità di beni demaniali o per il
conseguimento di fini di pubblico interesse)
che esula dallo stretto disposto dell’art.
378 della legge n. 2248 del 1865, allegato
F, riallacciandosi, nel caso in esame,
l’azione dell’amministrazione al più ampio
potere di tutela dei beni demaniali e dei
diritti reali ad uso pubblico.
In questo senso, pertanto, l’atto posto in
essere si connota sicuramente come atto
gestionale di spettanza della dirigenza
comunale senza che vengano in rilievo le
specifiche problematiche di competenza
sollevate per l’art. 378 della legge n. 2248
del 1865, allegato F.
In ogni caso, anche con riguardo al potere
specificamente previsto dal suddetto art.
378, è da ritenere che tale competenza si
sia trasferita in capo alla dirigenza
comunale a seguito del principio introdotto
dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000,
che ha devoluto ai dirigenti l’adozione di
tutti gli di gestione e dei provvedimenti
amministrativi già spettanti agli organi di
governo dell’ente, salvo le ipotesi ivi
previste.
L’esercizio del potere di cui all’art. 378
della legge n. 2248 del 1865, allegato F, da
un lato, difatti, si qualifica come atto
gestionale, a tutela dell’uso dei beni
pubblici, scevro da profili di indirizzo e
controllo politico-amministrativo e come
tale attribuito alla competenza generale
della dirigenza comunale, dall’altro non
rientra nelle ipotesi previste dagli
indicati artt. 50, comma 3, e 54.
A quest’ultimo riguardo il potere attribuito
dall’art. 378 non rientra tra i compiti
conferiti al sindaco quale ufficiale del
Governo di cui all’art. 54. Inoltre, alla
luce dell’indicata natura del potere
attribuito ai sensi dello stesso art. 378
-che risulta volto non alla stretta
salvaguardia della circolazione stradale
bensì in modo più ampio a tutela delle
strade pubbliche e quindi non è limitato al
profilo della loro fruibilità- si ritiene
comunque che lo stesso non rientri nelle
leggi in materia di ordine e sicurezza
pubblica legge, di cui all’art. 54 del
D.Lgs. 18-08-2000, n. 267 (TAR
Basilicata,
sentenza 22.06.2011 n. 370 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
servitù di uso pubblico può costituirsi,
oltre che con un regolare atto negoziale di
costituzione da parte del proprietario del
terreno, anche mediante altre forme ed in
particolare, per l’effettivo uso pubblico
dell’area di pertinenza stradale per un
tempo immemorabile e, comunque, almeno pari
ad un ventennio oppure mediante l’istituto
della dicatio ad patriam.
A tale riguardo, la costituzione di una
servitù di uso pubblico su un’area stradale
privata per passaggio del tempo presuppone
l’uso pubblico ovverosia la concreta
idoneità a soddisfare (anche per il
collegamento con la pubblica via) esigenze
di interesse generale e che la stessa sia di
fatto accessibile al pubblico, "jure
servitutis publicae", da parte di una
collettività di persone qualificate
dall'appartenenza ad una comunità
territoriale..
E’ inoltre necessario dimostrare la
protrazione dell'uso stesso da tempo
immemorabile, almeno ultraventennale.
Il diritto di uso pubblico può altresì
costituirsi tramite dicatio ad patriam, che
consiste nel mero fatto giuridico del
comportamento del proprietario che, se pur
non intenzionalmente diretto a dar vita al
diritto di uso pubblico, metta
volontariamente, con carattere di continuità
e anche tramite condotte omissive, un
proprio bene a disposizione della
collettività, assoggettandolo al correlativo
uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza
che occorra un congruo periodo di tempo o un
atto negoziale, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale
collettività "uti cives", indipendentemente
dai motivi per i quali detto comportamento
venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e
dallo spirito che lo anima.
Per quanto riguarda una strada privata,
l’assoggettamento ad uso pubblico può
derivare: a) dall’inserimento, ricollegabile
alla volontà del proprietario e palesatosi
nel mutamento della situazione dei luoghi,
della strada nella rete viaria cittadina,
come può accadere per varie ragioni e
situazioni; b) da un immemorabile uso
pubblico (a sua volta indice di un
comportamento del proprietario verificatosi
in epoca remota e imprecisabile); tale uso
deve essere inteso come comportamento della
collettività contrassegnato dalla
convinzione -pur essa palesata da una
situazione dei luoghi che non consente di
distinguere la strada in questione da una
qualsiasi altra strada della rete viaria
pubblica- di esercitare il diritto di uso
della strada.
Con i motivi nn. 1 del ricorso e 5 dei
motivi aggiunti, il ricorrente espone le
censure portanti del gravame, con le quali
si insiste sulla proprietà privata del
cortile e si nega l’esistenza d’una servitù
pubblica di passaggio. In quest’ottica,
pertanto, le censure inerenti il carattere
abusivo o meno dei cancelli passano in
secondo piano, degradando a mera variabile
dipendente della questione principale.
Sul punto occorre precisare che, dagli atti
dell’istruttoria procedimentale (verbale di
contravvenzione n. 2 del 10/09/2010) risulta
che la polizia municipale, dietro
segnalazione di alcuni cittadini residenti
in San Fele, effettuava un sopralluogo a
seguito del quale accertava che “il
tratto di strada di via Francesco Stia che
si collega con Vico II La Vista è stato
interdetto al transito pedonale dal signor
D’Onofrio Gerardo, Michele, Pietro, mediante
l’apposizione di due cancelli abusivi, di
cui uno in ferro, apposto a monte del
fabbricato di sua proprietà e l’altro in
legno, a valle del medesimo fabbricato,
ubicato al civico 4 della strada de quo, in
assenza di relative autorizzazioni da parte
del Comune di San Fele, trattandosi di
strada pubblica come confermato dagli
accertamenti eseguiti sia presso l’ufficio
tecnico comunale, giusta nota di riscontro
prot. n. 6748 del 23/08/2010…….sia presso i
competenti Uffici Regionali del Territorio”.
La difesa dell’amministrazione ha depositato
quest’ultima nota alla quale sono allegate
planimetrie catastali dalle quali, secondo
il responsabile del procedimento,
risulterebbe che l’area è di proprietà
comunale.
Tutto ciò esposto occorre anzitutto rilevare
che il ricorrente non fornisce prova della
proprietà dell’area di cui si discute. In
allegato alla perizia giurata depositata
l’08.10.2010 esiste un rogito del 1926 con
cui il padre dell’attuale ricorrente
acquistava la proprietà e il possesso di
alcune case dirute fra cui Palazzo Stia ma
tale atto, di per sé, non prova in modo
specifico la proprietà dell’area di cui si
discute.
La restante documentazione depositata dal
ricorrente mira a risalire alla prova della
proprietà delle aree attraverso alcuni
elementi di fatto minori (la denominazione
di vico, ritenuta, ad avviso del Collegio,
erroneamente equivalente a strada cieca e
quindi priva di accesso sulla pubblica via,
la numerazione civica posta sul piedritto
destro del portale, la diversa
pavimentazione presente nell’androne
rispetto a quella di via Stia e dal fatto
che la muratura che contiene il portale di
ingresso è della stessa altezza del palazzo)
palesemente insufficienti a fondare tale
prova.
Quanto agli altri elementi, alla luce delle
planimetrie depositate dall’amministrazione
e della speculare, precisa descrizione dei
luoghi riportata nella relazione in data
10/11/2010 del settore tecnico comunale (sub
n. 15), va anzitutto smentita la
configurazione e la definizione di “cortile”
(ancorché ripresa in mappe presentate dal
dante causa del ricorrente nel 1939)
attribuita dall’istante a quello che invece
è un vero e proprio “slargo” su cui via
Francesco Stia, dopo un tratto rettilineo di
circa 150 metri si apre all’interno d’uno
spazio in concreto non definibile cortile (pertinenziale
a Palazzo Stia) sia perché sullo stesso si
affaccia non solo Palazzo Stia, ma anche
Palazzo Lubrino e sia per l’evidente, fisica
appartenenza dello stesso al tracciato di
via Francesco Stia, come peraltro confermato
dal fatto che nelle mappe catastali fornite
al Comune dall’Agenzia del Territorio di
Potenza la parola Stia (della dicitura Via
Federico Stia), ricade proprio su detto
slargo. Il transito lungo di esso introduce
poi a un passaggio ricadente sotto Palazzo
Stia indicato con segni tratteggiati nella
mappa catastale ora citata e denominato, nel
gergo locale, “supporto” e di lì,
dopo breve percorso, a Vico II Luigi La
Vista e, percorso quest’ultimo, si giunge a
via Luigi La Vista.
Ora, secondo il Collegio, le aree “de
quibus”, in quanto spazi, interni
all’abitato e adiacenti e/o aperti sul suolo
pubblico (vedi art. 22, co. 3, allegato F
della legge 20/03/1865 n. 2248) e in
comunicazione diretta con esso, sono
assistiti da una presunzione legale di
demanialità cioè, appunto, di appartenenza
al demanio di detti spazi. Nella specie, la
prova contraria, che pur potrebbe vincere la
presunzione “de qua”, non risulta
essere stata resa dal ricorrente dato che
non è stato prodotto alcun titolo valido,
certificante, per così dire, la titolarità
di precisi diritti, anche di solo godimento,
sulle aree in questione (e tale non
potendosi ritenere neppure la documentazione
allegata al ricorso).
Oltretutto, come osservato dalla difesa
dell’amministrazione, nella mappa catastale
allegata alla relazione tecnica (all. 2 del
doc. n. 15) e in quella rilasciata
dall’Agenzia del Territorio di Potenza
figura il corpo principale dell’immobile
nell’area di colore chiaro (particella n.
76) che presenta solo il giardino come sola
pertinenza aggraffata alla particella in
questione mentre l’area di collegamento fra
le due strade non ha numeri identificativi a
livello catastale e non appare riferibile
quale pertinenza della particella 76.
Ma anche a voler prescindere da questioni
inerenti la prova della proprietà e
l’evidente idoneità dei sopra specificati
percorsi a formare un sistema unico di
circolazione pedonale che congiunge via
Stia, per il tramite del passaggio a Vico II
Stia e in tal modo a via Luigi la Vista, c’è
da dire che lo stesso ricorrente, con la
nota inviata al Sindaco di San Fele in data
27/08/2010, a pochi giorni dal sopralluogo
effettuato dai vigili, dopo aver dichiarato
che “il cancello” sarebbe stato
apposto circa 25 anni fa, pur insistendo
sulla proprietà privata del cortile
antistante Palazzo Stia, fa espresso
riferimento al “diritto di passaggio del
popolo, che gli attuali proprietari
tollerano, tant’è che i cancelli sono
apribili da parte di chicchessia”.
Tali riferimenti, al di là di ogni altra
considerazione, convalidano pertanto
l’affermazione del Comune secondo cui i
tratti di collegamento fra via Stia e Vico
II sono stati da sempre o comunque da lungo
tempo utilizzati per il libero passaggio
pedonale (vedi relazione tecnica sub-15
della produzione comunale). Il Collegio
ritiene cioè comunque esistente una servitù
di uso pubblico, essendosi la stessa
costituita a seguito di prolungato esercizio
del diritto d’uso pubblico o, quantomeno,
per dicatio ad patriam e che la
stessa è, pertanto, opponibile al
ricorrente.
Come di recente ricordato in giurisprudenza
(cfr. TAR Friuli Venezia Giulia cit.), una
servitù di uso pubblico può costituirsi,
oltre che con un regolare atto negoziale di
costituzione da parte del proprietario del
terreno, anche mediante altre forme ed in
particolare, per l’effettivo uso pubblico
dell’area di pertinenza stradale per un
tempo immemorabile e, comunque, almeno pari
ad un ventennio oppure mediante l’istituto
della dicatio ad patriam.
A tale riguardo, la costituzione di una
servitù di uso pubblico su un’area stradale
privata per passaggio del tempo presuppone
l’uso pubblico ovverosia la concreta
idoneità a soddisfare (anche per il
collegamento con la pubblica via) esigenze
di interesse generale e che la stessa sia di
fatto accessibile al pubblico, "jure
servitutis publicae", da parte di una
collettività di persone qualificate
dall'appartenenza ad una comunità
territoriale (Cons. Stato, Sez. V - sentenza
24.05.2007 n. 2618; TAR Lombardia Milano,
Sez. II - 18.04.2008 n. 1229 ).
E’ inoltre necessario dimostrare la
protrazione dell'uso stesso da tempo
immemorabile (cfr. ex plurimis,
C.d.S., Sez. V, 04.02.2004, n. 373; C.d.S.,
Sez. V, 01.12.2003, n. 7831; TAR Abruzzo,
Pescara, 04.03.2006, n. 144; TAR Toscana,
sez. III, 19.07.2004, n. 2637; TAR Lazio,
sez. II, 29.03.2004, n. 2922; TAR
Campania–Napoli, Sez. VIII - sentenza
01.06.2007, n. 5906), almeno ultraventennale
(Cons. Stato, Sez. V – sentenza 04.02.2004
n. 373; Cons. Stato, Sez.. V - sentenza
04.02.2004, n. 373; TAR Puglia-Lecce, Sez. I
- sentenza 09.01.2008 n. 48).
Il diritto di uso pubblico può altresì
costituirsi tramite dicatio ad patriam,
che consiste nel mero fatto giuridico del
comportamento del proprietario che, se pur
non intenzionalmente diretto a dar vita al
diritto di uso pubblico, metta
volontariamente, con carattere di continuità
e anche tramite condotte omissive, un
proprio bene a disposizione della
collettività, assoggettandolo al correlativo
uso, che ne perfeziona l'esistenza, senza
che occorra un congruo periodo di tempo o un
atto negoziale, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale
collettività "uti cives",
indipendentemente dai motivi per i quali
detto comportamento venga tenuto, dalla sua
spontaneità o meno e dallo spirito che lo
anima. (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 12167
del 12-08-2002; Sez. II, sent. n. 7481 del
04-06-2001; Cass. Civ., Sez. II, sent. n.
10574 del 10-12-1994; Cons. Stato, Sez. V -
sentenza 24.05.2007 n. 2618).
Per quanto riguarda una strada privata,
l’assoggettamento ad uso pubblico può
derivare: a) dall’inserimento, ricollegabile
alla volontà del proprietario e palesatosi
nel mutamento della situazione dei luoghi,
della strada nella rete viaria cittadina,
come può accadere per varie ragioni e
situazioni; b) da un immemorabile uso
pubblico (a sua volta indice di un
comportamento del proprietario verificatosi
in epoca remota e imprecisabile); tale uso
deve essere inteso come comportamento della
collettività contrassegnato dalla
convinzione -pur essa palesata da una
situazione dei luoghi che non consente di
distinguere la strada in questione da una
qualsiasi altra strada della rete viaria
pubblica- di esercitare il diritto di uso
della strada (Cons. Stato, Sez. V - sentenza
09.06.2008 n. 2864).
Nel caso di specie il Collegio ritiene che
sussistano tutti i requisiti affinché possa
ritenersi essere venuta in esistenza una
servitù di uso pubblico per uso
ultraventennale o, in ogni caso, per
dicatio ad patriam. Risulta cioè
maturato secondo il collegio un periodo di
pubblico uso ultraventennale tale da aver
determinato, per quanto in precedenza
indicato, la costituzione di una servitù di
uso pubblico sulle aree in questione (TAR
Basilicata,
sentenza 22.06.2011 n. 370 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
regola generale della non necessità di un
puntuale onere motivazionale delle nuove
destinazioni urbanistiche conferite dallo
strumento urbanistico subisce delle
eccezioni in alcune situazioni specifiche,
in cui il principio della tutela
dell'affidamento impone che lo strumento
urbanistico dia conto del modo in cui sia
stata effettuata la ponderazione degli
interessi pubblici e siano state operate le
scelte di pianificazione: ciò si verifica
nei casi in cui la nuova destinazione
urbanistica rispetto alla precedente va ad
incidere su singole posizioni, connotate da
una fondata aspettativa sulla destinazione
dell'area, che per questo si differenziano
dalle posizioni degli altri soggetti
interessati; l'Amministrazione in tali casi
ha il dovere di valutare con attenzione
l'opportunità di modificare la precedente
destinazione urbanistica di un'area e, se
ritiene di dover diversamente disciplinare
tale area e sacrificare comunque gli
interessi dei soggetti coinvolti, deve
indicare le ragioni logiche che hanno
portato a tale nuova scelta pianificatoria.
E' stato ripetutamente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa che la regola
generale della non necessità di un puntuale
onere motivazionale delle nuove destinazioni
urbanistiche conferite dallo strumento
urbanistico subisce delle eccezioni in
alcune situazioni specifiche, in cui il
principio della tutela dell'affidamento
impone che lo strumento urbanistico dia
conto del modo in cui sia stata effettuata
la ponderazione degli interessi pubblici e
siano state operate le scelte di
pianificazione (rendendole, quindi,
sindacabili davanti al giudice
amministrativo): ciò si verifica nei casi in
cui la nuova destinazione urbanistica
rispetto alla precedente va ad incidere su
singole posizioni, connotate da una fondata
aspettativa sulla destinazione dell'area,
che per questo si differenziano dalle
posizioni degli altri soggetti interessati;
l'Amministrazione in tali casi ha il dovere
di valutare con attenzione l'opportunità di
modificare la precedente destinazione
urbanistica di un'area e, se ritiene di
dover diversamente disciplinare tale area e
sacrificare comunque gli interessi dei
soggetti coinvolti, deve indicare le ragioni
logiche che hanno portato a tale nuova
scelta pianificatoria.
In tal senso, vengono riconosciute
meritevoli di questa particolare forma di
tutela quelle situazioni caratterizzate da
un affidamento "qualificato", ossia
nei casi di:
a) superamento degli standard minimi di cui
al d.m. 02.04.1968 - con l'avvertenza che la
motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b) lesione dell'affidamento qualificato del
privato derivante da convenzioni di
lottizzazione, accordi di diritto privato
intercorsi tra il Comune e i proprietari
delle aree, dalle aspettative nascenti da
giudicati di annullamento di dinieghi di
permesso di costruire o di silenzio-rifiuto
su una domanda di concessione;
c) modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo
(cfr., da ultimo e tra le tante, TAR Lazio,
sez. II, 02.03.2011, n. 1950)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.06.2011 n. 1581 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICA: Ai
sensi dell'art. 78, comma 4, del d.lgs.
18.08.2000 n. 267, l'inosservanza
dell'obbligo di astensione previsto dal
precedente comma 2 per i consiglieri
comunali che si trovino in posizione di
incompatibilità non invalida “in toto” lo
strumento urbanistico oggetto della delibera
consiliare, ma ne vizia le parti
direttamente collegate agli interessi degli
amministratori che abbiano illegittimamente
concorso alla sua adozione; pertanto, la
legittimazione a far valere un profilo di
invalidità di tale natura va riconosciuta
esclusivamente a chi dimostri un'effettiva
utilità a conseguire l'annullamento "in
parte qua" del piano.
Il collegio,
pur consapevole di un orientamento in tal
senso manifestato da una parte della
giurisprudenza, aderisce alla più recente
tesi espressa più volte dal giudice di
appello ed anche da questo Tribunale (cfr.,
ad esempio, Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009,
n. 3744; TAR Lombardia, sez. II, n.
1526/2010), per la quale, ai sensi dell'art.
78, comma 4, del d.lgs. 18.08.2000 n. 267,
l'inosservanza dell'obbligo di astensione
previsto dal precedente comma 2 per i
consiglieri comunali che si trovino in
posizione di incompatibilità non invalida “in
toto” lo strumento urbanistico oggetto
della delibera consiliare, ma ne vizia le
parti direttamente collegate agli interessi
degli amministratori che abbiano
illegittimamente concorso alla sua adozione;
pertanto, la legittimazione a far valere un
profilo di invalidità di tale natura va
riconosciuta esclusivamente a chi dimostri
un'effettiva utilità a conseguire
l'annullamento "in parte qua" del
piano
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 21.06.2011 n. 1581 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
VAS - Art. 6, c. 1, d.lgs. n.
152/2006 - Principio di precauzione -
Idoneità potenziale ad incidere il bene
ambiente - Impatti significativi
sull’ambiente - Direttiva 27.06.2001, n. 42
CE.
La norma di cui all’art. 6, comma 1, del
d.lgs. n. 152/2006 è da ascrivere al novero
delle norme precauzionali, ispirate al
principio di precauzione che nella materia
ambientale ha ottenuto sanzione di diritto
positivo ad opera del recepimento, da parte
del d.lgs. n. 152/2006, delle varie
direttive comunitarie che lo avevano elevato
al rango di principio fondamentale nella
materia dell’ambiente. La norma non richiede
un’idoneità in atto ma solo in potenza,
della singola iniziativa urbanistica,
inserita in un contesto di pianificazione o
programmazione, ad incidere il bene
ambiente.
Invero, la lettera della legge si esprime
significativamente nei termini di “possono”
avere impatti significativi sull’ambiente.
Il tutto sempre che gli impatti che
l’iniziativa urbanistica può avere sul bene
ambiente e sul patrimonio culturale siano “significativi”,
ché, altrimenti, qualunque attività
edificatoria connessa all’adozione di
varianti strutturali al PRG, siccome un
qualche impatto sull’ambiente indubbiamente
possiede, dovrebbe, irragionevolmente ed in
violazione del principio di proporzionalità
comunitaria, essere sottoposta a valutazione
ambientale strategica.
E’ la stessa direttiva 27.06.2001, n. 42 CE,
cui si è data attuazione con il D.Lgs. n.
152/2006, a stabilire infatti che i piani
urbanistici che determinano l’interessamento
di piccole aree a livello locale o modifiche
minori ai piani stessi, siano assoggettate a
valutazione ambientale strategica soltanto
in conseguenza dei possibili effetti ancora
“significativi sull’ambiente” (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 17.06.2011 n. 657 - link
a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO - Minacce alla
salute pubblica o all’ambiente - Esigenza di
autonoma protezione delle persone che vivono
nell’area interessata - Vicinitas - Misura
della legittimazione - Elasticità del
criterio.
Premesso che, in materia di minacce alla
salute pubblica o all’ambiente, va
riconosciuta in linea di principio
l’esigenza di autonoma protezione delle
persone che vivono nell’area interessata
dalla fonte di pericolo, occorre tuttavia
(in una giurisdizione di tipo soggettivo e
in mancanza di un’espressa previsione di
azione popolare) individuare un criterio
atto a differenziare e qualificare la
posizione dei singoli che agiscono per la
tutela del bene ambiente.
La giurisprudenza di primo grado e il
Consiglio di Stato hanno da tempo
valorizzato, in tal senso, il criterio della
vicinitas (cfr., fra le ultime, Cons.
Stato, sez. VI, 13.09.2010, n. 6554). Tale
criterio, peraltro, non coincide con la
proprietà o con la residenza in un’area
immediatamente confinante con quella
interessata dall’intervento contestato, ma
deve essere inteso in senso elastico e va
modulato, quindi, in proporzione alla
rilevanza dell’intervento e alla sua
capacità di incidere sulla qualità della
vita dei soggetti che risiedono in un’area
più o meno vasta.
Ciò comporta, in concreto, che la “misura”
della legittimazione ad agire dei singoli in
materia ambientale non sia univoca, variando
in relazione all’ampiezza dell’area
coinvolta dalla ipotizzata minaccia
ambientale.
AMIANTO - Contaminazione
da amianto - Fabbricato dismesso dalla
precedente attività produttiva - Riutilizzo
- Misure di risanamento - Art. 6, l.r.
Piemonte n. 42/2000 - Principio comunitario
di precauzione.
La grave situazione di contaminazione da
amianto di un fabbricato dismesso dalla
precedente attività produttiva impone, ai
sensi dell’art. 6 della legge regione
Piemonte 07.04.2000, n. 42 (ma anche in
applicazione del principio comunitario di
precauzione, direttamente cogente per tutte
le amministrazioni pubbliche)
l’effettuazione di preliminari indagini e la
conseguente adozione di tutte le necessarie
misure di risanamento atte a prevenire i
pericoli per l’ambiente e la salute pubblica
legati al riutilizzo di tale struttura (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 16.06.2011 n. 635 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI FORNITURE:
Aggiudicazione in favore di una
ditta che ha offerto attrezzature non
corrispondenti alla descrizione degli
allegati tecnici del capitolato, ma che
assicurino comunque le prestazioni
richieste.
Nel caso in cui il bando di una gara di
appalto per l’aggiudicazione di forniture
preveda espressamente che, in sede di
scrutinio delle offerte tecniche da parte
della commissione di gara, "saranno
comunque prese in considerazione ed
opportunamente valutate proposte di prodotti
in grado di garantire le medesime
prestazioni delle apparecchiature
specificate negli allegati al presente
capitolo", è legittima l’aggiudicazione
in favore di una ditta che ha offerto
attrezzature che, pur non essendo
corrispondenti alla descrizione degli
allegati tecnici del capitolato, siano
comunque idonee ad assicurare alla stazione
appaltante le medesime prestazioni dei
prodotti specificamente richiesti dalla
lex specialis; in tal caso, infatti, il
criterio utilizzato dalla P.A. è quello
delle equivalenza delle prestazioni tra i
diversi prodotti, con la conseguenza che, in
sostanza, la stazione appaltante, pur
indicando negli allegati del capitolato una
certa tipologia di apparecchiature, non si è
preclusa la possibilità di ottenere e
valutare proposte di prodotti ulteriori,
egualmente idonei ad assicurare alla
amministrazione le prestazioni richieste
(1).
---------------
(1) Ha osservato la sentenza in rassegna
che, nella specie, se non fosse stata
apposta nel bando la riserva secondo cui
alla commissione di gara era riconosciuta la
possibilità di prendere in considerazione e
valutare opportunamente proposte di prodotti
in grado di garantire le medesime
prestazioni delle apparecchiature
specificate nella lex specialis, la gara per
cui si controverte non avrebbe potuto che
essere aggiudicata alla odierna appellante,
ma ciò sarebbe avvenuto in violazione
dell’art. 68, co. 2, del codice degli
appalti, a mente del quale le specifiche
tecniche devono consentire pari accesso agli
offerenti e non devono comportare la
creazioni di ostacoli ingiustificati alla
libera concorrenza.
Al riguardo la giurisprudenza del Consiglio
di Stato ha sottolineato che nei casi in cui
le specifiche tecniche risultino tutte
incentrate su un prodotto già confezionato
dalle imprese produttrici, il riferimento
tecnico deve essere necessariamente
temperato attraverso il riferimento al
concetto di equivalenza (Cons. Stato, V,
24.07.2007 n. 4138; VI 19.09.2007 n. 4884).
Infatti non possono essere introdotte
specifiche tecniche che menzionino prodotti
di una fabbricazione o di una provenienza
determinata e procedimenti particolari
aventi l’effetto di favorire o eliminare
talune imprese in assenza del temperamento
con criterio di equivalenza (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 13.05.2011 n. 2905 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione per
l'installazione di una antenna per la
telefonia mobile al di sopra di un edificio
sito nel centro storico.
Appare legittimo il diniego opposto da un
ente locale in merito ad una istanza
avanzata dalla società Wind tendente ad
ottenere l’autorizzazione per la
installazione di una antenna per la
telefonia mobile al di sopra di un edificio
situato nel centro storico, nel caso in cui
sia motivato con riferimento al fatto che:
a) l’antenna è di non irrilevanti
dimensioni,
b) la relativa installazione determinerebbe
una grave alterazione delle caratteristiche
del centro storico e delle visuali di
immobili anche di interesse storico
artistico; e ciò tanto più che, in
considerazione della molteplicità degli
interessi anche pubblici coinvolti, la
questione circa la migliore sistemazione
possibile dell’impianto può essere risolta
individuando una possibile diversa
collocazione dello stesso in un sito -che lo
stesso Comune può contribuire ad
individuare- che risulti compatibile sia con
le esigenze di sviluppo delle comunicazioni
telefoniche sia con l’interesse pubblico
alla tutela del centro storico dell’ente
locale (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - Consiglio di
Stato, Sez. III,
ordinanza 13.05.2011 n. 2115 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
trasformazione di un balcone o di un
terrazzino circondato da muri perimetrali in
veranda, o di un terrapieno et similia
mediante chiusura a mezzo di installazione
di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica od altri elementi costruttivi, non
costituisce intervento di manutenzione
straordinaria, di restauro o pertinenziale,
ma è opera già soggetta a concessione
edilizia ed attualmente a permesso di
costruire.
Una veranda è da considerarsi, in senso
tecnico-giuridico, un nuovo locale
autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà
trattandosi di opera destinata, non a
sopperire ad esigenze temporanee e
contingenti, ma a durare nel tempo,
ampliando così il godimento dell'immobile.
Né può sostenersi che, nella specie, il
manufatto realizzato fosse destinato alla
protezione dagli agenti atmosferici allorché
si consideri che è stato ottenuto in
concreto un nuovo vano adibito a deposito.
Si osserva che la giurisprudenza di questa
Corte Suprema è costantemente orientata nel
senso che la trasformazione di un balcone o
di un terrazzino circondato da muri
perimetrali in veranda, o di un terrapieno
et similia mediante chiusura a mezzo
di installazione di pannelli di vetro su
intelaiatura metallica od altri elementi
costruttivi, non costituisce intervento di
manutenzione straordinaria, di restauro o
pertinenziale, ma è opera già soggetta a
concessione edilizia ed attualmente a
permesso di costruire (cfr, tra le
molteplici pronunzie, Cass., Sez. n. 35011
del 2007 Rv 237532; n. 25588 del 2004, rv
230419).
Il medesimo orientamento si rinviene nelle
decisioni dei giudici amministrativi (vedi
Cons. Stato, Sez. 5: 08.04.1999, n. 394 e
22.07.1992, n. 675, nonché Cons. giust. Amm.
Sic. Sez. riunite, 15.10.1991, n. 345).
In particolare, una veranda è da
considerarsi, in senso tecnico-giuridico, un
nuovo locale autonomamente utilizzabile e
difetta normalmente del carattere di
precarietà trattandosi di opera destinata,
non a sopperire ad esigenze temporanee e
contingenti, ma a durare nel tempo,
ampliando così il godimento dell'immobile.
Né può sostenersi che, nella specie, il
manufatto realizzato fosse destinato alla
protezione dagli agenti atmosferici allorché
si consideri che è stato ottenuto in
concreto un nuovo vano adibito a deposito
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 11.05.2011 n. 18507
- link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA: E'
configurabile il reato di lottizzazione
abusiva quando la trasformazione edilizia o
urbanistica dei terreni sia realizzata con
difformità tipologiche, volumetriche,
strutturali e di destinazione tanto
rilevanti e diffuse su tutta l'area,
rispetto al progetto approvato dall'autorità
amministrativa, da far ritenere l'opera non
più riferibile a quella pianificata e,
quindi, senza autorizzazione.
Va ribadito anzitutto il principio
-consolidato nella giurisprudenza di questa
Corte- secondo il quale è configurabile il
reato di lottizzazione abusiva quando la
trasformazione edilizia o urbanistica dei
terreni sia realizzata con difformità
tipologiche, volumetriche, strutturali e di
destinazione tanto rilevanti e diffuse su
tutta l'area, rispetto al progetto approvato
dall'autorità amministrativa, da far
ritenere l'opera non più riferibile a quella
pianificata e, quindi, senza autorizzazione
(vedi Cass., Sez. 3^, 09.08.2006, n. 28683,
Saggese ed altri; 06.03.1996, n. 2408,
Antonioli ed altro; 17.09.1991, n. 9633, Le
Pira ed altro).
Deve trattarsi, dunque, di una difformità
totale rispetto all'autorizzazione, mentre
irrilevanti devono considerarsi le ipotesi
di difformità parziale, poiché si vuole
impedire che siano vanificati il preventivo
controllo ed il consenso dell'autorità
comunale che la legge intende assicurare,
laddove le piccole difformità e le non
rilevanti violazioni dell'iter procedurale
potranno essere eventualmente sanzionate ai
sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44,
lett. a)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2011 n. 17834). |
URBANISTICA: La
anticipazione dei lavori di costruzione
degli edifici residenziali, rispetto alla
compiuta realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria poste a carico dei
lottizzanti, integra inadempimento della
convenzione di lottizzazione e non
costituisce violazione di un mero obbligo
civilistico, poiché le convenzioni di
lottizzazione si presentano quale momento
indefettibile del complesso procedimento di
pianificazione urbanistica che si conclude
con l'approvazione del piano di
lottizzazione, sicché le stesse configurano
un modulo organizzativo attraverso il quale
si imprime un determinato statuto ai beni
che ne formano oggetto.
La
anticipazione dei lavori di costruzione
degli edifici residenziali, rispetto alla
compiuta realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria poste a carico dei
lottizzanti, integra altresì inadempimento
della convenzione di lottizzazione e non
costituisce violazione di un mero obbligo
civilistico, poiché le convenzioni di
lottizzazione si presentano quale momento
indefettibile del complesso procedimento di
pianificazione urbanistica che si conclude
con l'approvazione del piano di
lottizzazione, sicché le stesse configurano
un modulo organizzativo attraverso il quale
si imprime un determinato statuto ai beni
che ne formano oggetto (così già Cass., Sez.
3^, 09.02.1998, Svara ed altri)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale, sentenza
09.05.2011 n. 17834). |
EDILIZIA PRIVATA: La
natura di "variante" di precedente
concessione edilizia può riconoscersi
soltanto al provvedimento introducente
modifiche qualitative o quantitative che, in
riferimento alla valutazione complessiva
dell'erigendo edificio, risultino di modesta
entità, in modo da potersi ritenere che la
costruzione sia regolata dall'originaria
concessione che conserva la sua efficacia ex
tunc.
Al contrario, deve ritenersi "nuova
concessione" quella che modifica, anche
attraverso un'apprezzabile aumento della
volumetria, elementi essenziali del progetto
originariamente assentito.
Indipendentemente dal nomen iuris, la
natura di "variante" di precedente
concessione edilizia può riconoscersi
soltanto al provvedimento introducente
modifiche qualitative o quantitative che, in
riferimento alla valutazione complessiva
dell'erigendo edificio, risultino di modesta
entità, in modo da potersi ritenere che la
costruzione sia regolata dall'originaria
concessione che conserva la sua efficacia
ex tunc. Al contrario, deve ritenersi "nuova
concessione" quella che modifica, anche
attraverso un'apprezzabile aumento della
volumetria, elementi essenziali del progetto
originariamente assentito.
Solo ove fossero in concreto ravvisabili le
caratteristiche distintive della concessione
"in variante" rimarrebbero
sussistenti tutti i diritti quesiti con il
provvedimento originario nel caso
(corrispondente a ciò che assume la difesa)
di sopravvenienza di una nuova contrastante
disciplina pianificatoria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2011 n. 17834). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Ai
fini della conclusione di un contratto
d'opera professionale, che, quando ne sia
parte la pubblica amministrazione, va
redatto, a pena di nullità, in forma
scritta, è irrilevante l'esistenza di una
deliberazione dell'organo collegiale
dell'ente pubblico che abbia autorizzato il
conferimento dell'incarico al
professionista, richiamando ed approvando
anche lo schema del disciplinare, ove tale
deliberazione non risulti essersi tradotta
in atto contrattuale, sottoscritto dal
rappresentante esterno dell'ente stesso e
dal professionista.
Ai fini della conclusione di un contratto
d'opera professionale, che, quando ne sia
parte la pubblica amministrazione, va
redatto, a pena di nullità, in forma
scritta, è irrilevante l'esistenza di una
deliberazione dell'organo collegiale
dell'ente pubblico che abbia autorizzato il
conferimento dell'incarico al
professionista, richiamando ed approvando
anche lo schema del disciplinare, ove tale
deliberazione non risulti essersi tradotta
in atto contrattuale, sottoscritto dal
rappresentante esterno dell'ente stesso e
dal professionista.
Detta deliberazione non costituisce,
infatti, una proposta contrattuale nei
confronti del professionista, ma un atto con
efficacia interna all'ente pubblico, avente
per destinatario il diverso organo dell'ente
legittimato ad esprimere la volontà
all'esterno e carattere meramente
autorizzatolo (in tal senso è la massima
della sentenza n. 17695 del 2003; si
rammentano anche, da ultimo, Cass. n. 10299
del 2010 e, tra le altre, Cass. nn. 14570
del 2004 - 3042 del 2005 - 24296 del 2005 -
17650 del 2007 - 27407 del 2008)
(Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 20.04.2011 n. 9080). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sopraelevazione, anche se di dimensioni
ridotte, costituisce una nuova costruzione,
con la conseguente applicazione delle
distanze legali.
Con sentenza 11.04.2001 il tribunale di
Como, sulla domanda proposta da ... contro
... con citazione 15.06.1992 per il rispetto
delle distanze legali e sulla
riconvenzionale del convenuto, ordinava la
demolizione delle parti dell'edificio
dell'attore realizzate in sopraelevazione a
meno di 5 metri dal confine con condanna ai
danni.
... la Corte di appello ha condiviso la tesi
del Tribunale secondo cui la
sopraelevazione, anche se di dimensioni
ridotte, costituisce una nuova costruzione,
con la conseguente applicazione delle
distanze legali (Cass. 8954/2000, 1474/1999)
ed ha richiamato il regolamento edilizio del
Comune (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 08.04.2011 n. 8091). |
EDILIZIA PRIVATA:
VECCHI CONDONI.
È legittimo il provvedimento con il quale,
in sede di rilascio di una concessione in
sanatoria in base ai condoni del 1985 e del
1994 per aver mutato senza opere edilizie da
commercio all'ingrosso a commercio al minuto
la destinazione d'uso di un fabbricato in
zona D (destinata ad «attività produttive»),
è stato chiesto il pagamento del conguaglio
degli oneri concessori per il mutamento
della destinazione d'uso (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 07.12.2010 n.
8620 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
I.C.I.: Diverse
le sentenze che definiscono i requisiti
della dimora principale.
Due unità immobiliari
contigue, se utilizzate unitariamente come
dimora abituale del contribuente e della sua
famiglia, sono esenti da Ici anche se
autonomamente accatastate.
L'affermazione è contenuta nella
sentenza 19.05.2010 n. 12269 e
nella
sentenza 12.02.2010 n. 3397 della
Corte di Cassazione, Sez. tributaria.
Al contrario, non può
beneficiare dell'esenzione l'immobile di
residenza di uno dei coniugi qualora la
residenza degli altri familiari sia ubicata
in un immobile diverso.
La precisazione giunge dalla
sentenza 15.06.2010 n. 14389
della Cassazione.
Con l'avvicinarsi del termine del pagamento
del primo acconto Ici 2011, si affollano i
dubbi sulla portata dell'esenzione per
l'abitazione principale, sancita
nell'articolo 1 del Dl 93/2008.
La prima fattispecie riguarda il caso in cui
la famiglia utilizza promiscuamente e
unitariamente due distinte unità immobiliari
contigue, situate ad esempio sullo stesso
piano o su piani comunicanti. In tale
situazione –secondo la Cassazione– non
rileva la circostanza che le stesse siano
autonomamente accatastate: infatti,
l'articolo 8, Dlgs 504/1992, che contiene la
definizione di abitazione principale,
richiede solo la destinazione d'uso a dimora
abituale del contribuente, senza alcun
riferimento alla situazione catastale degli
immobili.
Su questo punto, peraltro, il Dlgs 23/2011,
attuativo del federalismo municipale,
all'articolo 8, contiene una disposizione
specifica riferita alla futura Imu,
l'imposta municipale che sostituirà l'Ici a
partire dal 2014. Si precisa infatti che
l'abitazione principale esente dovrà essere
«l'immobile iscritto o iscrivibile in
catasto come unica unità immobiliare». È
evidente che la previsione ha la funzione di
superare l'orientamento di Cassazione
favorevole ai contribuenti.
Di segno opposto è invece la statuizione che
riguarda il caso di residenza disgiunta dei
due coniugi. Il caso esaminato dalla Corte
riguardava un coniuge residente, per ragioni
di lavoro, in un Comune diverso da quello di
residenza dell'altro coniuge e dei figli.
Secondo la sentenza, la definizione
legislativa di abitazione principale
richiede la compresenza della dimora
abituale del contribuente e dei suoi
familiari. Tanto, a meno che il contribuente
non provi la frattura del rapporto
coniugale. Nella situazione in esame,
pertanto, l'unica abitazione principale è
quella di residenza dell'altro coniuge e dei
figli. Nella futura Imu, il requisito della
dimora congiunta dei contribuenti e dei
familiari sembra invece superato.
Un altro tema critico relativo all'esenzione
riguarda l'esatta individuazione delle
ipotesi di assimilazione all'abitazione
principale. La disposizione del Dl 93/2008
estende infatti l'esenzione alle
assimilazioni legali (si veda la «Parola
chiave» qui a fianco) e alle
assimilazioni regolamentari adottate alla
data del 29.05.2008. Secondo
l'interpretazione fornita nella risoluzione
n. 2/2009 delle Finanze, le assimilazioni
regolamentari sono solo quelle tipizzate in
disposizioni di legge. Tali sono, dunque,
gli immobili concessi in uso gratuito a
parenti in linea retta o collaterale e gli
immobili non locati posseduti da anziani o
disabili residenti in istituti di ricovero.
Ne consegue che sarebbero, al contrario,
soggetti ad Ici, ad esempio, i fabbricati
dei cittadini italiani non residenti,
iscritti all'Aire. Lo stesso dicasi per le
delibere comunali che avessero equiparato
all'abitazione principale gli immobili
affittati a soggetti che vi dimorano.
Ugualmente irrilevanti sono le clausole
regolamentari di assimilazione adottate dopo
il 29.05.2008 (data di entrata in vigore del
Dl 93/2008).
Tra l'altro, nella futura imposta municipale
del federalismo l'esenzione sembra
applicabile solo per l'abitazione principale
in senso stretto, senza più estensioni ad
assimilazioni di sorta (06.06.2011 -
commento tratto da
www.casa24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Il contributo per oneri di urbanizzazione è
un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, messo a carico del
concessionario a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione e in
proporzione all'insieme dei benefici che ne
ricava la nuova costruzione.
La sua disciplina è dettata dalla legge e il
giudice non può configurare ipotesi di
esenzione diverse da quelle di legge.
E’ ben vero che, secondo la maggioritaria
giurisprudenza amministrativa, dalla quale
il Collegio non ha ragione di discostarsi,
il contributo per oneri di urbanizzazione è
un corrispettivo di diritto pubblico, di
natura non tributaria, posto a carico del
concessionario a titolo di partecipazione ai
costi delle opere di urbanizzazione e in
proporzione all'insieme dei benefici che la
nuova costruzione ne ritrae (tra le molte,
per tutte, Cons. St., sez. V, 23.05.1997, n.
529).
Siffatta peculiare forma di “corrispettività”
trova d’altronde indiretta conferma nelle
tassative previsioni (come l’abrogato art.
11 della L. n. 10/1977 e il vigente art. 17,
comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001)
che contemplano ipotesi di scomputabilità
totale o parziale del suddetto contributo (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.04.2009 n. 2359
-
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Varianti in corso d'opera - Non
incidenza sulla sagoma dell'edificio -
Necessità - Concetto di sagoma -
Individuazione.
In tema di disciplina edilizia, rientrano
nel concetto di sagoma di una costruzione
tutte le strutture perimetrali come gli
aggetti e gli sporti, restandone escluse le
sole aperture che non prevedono superfici
sporgenti, soltanto per le quali è
consentita la procedura della denunzia di
inizio attività per varianti in corso
d'opera.
Pertanto, a quanto già previsto nella L. n.
47 del 1985, art. 15 e L. n. 662 del 1999,
art. 2, comma 60, art. 7, lett. g), anche il
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 22, comma 2,
continua a prevedere l'assoggettabilità a
DIA unicamente per le varianti che non
incidono sui parametri urbanistici e sulle
volumetrie, che non modificano la
destinazione d'uso e la categoria edilizia,
non alterano la sagoma dell'edificio e non
violano le eventuali prescrizioni contenute
nel permesso di costruire.
Di conseguenza, si è escluso, ad esempio,
che possano rientrare nella categoria delle
c.d. varianti di opera, la realizzazione di
una scala esterna di accesso al primo piano,
di una mensola su entrambi i lati con
riguardo ai solai di calpestio, di
sottotetto del primo piano, di uno sporto al
solaio del sottotetto, (Sez. 3^, Sentenza n.
3849 del 09/02/1998 Rv. 210647) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.03.2006 n. 8303 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Relazioni dei tecnici - Falsità
ideologica in certificato - Ingegnere o
tecnico tenuto a disporre gli atti necessari
per il rilascio di una concessione edilizia
- Tipologia degli atti.
In tema del reato di falsità ideologica in
certificato commesso da persona esercente in
servizio di pubblica necessità, che,
l'ingegnere e, comunque, il tecnico tenuto a
disporre gli atti necessari per il rilascio
di una concessione edilizia, devono
considerarsi esercenti. Un servizio di
pubblica necessità.
Infatti sia il progetto quanto la relazione
sono atti professionali che per legge
richiedono un titolo di abilitazione e che
sono vietati a chi non sia autorizzato allo
esercizio della professione specifica (sez.
5^, sentenza n. 9821 del 07/05/1986 rv.
173807).
Avuto riguardo alla tipologia degli atti si
è talora esclusa la natura di "certificato"
nel caso della relazione tecnica allegata
alla comunicazione prevista dalla Legge
28.02.1985 n. 47, art. 26, sul rilievo che
la sua funzione è quella di rendere nota
alla P.A. l'intenzione di realizzare le
opere in essa descritta, al momento ancora
inesistenti. (Sez. 5^, Sentenza n. 24562 del
03/05/2005 Rv. 231505; Sez. 5^, Sentenza n.
23668 del 26/04/2005 Rv. 231906).
Si è ritenuta, per contro, la sussistenza
del reato in esame nei casi in cui le
relazioni dei tecnici riguardavano, invece,
opere già eseguite (così Sez. 5^, Sentenza
n. 21639 del 24/02/2004 Rv. 229184 che ha
ravvisato il reato in relazione alla
presentazione di DIA, pur essendo le opere
previste già materialmente eseguite) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.03.2006 n. 8303 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione edilizia -
Ristrutturazione edilizia - Area di sedime
originaria - Necessità - Fondamento.
Per sagoma deve intendersi la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed
orizzontale, così che solo le aperture che
non prevedano superfici sporgenti vanno
escluse dalla nozione stessa di sagoma.
In tema di ristrutturazione edilizia, la
necessità della costruzione dell'edificio
demolito nell'area di sedime originaria è un
requisito insito nella nozione stessa di
ristrutturazione, atteso che tale nozione
deve essere oggetto di interpretazione
restrittiva poiché la sua disciplina
costituisce un'eccezione al principio
generale secondo il quale ogni
trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio, che ne comporti una rilevante
modifica nel suo assetto, necessita di
essere assentita con il permesso di
costruire.
Al fine di ricomprendere nell'ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia
quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione di un fabbricato con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente,
per sagoma deve intendersi la conformazione
planovolumetrica della costruzione ed il suo
perimetro considerato in senso verticale ed
orizzontale, così che solo le aperture che
non prevedano superfici sporgenti vanno
escluse dalla nozione stessa di sagoma.
Gli interventi effettuati su immobili
sottoposti a vincolo paesistico e ambientale
vanno considerati in variazione essenziale
dalla normativa urbanistica e vanno
sanzionati ai sensi dell'art. 20, lett. c),
della legge 28.02.1985 n. 47 (ora sostituito
dall'art. 44, comma primo, lett. c), del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380, con riferimento
all'art. 32 stesso testo) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.04.2004 n. 19034 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Concessione - Contributo di urbanizzazione -
Esenzione ex art. 9, lett. f, L. 10/1977 -
Presupposti.
2. Concessione - Convenzione - Connotazione
soggettiva della società istante -
Irrilevanza.
3. Concessione - Contributo di
urbanizzazione - Esenzione ex art. 9, lett.
f, L. 10/1977 - Edifici di proprietà privata
- Inapplicabilità.
4. Concessione - Contributo di costruzione -
Esenzione ex art. 10, comma 1, L. 10/1977 -
Immobile destinato a residenza per anziani -
Inapplicabilità.
1.
Ai fini dell'esenzione dal pagamento del
contributo di costruzione, prevista
dall'art. 9, lett. f, L. 10/1977, occorre il
concorso di due presupposti, e cioè l'ascrivibilità
del manufatto oggetto di concessione
edilizia alla categoria delle opere
pubbliche o di interesse generale (nel senso
che deve trattarsi di impianti o
attrezzature che, quantunque non destinati
direttamente a scopi dell'amministrazione,
siano idonei a soddisfare bisogni della
collettività anche se realizzati e gestiti
da privati) e l'esecuzione delle opere da
parte di enti istituzionalmente competenti,
vale a dire da parte di soggetti cui sia
demandata in via istituzionale la
realizzazione di opere di interesse
generale, come nel caso di concessione di
opera pubblica o di altre analoghe figure
organizzatorie.
2.
Lo schema di convenzione, presentato dalla
società concessionaria ed approvato dal
Consiglio Comunale, contenente la disciplina
dei servizi che dovranno essere prestati
agli utenti di una residenza per anziani,
non riguarda la connotazione soggettiva
della società proprietaria dell'immobile e
gerente della medesima struttura, che
rimane, a tutti gli effetti, una società di
diritto privato; pertanto, deve escludersi
che la società chiamata a gestire l'immobile
secondo gli indirizzi della convenzione,
assuma la veste di concessionaria di un
pubblico servizio alla quale possa
applicarsi l'ipotesi di esenzione prevista
dall'art. 9, lett. f, L. 10/1977.
3.
Per quanto riguarda la seconda ipotesi di
esenzione prevista dall'art. 9, lett. f, L.
10/1977 che riguarda "le opere di
urbanizzazione eseguite anche da privati, in
attuazione di strumenti urbanistici", si
osserva che le attrezzature sanitarie,
ancorché rientranti nel tassativo elenco
previsto dalla L. 847/1964, qualora siano di
proprietà privata non possono comunque
essere annoverate tra le opere di
urbanizzazione secondaria, difatti in esse
non possono rientrare edifici di proprietà
privata sol perché utilizzati per finalità
simili a quella propria degli edifici
pubblici, considerato che il fine
dell'esenzione è quello di evitare una
contribuzione intimamente contraddittoria
(quale sarebbe quella per opere costruite a
carico della collettività) e non quella di
esonerare gli imprenditori dai costi di
impresa; in ogni caso l'opera di
urbanizzazione, ai fini dell'applicazione
dell'esonero del contributo concessorio,
deve essere qualificata come tale nello
strumento urbanistico dell'ente locale,
anche attuativo.
4.
L'immobile adibito a residenza per anziani,
con destinazione di tipo prevalentemente
ricettivo, sia pure in parte con funzioni
sanitarie che non costituiscono la
connotazione principale dell'attività svolta
nella struttura, non può essere assimilato
ad un insediamento di tipo
industriale-artigianale per il quale l'art.
10, comma 1, prevede che non sia da
corrispondere il contributo connesso al
costo di costruzione.
_______________________
1. In questa rassegna: Tar Toscana, sez.
II, 18.04.2001 n. 757; inoltre confronta:
Cons. Stato, sez. V, 17.10.2000 n. 5558;
Cons. Stato, sez. V, 06.12.1999 n. 2061;
Cons. Stato, sez. V, 10.05.1999 n. 536;
Cons. Stato, sez. V, 19.05.1998 n. 617;
Cons. Stato, sez. V, 04.05.1998 n. 492;
Cons. Stato, sez. V, 07.09.1995, n. 1280;
Cons. Stato, sez. V, 10.12.1990 n. 857; Tar
Toscana, sez. III, 09.06.2000 n. 1149; Tar
Lombardia - Brescia, 20.06.2000 n. 554; Tar
Lombardia-Brescia, 18.03.1999 n. 217; Tar
Toscana, sez. III, 19.02.1999 n. 17; Tar
Piemonte, sez. I, 17.12.1998 n. 746; Tar
Piemonte, sez. I, 10.04.1997 n. 206.
3. Cons. Stato, sez. V, 19.05.1998 n. 617;
Cons. Stato, sez. V, 21.01.1997 n. 69
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 06.12.2001 n. 1819 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni
- Ingiunzione a demolire - Mancata notifica
al comproprietario - Illegittimità -
Esclusione - Successivo provvedimento di
acquisizione gratuita ex art. 7 L. 47/1985 -
Necessità della previa notifica
dell'ordinanza di demolizione al
comproprietario.
L'ingiunzione di demolizione di immobile
abusivo, essendo improduttiva di effetti
diretti ed immediati sul patrimonio del
soggetto cui è intimata, ha sostanzialmente
carattere di diffida rivolta ad assegnare un
termine all'intimato, al fine di
consentirgli lo spontaneo ripristino della
legalità, e di evitargli in tal modo di
subire la definitiva sanzione all'uopo
prevista dalla legge.
Di conseguenza, l'ingiunzione a demolire non
è viziata da illegittimità per il solo fatto
di non essere stata notificata a tutti i
comproprietari, fermo restando che il
successivo provvedimento di acquisizione al
patrimonio comunale ai sensi dell'art. 7
della L. 47/1985, non è legittimamente
adottato nei confronti del comproprietario
al quale non sia stata notificata la
diffida.
________________
1. - Nello stesso senso TAR
Campania-Napoli, Sez. V, 10.11.1994 n. 415,
in Rass. TAR, 1995, pag. 289; cfr. inoltre
Consiglio di Stato, Sez. V, 20.04.1994 n.
333, in Rass. Cons. di Stato, 1994, pag.
574, entrambe citate in motivazione
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 25.07.2001 n. 1253 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: 1.
Bando - Onere di immediata impugnazione -
Quando sussiste.
2. - Bando - Mancata tempestiva impugnazione
di una clausola che prevede la
contaminazione tra fase di qualificazione e
fase di valutazione delle offerte -
Eccezioni di tardività e inammissibilità del
ricorso - Infondatezza.
3. - Servizi - Progettazione - Procedura ex
art. 23 D.Lgs 157/1995 - Sommatoria dei
punteggi ottenuti in sede di
prequalificazione ed in sede di gara vera e
propria - Illegittimità.
4. - Servizi - Progettazione - Procedura ex
art. 23 D.Lgs 157/1995 - Definizione dei
criteri di individuazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa - Previsioni
del D.P.C.M. 27.02.1997 n. 116 - Dubbia
compatibilità con il diritto comunitario.
5. - Servizi - Progettazione -
Determinazioni dell'Autorità per la
Vigilanza sui Lavori Pubblici - Efficacia -
Determinazione n. 6 dell'08.11.1999
dell'Autorità per la Vigilanza sui Lavori
Pubblici - Conferma del principio giuridico
ivi affermato.
6. - Servizi - Progettazione - Annullamento
del bando nella parte in cui suddivide il
concorso in due fasi - Domanda di
risarcimento del danno in forma specifica
proposta dal ricorrente secondo
classificato, ex art. 35 D.Lgs 80/1998,
mediante l'accertamento e la dichiarazione
del suo diritto all'aggiudicazione della
gara d'appalto - Insussistenza.
1.
- Il tradizionale principio per cui il bando
di gara non è autonomamente lesivo e,
quindi, non è impugnabile se non unitamente
ai provvedimenti concreti che ne facciano
applicazione, soffre di alcune eccezioni,
ricorrendo le quali il bando deve essere
tempestivamente impugnato.
In particolare, il bando di gara deve essere
tempestivamente impugnato qualora:
a) le
clausole censurate impediscano la
partecipazione alla gara fissando
particolari requisiti soggettivi dei
concorrenti;
b) le clausole siano ritenute
irragionevoli al punto da non consentire la
stessa formulazione dell'offerta e, quindi,
rendano impossibile quel calcolo di
convenienza tecnica ed economica che ogni
concorrente deve poter effettuare all'atto
in cui decide se partecipare o meno ad una
gara;
c) le prescrizioni del bando impongano
determinati oneri formali alle imprese
partecipanti, a pena di esclusione (es.:
esibizione di documenti o certificati);
d)
le clausole censurate siano relative al
modus operandi fissato per il funzionamento
della commissione giudicatrice (es.:
operazioni da svolgere in seduta pubblica o
segreta).
Più in generale, come anche affermato dalla
più recente giurisprudenza (sentenze
2884/2000 e 2990/2000 del Consiglio di
Stato), l'immediata impugnazione del bando
di gara è subordinata ad un'accurata analisi
della singola fattispecie che metta in luce,
fra l'altro, i seguenti aspetti:
a) il
contenuto della clausola del bando sospetta
di illegittimità;
b) il tipo di vizio
dedotto dalla parte ricorrente;
c)
l'interesse manifestato dall'impresa;
d)
l'attitudine della partecipazione alla
procedura selettiva a manifestare
univocamente l'acquiescenza alle regole
della gara;
e) l'influenza della regola
fissata dal bando sui comportamenti dei
concorrenti e sulla condotta della stazione
appaltante;
f) l'incidenza della clausola
sullo svolgimento concreto della gara e sui
suoi esiti.
2.
- L'asserita illegittimità di una clausola
del bando di gara nella parte in cui dispone
la valutazione dei titoli di ammissione
attraverso la scissione della procedura di
gara in due fasi distinte, indica una
lesione solo potenziale al momento
dell'adozione dell'atto che può divenire
attuale, eventualmente, all'esito della
gara.
Pertanto l'interesse all'impugnazione del
bando, in relazione alla suddetta clausola,
è strettamente connesso alla non
irragionevole possibilità -valutabile solo
ex post, all'esito della gara- che il
ricorrente, secondo una procedura legittima,
avrebbe ottenuto l'affidamento dell'incarico
nell'ambito di una selezione incentrata
sulla valutazione dell'offerta (II fase),
senza rilievo determinante dei requisiti di
idoneità soggettiva (I fase).
Ne consegue l'ammissibilità e la
tempestività del ricorso ritualmente
proposto contro il bando e contro l'atto di
affidamento dell'incarico.
3.
- E' illegittimo il bando di gara nella
parte in cui viene prevista, ai fini della
formazione della conclusiva graduatoria dei
partecipanti alla selezione, la sommatoria
dei punteggi agli stessi attribuiti nella
fase di prequalificazione con quelli
conseguiti in sede di procedura ristretta
vera e propria, in quanto la valutazione del
percorso professionale dei concorrenti
(compiuta nella prima fase di preselezione),
proprio perché preordinata alla
qualificazione nell'ambito della gara, non
può legittimamente riflettersi anche
sull'individuazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa (effettuata
nella seconda fase).
Una volta riconosciuta l'astratta idoneità
dei concorrenti che abbiano superato la
prima fase di prequalificazione, questi sono
posti in posizione di assoluta parità, in
applicazione dei principi concorrenziali del
diritto comunitario ed il contratto (o il
servizio) deve essere affidato al soggetto
che presenta l'offerta economicamente
migliore, non rilevando il precedente
curriculum professionale, salvo
l'apprezzamento del merito tecnico, il quale
peraltro rappresenta solo uno degli elementi
valutabili e non può mai assumere rilievo
eccessivo almeno in relazione alle pregresse
esperienze professionali dei concorrenti.
4.
- Pur se allo stato il contenzioso
comunitario non è definito, appare di dubbia
compatibilità con il diritto comunitario
(come già rilevato dalla Commissione
nell'atto del 27.09.1998 che ha avviato una
procedura di infrazione contro lo Stato
Italiano) la scelta del legislatore interno
(D.P.C.M. 27.02.1997 n. 116) di attribuire
rilevanza -sia pure parziale- ai fini
dell'individuazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, ad elementi
già valutati in sede di prequalificazione.
5.
- Le determinazioni dell'Autorità per la
Vigilanza sui Lavori Pubblici, di cui
all'art. 4 della L. 109/1994, relative
all'illegittimità di atti e provvedimenti
dell'Amministrazione, non spiegano alcuna
efficacia vincolante nei giudizi in corso
aventi ad oggetto detti provvedimenti, né
determinano sul piano sostanziale un obbligo
di adeguamento a carico della stessa
Amministrazione, ma costituiscono comunque
un contributo utile a delineare alcuni
aspetti della questione all'esame
dell'organo giurisdizionale.
Va confermato il principio indicato
nell'atto di determinazione n. 6
dell'08.11.1999 di separatezza tra la fase
della qualificazione e quella di valutazione
dell'offerta; principio tanto più valido per
la procedura del concorso di progettazione
la quale è diretta alla scelta della
migliore tra le prestazioni già rese e
offerte alla valutazione
dell'Amministrazione, anziché
all'individuazione del concorrente più
idoneo a rendere, alle migliori condizioni,
la futura prestazione.
6.
- Le clausole del bando di gara concernenti
la suddivisione del concorso in due distinte
fasi assumono un rilievo essenziale
nell'ambito della intera procedura, per cui
l'accertamento dell'illegittimità delle
suddette clausole non può determinare, in
nessun caso, una sorta di integrazione della
lex specialis di gara, imponendo
invece all'Amministrazione di rivalutare
ex novo tutti i presupposti della gara,
anche in relazione alla fissazione di nuovi
criteri di ammissione e di valutazione delle
offerte.
Pertanto, non può trovare accoglimento la
domanda di risarcimento in forma specifica
prospettata dal secondo classificato,
mediante l'accertamento del suo diritto
all'aggiudicazione dell'appalto (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 15.06.2001 n. 3187 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Concessione - Contributi - Esenzione ex art.
9, lett. f, L. 10/1977 - Presupposti.
2. Concessione - Contributi - Esenzione ex
art. 9, lett. f, L. 10/1977 - Opere
finalizzate all'espletamento dell'attività
istituzionale dell'E.N.E.L. - Spetta.
3. Concessione - Contributo urbanizzazione
ex art. 15 L. 393/1975 - Centrale
geotermoelettrica - Non è dovuto.
4. Concessione - Contributi - Determinazione
- Procedimento.
1.
Ai fini dell'esenzione dal contributo di
urbanizzazione, previsto dall'art. 9, lett.
f, L. n. 10 del 28.01.1977, occorre un
duplice requisito e cioè che l'opera rivesta
interesse di carattere generale e che essa
sia realizzata da un ente pubblico, ovvero
da un soggetto privato che agisca per conto
dell'ente pubblico, come nel caso di
concessione di opera pubblica o di altre
analoghe figure organizzatorie; peraltro,
non ricade nell'esenzione l'opera costruita
da un imprenditore per la propria attività
di impresa considerato altresì che il fine
dell'esenzione è quello di evitare una
contribuzione intimamente contradditoria
(quale sarebbe quella per opere costruite a
carico della collettività) e non quella di
esonerare gli imprenditori dai costi di
impresa.
2.
L'esenzione, prevista dall'art. 9, lett. f,
L. n. 10 del 28.01.1977, dal pagamento del
contributo per oneri di urbanizzazione è
applicabile alle opere edilizie, impianti ed
attrezzature progettate dall'E.N.E.L. in
quanto dirette al raggiungimento dei suoi
fini istituzionali e strettamente collegate
all'indefettibile esigenza di assicurare e
garantire, in ogni tempo, la continuità e la
regolarità del servizio di erogazione
dell'energia elettrica.
3.
L'E.N.E.L. non è tenuta alla corresponsione
del contributo previsto dall'art. 15 della
L. 02.08.1975 n. 393, sostitutivo degli
obblighi previsti dalla L. 17.08.1942 n.
1150 e successive modificazioni, allorché
abbia realizzato una "centrale
geotermoelettrica", in quanto la norma
ex art. 15 citata si riferisce alle sole
opere di urbanizzazione secondaria eseguite
dal Comune con riferimento alla
realizzazione di "centrali termiche di
qualsiasi tipo" ed alle "centrali
elettriche di accumulazione mediante
pompaggio".
4.
Ai fini dell'incidenza degli oneri di
urbanizzazione, l'art. 5 della L. n. 10 del
28.01.1977 fissa una procedura nella quale
devono necessariamente intervenire, con
diverse finalità e con diverso ambito di
autonomia e discrezionalità, atti normativi
della Regione e dei Comuni, pertanto solo
con l'adozione degli atti di competenza dei
Comuni si realizza la concerta
determinazione e quantificazione degli oneri
di urbanizzazione; deve quindi ritenersi che
la diretta individuazione dell'obbligo di
corresponsione degli oneri di urbanizzazione
esuli dalle attribuzioni legittimamente
esercitabili dall'Amministrazioni regionale,
atteso che le competenze ad essa in
subiecta materia rimesse si limitano
all'individuazione dei relativi parametri di
riferimento, e non già alla successiva
individuazione dell'obbligazione avente ad
oggetto il contributo di che trattasi.
_______________________
1. Cons. Stato, sez. V, 17.10.2000 n.
5558; Cons. Stato, sez. V, 06.12.1999 n.
2061; Cons. Stato, sez. V, 10.05.1999 n.
536; Cons. Stato, sez. V, 19.05.1998 n. 617;
Cons. Stato, sez. V, 07.09.1995 n. 1280;
Cons. Stato, sez. V, 10.12.1990 n. 857; TAR
Toscana, sez. III, 09.06.2000 n. 1149; TAR
Lombardia-Brescia, 20.06.2000 n. 554; TAR
Toscana, sez. III, 19.02.1999 n. 17; TAR
Piemonte, sez. I, 10.04.1997 n. 206.
2. TAR Lazio, sez. II-bis, 26.10.2000 n.
8678; TAR Lombardia-Milano, 23.11.1979 n.
374.
4. TAR Lazio, sez. II, 13.02.1995 n. 165;
TAR Toscana, 06.11.1987 n. 1338
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 18.04.2001 n. 757 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Concessione - Diniego -
Sanatoria ex art. 39 L. 724/1994 - Domanda
dolosamente infedele - Presupposti.
2. - Concessione - Diniego -
Sanatoria ex art. 39 L. 724/1994 - Domanda
dolosamente infedele - Formazione del
silenzio assenso - Impossibilità - Diniego
disposto oltre 24 mesi dalla presentazione
del condono - Legittimità.
1. - Il rigetto della domanda di condono ex
art. 40 L. 28.02.1985 n. 47, siccome
ritenuta dolosamente infedele, si verifica
allorché le inesattezze od omissioni siano
preordinate a trarre in errore il Comune su
elementi essenziali dell'abuso, quali la
data della sua commissione e la
qualificazione giuridica dell'illecito.
2. - La inesatta rappresentazione della
realtà contenuta nella istanza di
concessione in sanatoria su un presupposto
essenziale per l'accoglibilità della
medesima (nella fattispecie la data di
ultimazione dell'opera abusiva),
configurando l'ipotesi di domanda
dolosamente infedele ai sensi dell'art. 40
L. 47/1985 impedisce il formarsi del c.d.
silenzio-assenso e pertanto deve ritenersi
legittimo il diniego assunto oltre i 24 mesi
dalla data di presentazione della domanda di
condono.
____________________
1. - Cfr. TAR Lombardia-Milano, Sez. II, 31.10.1991 n. 1263 e n. 1277, in Rass.
TAR, 1991, pag. 4261 e seg.
2. - Conforme TAR Puglia-Bari, Sez. II, 03.05.1994 n. 652, in Rass. TAR, 1994, pag.
2817 citata in motivazione; si veda altresì
TAR Piemonte, Sez. I, 21.10.1999 n.
614, in Rass. TAR, 1999, pag. 4679 (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III, sentenza
28.12.2000 n. 2724). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione - Diniego - Sanatoria
ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Vincolo
paesaggistico - Motivazione - Fattispecie -
Sufficienza.
1. Deve ritenersi legittimo il provvedimento
di diniego di condono edilizio ove sia
precisato che le opere al piano terra non
sono autorizzate "in quanto esse
sottraggono porzioni di vegetazione
all'ambiente e allungano il fronte edificato
costituendo ingombro panoramico".
Poiché siffatta motivazione reca una esatta
descrizione delle opere ritenute non
condonabili e soprattutto un giudizio di
disvalore paesaggistico che appare congruo
proprio in relazione al tipo e alla
consistenza delle opere edilizie eseguite.
_____________________
1. Confronta TAR Toscana, Sez. III,
22.12.2000 n. 2667, n. 2671, n. 2675 e n.
2681; 28.12.2000 n. 2707 e 07.04.2000 n. 602
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.12.2000 n. 2720). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
- Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n.
47/1985 - Vincolo paesaggistico -
Motivazione - Fattispecie - Sufficienza.
1. - Non sussiste il difetto di motivazione
del diniego di condono edilizio ove tale
provvedimento sia giustificato per
l'incompatibilità del bene da sanare con il
vincolo ambientale e, in specie
testualmente, perché: "le tettoie per
tipologia e precarietà dei materiali
costituiscono grave danno ambientale",
una più puntuale motivazione è infatti
richiesta in caso di accoglimento di
sanatoria nonostante la presenza del vincolo
ambientale anziché in caso di diniego.
_____________________
1. - Confronta TAR Toscana, Sez. III,
22.12.2000 n. 2675, n. 2671 e n. 2667;
28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n.
602
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 28.12.2000 n. 2707). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Processo amministrativo - Domanda di
accertamento dell'obbligo di rilascio della
concessione edilizia in sanatoria -
Posizione di interesse legittimo -
Inammissibilità.
2. - Concessione - Decadenza -
Espressa dichiarazione - Necessità -
Esclusione.
1. - Deve ritenersi inammissibile la domanda
di accertamento dell'obbligo del rilascio
della concessione edilizia in sanatoria dal
momento che una pronuncia di accertamento è
possibile solo in presenza di un diritto
soggettivo e non di un interesse legittimo,
posizione rivestita in ordine alle
concessioni edilizie.
2. - La decadenza della concessione edilizia
si determina anche in assenza di un'espressa
dichiarazione poiché, in riferimento alla
lettera della legge questa non dipende da un
atto amministrativo, costitutivo o
dichiarativo, ma dal semplice fatto
dell'inutile decorso del tempo, ovvero del
termine di un anno senza che sia dato inizio
ai lavori; diversamente la decadenza si
farebbe dipendere non solo da un
comportamento dei titolari della concessione
ma anche della pubblica amministrazione, con
probabili disparità di trattamento tra
situazioni identiche (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 28.12.2000 n.
2704). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanza
sindacale contingibile e urgente -
Presupposti - Individuazione - Tutela di un
singolo soggetto - Illegittimità.
1. - Presupposto per la misura contingibile
è anche che il pericolo che si intende
fronteggiare minacci un interesse di natura
generale, in qualche modo diffusa, o che
comunque trascende la posizione del singolo
nominativamente individuato cittadino (al
quale l'ordinamento offre peraltro la tutela
privatistica del codice civile); deve quindi
considerarsi illegittima l'ordinanza
contingibile ed urgente espressamente
emanata a protezione da un rischio
particolare (nella specie a rischio
allergico di "choc anafilattico" da puntura
di api) gravante su di un unico soggetto,
posizione senza dubbio meritevole di
considerazione ma che in quanto tale non
assurge però al rango di emergenza pubblica.
_________________
1. - Cfr. Cons. Stato, sez. V, 30.03.1993, n. 443, in Rass.
Cons. Stato, 1993, 368, citata nel testo
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. II, sentenza 27.12.2000 n. 2695). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Appalti e forniture - Servizi -
Concorso di progettazione - Divieto ex art.
23, IV comma, D.lgs. 157/1995 -
Applicabilità - Ambito.
La disposizione di cui all'art. 23, IV
comma, del D.lgs. 17.03.1995, n. 157 -secondo la quale l'affidamento della
progettazione non è compatibile con
l'aggiudicazione, a favore dello stesso
affidatario, degli appalti pubblici relativi
ai lavori e ai servizi progettati- deve
intendersi riferito alla sola ipotesi in cui
l'Amministrazione decida di fare ricorso ai
concorsi di progettazione previsti e
disciplinati dall'art. 26 del citato decreto
legislativo al fine di garantire, così, la
par condicio dei concorrenti (che
risulterebbe violata nel caso in cui alla
gara per l'affidamento del servizio potesse
partecipare anche il soggetto che aveva
precedentemente redatto il progetto ritenuto
più meritevole dall'amministrazione
appaltante) (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 27.12.2000 n.
2689). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Offerte anomale ex art.
25 D.lgs. 157/1995 - Giustificazioni verbali
- Aggiudicazione - Illegittimità -
Giustificazioni scritte - Necessità -
Conseguenza - Rinnovo della verifica.
1. - Poiché l'art. 25 del D.lgs. 17.03.1995, n. 157 prevede espressamente che le
giustificazioni riguardo alle offerte
anomale debbano essere richieste e rese per
iscritto, deve ritenersi nullo il
provvedimento di aggiudicazione alla ditta
che in tale sede abbia espresso meri
chiarimenti verbali dovendo, pertanto,
essere rinnovato il sub-procedimento per la
verifica dell'eventuale anomalia
dell'offerta.
_________________
1. - In tema, cfr. TAR Veneto, 02.07.1996, n. 1257 in Rass. TAR, 1996, 3161 e
Cons. Stato, sez. V, 26.06.1993, n. 753,
in Rass. Cons. Stato, 1993, 702, citate nel
testo (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 27.12.2000 n.
2686). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
- Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n.
47/1985 - Vincolo paesaggistico -
Motivazione - Fattispecie - Insufficienza.
1. - Il dovere di una adeguata motivazione a
sostegno di un diniego di concessione non
può ritenersi osservato ove si faccia
riferimento soltanto al fatto che l'opera
"non si inserisce nel contesto ambientale"
ma occorre che l'amministrazione individui
specificamente, anche se in modo succinto,
oltre che il vincolo esistente, anche le
caratteristiche costruttive che,
eventualmente collegate alla specifica
localizzazione nel territorio, sono di
ostacolo ad un idoneo inserimento
dell'immobile nella bellezza paesaggistica
tutelata.
_____________________
1. - Conformi TAR Toscana, Sez. III,
22.12.2000 n. 2671 e 2667; confronta inoltre
per i casi di motivazione sufficiente TAR
Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2675,
28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n.
602
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.12.2000 n. 2681). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
- Diniego - Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n.
47/1985 - Vincolo paesaggistico -
Motivazione - Fattispecie - Sufficienza.
1. - E' infondata la censura di difetto di
motivazione dell'atto ove dallo stesso si
ricavi agevolmente l'iter logico seguito
dall'amministrazione, che abbia
sufficientemente assolto all'onere di
motivare in ordine alla concreta
incompatibilità dell'intervento con i valori
tutelati ed abbia coerentemente richiamato i
motivi per i quali le opere non devono
ritenersi adeguate alle caratteristiche
ambientali predette, che si sostanziano
nell'individuazione di specifiche
caratteristiche costruttive e di
localizzazione che impediscono l'idoneo
inserimento di tali opere nella bellezza
paesaggistica tutelata.
Deve pertanto
ritenersi legittimo il provvedimento di
diniego di sanatoria relativo a manufatti
insistenti in area vincolata motivato sul
fatto che tali opere "per la loro dimensione
sottraggono una porzione rilevante al
giardino storico oggetto di vincolo" e sono
"realizzati con caratteristiche e materiali
non compatibili con quelli degli edifici
storici circostanti".
______________________
1. - Confronta TAR Toscana, Sez. III,
22.12.2000 n. 2667, n. 2671 e n. 2681;
28.12.2000 n. 2707 e n. 2720, 07.04.2000 n.
602 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 22.12.2000 n.
2675). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione
- Sanatoria ex art. 31 e ss. l. 47/1985 -
Diniego - per omessa produzione di ulteriore
documentazione - Legittimità.
1. Il potere previsto dall'art. 35, comma
15, della L. n. 47/1985, di invitare il
soggetto che richiede il condono edilizio a
produrre ulteriore documentazione, risponde
all'esigenza di supplire al mancato
adempimento dell'onere formale di
allegazione di cui al comma 3, art. cit.,
onere che la legge pone inderogabilmente a
carico del richiedente il condono stesso;
pertanto, a fronte del persistere
dell'inadempimento a tale onere formale,
legittimamente l'amministrazione respinge la
domanda di concessione edilizia in sanatoria
per difetto dei necessari elementi
conoscitivi e perché la domanda "per la
rilevanza delle omissioni" deve
ritenersi dolosamente infedele.
Nel caso di specie debbono indubbiamente
ritenersi "rilevanti" le omissioni
documentali della domanda protrattesi per
oltre nove anni, posto che il ricorrente non
aveva allegato alcun atto, malgrado vari
solleciti dell'amministrazione.
____________________
1. - Conforme TAR Toscana, Sez. II,
24.08.1998 n. 752, in Rass. TAR, 1998, pag.
3763; in tema di domanda dolosamente
infedele cfr. TAR Toscana, Sez. III,
28.12.2000 n. 2668
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III, sentenza 22.12.2000 n. 2668). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Concessione - Diniego -
Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 -
Zona vincolata dopo l'abuso - Obbligo di
pronuncia da parte dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo - Sussistenza.
2. Concessione - Diniego -
Sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985 -
Vincolo paesaggistico - Motivazione -
Fattispecie - Insufficienza.
1. - In sede di rilascio della concessione
edilizia in sanatoria per opere ricadenti in
zone sottoposte a vincolo, l'obbligo di
acquisire il parere dell'autorità preposta
alla tutela del vincolo sussiste in
relazione all'esistenza dello stesso vincolo
al momento in cui deve essere valutata la
domanda di condono, a prescindere dall'epoca
della sua introduzione, e quindi, anche per
le opere eseguite anteriormente alla
imposizione del vincolo stesso.
2. - Il dovere di una adeguata motivazione a
sostegno di un diniego di condono, non può
ritenersi osservato ove si faccia
riferimento soltanto al fatto che l'opera
"non si inserisce nel contesto ambientale",
ma occorre che l'amministrazione individui
specificamente anche se, in modo succinto,
le caratteristiche costruttive che,
eventualmente collegate alla specifica
localizzazione nel territorio, sono di
ostacolo ad un idoneo inserimento
dell'immobile nella bellezza paesaggistica
tutelata e ciò per far sì che il privato
possa agevolmente dedurre, dall'atto, l'iter
logico seguito dall'amministrazione e le
ragioni poste a fondamento del diniego.
__________________
1. - Conforme Consiglio di Stato, Ad. pl.,
22.07.1999 n. 20, in Rass. Cons. di
Stato, 1999, citata in motivazione;
confronta inoltre TAR Toscana, Sez. III, 09.11.2000 n. 2322.
2. - Conformi TAR Toscana, Sez. III, 22.12.2000 n. 2671 e 2681, in questa
raccolta; confronta inoltre per i casi di
motivazione sufficiente TAR Toscana, Sez. III,
22.12.2000 n. 2675, 28.12.2000 n. 2707 e n.
2720, 07.04.2000 n. 602 (massima tratta
da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana,
Sez. III, sentenza
22.12.2000 n. 2667). |
EDILIZIA PRIVATA: Parcheggio
- Art. 9. l. n. 122/1989 - Disciplina
eccezionale - Applicabilità ad aree
extraurbane - Esclusione.
1. - La possibilità di realizzare parcheggi
da destinare a pertinenze delle singole
unità immobiliari "anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti", consentita dall'art. 9
legge n. 122/1989 (c.d. "Legge Tognoli"),
costituisce disposizione a carattere
eccezionale da interpretarsi nel suo
significato strettamente letterale ed in
considerazione delle finalità della legge
nel cui contesto risulta inserita.
Pertanto
tale articolo è applicabile alla costruzione
di spazi parcheggio nelle sole aree urbane,
mentre la realizzazione di parcheggi in aree
extraurbane resta soggetta alle ordinarie
prescrizioni urbanistiche ed edilizie
necessitando della normale concessione
edilizia.
_____________________
1. - In tal senso TAR Toscana, Sez. II.,
16.07.1992, n. 322, in Rass. TAR, 1992, pag.
4038 e TAR Lazio, Sez. II, 15.12.1992, n.
2357, in op. cit., 1993, pag. 23 citate nel
testo; v. ancora in particolare TAR
Puglia-Bari, Sez. II, 12.10.1995, n. 953, in
Rass. TAR, 1995, pag. 4987 e in Foro amm.,
1996, pag. 2063; TAR Sicilia-Catania,
30.10.1997, n. 2152, in Rass. TAR, 1997,
pag. 4602; TAR Calabria-Catanzaro,
06.02.1995, n. 142, in op. cit., 1995, pag.
1975. La sentenza del TAR Toscana è
ampiamente motivata anche con riferimento
alla sentenza Corte Costituzionale 19-27.07.1989 n. 459 in Rass. Cons. di Stato,
1989, II, pag. 1076 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 19.12.2000 n.
2533). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Vizi
- Mancata apposizione della firma -
Individuazione dell'autore del provvedimento
e imputabilità della determinazione -
Invalidità dell'atto - Esclusione.
1. - La mancata apposizione della firma non
può considerarsi causa di invalidità
dell'atto ove questo contenga gli elementi
sufficienti (quali, ad esempio, la qualifica
del funzionario) idonei ad individuare
l'autore del provvedimento e a consentire,
in ogni caso, l'imputabilità della
determinazione stessa ad un soggetto ben
preciso dell'Amministrazione procedente.
_____________________
1. - In merito alla illeggibilità della
firma si vedano TAR Campania-Napoli 21.01.2000 n. 199, in Rass. TAR, 2000,
pag. 1458; TAR Toscana, Sezione III, 19.03.1999 n. 42, in Rass. TAR, 1999, pag.
1967, citate in motivazione e TAR Veneto,
Sezione II, 07.12.1999 n. 2413, in Rass.
TAR, 2000, pag. 689.
Afferma invece
l'inesistenza del provvedimento col quale si
ordina la demolizione di un'opera abusiva
che risulti privo della sottoscrizione da
parte dell'organo che lo ha adottato,
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche 04.05.1999 n. 64, in Rass. Cons. Stato,
1999, pag. 912; cfr. inoltre Consiglio di
Stato, Ad. gen., parere 1438/1993 del 24.02.1994, in Rass. Cons. Stato, 1995,
pag. 147; TAR Sicilia-Catania 30.04.1996 n. 703, in Rass. TAR, 1996, pag. 2868;
TAR Lazio, Sezione I, 01.02.1995 n.
132, Rass. TAR, 1995, pag. 957 (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
21.11.2000 n. 2346 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Necessità -
Precarietà del manufatto - Esclusione -
Presupposti.
1. - La precarietà di un manufatto, tale per
cui la sua realizzazione non necessiterebbe
di concessione edilizia, non dipende dai
materiali utilizzati o dal sistema di
ancoraggio al suolo, bensì dall'uso cui è
destinato sicché la stessa precarietà va
esclusa allorché si tratti di un manufatto
destinato a dare un'utilità prolungata nel
tempo e ciò indipendentemente dalla sua
eventuale rimozione.
_____________________
1. - Conforme Corte di Cassazione, Sezione III penale, 12.07-19.10.1999 n.
11839, in Rass. Cons. Stato, 2000, parte II,
pag. 989 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2000 n.
2346 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni - Ingiunzione a
demolire - Motivazione - Abuso risalente nel
tempo - Necessità - Esclusione.
1. - L'ordinanza di ingiunzione a demolire
non deve essere sorretta da alcuna specifica
motivazione in ordine alla sussistenza
dell'interesse pubblico a disporre la
sanzione anche quando l'abuso sia risalente
nel tempo perché non può ammettersi la
sussistenza di alcun legittimo affidamento
del contravventore a veder conservata una
situazione di fatto che il tempo non può
aver legittimato.
_____________________
1. - Nello stesso senso Consiglio di Stato,
Sezione IV, 08.07.1998 n. 1015, in Rass.
Cons. di Stato, 1998, pag. 1141 citata in
motivazione. Si segnalano invece di
contrario avviso, tra le altre recentemente,
Consiglio di Stato, Sezione V, 19.03.1999
n. 286 e 11.02.1999 n. 144, in Rass.
Cons. di Stato, 1999 pagg. 403 e 225; nonché
TAR Piemonte, Sezione I, 25.02.1999 n.
105, in Rass. TAR, 1999, pag. 1267 e
Consiglio di Stato, Sezione IV, 03.02.1996 n. 95, in Rass.
Cons. Stato, 1996, pag. 130 (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
21.11.2000 n. 2346 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Sanzioni - Ingiunzione a
demolire - Proprietario estraneo all'abuso -
Responsabilità - Sussistenza.
2. - Atto amministrativo - Comunicazione di
avvio del procedimento - Ingiunzione a
demolire - Non occorre.
1. - Le misure repressive per l'attività
edilizia risultano legittimamente irrogate
nei confronti del proprietario dell'immobile
anche se non è l'autore dell'abuso: in tale
materia infatti il proprietario del fondo,
ancorché estraneo all'illecito, deve essere
ritenuto responsabile dei manufatti eseguiti
su di esso, posto che le sanzioni
amministrative e in primo luogo
l'ingiunzione a demolire, mirano, prima
ancora che ad irrogare una sanzione
afflittiva, ad eliminare una situazione
obiettivamente antigiuridica ed inoltre, in
base ai principi contenuti nella legge n.
689 del 1991, sussisterebbe una solidarietà
passiva tra il proprietario e l'autore
dell'abuso, nei cui confronti egli può
sempre agire sulla base dei rapporti
privatistici intercorrenti.
2. - Le disposizioni di tipo garantistico
recate dagli artt. 7 e ss. della legge n.
241/1990 non trovano applicazione in materia
di abusi edilizi dove il procedimento
sanzionatorio è rigorosamente scandito da
disposizioni normative che escludono
qualsiasi valutazione discrezionale della
P.A. e il provvedimento viene emesso sulla
scorta di un mero accertamento tecnico.
Pertanto, in presenza di atti dovuti e
vincolati, quali l'ordinanza di ingiunzione
a demolire, il principio della
partecipazione al procedimento si rivela
inutile posto che alcun concreto contributo
è possibile apportare alla formazione del
provvedimento finale da parte del privato
interessato.
________________________
1. - Conformi TAR Campania-Napoli, 24.06.1998 n. 2102, in Rass. TAR, 1998,
pag. 3343 e TAR Toscana, Sezione II, 18.09.1997 n. 608, in Rass. TAR, 1997,
pag. 4012, citate in motivazione.
2. - Conformi TAR Toscana, III Sezione, 19.05.2000 n. 924 e 18.02.2000 n. 301
in questa raccolta; nonché TAR Campania -
Napoli 22.02.2000 n. 457, in Rass.
TAR, 2000, pag. 1999 e 23.11.1999 n.
2996, in op. cit., 2000, pag. 304; TAR
Lazio, Sezione II-ter 14.03.2000 n. 1776,
in op. cit., 2000, pag. 1714.
Di diverso
avviso Consiglio di Stato V Sezione, 23.02.2000 n. 948, in Urbanistica e
Appalti, 2000, n. 11, pag. 1237, e Rass.
Cons. di Stato, 2000, pag. 360 (fattispecie
relativa al procedimento per l'adozione di
un provvedimento sanzionatorio per
lottizzazione abusiva ex art. 18, comma 1,
L. 47/1985) e TAR Marche 11.02.2000 n.
173, in Rass. TAR, 2000, pag. 1934; sulla
necessità della comunicazione di avvio del
procedimento in caso di atti di natura
vincolata si vedano Consiglio di Stato,
Sezione VI, 20.04.2000 n. 2443, in Rass.
Cons. di Stato, 2000, pag. 1038, Ministero
interno (ricorso straordinario) 05.04.2000 n. 286/2000, in op. cit., 2000, pag.
1934, Consiglio di Stato, Sezione V, 23.02.2000 n. 956, in op. cit., 2000,
pag. 363, Consiglio di Stato, Sezione V, 23.04.1998 n. 474, in Rass. Cons. di Stato,
1998, pag. 609, nonché TAR Piemonte 02.03.2000 n. 223, in Rass. TAR, 2000, pag. 2408,
TAR Emilia Romagna-Bologna, 25.11.1996 n. 401, in Rass. TAR, 1997, pag. 188 e
TAR Sicilia-Palermo, 05.11.1996 n.
1383, in op. cit., 1997, pag. 361. Si veda
anche Consiglio di Stato, Sezione IV, 27.11.2000
n. 6305 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 21.11.2000 n.
2345 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione
art. 7 L. 1497/1939 - Zona vincolata dopo l'abuso -
Obbligo di pronuncia da parte dell'Autorità
preposta alla tutela del vincolo -
Sussistenza.
1. - In ordine alla domanda di condono
presentata ex art. 31 e ss. L. 47/1985, deve
riconoscersi come dovuto l'esercizio del
potere di controllo dell'Autorità statale
sull'autorizzazione rilasciata dal Comune ex
art. 7 legge 1497/1939 anche ove si tratti di
opere edilizie abusive realizzate prima
dell'imposizione del vincolo ambientale.
La
disposizione di portata generale di cui
all'art. 32, comma 1, legge 47/1985 relativa ai
vincoli limitativi dell'edificazione deve
infatti interpretarsi nel senso che
l'obbligo di pronuncia da parte
dell'Autorità preposta alla tutela del
vincolo sussiste in relazione all'esistenza
del vincolo al momento in cui deve essere
valutata la domanda di sanatoria a
prescindere dall'epoca della sua
introduzione e ciò proprio al fine di
consentire di vagliare l'attuale
compatibilità con il vincolo dei manufatti
abusivamente realizzati.
___________________________
1. - Conforme Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria, 22.07.1999 n. 20 in Rass. Cons.
Stato 1999, pag. 1080 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez.
III,
sentenza
09.11.2000 n. 2322 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione art. 7 L.
1497/1939 - Annullamento ministeriale -
Termine di 60 giorni - Applicabilità alla
comunicazione o alla notificazione -
Esclusione.
1. - Il termine di sessanta giorni stabilito
dalla legge 08.08.1985 n. 431 entro il
quale il Ministero dei Beni Culturali e
Ambientali può disporre l'annullamento delle
autorizzazioni regionali (o comunali) in
materia di costruzioni in zone soggette a
vincolo paesistico di cui all'art. 7 della
legge 29.06.1939 n. 1497, ancorché
perentorio, attiene solo all'esercizio del
potere di annullamento restando estranea
alla previsione normativa l'ulteriore fase
della comunicazione o notificazione.
___________________________
1. - Conforme TAR Toscana, I Sezione, 17.07.2000 n. 1691, in questa raccolta;
Consiglio di Stato, sez. VI, 22.11.1999 n. 1909 in Rass. Cons. Stato 1999, pag.
1935. Cfr. inoltre sulla decorrenza del
termine di 60 giorni TAR Toscana, II
Sezione, 15.05.2000 n. 838 (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza 09.11.2000 n. 2322 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. -
Impianti pubblicitari - Amministrazione
comunale - Sospensione e rinvio delle
determinazioni - Riferimento a futura
adozione del Piano Generale degli Impianti -
Violazione dell'art. 41 Cost. -
Illegittimità.
2. -
Impianti pubblicitari - Regolamento ex art.
3 D.lgs. 15.11.1993 n. 507 - Ambito di
applicazione.
3. -
Impianti pubblicitari - Silenzio assenso ex
art. 20 L. 241/1990 - Applicabilità.
1. - Incorre nella violazione del principio
costituzionale di tutela della libertà di
iniziativa economica privata, del principio
di stretta legalità, nonché dei principi di
certezza e di buon andamento dell'azione
amministrativa, l'amministrazione comunale
che sospenda ogni decisione riguardo alle
richieste di autorizzazione
all'installazione di impianti pubblicitari
in attesa dell'adozione del Piano Generale
degli Impianti non essendo tale rifiuto a
provvedere supportato da una disposizione
(legislativa o regolamentare) idonea a
denegare quanto richiesto.
2. - Il regolamento previsto dall'art. 3 del
D.lgs. 15.11.1993, n. 507 -con il
quale il comune disciplina le modalità di
effettuazione della pubblicità, la tipologia
e la quantità degli impianti pubblicitari
nonché le modalità per ottenere
l'autorizzazione all'installazione- deve
intendersi riferito non solo agli impianti
comunali di affissione ma anche
all'installazione di impianti posti in
essere da privati su aree private.
3. - In virtù del D.P.R. 09.05.1994, n.
407, deve ritenersi pienamente applicabile
l'istituto del silenzio-assenso previsto
dall'art. 20 della legge n. 241/1990 per le
domande intese ad ottenere l'autorizzazione
all'installazione di impianti pubblicitari.
_________________
1. - Nello stesso senso, cfr. TAR
Toscana, sez. III, 27.10.2000, n. 2210.
Cfr., inoltre, Cons. Stato, sez. IV, 10.01.1990, n. 9, in Rass. Cons. Stato,
1990 e TAR Lazio, sez. II, 05.12.1991, ord. n. 1865, in Rass. TAR, 1992, 50,
secondo il quale, tra l'altro, l'art. 41
della Costituzione "pur affermando la
libertà dell'iniziativa economica privata,
autorizza l'apposizione di vincoli al suo
esercizio subordinatamente al verificarsi di
una duplice condizione: sotto l'aspetto
sostanziale, che detti limiti corrispondano
all'utilità sociale e, sotto quello formale,
che la relativa disciplina sia effettuata ad
opera della legge" (ivi, 53).
2. - Per il principio secondo il quale la
disciplina di dettaglio deve avere per
oggetto tutti gli aspetti di tutela del
territorio coinvolti nell'attività economica
in questione e, in particolare, considerare
le problematiche relative alla compatibilità
degli impianti pubblicitari con la cornice
storico - ambientale del centro storico,
cfr. TAR Toscana, sez. III, 27.10.2000, n. 2210 e TAR Lazio, sez. II, 24.07.1997, n. 1179, in Rass. TAR 1997,
2946, citata nel testo.
3. - Nello stesso senso, cfr. TAR
Toscana, sez. III, 27.10.2000, nn.
2204, 2206 e 2208; nonché TAR Calabria,
16.07.1999, nn. 900 e 901, in Rass. TAR,
1999, 4132 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 27.10.2000 n.
2205 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Aggiudicazione - Offerta
economicamente più vantaggiosa -
Identificazione - Valutazioni
dell'Amministrazione procedente - Sindacato
del G.A. - Merito - Esclusione -
Risarcimento del danno - Impossibilità.
1. - In sede di aggiudicazione di un
appalto, ai fini dell'identificazione
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
non è consentito al giudice amministrativo
(una volta rilevata la non correttezza della
metodologia seguita dall'organo di gara ai
fini dell'attribuzione dei citati "punteggio
di preferenza" e aver disposto
l'annullamento delle operazioni di gara)
sindacare nel merito i singoli apprezzamenti
effettuati dall'organo di gara -nella
specie, l'attribuzione dei punteggi nel cd.
"confronto a coppie"- né rinnovarne così la
valutazione; sarà l'Amministrazione
interessata che dovrà procedere alla
rinnovazione della procedura di selezione
dei partecipanti (con il carattere
vincolante conseguente alla valenza "conformativa"
insita nella pronuncia di legittimità
accanto al suo contenuto più propriamente "demolitorio")
e la complessiva graduazione delle offerte,
in difetto della quale (e, quindi, della
attuale individuabilità dell'offerta
concretamente "preferibile" ai fini
dell'aggiudicazione dell'appalto in
questione) non è possibile, allo stato,
procedere alla positiva disamina della
formulata istanza di risarcimento del danno.
_____________________
1. - In merito al criterio del "confronto a
coppie" cfr. TAR Veneto, sez. I, 21.10.1997, n. 1480, in Rass.
TAR, 1997, 4384 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 25.10.2000 n.
2185 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Vincolo indiretto ex art.
21 L. 1089/1939 di inedificabilità assoluta -
Decreto di esproprio - Illegittimità.
Deve ritenersi illegittimo il
provvedimento col quale è stata disposta
l'espropriazione e l'occupazione definitiva
di immobile già destinato alla realizzazione
di un'opera pubblica, ma nelle more
sottoposto a vincolo di inedificabilità
assoluta derivante dall'adozione di decreto
ministeriale di vincolo indiretto ai sensi
dell'art. 21 legge 1089/1939, poiché detta inedificabilità
ne esclude in radice la capacità di divenire
oggetto di acquisizione allo specifico fine
di essere destinato alla realizzazione
dell'intervento edificatorio progettato
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 02.10.2000 n. 2052 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Gara -
Termine per la presentazione delle domande
di partecipazione - Natura decadenziale -
Termine di ricezione e non di spedizione -
Art. 10 del d.lgs n. 157 del 1995.
Il termine fissato per la presentazione
delle domande di partecipazione a una gara
pubblica ha natura decadenziale, anche in
caso di assenza di espressa comminatoria, a
garanzia della par condicio e della
trasparenza dell'azione amministrativa.
E'
legittima quindi l'esclusione da una gara
ove la domanda sia pervenuta, tramite
raccomandata espresso, alla sede della
stazione appaltante con il ritardo di un
giorno; il fatto che nel bando sia stato
previsto come unico mezzo quello della
raccomandata espresso e che il plico sia
stato consegnato alle poste sette giorni
prima della data di scadenza non induce a
diverse conclusioni (anche in relazione
all'art. 10 del d.lgs n. 157 del 1995 che
prevede un "termine di ricezione"
e non di spedizione), salva comunque
l'attivazione, nelle sedi competenti, delle
forme di responsabilità del servizio postale
in ipotesi di colpevole ritardo (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza
02.10.2000 n. 2045 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE: 1.
-
Bando - Adempimenti formali - Indagine sulle
finalità - Inammissibilità.
2. -
Risarcimento del danno - Liquidazione -
Criteri - Art. 345 della L. n. 2248 del 1865
All. F.
1. - Una volta che una determinata clausola
o prescrizione sia inserita nella lettera
d'invito, l'Amministrazione non può esimersi
dal rispettarla, né può modificarla nel
corso della gara stessa successivamente alla
presentazione delle offerte.
Pertanto nel
caso in cui nella lettera d'invito si
richiedano adempimenti formali, pena in
contrario l'inammissibilità dell'offerta,
non appare possibile, attraverso un'indagine
sulla finalità di detti adempimenti,
accertare se l'ottemperanza a questi ultimi
sia o meno essenziale per il corretto
svolgimento della gara; infatti il giudizio
sull'essenzialità ed inderogabilità delle
modalità di presentazione è già stato
effettuato a priori dalla stessa p.a. nel
momento in cui predispone la disciplina di
gara.
2. - Ritenuto ininfluente in relazione al
petitum sostanziale il formale annullamento
degli atti impugnati (non essendo state
contestate nella fattispecie le scelte e le
valutazione tecniche operate dalla
commissione bensì l'attività pregressa
finalizzata all'ammissione dei plichi
pervenuti e nella ragionevole previsione che
la fornitura sia stata ormai eseguita), il
risarcimento dei danni per l'illegittima
conduzione della gara, richiesto e dovuto ai
sensi dell'art. 35 del d.lgs del 1998, è
liquidato facendo riferimento per la sua
concreta quatificazione all'art. 345 della
legge generale sui lavori pubblici (n. 2248
del 1865, All. F) e cioè nella misura di un
decimo del valore dell'appalto negli importi
quantificati per i singoli lotti al momento
della relativa aggiudicazione (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza
02.10.2000 n. 2041 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: Sanzioni - Ingiunzione a
demolire - Competenza - Art. 2, comma 12, L.
191/1998 - Dirigente.
1. - L'attribuzione ai dirigenti comunali
della generale competenza ad emanare atti di
gestione è stata definita dall'art. 6 della
legge 15.05.1997 n. 127 con
un'elencazione che comprendeva i
provvedimenti di rilascio della concessione
edilizia, ma non quelli repressivi degli
abusi edilizi.
Deve considerarsi legittima
l'ordinanza di ingiunzione a demolire
adottata dal Dirigente anziché dal Sindaco
successivamente all'art. 2, comma 12, della l.
16.06.1998 n. 191 che, completando il nuovo
assetto sancito dall'art. 45, comma primo, del
D.lgs. 80/1998, ha espressamente affidato ai
dirigenti anche i compiti di vigilanza e di
applicazione delle sanzioni edilizie.
_________________
1. - cfr. TAR Toscana, III Sez.
17.01.2000 n. 7, in questa raccolta
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza
01.09.2000 n. 1895 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Beni pubblici - Beni storici e
artistici - Vincolo indiretto ex art. 21 L.
1089/1939 - Congrua motivazione e adeguata
istruttoria - Necessità.
2. - Beni pubblici - Beni storici e
artistici - Vincolo indiretto ex art. 21 L.
1089/1939 - Censura concernente l'estensione
del vincolo - Inammissibilità.
3. - Beni pubblici - Beni storici e
artistici - Vincolo indiretto ex art. 21 L.
1089/1939 - Finalità.
1. - Il vincolo indiretto previsto dall'art.
21 della legge 01.06.1939 n. 1089 (oggi
sostituito dall'art. 49 D.Lgs. n. 490/1999)
non ha un contenuto prescrittivo tipico,
essendo rimesso all'apprezzamento
discrezionale dell'amministrazione e potendo
variare in funzione della protezione del
bene, ed è legittimo anche se comporta l'inedificabilità
assoluta dell'area cui si riferisce; infatti,
tale articolo prevede che possono essere
imposte anche misure non tipizzate dirette
ad evitare che sia messo in pericolo
l'integrità dei beni tutelati, purché il
provvedimento impositivo del vincolo sia
congruamente motivato e sorretto da
un'adeguata istruttoria (nella fattispecie
la necessità di tutelare i terreni attorno
al bene monumentale sottoposto a vincolo
diretto si ricava dalla relazione tecnico
scientifica allegata al provvedimento
impugnato, dalla quale sebbene espressa in
forma sintetica, emerge l'importanza del
collegamento fra la conservazione della
situazione ambientale e la fruizione
dell'immobile di interesse
storico-artistico, tutelato in via diretta).
2. - In sede di impugnativa del decreto
impositivo del vincolo di interesse storico
o artistico di un immobile non è consentita
la censura concernente l'estensione del
vincolo stesso oltre i limiti strettamente
necessari allo scopo che la legge si propone
di realizzare, in quanto detta censura
implica una valutazione di merito,
insindacabile in sede di legittimità.
3. - La finalità prevista dall'art. 21 L.
1089/1939 è di evitare che siano danneggiate
la prospettiva e la luce degli immobili
vincolati o ne siano alterate le condizioni
di ambiente e di decoro; pertanto, le misure
previste dalla norma citata sono stabilite
con riguardo alla globale consistenza della
c.d. cornice ambientale, che si estende fino
a comprendere ogni immobile, anche non
contiguo, ma pur sempre in prossimità del
bene monumentale, che sia con esso in
relazione tale che la sua manomissione sia
idonea, secondo una valutazione ampiamente
discrezionale dell'Amministrazione, ad
alterare il complesso di condizioni e
caratteristiche fisiche e culturali che
connotano lo spazio circostante.
_____________________
1. - Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 14.10.1999 n. 1379 in Rass. Cons. Stato
1999, pag. 1668 e Consiglio di Stato, sez.
VI, 01.02.1999 n. 122 in Rass. Cons.
Stato 1999, pag. 245.
2. - Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 01.02.1999 n. 122 in Rass. Cons. Stato
1999, pag. 245.
3. - Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 02.03.1999 n. 233 in Rass. Cons. Stato 1999,
pag. 430 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 17.07.2000 n.
1693 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Concessione - Sanatoria art.
39 L. 724/1994 - Vincolo storico artistico L.
1089/1939 - Opere eseguite dopo l'imposizione
del vincolo - Parere - Necessità.
2. - Concessione - Sanatoria art.
39 L. 724/1994 - Vincolo storico artistico L.
1089/1939 - Parere - Condizione - Legittimità.
1. - La ratio della disposizione contenuta
all'art. 32 legge 47/1985 -ai sensi del quale
la sanatoria di opere abusivamente
realizzate su aree sottoposte a vincolo è
subordinata al parere favorevole delle
Amministrazioni preposte alla tutela del
vincolo stesso- è quella di consentire la
valutazione della situazione edilizia al
fine di accertare se la costruzione stessa
sia che sia precedente o successiva
all'imposizione del vincolo, non comprometta
quei valori artistici, naturalistici e
paesaggistici tutelati con lo strumento
vincolativo, pertanto deve logicamente
dedursi che l'acquisizione del parere
dell'Amministrazione è necessaria in ogni
caso e non solo quindi per l'ipotesi di
opere abusive eseguite successivamente
all'imposizione del vincolo stesso.
2. - Il parere della Soprintendenza ai Beni
Ambientali e Architettonici che ponga, ai
fini del rilascio di nulla osta alla
richiesta di sanatoria, la condizione del
ripristino integrale dell'intonaco su un
fabbricato ex frantoio "da realizzare a
mestola, a grana fina di colore da
concordare con questo Ufficio, posto
direttamente nell'intonachino di finitura"
non appare né illogico, né privo di coerenza
e neppure rivela l'esistenza di rilevanti
errori di fatto e cioè nessuno degli
elementi riscontrabili ed eventualmente
inficianti la legittimità di giudizi del
genere di quello espresso a mezzo del
provvedimento impugnato.
________________________
1. - Conforme Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria, 22.07.1999 n. 20 in Rass.
Cons. Stato 1999, pag. 1080; TAR Toscana, I
Sezione, 06.11.2000 n. 2265 e TAR
Toscana, III Sezione, 09.11.2000 n. 2322
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 19.05.2000 n. 929 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1.
Concessione - Diniego - Sanatoria artt. 31 e
segg. L. 47/1985 - Vincolo cimiteriale -
Vincolo assoluto di inedificabilità - Opere
strumentali all'attività di rimessaggio di
roulottes - Legittimità del diniego.
2. Concessione - Diniego - Sanatoria artt.
31 e segg. L. 47/1985 - Vincolo cimiteriale
- Valutazione discrezionale
dell'Amministrazione - Esclusione.
3. Concessione - Diniego - Sanatoria artt.
31 e segg. L. 47/1985 - Vincolo cimiteriale
- Opere pertinenziali - Compatibilità -
Esclusione.
1.
Non possono essere ammesse al condono le
opere strumentali all'attività di
rimessaggio di roulottes ricadenti in zona
sottoposta a vincolo cimiteriale in quanto
la salvaguardia dell'area di rispetto di 200
metri prevista dall'art. 338 del t.u. 1265
del 1934 si pone alla stregua di un vincolo
assoluto di inedificabilità che non consente
in alcun modo l'allocazione sia di edifici
che di opere incompatibili con il vincolo
medesimo.
Ciò in considerazione dei molteplici
interessi pubblici che la fascia di rispetto
in questione intende tutelare e che possono
enuclearsi nelle esigenze di natura
igienico-sanitaria, nella salvaguardia della
peculiare sacralità che connota i luoghi
destinati all'inumazione e sepoltura, nel
mantenimento di un'area di possibile
espansione della cinta cimiteriale
(fattispecie nella quale erano state ammesse
al condono le opere di livellamento della
superficie del terreno sul quale vengono
lasciate in deposito le roulottes ma non le
opere strumentali all'attività di
rimessaggio di roulottes).
2.
L'assolutezza del divieto derivante dal
vincolo cimiteriale non consente
all'Amministrazione comunale di esprimere
valutazioni discrezionali sulla
compatibilità delle opere realizzate con il
vincolo suddetto essendo già la legge a
determinare la priorità degli interessi
pubblici da salvaguardare.
3.
Il vincolo di inedificabilità assoluta
all'interno dell'area di rispetto
cimiteriale non può in alcun modo consentire
la condonabilità di opere edilizie di natura
pertinenziale
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 09.05.2000 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Comunicazione
di avvio del procedimento – Mancanza -
Ordine di trasferimento di esercizio di
attività artigiana in altra zona –
Illegittimità.
E’ illegittimo l’ordine di
trasferimento di esercizio di attività
artigiana di vendita e di ricambi di
pneumatici per autoveicoli in altra zona urbanisticamente
consona, non preceduto dalla comunicazione
di avvio del procedimento ex art. 7 L.
241/1990 posto anche che i presupposti
accertamenti di ordine tecnico-sanitario non
sono stati disposti in contraddittorio con
la ricorrente (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 29.02.2000 n.
394 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalto
concorso - Rinnovazione della gara -
Precedente aggiudicataria non invitata -
Intervenuta esecuzione dei lavori da parte
di altra ditta aggiudicataria - Carenza
d’interesse.
Deve ritenersi inammissibile per
sopravvenuta carenza di interesse il ricorso
proposto, avverso la delibera di rinnovo
della procedura di appalto concorso, dalla
precedente ditta aggiudicataria non invitata
dato che, essendo l’appalto in questione già
stato eseguito da altra ditta
aggiudicataria, non è ravvisabile un
interesse di carattere sostanziale allo
svolgimento dei lavori o di carattere
strumentale alla ripetizione della gara né,
tantomeno, un interesse di natura morale -
ideale all’annullamento dell’atto impugnato
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza
23.02.2000 n. 328 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. - Appalto
concorso - Aggiudicazione - Revoca -
Rinnovazione - Precedente aggiudicataria non
invitata - Intervenuta esecuzione dei lavori
da parte di altra ditta aggiudicataria -
Interesse morale - Sussiste.
2. -
Capitolato programma – Eventuale contenuto
vessatorio - Interpretazione - Criterio.
1. - Ancorché sia già intervenuta
l’esecuzione dell’appalto da parte di altra
ditta risultata aggiudicataria nella
procedura rinnovata, ben può la precedente
ditta aggiudicataria ricorrere avverso la
delibera di revoca dell’aggiudicazione in
quanto è innegabile la persistenza (oltre
che dell’interesse materiale alla
restituzione della cauzione incamerata) di
un interesse "morale" alla definizione della
causa, anche sotto l’aspetto della tutela
dell’"immagine" della ditta, atteso che il
provvedimento chiaramente preludeva a
possibili misure sanzionatorie (eventuale
perdita dei requisiti per l’iscrizione
all’Albo Nazionale Costruttori).
2. - Poiché nell’interpretazione dell’atto
amministrativo si deve privilegiare quella
che ne consenta il riconoscimento di
legittimità, ne deriva che le disposizioni
del capitolato di programma che prevedano la
possibilità di modifiche progettuali e
conseguenti maggiori oneri a carico
dell’aggiudicataria, devono intendersi
riferite ad ipotesi di accorgimenti tecnici
e di modifiche compatibili col progetto
originario (e non a varianti sostanziali o
rilevanti) oppure a variazioni concordate ed
accettate o, al limite, a modifiche che
risultino necessarie in sede esecutiva; ciò
per evitare di avallare la prospettazione di
un Capitolato d’appalto illegittimo e
vessatorio che, costringendo la parte
privata a subire qualsiasi richiesta
modificativa dell’Amministrazione senza
avere la possibilità di concordare il
relativo corrispettivo o di ritirare
l’offerta, incorrerebbe nella violazione del
principio di libertà contrattuale nonché
delle caratteristiche di corrispettività e
commutatività del contratto di appalto
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 23.02.2000 n. 327 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: 1. - Processo amministrativo - Giurisdizione
e competenza - Ordinanza sindacale
contingibile e urgente per manutenzione
degli argini e dell'alveo di un corso
d'acqua - Giurisdizione T.S.A.P. -
Esclusione.
2. - Ordinanza
sindacale contingibile e urgente -
Presupposti - Individuazione.
3. - Ordinanza
sindacale contingibile e urgente -
Accertamenti - Istruttoria specifica e
approfondita - Necessità.
1. - I provvedimenti con i quali il Sindaco
ordina ai proprietari frontisti di un corso
d'acqua -ai sensi dell'art. 38, 2° comma, L.
142/1990- di provvedere alla manutenzione
degli argini e dell'alveo di un corso
d'acqua rientrano nella giurisdizione
generale di legittimità del giudice
amministrativo e non in quella del T.S.A.P.
2. - Il potere sindacale di emanare
ordinanze contingibili e urgenti, ai sensi
dell'art. 38 L. 142/1990 è riconosciuto ove
sussistano diversi e concorrenti presupposti
individuati:
a) nella necessità di
intervenire in alcune materie espressamente
previste (sanità ed igiene, edilizia,
polizia locale);
b) nella attualità o
imminenza di un fatto eccezionale, quale
causa da rimuovere con urgenza;
c) nel
previo accertamento, da parte di organi
competenti, della situazione di pericolo o
di danno che si intende fronteggiare;
d)
nella mancanza di strumenti alternativi,
previsti dall'ordinamento, stante il
carattere extra ordinem del potere sindacale
di ordinanza.
3. - In tema di ordinanze contingibili e
urgenti l'accertamento della situazione di
fatto e la sua idoneità a determinare un
pericolo concreto ed imminente devono essere
sufficientemente valutati e documentati in
esito a specifica e approfondita istruttoria
da parte dell'Amministrazione (nella specie
oltre che al difetto di valutazione e
documentazione sia sotto il profilo
igienico-sanitario che sotto quello della
pubblica incolumità, era stata ravvisata
l'insussistenza del carattere eccezionale
desunta sia dalla natura dell'intervento di
tipo manutentivo sia dalla reiterazione dei
provvedimenti sindacali) (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 23.02.2000 n.
323 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Beni
pubblici - Demanio idrico - Opere di
manutenzione degli argini e dell'alveo di un
corso d'acqua - Spettano alla P.A.
Ai proprietari dei fondi latistanti incombe
l'obbligo (ex art. 12 R.D. n. 523/1904) solo
della costruzione delle opere a difesa dei
loro beni, mentre spetta all'autorità
amministrativa (ex art. 2 T.U. n. 523/1904)
di provvedere al mantenimento delle
condizioni di regolarità dei ripari degli
argini, sicché fa carico alla pubblica
autorità provvedere alla manutenzione
dell'argine di un torrente, appartenente al
demanio, con conseguente responsabilità
della stessa per i danni derivanti
dall'omissione di tale manutenzione (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza
23.02.2000 n. 323 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Concessione – Contributi –
Determinazione – Riferimento alla data di
rilascio della concessione.
2. - Concessione – Contributi –
Determinazione – Procedimento - Autonomia -
Conseguenze - Rideterminazione -
Possibilità.
3. – Concessione – Contributi –
Determinazione - Variante essenziale
concernente l'intera opera – Tariffe vigenti
alla data del rilascio della variante -
Applicabilità all'intero intervento
edilizio.
1 - La determinazione degli oneri relativa
alla concessione edilizia va effettuata con
riferimento alle norme vigenti alla data del
rilascio della concessione medesima, che è
il momento in cui sorge l’obbligazione
contributiva.
2. - Il procedimento di rilascio della
concessione edilizia è autonomo da quello di
imposizione dei conseguenti oneri; pertanto,
gli oneri contributivi possono essere
determinati successivamente al rilascio
della concessione e rideterminati nella loro
entità ogni qualvolta il calcolo effettuato
dal Comune si sia rivelato errato per
qualsiasi ragione.
3 – Il principio secondo il quale il
contributo concessorio è commisurato, in
caso di variante, al quid novi insito nella
variante medesima, non è applicabile
nell’ipotesi in cui sia stata richiesta una
nuova concessione edilizia riferita non ad
una parte residua ben identificata, non
completata in tempo utile, ma all’intera
opera, riprogettata sulla base di un diverso
disegno, che non si limita ad aggiungere un
quid pluris a ciò che è stato già
assentito, ma investe globalmente
l’intervento edilizio, integrandone una
variante essenziale (ipotesi di generale
riorganizzazione degli spazi interni già
assentiti con la realizzazione di ulteriori
ampliamenti e relativo aumento di
superficie, nonché di volumi, ancorché non
rilevanti sotto il profilo urbanistico,
trattandosi di spazi interrati);
conseguentemente devono essere applicate le
tariffe vigenti per l’anno cui si riferisce
tale ultima concessione anche alle parti
edilizie già assentite, tenuto ovviamente
conto di quanto già corrisposto in sede di
contributo provvisorio (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 23.02.2000 n.
321 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Comunicazione
di avvio del procedimento - Dichiarazione di
pubblica utilità implicita nell’approvazione
del progetto - Occorre comunicazione.
1. - Incorre nella violazione dell'art. 7
della L. 241/1990 il Comune che, in caso di
approvazione di un progetto che equivale a
dichiarazione di pubblica utilità e di
urgenza ed indifferibilità dell’opera ai
sensi dell’art. 1, I comma, della L. 1/1978,
omette di comunicare agli interessati
espropriandi l’avvio del procedimento; data
l’idoneità della dichiarazione di pubblica
utilità ad incidere direttamente sulla sfera
giuridica del destinatario determinandone la
lesione immediata, deve essere assicurato il
contraddittorio con gli interessati fin dal
momento in cui la pubblica amministrazione
si determina alla realizzazione di un’opera
pubblica e quindi prima della dichiarazione
di pubblica utilità dell’opera e
dell’approvazione del progetto (tanto più
quando la previsione e la localizzazione
dell’opera pubblica è contestuale al
progetto medesimo).
____________________
1. - Cfr. Consiglio di Stato, Adunanza
Plenaria, 15.09.1999 n. 14 in Rass. Cons.
Stato 1999, pag. 1297 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 23.02.2000 n.
319 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. - Atto amministrativo – Comunicazione di
avvio del procedimento - Ingiunzione a
demolire – Non occorre.
2. - Sanzioni – Ingiunzione a
demolire art. 7 L. 47/1985 – In pendenza di
sequestro penale sull'opera abusiva –
Legittimità della sanzione.
1. - L’avviso dell’avvio del procedimento
previsto dall’art. 7 della legge 07.08.1990 n.
241 non è dovuto (e senza necessità di
motivazione espressa sulla mancanza dello
stesso) nel caso di procedimento volto alla
irrogazione della demolizione edilizia di
costruzione, eseguita senza alcun titolo ed
attinente ad abusi che non necessitano di
particolari valutazioni discrezionali ma
comportino un mero accertamento di natura
tecnica sulla consistenza delle opere.
2. - E' legittima l'ingiunzione a demolire
emessa in pendenza di un sequestro penale
sul manufatto abusivo dal momento che è
possibile motivatamente domandare
all'autorità giudiziaria il dissequestro
dell'immobile.
________________
1. – Cfr. Tar Lazio, II Sez., 26.10.1999 n. 2004 in Rass. TAR 1999, pag. 4252;
si segnala Cons. Stato, Sez. V, 23.04.1998 n. 474 in Riv. Foro Amm. 1998, pag.
1085 ed in Rass. Cons. Stato 1998, I, pag.
609 e Cons. Stato, sez. V, 23.02.2000 n. 948
con riguardo agli atti vincolati
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 18.02.2000 n. 301 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Motivazione - Per relationem – Art. 3 legge n. 241/1990 –
Allegazione atto richiamato – Non occorre –
Condizioni.
1. Il concetto di disponibilità cui si
richiama l’art. 3 della l. 241/1990 non
comporta che l’atto amministrativo
richiamato per relationem debba essere unito
imprescindibilmente al documento, bensì che
il documento sia reso disponibile a norma
della stessa legge, vale a dire che esso
possa essere acquisito utilizzando il
procedimento di accesso ai documenti
amministrativi.
________________
1. Nel senso che comunque nell’atto
impugnato debba essere indicato l’ufficio
presso cui è disponibile l’atto richiamato
in motivazione, si segnalano: TAR Toscana,
sez. II, 18.03.1993, n. 106 in Riv. Foro
Amm. 1993, pag. 1339; cfr. anche TAR
Toscana, sez. II, 15.04.1992 n. 90 in Rass. TAR 1992, pag. 2107 e Cons. di Stato,
sez. IV, 16.03.1994 n. 255 in Riv. Foro Amm.
1994, pag. 394 (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 18.02.2000 n.
301 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Sanatoria ex
artt. 31 e ss. L. n. 47/1985 - Esistenza dei
manufatti all'01/10/1983 - Rapporto
informativo Vigili Urbani accertativo della
realizzazione in data successiva -
Contestazione del privato - Insufficienza -
Onere della prova dell’anteriorità -
Necessità.
Ai fini del rilascio della concessione in
sanatoria ex art. 31 e ss. L. n. 47/1985,
l’accertamento da parte dei Vigili Urbani
dell’epoca dell’abuso, sulla base di
sopralluogo in data posteriore al primo
ottobre 1983, determina l'onere a carico
dell'interessato di provare che i lavori
sono stati ultimati entro la data indicata
dalla legge, non potendo limitarsi a
contestare gli elementi posti a base
dell’accertamento effettuato (massima tratta
da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana,
Sez. III,
sentenza
18.02.2000 n. 293 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Processo
amministrativo - Notifiche - Atto emesso dal
Dirigente con specifica competenza -
Provincia - Notificazione al Presidente
dell’Ente locale - Ritualità.
La notifica del ricorso, proposto
contro la Provincia, al Presidente della
Giunta Provinciale quale legale
rappresentante dell’Ente, e non nei
confronti dell’Autorità emanante, dirigente
dell’Amministrazione con competenza nella
specifica materia, determina la perfetta
ritualità del gravame, non incidendo, la
ripartizione di competenza fra organi di
indirizzo politico e dirigenza, introdotta
dalla L. 15.05.1997, n. 127,
sull’imputazione all’Ente degli atti posti
in essere dai dirigenti in base a competenze
proprie (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 15.02.2000 n.
185 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Aggiudicazione
con il criterio del prezzo più basso da
indicare in percentuale - Indicazione in
valore assoluto invece che in percentuale -
Mera irregolarità.
Il mancato rispetto della clausola del bando
che richiede l’espressa indicazione del
ribasso in percentuale, ancorché prescritta
a pena di esclusione, costituisce mera
irregolarità, allorché il ribasso sia stato
indicato nel suo preciso ammontare (ancorché
non percentualmente espresso), emergendo
comunque il dato richiesto da un semplice
calcolo matematico e quindi perfettamente
conoscibile e percepibile
dall’Amministrazione e dovendosi
interpretare il bando secondo il comune
canone di ragionevolezza, con esclusione di
valutazioni formalistiche che non rispondano
ad alcun interesse pubblico, né all’esigenza
di garantire la par condicio (massima tratta
da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana,
Sez. II,
sentenza
15.02.2000 n. 185 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Processo
amministrativo - Impugnazione - Decorrenza
del termine - Opere pubbliche - Approvazione
progetto - Persone direttamente contemplate
- Dies a quo - Notificazione - Soggetti non
destinatari del provvedimento - Decorrenza
dalla pubblicazione.
Il termine per impugnare la delibera di
approvazione di un progetto di opera
pubblica decorre per le persone direttamente
interessate dal procedimento di
espropriazione dal momento della notifica
dell'atto, mentre nei confronti di tutti gli
"altri soggetti" -ossia per quelli
che non sono destinatari del provvedimento e
per i quali, conseguentemente, non occorra
la comunicazione individuale del medesimo-
il termine per la proposizione del ricorso
decorre dalla pubblicazione dell'atto, a
condizione che questa sia espressamente
prevista ed avvenga nei modi indicati
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 14.02.2000 n. 174 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: 1. - Offerta
con costo orario della manodopera inferiore
ai minimi salariali - Aggiudicazione -
Illegittimità - Ragioni.
2. -
Risarcimento danni - Utilità ancora
astrattamente conseguibile – Esclusione.
1. - E’ illegittima l’aggiudicazione, a
seguito di licitazione privata per
affidamento di servizi di pulizia di
immobili comunali, alla ditta che abbia
presentato un’offerta evidenziante un costo
orario della manodopera inferiore ai minimi
salariali fissati dalla contrattazione
collettiva.
Costituiscono, infatti, norme
inderogabili quelle poste da leggi o da
contratti collettivi in materia di minimi
retributivi, nonché in materia di obblighi
previdenziali ed assistenziali, con la
conseguenza che la violazione di tali
disposizioni ha rilevanza diretta sui
contratti di appalto pubblici, non solo in
forza di clausole specifiche delle norme di
gara, ma anche della normativa di settore;
inoltre il carattere inderogabile della
normativa in questione rileva anche con
riferimento alle prescrizioni sulle offerte
anormalmente basse, dalle cui
giustificazioni sono esclusi elementi i cui
valori minimi sono stabiliti da disposizioni
legislative, regolamentari o amministrative,
ovvero i cui valori risultano da atti
ufficiali.
2. - E’ esclusa la risarcibilità del danno
quando l’utilità materiale perseguita (nella
specie: aggiudicazione della gara e
svolgimento del servizio) è tuttora
astrattamente suscettibile di conseguimento
in relazione all’adozione da parte
dell’Amministrazione di eventuali successive
effusioni provvedimentali conseguenti alla
pronuncia giurisdizionale di annullamento
degli atti della procedura di gara (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. II,
sentenza 14.02.2000 n. 173 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sanità – Attività insalubri –
Ubicazione in zona industriale – Ordinanza
per interventi di bonifica acustica – A
tutela di zona residenziale – Illegittimità
– Ratio.
È illegittima l’ordinanza sindacale di
esecuzione di idonei interventi di bonifica
acustica degli impianti che -pur adottata a
tutela degli abitanti di una contigua zona
residenziale- ponga limitazioni
all’attività di uno stabilimento situato in
zona appositamente destinata all’industria e
le cui emissioni si collochino all’interno
dei valori all’uopo appositamente previsti;
gli inconvenienti provocati da difetti o
lacune dello strumento urbanistico
(contiguità di zone destinate allo
svolgimento di attività industriali con
insediamenti abitativi) devono essere
ascritti all'esclusiva responsabilità
dell'Autorità preposta alla disciplina
urbanistica del territorio (massima tratta
da www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana,
Sez. II,
sentenza
14.02.2000 n. 170 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti – Gara per
l’acquisto di proprietà immobiliare -
Aggiudicazione – Rinuncia – Aggiudicazione
alla seconda migliore offerta - Diniego -
Nuova procedura di gara – Legittimità.
In caso di rinuncia da parte
dell’aggiudicatario originario è legittimo
il provvedimento con il quale la P.A.,
avvalendosi dei suoi poteri discrezionali,
decide di non procedere all’aggiudicazione
alla seconda migliore offerta e di indire
una nuova gara, piuttosto che procedere allo
scorrimento della graduatoria, previsto
espressamente come semplice facoltà dal
bando (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2000 n.
160 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Concessione - Garages seminterrati –
Realizzazione - Rimozione dei vizi della
procedura ex art. 11 L. 47/1985 - Art. 9, IV
comma, L. 122/1989 – Applicabilità in caso
di compatibilità con la destinazione
dell’area - Ammissibilità.
E’ legittima la delibera con la quale
il Comune, in applicazione del principio di
cui all’art. 11 della L. 28.02.1985,
n. 47, dispone la sanatoria dei vizi di una
concessione edilizia rilasciata ai sensi
dell’art. 9, I comma, della L. 24.03.1989, n. 122 (avente per oggetto la
realizzazione di garages seminterrati
pertinenziali in area destinata a parcheggio
pubblico) mediante la procedura prevista dal
IV comma dello stesso articolo 9 (con
stipula di apposita convenzione con il
soggetto privato), quando la realizzazione
dei garages risulti compatibile con la
destinazione dell’area (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2000 n.
158 - link a
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URBANISTICA: 1. - Processo
amministrativo - Impugnazione - Interesse -
Urbanistica - Piano regolatore - Originaria
destinazione edificatoria dell’area -
Approvazione parziale - Natura provvisoria -
Lesività ab origine - Esistenza.
2. - Piano regolatore -
Impugnazione - Legittimazione attiva - Piano
approvato - Preclusioni - Insussistenza.
3. - Processo amministrativo - Intervento in
giudizio - Ad opponendum - Urbanistica -
Piano regolatore - Legittimazione -
Proprietari di aree vicine - Esistenza.
4. - Piano regolatore -
Osservazioni, opposizioni e richieste
atipiche dei privati - Utilizzazione della
P.A. - Possibilità.
5. - Piano regolatore -
Approvazione parziale (stralcio) -
Motivazione per relationem - Riferimento
alle osservazioni di privati - Sufficienza.
1. - Il proprietario di un’area,
originariamente destinata ad intervento
edificatorio, ben può impugnare la delibera
con la quale -a seguito delle modifiche
apportate in conseguenza dell’accoglimento
delle osservazioni ai sensi dell’art. 10, II
comma, della L. 17.08.1942, n. 1150-, è
stata disposta l’approvazione parziale
(stralcio) del piano regolatore atteso che
questo, pur conservando la sua tipica natura
provvisoria, è, tuttavia, in grado di
generare situazioni lesive sin dall’inizio.
2. - La mancata impugnazione della
deliberazione comunale di adozione del piano
regolatore generale non esclude
l’impugnabilità del piano definitivamente
approvato anche per vizi propri della fase
di adozione, da parte di ogni interessato,
non escluso chi abbia già acquisito
conoscenza del piano adottato.
3. - I proprietari (intervenienti ad
opponendum) di aree vicine a quella
interessata da una previsione del piano
regolatore generale, che nella fase
procedimentale abbiano presentato
osservazioni ai sensi dell’art. 10, II
comma, della L. 17.08.1942, n. 1150, poi
accolte in sede di approvazione, sono
titolari di un interesse autonomo e
qualificato, sia sostanziale che
procedimentale, e, pertanto, sono pienamente
legittimati a partecipare al giudizio.
4. - Nel quadro di una procedura (quale
quella di variante al p.r.g.) volta alla
realizzazione di un interesse pubblico ed
aperta ai contributi di tutti coloro che vi
abbiano interesse, la P.A., ove le giungano
suggerimenti o proposte dalla stessa
ritenute meritevoli di accoglimento, per ciò
solo se ne appropria, siano esse
osservazioni ovvero opposizioni ovvero
richieste atipiche o quant’altro, a nulla
rilevando la posizione soggettiva di coloro
che intervengono.
5. - Deve intendersi resa per relationem
la motivazione della P.A. che, in sede di
approvazione parziale (stralcio) del piano
regolatore generale in seguito
dell’accoglimento di osservazioni presentate
da privati, abbia fatto riferimento a queste
ultime, dal momento che la P.A., per il solo
fatto di averle accolte, se ne è appropriata
(massima tratta da www.sentenzetoscane.it -
TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 11.02.2000 n. 156 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: 1. Concessione - Diniego
- Sanatoria art. 13 L. 47/1985 - Motivazione
- Indicazione generica di contrasto con le
norme tecniche di attuazione - Insufficienza
- Illegittimità.
2. Concessione - Pertinenza - Nozione -
Piscina in zona agricola di dimensioni
contenute e ridotto impatto urbanistico -
Costituisce pertinenza - Autorizzazione.
1. E' illegittimo per carenza di motivazione
il diniego di concessione edilizia in
sanatoria, richiesta ai sensi dell'art. 13
L. 47/1985, recante la generica affermazione
che "la costruzione di piscina in zona
agricola non è conforme alle Norme Tecniche
di Attuazione dello strumento urbanistico
vigente - P.R.G. comunale".
I provvedimenti di diniego di concessione di
costruzione in sanatoria devono essere
congruamente motivati con l'indicazione
delle ragioni che ostano al suo rilascio e
con particolare riferimento alle norme
urbanistiche violate, in modo da consentire
all'interessato da un lato, di rendersi
conto degli impedimenti che si frappongono
alla realizzazione del suo progetto e di
poterlo adeguare alle esigenze pubbliche che
l'Amministrazione ha inteso tutelare;
dall'altro, di confutare in maniera
esaustiva la legittimità del provvedimento
davanti al giudice competente.
E' quindi carente di motivazione, il diniego
di concessione in sanatoria fondato su un
generico contrasto del progetto edilizio con
norme legislative e regolamentari in materia
edilizia, dovendo, invece, diffondersi il
provvedimento di diniego in ordine alle
disposizioni che si assumono ostative al
rilascio del provvedimento concessorio.
2. La nozione di pertinenza di cui all'art.
7 L. 94/1982 (che non coincide con quella
più ampia descritta dall'art. 817 c.c.) è
ancorata non solo alla necessarietà ed
oggettività del rapporto pertinenziale, ma
anche alla consistenza dell'opera, la quale
deve contenersi entro misure minime, sì da
non alterare in modo significativo l'assetto
del territorio; né la localizzazione in zona
agricola impedisce l'applicazione della
citata norma che non distingue tra edifici
residenziali o meno, agricoli ovvero urbani.
Pertanto, nella fattispecie di piscina di
contenuto rilievo dimensionale e di ridotto
impatto dal punto di vista urbanistico, si
verte in ambito di manufatto avente rilievo
pertinenziale ed in quanto tale assoggettato
a regime autorizzatorio (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 31.01.2000 n.
22 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni – Ingiunzione a
demolire – Competenza – Ante D.Lgs. n. 80
del 1998 – Sindaco – Dopo art. 45 D.Lgs. n.
80 cit. – Dirigente.
Il principio sancito dal comma 2 dell’art.
51 della legge 142/1990 in merito alla
distinzione di competenze tra organi di
Governo e Dirigenti è stato reso
concretamente operativo solo dall’art. 45,
comma primo, del D.Lgs. 80/1998.
Deve pertanto considerarsi legittima
l’ordinanza sindacale di ingiunzione a
demolire adottata prima della sua entrata in
vigore (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.01.2000 n. 7
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sanzioni – Ingiunzione a
demolire art. 7 L. 47/1985 – In pendenza di
domanda di sanatoria – Illegittimità.
Dopo la presentazione di una domanda di
sanatoria ex art. 13 L. 47/1985, i termini
per l’esecuzione di una sanzione edilizia e,
a maggior ragione, la potestà di emanare la
sanzione stessa devono ritenersi, anche in
assenza di una esplicita disposizione
normativa, sospesa "ope legis";
deve pertanto considerarsi illegittima
l’ingiunzione sindacale di demolizione
emanata in pendenza dell’esame della domanda
di sanatoria, ove neppure siano trascorsi i
60 giorni di cui al ripetuto art. 13 per la
formazione del silenzio–rifiuto (massima
tratta da www.sentenzetoscane.it - TAR
Toscana, Sez. III,
sentenza
17.01.2000 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: 1. Interventi sul
patrimonio esistente – Ristrutturazione in
caso di demolizione e totale ricostruzione –
Limite.
2. Concessione - Diniego – Parere favorevole
Commissione Edilizia - Inesatta
qualificazione del richiedente – Legittimità
del diniego.
1. Pur essendo configurabile l’ipotesi di
ristrutturazione edilizia in caso di totale
ricostruzione di un fabbricato, è
indispensabile la "fedele"
ricostruzione del medesimo, sì che non vi
siano difformità di posizione dell’area di
sedime o del volume o dell’altezza o della
forma.
2. Non può essere considerato, anche in
presenza di un previo parere favorevole
della Commissione Edilizia, meritevole di
particolare tutela l’affidamento di chi
qualifica inesattamente un intervento
edilizio di cui chiede all’Amministrazione
l’assenso.
_______________________
1. – vedi inoltre per il concetto di
ristrutturazione in caso di demolizione e
fedele ricostruzione Consiglio di Stato,
sez. V, 01.12.1999 n. 2021 e art. 4, comma
2, lett. d), L.R. 52/1999 secondo il quale:
"Gli interventi di ristrutturazione
edilizia…….. comprendono altresì: ……….1) le
demolizioni con fedele ricostruzione degli
edifici, intendendo per fedele ricostruzione
quella realizzata con identici materiali e
con lo stesso ingombro planivolumetrico,
fatte salve esclusivamente le innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa
antisismica;…" (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 17.01.2000 n. 3
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Concessione – Diniego –
Annullamento – Modificabilità della
normativa applicabile – Possibilità –
Limiti.
1. – La notificazione della sentenza di
annullamento del provvedimento di diniego
della concessione edilizia non impedisce
all’Amministrazione Comunale la successiva
modifica della disciplina urbanistica in
senso più sfavorevole al ricorrente (anche
con ripristino della disciplina già
annullata in sede giurisdizionale) qualora
il diniego sia stato riconosciuto
illegittimo per vizi meramente formali,
vantando il tale ipotesi il ricorrente una
mera aspettativa di fronte alla quale
prevale il motivato interesse pubblico il
quale, viceversa, recede allorché
l’annullamento si fondi su motivi
sostanziali con prevalenza del principio
dell’effettività della tutela
giurisdizionale.
________________
1. – La sentenza risulta di particolare
interesse poiché, seppure nella diversità
della fattispecie, interpreta con innovative
precisazioni la portata della decisione del
Cons. Stato, Ad. Plen. n. 1 del 18.01.1986
(in Riv. Giur. Ed. 1986, I, 162 con nota di
M.A.S.) (massima tratta da
www.sentenzetoscane.it - TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 10.01.2000 n.
1 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 13.07.2011 (ore 16,00) |
ã |
UTILITA' |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Il
"decreto sviluppo" è legge!!
Sulla Gazzetta Ufficiale 12.07.02011 n. 160
è stato pubblicato il "Testo
del decreto-legge 13.05.2011, n. 70,
coordinato con la legge di conversione
12.07.2011, n. 106, recante:
«Semestre Europeo - Prime disposizioni
urgenti per l’economia.»
La legge di conversione ha apportato
numerose modifiche/integrazioni al testo
originario ma non ha interessato la parte
che più ci stava a cuore ovverosia la Scia
(Segnalazione certificata di inizio
attività).
Già
lo scorso 06.06.2011 dicevamo la
nostra (in maniera più esaustiva che non in
questo contesto) sulle novità in materia di
permesso di costruire e di Scia pervenendo
alla conclusione che in Lombardia:
1-
fintantoché la Regione non
modificherà/integrerà (semmai lo volesse
fare ...) la L.R. n. 12/2005 per recepire la
novità del "silenzio-assenso" nazionale (e
non solo), si dovrà continuare ad applicare
l'art. 38 della medesima legge regionale in
relazione alla procedura di istruttoria
delle istanze di permesso di costruire;
2- in Lombardia NON si può applicare
l'istituto della Scia già dal 31.07.2010.
La norma è chiara (miracolo!!), scritta in
maniera leggibile e comprensibile, sicché
non occorre alcuna interpretazione di sorta.
Ma se non si è ancora convinti, risulta
allora utile leggere il
dossier n. 299/I del giugno 2011
approntato dal Senato della Repubblica
recante "Disegno di legge A.S. n. 2791
"Conversione in legge, con modificazioni,
del decreto-legge 13.05.2011, n. 70,
concernente Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l’economia" - Vol.
I - Schede di lettura" laddove a pag.
227 si legge, nero su bianco, quanto segue:
"Comma
2, lett. b) e c) – Modifiche alla SCIA nella
legge 241/1991.
Le lettere b) e c) recano alcune modifiche
all’art. 19 della legge n. 241/1990 relativo
alla disciplina della SCIA (Segnalazione
certificata di inizio attività) che viene
estesa anche alla DIA in edilizia, ad
esclusione della DIA alternativa o
sostitutiva del permesso di costruire.".
E ad oggi, a distanza di 60 gg. dall'entrata
in vigore del decreto-legge, la Regione
Lombardia non si è ancora pronunziata in
merito fornendo l'autorevole contributo
interpretativo agli addetti ai lavori
(comuni e liberi professionisti) ... ma va
da sé che "chi tace acconsente" !!
13.07.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
EDILIZIA PRIVATA:
W. Fumagalli,
Il risarcimento dei danni subiti dai
titolari di titoli edilizi illegittimi
(AL n. 05-06/2011). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: G.U.
12.07.2011 n. 160 "Testo
del decreto-legge 13.05.2011, n. 70,
coordinato con la legge di conversione
12.07.2011, n. 106, recante:
«Semestre Europeo - Prime disposizioni
urgenti per l’economia.».
---------------
N.B.: le modifiche
apportate dalla legge di conversione hanno
efficacia dal giorno successivo a quello
della sua pubblicazione nella G.U. e cioè
dal 13.07.2011.
Per comodità, si veda e si legga
a confronto il testo del Decreto Sviluppo
prima e dopo la conversione (link
a www.leggioggi.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - VARI: Autovelox
anche in centro città. Un parere del
Ministero dei trasporti.
I manufatti colorati predisposti per
alloggiare al loro interno i misuratori
elettronici di velocità possono essere
installati liberamente dai comuni anche in
centro abitato, previo nullaosta dell'ente
proprietario della strada. Solo il loro uso
resta limitato, segnalato e con la
necessaria presenza degli organi di polizia.
Lo ha evidenziato il Ministero dei Trasporti
con il parere 27.06.2011 n. 3518.
Dopo la riforma stradale dello scorso anno
risulta difficile attivare nelle strade
ordinarie una postazione fissa per il
controllo elettronico della velocità. E
questa limitazione è particolarmente
evidente nei centri abitati dove di fatto
l'autovelox oggi può essere posizionato solo
con la presenza costante della polizia
stradale. Nulla impedisce però ai comuni di
installare nuovi manufatti idonei sia
all'alloggiamento degli autovelox che al
semplice messaggio preventivo.
Per ottenere ulteriori chiarimenti il
comando della polizia municipale di Roma ha
richiesto delucidazioni al ministero dei
trasporti. I box colorati porta autovelox,
specifica la nota centrale, «non sono
inquadrabili in alcuna delle categorie
previste dal nuovo codice della strada e dal
connesso regolamento di esecuzione ed di
attuazione e dunque per essi non risulta
concessa alcuna approvazione, ai sensi
dell'art. 45/6° del codice e dell'art.
192/3° del regolamento, da parte di questa
direzione generale».
Siamo ancora in attesa di uno specifico
provvedimento, prosegue la nota, che dovrà
uniformare, ai sensi dell'art. 60 della
legge 120/2010, le modalità di impiego e
funzionamento dei sistemi elettronici per il
controllo della velocità dei veicoli. Questi
manufatti però non saranno disciplinati
neppure con questo nuovo decreto perché di
fatto lo stesso sarà rivolto solo all'uso
degli impianti autovelox e non ai box di
alloggiamento. Ma non si tratta neppure di
segnaletica stradale da sottoporre a
preventiva valutazione ministeriale,
prosegue il ministero.
Allo stato attuale a parere del Mit l'unico
impiego consentito per questi manufatti
creativi «è quello che prevede
l'installazione al loro interno di
misuratori di velocità di tipo approvato».
In buona sostanza i box porta autovelox
possono essere regolarmente installati, con
le dovute precauzioni a tutela della
sicurezza stradale e con i necessari nulla
osta da parte degli enti proprietari delle
strade
(articolo ItaliaOggi
del 13.07.2011). |
APPALTI: Tracciabilità,
risparmiati i legali. Per affidare il
patrocinio non va acquisito il codice gara.
La determinazione 4/2011 dell'Authority
rischia di confondere gli operatori.
Rischio caos sugli incarichi di patrocinio
legale conferiti dalle pubbliche
amministrazioni agli avvocati.
La
determinazione
07.07.2011 n. 4, dell'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici di lavori,
servizi e forniture, dedicata alla
tracciabilità dei flussi finanziari in
applicazione dell'articolo 3 della legge
136/2010, ha creato non poca confusione tra
gli operatori nella parte in cui afferma che
«il patrocinio legale, cioè il contratto
volto a soddisfare il solo e circoscritto
bisogno di difesa giudiziale del cliente,
sia inquadrabile nell'ambito della
prestazione d'opera intellettuale, in base
alla considerazione per cui il servizio
legale, per essere oggetto di appalto,
richieda qualcosa in più, “un quid pluris
per prestazione o modalità organizzativa”».
Coerentemente con tale affermazione, la
determina considera non necessario acquisire
il Codice identificativo gara (Cig) per
affidare l'incarico di patrocinio, che così
risulterebbe sottratto alle regole sulla
tracciabilità.
L'Authority basa il proprio avviso sul
parere della Corte dei conti, Sezione
regionale di controllo per la Basilicata
03.04.2009, n. 19. Tale parere sostiene che
«non sembra sufficiente l'aver
qualificato “servizio” la prestazione libero
professionale resa dall'avvocato per
ritenerla senz'altro compresa nella
categoria dei “servizi legali”, di cui
all'allegato II B richiamato dall'art. 20
del Codice dei contratti pubblici».
Secondo la Sezione, si tratta di un
contratto di prestazione d'opera
intellettuale vero e proprio, anche perché
così non può che essere qualificato il
rapporto intercorrente tra un legale e un
privato. Aggiunge la Sezione che una
medesima prestazione non può mutare la
propria natura giuridica a seconda della
personalità giuridica del committente.
Sarebbe, invece, appalto di servizi «il
conferimento di incarico per prestazioni che
prevedano, oltre al patrocinio legale delle
vertenze che sorgeranno entro un arco di
tempo determinato, anche l'attività di
consulenza legale a favore dell'ente».
L'assunto cui giunge l'Authority passando
per il parere della Sezione Basilicata
presta però il fianco a qualche rilievo.
Da un lato va dato conto del fatto che la
magistratura contabile non è per nulla così
univoca sul merito della questione. Infatti,
di opinione diametralmente opposta è il
parere della Sezione regionale di controllo
per il Veneto 21.01.2009, n. 7, il quale ha
affermato che «la categoria dei “servizi
legali”, a causa del suo carattere
residuale, ricomprenda tutti i “contratti”
pubblici (locuzione questa utilizzata dal
legislatore, all'art. 1 del codice in luogo
di quella più ristretta di appalto) aventi
per oggetto l'acquisizione di servizi,
prodotti, lavori e opere che non siano
assoggettati ad una più rigorosa disciplina
pubblicistica sotto diversi aspetti,
compreso quello della trasparenza,
pubblicità e rispetto della libera
concorrenza».
In secondo luogo, è facile affermare come
sia arbitraria la distinzione tra l'incarico
di patrocinio «isolato»,
qualificabile come prestazione
intellettuale, ed un insieme programmato di
attività legali. Quest'ultimo altro non
sarebbe che un contratto «quadro»,
cioè una programmazione tra le parti di più
prestazione del medesimo genere e tipologia,
resa concreta da singole contrattazioni
attuative, le quali, se il ragionamento
proposto dall'Authority e dalla Sezione
Basilicata fosse corretto, sarebbero tante
prestazioni intellettuali.
La qualificazione giuridica del committente
è, invece, fondamentale per determinare la
natura giuridica di un contratto: esso
assume la configurazione di appalto e deve
obbedire alle regole del dlgs 163/2006 e
delle direttive Ue in materia appunto quando
il committente è pubblico. Per i rapporti
tra i privati esistono altre discipline, che
esentano dal configurare come «appalti»
le prestazioni di servizi, proprio perché i
rischi di ripercussioni negative per la
concorrenza sono di gran lunga inferiori nel
caso di committenza privata.
In ogni caso, l'articolo 8 del dlgs 59/2010
(attuativo della direttiva «Bolkestein»)
ai sensi del quale è servizio «qualsiasi
prestazione anche a carattere intellettuale
svolta in forma imprenditoriale o
professionale, fornita senza vincolo di
subordinazione e normalmente fornita dietro
retribuzione» aiuta a qualificare le
attività dei legali esattamente come
servizio. Né il decreto legislativo esclude
dal suo ambito di applicazione i servizi
svolti avvocati. Pertanto, se nel mercato
interno l'attività dei legali è considerata
servizio anche tra privati, non si vede come
si possa escludere la natura di appalto di
servizio se il committente è una pubblica
amministrazione
(articolo ItaliaOggi
del 12.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Ecco il portale del federalismo.
Tra gli obiettivi, integrare i dati fiscali.
Debutta in rete il Portale del federalismo
fiscale, luogo di incontro e collaborazione
tra gli operatori del ministero
dell'economia e delle finanze, delle Agenzie
fiscali, delle regioni e delle autonomie
locali, uniti nell'obiettivo di creare
valore e innovazione nell'erogazione dei
servizi istituzionali.
Ieri l'avvio del Portale (www.portalefederalismofiscale.gov.it)
che, spiega il Mineconomia, è uno strumento
che intende favorire, attraverso lo scambio
di conoscenze ed esperienze, le sinergie tra
operatori che possono ridurre i tempi delle
attività e semplificarne lo svolgimento.
«L'interfaccia web semplice e intuitiva e
una home page pubblica con informazioni
disponibili per tutti gli utenti rendono
facile e veloce la consultazione e
l'approfondimento, mentre una sezione
riservata, a cui accedere tramite
autenticazione», prosegue la nota, «consente
di:
• integrare il maggior numero di
informazioni pubbliche di rilevanza fiscale;
• utilizzare e promuovere servizi di
cooperazione amministrativa a supporto della
governance del territorio;
• condividere informazioni e documenti sul
tema del federalismo fiscale;
• proporre aree di discussione e temi di
confronto attraverso servizi di
interoperabilità evoluta (forum e Wiki) che
consentiranno alle amministrazioni centrali
e locali lo scambio di informazioni, la
condivisione di “buone pratiche”, la
formazione e l'informazione sui principali
temi del federalismo fiscale»
(articolo ItaliaOggi
del 12.07.2011). |
VARI: Squilla
il telefono. E non smette. Segnalate più di
mille chiamate fuori legge, sanzioni in
arrivo. Telemarketing: a quattro mesi
dall'introduzione stenta a decollare il
Registro delle opposizioni.
A quattro mesi dall'introduzione del
Registro delle opposizioni al telemarketing,
i consumatori che hanno chiesto di non
essere interpellati per proposte commerciali
lamentano di ricevere ancora telefonate
pressanti.
Sono più di mille le segnalazioni ricevute
finora dal Garante per la privacy (su un
totale di circa 618 mila aderenti al
Registro), ma secondo una stima dell'Adoc il
fenomeno riguarderebbe il 60% degli
iscritti. Una situazione che suggerisce un
cambio di rotta nell'applicazione della
normativa, anche se le aziende interessate
invitano ad attendere che il sistema entri a
regime.
Associazioni dei consumatori: il Registro
solo uno spreco di soldi. Di soluzione
costosa e farraginosa, che salvaguardia le
aziende e non i cittadini, parlano le
associazioni dei consumatori.
«Gli utenti dovrebbero essere tutelati
dalle chiamate moleste del telemarketing»,
afferma Mauro Novelli, segretario nazionale
Adusbef, «ma la procedura presenta troppe
lacune: in primo luogo, è praticamente
impossibile iscriversi al Registro se non si
è presenti nelle Pagine Bianche (l'elenco
telefonico, ndr). Inoltre le aziende possono
aggirare facilmente il divieto di telefonata
sfruttando altri elenchi, come l'iscrizione
a servizi online, in cui il consumatore ha
fornito precedentemente il proprio assenso
ad essere contattato».
Secondo Novelli la soluzione più sensata ed
economica sarebbe stata l'introduzione di un
sistema in cui solo chi vuole ricevere le
telefonate di telemarketing si iscrive a un
registro ad hoc e non il contrario.
Parere quest'ultimo condiviso da Pietro
Giordano, segretario generale di Adiconsum:
«Ormai la norma è stata introdotta, anche
se eravamo contrari e quindi nell'interesse
dei consumatori bisogna rendere il sistema
il più possibile efficiente». Per
esempio, secondo il segretario, un punto
critico è la ridotta conoscenza del Registro
tra i consumatori: «Andrebbe implementata
una campagna informativa più efficace e
puntuale di quella già promossa negli scorsi
mesi», precisa.
In secondo luogo, bisognerebbe partire con
le sanzioni nei confronti delle aziende che
operano una violazione sistematica della
privacy.
Sulla stessa linea Federconsumatori secondo
cui è indispensabile modificare radicalmente
questa norma, adottando misure più in linea
con le esigenze dei cittadini e con le
indicazioni del Garante per la privacy,
piuttosto che privilegiare i bisogni delle
aziende.
Garante, al via le sanzioni. Nel Rapporto
annuale presentato al Parlamento, anche il
Garante ha criticato duramente l'istituzione
del Registro, che anziché essere uno
strumento di semplificazione si è dimostrato
un sistema per invertire l'ottica a favore
delle aziende. «Tra febbraio e giugno
2011», afferma, «sono pervenute più
di mille segnalazioni da parte di utenti
che, anche se iscritti al Registro, hanno
ricevuto lo stesso telefonate pubblicitarie;
più del doppio del 2010, anno in cui, pur
senza l'istituzione del nuovo sistema, le
segnalazioni sul telemarketing erano state
invece circa 300». Le telefonate fuori
legge sarebbero arrivate soprattutto dagli
operatori di telefonia fissa e mobile.
Sembra, inoltre, che molte aziende di
telemarketing continuino a utilizzare liste
di numeri telefonici vecchie senza
confrontarle con i dati contenuti
nell'elenco. Una comparazione che le
costringerebbe a decurtare i nominativi
degli iscritti.
Un'operazione dispendiosa che potrebbe
spiegare l'insofferenza di alcune società
verso le nuove regole.
Per far fronte alla situazione, il Garante
conferma di aver già avviato le istruttorie
cui seguiranno le relative sanzioni che
potrebbero oscillare tra i 10 mila e i 120
mila euro e che ...
(articolo ItaliaOggi
del 11.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il promissario acquirente
dell’area e dell’immobile ivi costruito ha
diritto di accedere agli atti di cui alla
pratica edilizia depositata in comune.
La legittimazione all'accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che
gli atti procedimentali oggetto dell'accesso
abbiano spiegato o siano idonei a spiegare
effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione
di una posizione giuridica, stante
l'autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita
distinto rispetto alla situazione
legittimante all'impugnativa dell'atto.
La ricorrente riveste una posizione che la
legittima a richiedere l’accesso agli atti,
dal momento che, per giurisprudenza
pacifica, la legittimazione all'accesso va
riconosciuta a chiunque possa dimostrare che
gli atti procedimentali oggetto dell'accesso
abbiano spiegato o siano idonei a spiegare
effetti diretti o indiretti nei suoi
confronti, indipendentemente dalla lesione
di una posizione giuridica, stante
l'autonomia del diritto di accesso, inteso
come interesse ad un bene della vita
distinto rispetto alla situazione
legittimante all'impugnativa dell'atto.
Nel caso di specie la domanda di accesso è
volta ad ottenere l'esibizione degli atti
necessari per tutelare la posizione del
richiedente, di promissario acquirente
dell’area e dell’immobile ivi costruito: la
ricorrente ha infatti interesse ad accertare
non solo la causa del mancato rilascio dei
titoli edilizi entro il termine del
30.10.2010, ma anche la ragione per cui
successivamente l’attività edificatoria sia
stata assentita.
Si configura quindi in capo alla ricorrente
un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione
giuridicamente tutelata e collegata alla
documentazione di cui è chiesto l'accesso
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 08.07.2011 n. 1857 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: E'
illegittima la previsione del bando di gara
che prevede, a pena di esclusione, la
produzione per due volte, in due buste
diverse, del medesimo documento (copia del
capitolato tecnico, timbrato e firmato).
La legge lascia alla stazione appaltante un
ampio margine discrezionale per conformare
il procedimento concorsuale alle proprie
esigenze, disciplinando nella maniera più
opportuna i requisiti e gli adempimenti
posti a carico dei concorrenti che aspirano
a partecipare alla gara.
Tali determinazioni, se non risultano in
contrasto con norme particolari di rango
superiore, non sono censurabili nel merito,
fatto salvo il sindacato di legittimità
quando si manifesti una palese
irragionevolezza o ingiustizia o incongruità
delle disposizioni di gara (cfr. Cons. St.,
sez. V, 22/09/2009, n. 5653).
Nella specie è fondata la censura dedotta
dalla società ricorrente, sotto questi
profili, contro la clausola che prevede, a
pena di esclusione, la produzione per due
volte, in due buste diverse, del medesimo
documento (copia del capitolato tecnico,
timbrato e firmato).
Infatti non vi è alcuna ragionevole
giustificazione di questo onere, posto a
carico dei concorrenti, che peraltro si pone
in contrasto con i principi di economicità
ed efficienza dell’azione amministrativa e
con i principi di adeguatezza,
proporzionalità e non aggravamento delle
procedure concorsuali
(TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.06.2011 n. 3259 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nonostante
l’art. 41 d.lgs. n. 163/2006 consenta alla
P.A. appaltante di inserire nel bando di
gara la richiesta della prova della capacità
economica e finanziaria mediante una
dichiarazione che riguardi sia il fatturato
globale, sia il fatturato del settore
oggetto dell’appalto, solamente la
dichiarazione del primo dato è
indispensabile per la legittimità del bando,
nell’ambito della scelta discrezionale dei
documenti più opportuni al fine di
dimostrare il requisito in esame, mentre la
richiesta del secondo dato è rimessa alla
discrezionalità della P.A..
La più recente giurisprudenza ha chiarito
che, nonostante l’art. 41 d.lgs. n. 163/2006
consenta alla P.A. appaltante di inserire
nel bando di gara la richiesta della prova
della capacità economica e finanziaria
mediante una dichiarazione che riguardi sia
il fatturato globale, sia il fatturato del
settore oggetto dell’appalto, solamente la
dichiarazione del primo dato è
indispensabile per la legittimità del bando,
nell’ambito della scelta discrezionale dei
documenti più opportuni al fine di
dimostrare il requisito in esame, mentre la
richiesta del secondo dato è rimessa alla
discrezionalità della P.A. (C.d.S., Sez. V,
23.02.2010, n. 1040).
Più specificamente, la giurisprudenza ora
citata, cui il Collegio ritiene di aderire,
ha evidenziato che i documenti ritenuti
idonei dal Legislatore, ai sensi dell’art,
41, comma 1, cit., a dar prova della
capacità economica e finanziaria delle
imprese concorrenti, sono di tre tipi: le
idonee dichiarazioni bancarie, finalizzate
ad attestare l’affidabilità dell’impresa con
riferimento al credito; i bilanci o gli
estratti di bilanci dell’impresa,
finalizzati a dimostrare la situazione
(interna) contabile e finanziaria
dell'impresa e, così, le sue effettiva
capacità imprenditoriali; la dichiarazione
riguardante il fatturato globale e l’importo
relativo ai servizi e forniture oggetto
della gara, realizzati negli ultimi tre
anni, il cui scopo è, piuttosto, quello di
dimostrare le concrete capacità operative
dell’impresa concorrente.
Poiché tali autonome categorie di documenti,
malgrado l’ora vista diversità di contenuto
e funzioni, sono state giudicate dal
Legislatore tutte ugualmente idonee, anche
isolatamente prese, a dimostrare la capacità
economica e finanziaria di un’impresa
concorrente, tanto che spetta alla P.A.
appaltante, nella sua discrezionalità, di
scegliere tra uno o più dei documenti
stessi, la giurisprudenza in parola ha
concluso che non occorre che la
dichiarazione ex art. 41, comma 1, lett. c),
debba indicare sia il fatturato globale
dell’impresa, sia l’importo relativo ai
servizi o forniture oggetto di gara,
realizzati negli ultimi tre anni, bastando,
per la legittimità del bando, che la P.A.
pretenda la dichiarazione di uno solo di
tali dati.
Ed anzi, la direttiva n. 18/2004/CE prevede
(art. 47) che la capacità economica e
finanziaria dell’operatore economico possa
essere provata tramite una serie di
elementi, tra i quali “una dichiarazione
concernente il fatturato globale e, se del
caso, il fatturato del settore di attività
oggetto dell’appalto, al massimo per gli
ultimi tre esercizi disponibili….”:
donde la conclusione che solamente la
dichiarazione del primo dato, concernente il
fatturato globale, è indispensabile, mentre,
come già detto, l’imposizione della
dichiarazione concernente (anche) il secondo
dato, sul fatturato specifico, è rimessa
alla scelta discrezionale della P.A., il cui
concreto esercizio sfugge al sindacato di
legittimità quando non risulti essere
manifestamente illogica, arbitraria,
irragionevole, irrazionale (cfr. C.d.S.,
Sez. V, n. 1040/2010, cit.)
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 16.06.2011 n. 1075 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati antisismici e loro natura
giuridica: quid iuris?
I reati di violazione
delle norme tecniche in zona sismica e di
esecuzione dei lavori in zona sismica senza
la direzione di un tecnico abilitato sono da
qualificarsi come reati permanenti; ne
consegue che, in particolare, che gli stessi
perdurano oltre l'inizio della costruzione e
per tutto lo svolgimento dell'attività
costruttiva.
Particolarmente interessante la decisione in
commento con cui la Suprema Corte affronta “funditus”,
tra le altre, una questione invero non molto
approfondita nella giurisprudenza di
legittimità, ossia il tema della natura
giuridica dei reati dettati dalla disciplina
antisismica.
La questione appare vieppiù interessante in
quanto, sulla natura giuridica di alcuni di
essi, è recentemente emerso un contrasto di
giurisprudenza (tema che sarà affrontato in
altra nota di prossima pubblicazione sul
Quotidiano), che verosimilmente renderà
necessaria a breve la sua sottoposizione
alle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione.
Il fatto.
La vicenda processuale posta a fondamento
della decisione in esame vedeva imputati due
soggetti di violazioni urbanistiche ed
antisismiche per aver, in particolare,
realizzato abusivamente, in aderenza ad un
immobile preesistente ed in ampliamento del
medesimo, un fabbricato in duplice
elevazione su una superficie di mq. 50 per
piano nonché, inoltre, per aver realizzato
tali interventi edilizi in zona sismica
senza aver dato il richiesto preavviso
scritto, senza l’autorizzazione preventiva
dell’ufficio tecnico regionale e senza la
direzione di un tecnico abilitato.
In sede di merito, gli imputati venivano
condannati sia in primo che in secondo
grado, rigettando la richiesta difensiva di
proscioglimento per prescrizione delle
violazioni antisismiche contestate.
Il ricorso.
Avverso la sentenza di merito, resa dai
giudici d’appello, proponevano ricorso per
Cassazione gli imputati, affidando, per
quanto qui di interesse, le loro doglianze
al mancato riconoscimento della prescrizione
dei reati in materia antisismica, ritenendo
gli stessi reati istantanei e non
permanenti.
La decisione della
Cassazione.
La terza sezione penale della Corte Suprema,
investita del ricorso, lo ha dichiarato
inammissibile con una decisione che,
ineccepibilmente, da una lato, opera una
coerente applicazione di un principio
giurisprudenziale consolidato sulla natura
giuridica del reato di violazione delle
norme tecniche in zona sismica e,
dall’altro, afferma per la prima volta “expressis
verbis” il principio di diritto secondo
cui ha natura permanente il reato di
direzione lavori da parte di tecnico non
abilitato.
Al fine di meglio comprendere il
ragionamento della Corte è utile focalizzare
il quadro normativo di riferimento.
L’attuale disciplina in materia antisismica
è contenuta del d.P.R. 06.06.2001, n. 380
(c.d. Testo Unico dell’edilizia) che ha
integralmente sostituito, con riferimento
alla disciplina sul punto, la “vecchia”
legge n. 64/1974, ormai in pensione
dall’entrata in vigore del T.U. edilizia.
E’ ben vero, infatti, che l’art. 137, comma
2, del d.P.R. n. 380/2001 prevede che la
legge 02.02.1974, n. 64 resta in vigore, per
tutti i campi di applicazione
originariamente previsti dal relativo testo
normativo e non applicabile alla parte I del
nuovo testo unico; è altrettanto vero, però,
che –per quanto concerne la disciplina
sostanziale e quella sanzionatoria oggi
introdotta dal nuovo Testo Unico– non v’è
dubbio che le relative disposizioni non sono
da considerarsi più attualmente vigenti.
Quali sono dunque le norme applicabili?
Per quanto concerne il reato di violazione
delle norme tecniche, vengono in rilievo gli
artt. 83 e 95 del d.P.R. n. 380/2001, che
hanno preso il posto delle abrogate
previsioni di cui agli artt. 3 e 20 della
legge n. 64/1974. Le attuali disposizioni
prevedono, in particolare, che tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa comunque
interessare la pubblica incolumità, da
realizzarsi in zone dichiarate sismiche,
sono disciplinate, oltre che dalle
disposizioni di cui all’art. 52 (rubricato “tipo
di strutture e norme tecniche”) anche da
“specifiche norme tecniche” emanate,
anche per i loro aggiornamenti, con decreti
del Ministro per le infrastrutture ed i
trasporti, di concerto con il Ministro per
l'interno, sentiti il Consiglio superiore
dei lavori pubblici, il Consiglio nazionale
delle ricerche e la Conferenza unificata.
Spetta, peraltro, alle regioni, sentite le
province e i comuni interessati, provvedere
all’individuazione delle zone dichiarate
sismiche, alla formazione e
all’aggiornamento degli elenchi delle
medesime zone e dei valori attribuiti ai
gradi di sismicità, nel rispetto dei criteri
generali dettati con apposto decreto,
previsto dall’art. 83, comma 2. La
violazione delle norme tecniche trova la sua
sanzione nell’art. 95 che punisce con
l'ammenda da lire 400.000 (pari ad € 206) a
lire 20.000.000 (pari ad € 10.329) “Chiunque
violi le prescrizioni contenute nel presente
capo e nei decreti interministeriali di cui
agli articoli 52 e 83”.
Per quanto, invece, concerne, invece, il
reato di direzione lavori in zona sismica da
parte di tecnico non abilitato, la norma di
riferimento è attualmente contenuta all’art.
94 d.P.R. n. 380/2001, secondo cui nelle
località sismiche, ad eccezione di quelle a
bassa sismicità, non si possono iniziare
lavori senza preventiva autorizzazione
scritta del competente ufficio tecnico della
regione, lavori che (comma 4) “devono
essere diretti da un ingegnere, architetto,
geometra o perito edile iscritto nell'albo,
nei limiti delle rispettive competenze”.
La relativa sanzione è contemplata dall’art.
95, applicabile alla fattispecie del comma 4
dell’art. 94 per il richiamo alla violazione
delle “prescrizioni contenute nel
presente capo”.
Infine, ultima disposizione di interesse,
sulla cui natura giuridica sono sorte le
maggiori discussioni, è quella contemplata
dal combinato disposto degli artt. 93 e 94
del nuovo T.U. edilizia, che puniscono
l’edificazione in zona sismica senza previo
preavviso allo sportello unico, ovvero
omettendo la sottoposizione del progetto al
vaglio della pubblica autorità, nonché di
inizio dei lavori in assenza
dell’autorizzazione dell’autorità
competente. La norma sanzionatoria è sempre
costituita dall’art. 95 citato, per le
medesime ragioni in precedenza sottolineate.
Rinviando alla nota di prossima
pubblicazione sul Quotidiano
l’approfondimento sul contrasto
giurisprudenziale venutosi a manifestare
nella giurisprudenza di legittimità quanto
alla natura giuridica, permanente od
istantanea, del reato di cui al combinato
disposto degli artt. 93 3 94, in relazione
all’art. 95 del T.U. edilizia, è sufficiente
qui soffermarsi sulla soluzione offerta sul
tema della natura giuridica delle altre due
fattispecie.
Sul punto, la soluzione della Corte è
assolutamente condivisibile.
Non può, infatti, discutersi, anzitutto,
sulla natura permanente del reato di
violazione delle norme tecniche (v., da
ultimo, in senso conforme: Cass. pen., Sez.
3, n. 41617 del 02/10/2007, dep. 13/11/2007,
imp. I., in Ced Cass. 238008), peraltro
dovendosi precisare che, secondo la
Cassazione, la relativa consumazione perdura
fino al momento di cessazione dell'attività
vietata (v., sul punto, Cass. pen., Sez. U,
n. 17178 del 27/02/2002, dep. 08/05/2002,
imp. Cavallaro, in Ced Cass. 221398,
principio espresso con riferimento reato di
esecuzione, senza autorizzazione, di opere
in zona distante meno di trenta metri dal
demanio marittimo, c.d. fascia di rispetto,
previsto dagli artt. 55 e 1161 del codice
della navigazione).
Per quanto, poi, concerne, il reato di
esecuzione dei lavori in zona sismica senza
la direzione di un tecnico abilitato,
parimenti nessun dubbio può sussistere
quanto alla natura giuridica di reato
permanente della fattispecie penale in
questione.
Ed invero, nonostante la mancanza di
giurisprudenza di legittimità sul punto, la
Corte, ineccepibilmente, per la prima volta
pronunciandosi sulla questione, ne afferma
la natura permanente basandosi sulla
ratio legis sottesa all’art. 94, comma
4, T.U. edilizia, rivolta ad evitare che la
realizzazione di interventi edilizi venga
affidata a soggetti sprovvisti delle
necessarie competenze tecnico–scientifiche,
sicché “il reato perdura oltre l’inizio
della costruzione e per tutto lo svolgimento
dell’attività costruttiva” (commento
tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione,
Sez. III
penale,
sentenza 04.05.2011 n. 17217 -
link a www.lexambiente.it). |
AGGIORNAMENTO ALL'11.07.2011 |
ã |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: problematiche
applicative del d.lgs. 150/2009 negli enti
locali e accordo 04.02.2011
(CISL-FP di Bergamo,
nota 30.06.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il foglio dei lavoratori della
Funzione Pubblica
(CGIL-FP di Bergamo,
giugno 2011). |
UTILITA' |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Guida pratica per i
contratti pubblici di servizi e forniture (a
cura del Dipartimento per le Politiche di
Gestione e di Sviluppo delle Risorse Umane):
-
Vol. 3° - Il
contratto ed il contenzioso.
---------------
I primi due volumi sono stati qui pubblicati
lo scorso 17.01.2011 e precisamente:
-
Vol. 2° - L’evidenza pubblica;
-
Vol. 1° - Il mercato degli appalti
(N.B.: la stesura del volume è precedente
all’approvazione del Regolamento di
attuazione del Codice dei contratti da parte
del Consiglio dei Ministri il 18.06.2010. Il
testo pertanto sarà aggiornato a cura degli
autori nelle parti interessate dalle
disposizioni di dettaglio contenute nel
Regolamento). |
SICUREZZA LAVORO: Arrivano
le regole sulla valutazione del rumore in
edilizia: Circolare del Ministero del Lavoro.
L'art. 190 del D.Lgs. 81/2008 (Testo Unico
sulla Sicurezza) stabilisce che l'emissione
sonora delle attrezzature e delle macchine
di lavoro in campo edile può essere stimata
in fase di progetto facendo riferimento a
livelli di rumore standard, individuati da
studi e misurazioni attendibili.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali, con apposita Lettera Circolare, ha
approvato la nuova Banca dati CPT Torino, al
fine di rispondere alle richieste dell'art.
190.
Nella Lettera Circolare viene riportato il
documento “Aggiornamento della banca dati
del C.P.T. Di Torino”, che fornisce le
metodologie, le procedure e i riferimenti
alle norme di settore per la misurazione dei
livelli sonori e di potenza.
La Circolare contiene già alcune schede di
esempio della banca dati del CPT con
informazioni relative a tipologia, modello e
analisi in frequenza di alcune attrezzature
(07.07.2011 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA - LAVORI PUBBLICI: B.U.R.
Lombardia serie ordinaria n. 27 del
07.07.2011 "Approvazione del «Prezzario
dei lavori forestali» - Aggiornamento 2011"
(decreto D.S.
01.07.2011 n. 6061). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
07.07.2011 n. 155 "Disposizioni urgenti
per la stabilizzazione finanziaria"
(D.L. 06.07.2011 n. 98). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
Ancora sul Sistri: dualità, l’apparente
potenza del produttore, disposizioni
rilevanti, il sistema informatico e le
sanzioni (parte 2^ e 3^) (link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
Ancora sul Sistri: dualità, l’apparente
potenza del produttore, disposizioni
rilevanti, il sistema informatico e le
sanzioni (parte 1^) (link a
www.lexambiente.it). |
APPALTI SERVIZI:
V. Avaltroni,
L’assetto della disciplina del S.I.I.
(Servizio Idrico Integrato) dopo il
referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011 -
note d’approfondimento (link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Decreto Legge
13.05.2011, n. 70 - Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l'economia -
Analisi e commenti (06.06.2011
- tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Lavatelli,
Le
distanze tra i fabbricati e dai confini in
materia edilizia (nota 05.06.2010 -
tratto da www.cameramministrativacomo.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La questione della doppia conformità nella
sanatoria edilizia. Un falso problema?
(link a www.lexambiente.it). |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Servitù
di uso pubblico.
Domanda.
In
quali modi può costituirsi la servitù di uso
pubblico?
Risposta.
La servitù di uso pubblico può costituirsi
con un regolare atto negoziale di
costituzione da parte del proprietario del
terreno, ma anche mediante l'effettivo uso
pubblico dell'area di pertinenza stradale
per un tempo immemorabile e, comunque,
almeno pari ad un ventennio, oppure mediante
l'istituto della c.d. dicatio ad patriam.
Orbene, siffatto istituto, quale titolo
costitutivo di una servitù di uso pubblico,
consiste nel comportamento del proprietario
che, se pur non intenzionalmente diretto a
dar vita al diritto di uso pubblico, metta
volontariamente, con carattere di continuità
e non di precarietà e tolleranza, un proprio
bene a disposizione della collettività,
assoggettandolo al correlativo uso, che ne
perfeziona l'esistenza, senza che occorra un
congruo periodo di tempo o un atto negoziale
od ablatorio, al fine di soddisfare
un'esigenza comune ai membri di tale
collettività quali cittadini (07.07.2011 -
commento tratto da www.ipsoa.it). |
SICUREZZA LAVORO: Stress
lavoro-correlato. Qual è la data di
decorrenza dell'obbligo di valutazione del
rischio?
Domanda.
Per quanto attiene la cogenza dell'obbligo
di valutazione del rischio da stress lavoro
correlato: l'obbligo decorre a partire dal
31.12.2010 o entro quella data le aziende
devono aver concluso tale valutazione?
Risposta.
La
domanda trova la sua fondatezza nel clamore
suscitato da alcuni autorevoli commentatori
all'indomani della pubblicazione della
circolare del ministero del lavoro del
18.11.2010, contenente le indicazioni in
materia di stress lavoro-correlato definite
dalla Commissione consultiva permanente di
cui all'art. 6 del D.Lgs. n. 81/2008.
Nell'ultimo paragrafo della Circolare in
questione, intitolato "Disposizioni
transitorie e finali", si legge infatti:
"La data del 31.12.2010, di decorrenza
dell'obbligo previsto dall'articolo 28,
comma 1-bis, del d.lgs. n. 81/2008, deve
essere intesa come data di avvio delle
attività di valutazione ai sensi delle
presenti indicazioni metodologiche".
Il testo è sufficientemente chiaro nel
definire il 31/12/2010 come data di partenza
e non di scadenza, ma alcuni autorevoli
interpreti della norma hanno tuttavia
obiettato che la circolare in questione non
avrebbe alcun potere di modificare la
scadenza dell'obbligo di valutazione che il
legislatore aveva fissato, ai sensi
dell'articolo 28, comma 1-bis, del D.Lgs. n.
81/2008, al 31.12.2010 (termine al quale si
era giunto dopo un paio di modifiche alla
norma ad opera di successivi decreti).
Si ritiene, tuttavia, di non poter
concordare con tali, pur autorevoli,
commentatori.
Difatti, il testo dell'articolo 28, comma
1-bis, recita:
"La valutazione dello stress
lavoro-correlato di cui al comma 1 è
effettuata nel rispetto delle indicazioni di
cui all'articolo 6, comma 8, lett. 4-quater)
e il relativo obbligo decorre dalla
elaborazione delle predette indicazioni e
comunque, anche in difetto di tale
elaborazione a far data dall'01.08.2010 (NdA:
termine, come si è detto, prorogato al
31.12.2010)".
Dunque, come si può leggere chiaramente, il
legislatore ha demandato alle indicazioni
della commissione consultiva permanente la
definizione delle modalità con le quali
procedere alla valutazione del rischio da
stress lavoro-correlato ("è effettuata
nel rispetto...") le quali, nel fissare
la data del 31.12.2010 quale data di avvio
delle attività di valutazione, hanno fornito
un'indicazione sufficientemente chiara alla
quale Organi di vigilanza ed aziende debbono
attenersi (06.07.2011 - commento tratto da
www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione in sanatoria nella
fascia di rispetto di mt. 10 dei corsi
d'acqua.
Secondo quanto enunciato nella richiesta di
parere del Comune XXX, i termini della
questione sono i seguenti:
= in data 23.02.2004 è stato rilasciato un
permesso di costruire (n. 543/2004) avente
ad oggetto l’intervento di ristrutturazione
edilizia di un fabbricato ad uso civile
abitazione;
= iniziati i lavori, a causa delle
condizioni dell’immobile, la costruzione è
pressoché integralmente crollata;
= la proprietà ha proceduto nei lavori di
ristrutturazione, ormai concretatisi nella
sostanziale ricostruzione dell’immobile,
senza acquisire dal Comune un titolo
abilitativo edilizio che approvasse i lavori
predetti, divenuti diversi da quelli
originariamente assentiti;
= tali lavori, con ordinanza del 09.10.2004,
sono stati conseguentemente sospesi;
= la proprietà ha quindi presentato al
Comune domanda di rilascio di permesso di
costruire in sanatoria;
= l’immobile ricade in area sottoposta a
vincolo paesaggistico, ai sensi del D.Lvo
42/2004; il 05.04.2007 è stata accertata e
dichiarata la compatibilità paesaggistica
dell’intervento, così come previsto
dall’articolo 167 del citato decreto;
= il fabbricato risulta però ricadere anche
all’interno della fascia di rispetto di cui
al R.D. 523/1904, essendo posto a ridosso di
un corso d’acqua denominato Rio XXX.
In relazione a quest’ultimo dato, viene
richiesto se sia legittimo rilasciare il
permesso di costruire in sanatoria, stante
il fatto che la ricostruzione del fabbricato
non rispetta la distanza prevista
dall’articolo 96, lettera f), del citato
regio decreto.
In termini ancora più espliciti, il dubbio
che si pone è se alla luce dell’intervenuto
crollo del fabbricato si possa procedere
alla riedificazione sul medesimo sedime, e
quindi ad una distanza dall’argine del corso
d’acqua inferiore a quella prevista dalla
legge, o se –invece- la costruzione debba
essere arretrata a dieci metri dall’argine
stesso
(Regione
Piemonte,
parere n. 107/2007 - link a
www.regione.piemonte.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contrattazione, caccia ai fondi.
Ma sull'individuazione delle fonti la Corte
conti si spacca. Dal Veneto e dalla Liguria
due deliberazioni sulla valenza del tetto
massimo di spesa.
La Corte dei conti si spacca. Per
l'individuazione di eventuali fonti di
finanziamento della parte variabile dei
fondi della contrattazione decentrata
sottratti al rispetto del tetto massimo di
spesa dell'anno 2010, la magistratura
contabile fornisce interpretazioni
diametralmente opposte, che stanno finendo
per sconcertare gli operatori.
Il problema,
per gli enti locali, riguarda l'applicazione
dell'articolo 15, comma 1, lettera k) del Ccnl
01.04.1999 che consente di finanziare la
parte variabile del fondo destinato alla
produttività con “le risorse che specifiche
disposizioni di legge finalizzano alla
incentivazione di prestazioni o di risultati
del personale”. Tra queste rientrano
gli
incentivi per la progettazione di opere
pubbliche e di piani urbanistici,
l'incentivo al recupero dell'evasione
dell'Ici, gli incentivi per le attività del
condono edilizio, le spese di giudizio
rimborsate agli enti per le vertenze
vittoriosamente condotte dai propri legali.
C'è da ricordare che proprio la Corte dei
conti, Sezione Autonomie, con la delibera
16/2009 ha espressamente ritenuto di non
doversi considerare tra le spese di
personale oltre agli incentivi per la
progettazione ed il recupero dell'Ici, anche
i diritti di rogito spettanti al segretario
comunale.
Una prima posizione restrittiva è
stata espressa dalla Corte conti Sezione
regionale di controllo del Veneto con il
parere 03.05.2011 n. 285.
La
Sezione ha ritenuto che le voci di
finanziamento viste prima debbano essere
necessariamente computate nel fondo delle
risorse decentrate, così da garantire che
esso non superi mai il tetto del 2010. Per
estrema esemplificazione, ponendo che nel
2010 un fondo complessivo di 1.000.000 fosse
composto per 400.000 euro da risorse
variabili, delle quali 200.000 derivanti
dagli incentivi di cui all'articolo 15,
comma 1, lettera k), poiché nel 2011 il
fondo non potrà mai essere superiore ad
1.000.000 le risorse per incentivi previsti
da specifiche norme di legge non potrebbero
mai superare i 200.000 euro del 2010 o, se
lo facessero, eroderebbero i restanti
200.000 euro di parte variabile. E questo
nonostante nel 2011 le opere pubbliche
fossero in numero e di importo maggiore
rispetto all'anno precedente, oppure
l'ufficio legale vincesse molte più cause o
l'ufficio tributi recuperasse il doppio
dell'Ici rispetto ad un anno prima.
Posizione diametralmente opposta ha espresso
la Sezione regionale di controllo della
Liguria, con il
parere
16.05.2011 n.
16.
In merito alle incentivazioni per i
progettisti e gli avvocati, il parere
afferma: “un'interpretazione
irragionevolmente restrittiva finirebbe,
astrattamente, per essere contraria
all'intento del Legislatore che, favorendo
il ricorso a professionisti interni, intende
perseguire l'uso ottimale delle risorse
secondo canoni di efficienza, efficacia ed
economicità, anche alla luce dei principi
ispiratori del D. Lgs.vo 27.10.2009 n. 150
(c.d. Riforma Brunetta)”.
Il parere della Sezione Veneto appare
preoccupato di dare effettività alla volontà
del legislatore di contenere le spese di
personale. Quello della Sezione Liguria
allarga lo sguardo e non pone ostacoli
all'applicazione anche in aumento
dell'articolo 15, comma 1, lettera k),
indicando, condivisibilmente, che esso
consente di ottenere risparmi di spesa
corrente anche più consistenti.
Intanto le Linee guida e relativi
questionari per gli Organi di revisione
economico-finanziaria ai fini del bilancio
di previsione 2011 della Corte conti
sottraggono espressamente dal complesso
delle spese i diritti di rogito e gli
incentivi per la progettazione (mancano
riferimenti ad altre tipologie di incentivi:
recupero Ici, condono e attività di legali)
(articolo ItaliaOggi
dell'08.07.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI: Determinazione
dell'Authority contratti pubblici. Non
sfuggono i servizi d'ingegneria.
Tracciabilità dei flussi alleggerita.
Esclusi concessionari di finanziamenti
pubblici e sanità.
Esclusi dalla
tracciabilità dei flussi finanziari i
concessionari di finanziamenti pubblici,
anche europei, i patrocini legali, le
prestazioni socio-sanitarie e di ricovero
rese in regime di accreditamento; confermata
la tracciabilità per i servizi di ingegneria
e architettura; precisazioni e chiarimenti
sul concetto di «filiera delle imprese».
È quanto prevede la nuova e articolata
determinazione 07.07.2011 n. 4
emessa dall'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici che contiene le linee
guida sulla tracciabilità dei flussi
finanziari degli appalti e contratti
pubblici e riprende i contenuti delle due
precedenti determinazioni (la 8/2010 e la
10/2010) con alcuni chiarimenti ulteriori
dettati da questi mesi di applicazione della
nuova normativa entrata in vigore il
07.09.2010 e successivamente modificata dal
decreto legge 187/2010.
La determina, per la maggiore parte dei suoi
contenuti, riprende le due precedenti ma
introduce alcuni chiarimenti di rilievo.
Per quanto riguarda, ad esempio, la
cosiddetta «filiera delle imprese»,
cioè i soggetti tenuti agli obblighi di
tracciabilità (fra cui quello di utilizzo
dei conti dedicati e di richiesta del Cig,
Codice identificativo gare), appare di
interesse la precisazione in ordine alle
forniture, ove si precisa che «l'ultimo
rapporto contrattuale rilevante dovrebbe
essere quello relativo alla realizzazione
del bene oggetto della fornitura principale
con esclusione dalla filiera di tutte le
sub-forniture destinate a realizzare il
prodotto finito» (componentistica,
materie prime necessarie per lo svolgimento
dell'attività principale).
Si chiarisce inoltre che sono esclusi i
contratti «finalizzati all'acquisto di
beni che confluiscono nelle scorte di
magazzino dell'operatore economico se i
contratti precedono l'affidamento della
commessa pubblica e prescindono da
quest'ultima», mancando in questo caso
l'elemento della dipendenza economica. Era
un punto particolarmente delicato,
nell'interpretazione della normativa, quello
concernente i concessionari di finanziamenti
pubblici anche europei interessati a lavori,
forniture e servizi.
La determina opta per l'esclusione della
normativa per questi casi dal momento che,
si legge nella determina, essi «non
risultano immediatamente riconducibili alla
prestazione di forniture, servizi o lavori
pubblici strettamente intesi»; in
sostanza ad avviso dell'Autorità manca una
correlazione diretta con l'esecuzione di
tali tipologie contrattuali. Se invece i
soggetti beneficiari dei finanziamenti
pubblici siano «a qualsiasi titolo
interessati ai lavori, forniture e servizi»,
rientreranno nell'ambito di applicazione
della norma.
La determina prevede inoltre l'esclusione
dagli obblighi della legge 136 per il
patrocinio legale, inquadrabile nella
prestazione d'opera professionale e non
nell'appalto; ugualmente esclusi dalla
normativa vengono ritenute anche le
prestazioni socio-sanitarie e di ricovero
erogate da soggetti privati in regime di
accreditamento, dal momento che «la
peculiarità della disciplina non consente di
ricondurre agevolmente tali fattispecie al
contratto di appalto». Confermata invece
la tracciabilità per tutti i soggetti che
rendono servizi di ingegneria e architettura
(professionisti, studi associati, società di
ingegneria e di professionisti, consorzi
stabili).
Vengono ritenute escluse dalla normativa
sulla tracciabilità i contratti con i
fornitori esteri, anche in considerazione
del diniego dell'operatore straniero
all'accettazione delle clausole di
tracciabilità, anche per gli appalti «a
valle». Mancando un accordo con lo stato
straniero, il principio di territorialità
esclude che l'operatore straniero possa
essere assoggettato.
Altre importanti novità riguardano gli
appalti per i buoni pasto ed i contratti
stipulati dalle stazioni appaltanti con le
agenzie di viaggio, e poi le carte
carburante, i servizi legali, il pagamento
delle utenze da parte delle pubbliche
amministrazioni, le cessioni dei crediti e
le spese giudiziarie
(articolo ItaliaOggi
del 09.07.2011). |
APPALTI:
Appalti e contratti, istruzioni
per l'uso. Parere dell'autorità di
vigilanza.
In un appalto la
stazione appaltante non può imporre alle
cooperative l'applicazione di contratti
collettivi nazionali di lavoro di altre
categorie.
È quanto afferma (in un
parere sulla normativa 06.07.2011 n. AG
15-2011) l'Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, di cui è
stato relatore il Consigliere Giuseppe
Borgia, che segue l'istanza di
Confcooperative in merito alla legittimità
di clausole che impongono agli operatori
economici, ai fini dell'ammissione alla
gara, l'applicazione di specifici contratti
collettivi nazionali di lavoro,
indipendentemente dalla natura e dal settore
contrattuale di appartenenza.
Il problema si poneva in ragione della
facoltà, riconosciuta anche dalla
giurisprudenza amministrativa, di prevedere
requisiti anche più restrittivi rispetto a
quelli previsti dalla legge (ancorché con il
limite della ragionevolezza e
proporzionalità).
Nello specifico, quindi, all'organismo di
vigilanza presieduto da Giuseppe Brienza, si
chiedeva di chiarire se l'applicazione a una
cooperativa di un diverso contratto
collettivo potesse risultare legittima.
Il caso posto all'attenzione dell'Autorità
da Confcooperative era peculiare perché
riguardava contratti collettivi che si
distinguono, non perché attinenti ad
attività diverse da quelle oggetto della
gara (come in tutti i casi esaminati dalla
giurisprudenza), ma perché rientranti in un
comparto diverso di contrattazione
collettiva che si qualifica per la
particolare natura giuridica –impresa avente
scopo mutualistico– dei soggetti coinvolti.
Secondo la giurisprudenza del lavoro, osta
all'imposizione (anche indiretta)
dell'applicazione di differenti contratti
collettivi una ragione di rilievo
costituzionale quale la non efficacia
erga omnes (ma inter partes) dei
contratti collettivi di lavoro (per effetto
della mancata attuazione dell'art. 39 della
Costituzione) i quali, data la loro natura
privatistica, vincolano solo gli iscritti
alle associazioni sindacali stipulanti.
L'Autorità ha quindi sottolineato che le
società cooperative rientrano tra gli
operatori economici partecipanti alle gare
di appalto, e che ad esse si applicano i
contratti collettivi del comparto delle
imprese aventi scopo mutualistico. Ha,
quindi, ritenuto che risulterebbero
sproporzionate e discriminatorie clausole
che impongano a tali società l'adesione a
contratti collettivi di altre categorie
(articolo ItaliaOggi del 07.07.2011 - link a
www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI SERVIZI: Società in
house frenate.
Affidamenti diretti limitati. E un solo
servizio. Il chiarimento giunge
dall'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici.
Una società in house di un comune non può
essere affidataria diretta di lavori, se non
entro i ristretti limiti previsti per i
lavori in economia e, comunque, entro i 100
mila euro; se la società in house ha in
affidamento anche il servizio farmaceutico,
non può svolgere altre attività.
È quanto
afferma l'Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici nella
deliberazione
18.05.2011 n. 51, resa nota in questi
giorni.
Il caso prendeva le mosse da una richiesta
di parere inviata da un comune in ordine
alla legittimità dell'affidamento in via
diretta di lavori a una società in house da
esso costituita che ha, in via generale, ma
non esclusiva, il compito statutario di
provvedere alla gestione del patrimonio
immobiliare del comune. La società,
partecipata al 100% dal comune, nel 2007
aveva acquisito i rami di azienda di due
imprese operanti nel settore edile e, con
essi, le relative attestazioni Soa per
progettazione e costruzione in diverse
categorie OG.
La peculiarità del caso
esaminato dall'organismo di vigilanza
risiedeva nel fatto che alla società il
comune aveva affidato negli anni una
pluralità di attività disomogenee,
inquadrabili sia nella categoria dei servizi
pubblici di rilevanza economica (farmacia,
gestione impianti sportivi, servizio idrico,
igiene urbana, pubblica illuminazione), sia
in quella dei servizi strumentali alla
pubblica amministrazione (manutenzione
immobili e strade, gestione del verde
pubblico).
Un primo elemento che l'Autorità
ritiene particolarmente critico attiene
all'affidamento alla società dell'esercizio
del servizio farmaceutico, anche perché sul
punto si era già espressa la Corte dei
conti, escludendo la possibilità che un
comune potesse procedere alla costituzione
di società che, unitamente alla gestione di
farmacia comunale, svolgesse un'altra
attività di natura del tutto diversa e non
finalizzata alla tutela della salute.
Peraltro, secondo l'Autorità, la
connotazione commerciale del servizio
farmaceutico e, più in generale, della
gestione societaria, può compromettere
irrimediabilmente anche la sussistenza del
requisito del «controllo analogo»,
presupposto indispensabile per ritenere
legittimo l'affidamento in via diretta a
società in house.
Venendo invece al profilo
dello svolgimento di lavori tramite società
in house, l'Autorità si esprime in senso
negativo, evidenziando che «è da escludersi
la praticabilità dello schema dell'in house providing nel settore dei lavori, in quanto
come rilevato anche dalla giurisprudenza,
non si rinvengono nell'ordinamento norme che
ne legittimino l'utilizzo».
Per l'organismo
di vigilanza, quindi, l'istituto dell'in
house providing concerne, infatti,
l'autoproduzione di beni e servizi da parte
delle pubbliche amministrazioni in deroga ai
principi generali che prevedono il ricorso
al mercato attraverso procedure di evidenza
pubblica ed è pertanto insuscettibile di
applicazione estensiva. Rimane soltanto la
possibilità per le società in house di
realizzare in affidamento diretto lavori di
importo contenuto eseguibili in economia,
ove ricorrano le condizioni già indicate
nella deliberazione n. 109 del 05/04/2007.
Infine, l'Autorità ricorda che per gli
affidamenti di servizi pubblici di rilevanza
economica, con l'ultima riforma del settore
il legislatore ha previsto che la relativa
gestione avvenga in via ordinaria attraverso
il conferimento a favore di imprenditori o
di società private, oppure a società a
partecipazione mista pubblica e privata; la
gestione «in house» è, invece,
consentita soltanto in deroga «per
situazioni eccezionali» e previo parere
dell'Autorità garante della concorrenza e
del mercato
(articolo ItaliaOggi
dell'08.07.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
NEWS |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Manovra correttiva/ Non c'è alcun blocco delle
assunzioni per gli enti locali.
Scatta invece lo stop alla contrattazione
collettiva.
Non vi è alcun blocco delle assunzioni per
gli enti locali; anche per il personale
delle regioni, dei comuni e delle province
potranno invece scattare il blocco della
contrattazione collettiva per l'anno 2014 e
il prolungamento per tale anno anche del
tetto al trattamento economico individuale.
E ancora, le amministrazioni sono impegnate
ad adottare piani di razionalizzazione e una
parte dei risparmi potrà essere destinata al
finanziamento della contrattazione
decentrata integrativa; diventa più
flessibile il vincolo a disporre visite
fiscali nei confronti dei dipendenti assenti
per malattia per un solo giorno; si estende
a quello delle società l'ambito di
applicazione della spesa del personale.
Possono essere così riassunte le principali
disposizioni dettate dal decreto legge 98
del 2011 che contiene la manovra correttiva,
in tema di pubblico impiego.
La possibilità di introdurre con decreto del
ministro dell'economia da emanare di
concerto con quello della pubblica
amministrazione misure di blocco delle
assunzioni è dettata espressamente per le
amministrazioni statali e inoltre si parla
di una proroga delle disposizioni
attualmente in vigore in questa materia,
mentre per le amministrazioni regionali e
locali i vincoli alle assunzioni non hanno
carattere provvisorio, ma costituiscono una
norma a regime.
Allo stesso decreto è rinviata la
possibilità di prorogare per tutto il 2014 i
tetti attualmente in vigore in materia di
trattamento economico individuale, nonché la
disciplina della indennità di vacanza
contrattuale per il triennio 2015/2017. La
disposizione si applica, espressamente, a
tutte le pubbliche amministrazioni. Essa
ipotizza quindi la possibilità che il regime
di blocco della contrattazione collettiva
previsto dal dl n. 78/2010 per il triennio
2010/2012 sia esteso anche al 2014; tale
blocco può avere anche un carattere
selettivo, escludere cioè amministrazioni
e/o comparti virtuosi. Si rinvia a questo
provvedimento la definizione della misura
della indennità di vacanza contrattuale per
il triennio 2015/2017. Da sottolineare che
questo provvedimento dovrà anche
disciplinare la possibilità di prolungare a
tutto il 2014 il tetto al trattamento
economico individuale, tetto che il dl n.
78/2010 impone per il triennio 2011/2013.
Con lo stesso provvedimento dovranno inoltre
essere rafforzate e snellite le disposizioni
che impongono a tutte le pubbliche
amministrazioni, prima della indizione di
concorsi pubblici, il ricorso alla mobilità
individuale (articolo 30 dlgs n. 165/2001).
E inoltre si potranno dettare regole più
stringenti e di immediata attuazione per le
regioni e gli enti locali dei vincoli
dettati dall'articolo 6 del dl n. 78/2010,
cioè i vincoli alle consulenze, alle
sponsorizzazioni, alla spesa per pubblicità,
a quella per la formazione ecc.
Da sottolineare il rilievo che assume il
vincolo rivolto a tutte le pubbliche
amministrazioni di dettare, entro il 31
marzo di ogni anno, dei piani di
«razionalizzazione e riqualificazione della
spesa, di riordino e ristrutturazione
amministrativa, di semplificazione e
digitalizzazione, di riduzione dei costi
della politica e di funzionamento, ivi
compresi gli appalti di servizio, gli
affidamenti alle partecipate e il ricorso
alle consulenze attraverso persone
giuridiche». Nonché la possibilità di
destinare fino alla metà di tali risparmi al
finanziamento della contrattazione
integrativa, con almeno la metà di tali
risorse che deve essere finalizzato alla
incentivazione della performance.
Assai importanti sono anche le disposizioni
che impongono di recuperare le spese
aggiuntive determinate da eventuali
provvedimenti giurisdizionali, con
l'eccezione delle sentenze della Corte
Costituzionale. E ancora la retroattività
delle sentenze della Consulta che dispongono
l'annullamento di norme di stabilizzazione,
con conseguente nullità dei relativi
provvedimenti e obbligo per i dirigenti di
recupero.
Le amministrazioni dispongono le visite
fiscali tenendo conto dei seguenti tre
fattori: la condotta complessiva del
dipendente, gli oneri connessi e l'esigenza
di contrastare e prevenire l'assenteismo.
Per cui la visita fiscale non è più un
obbligo dal primo giorno, salvo quando
l'assenza sia collegata a un giorno non
lavorativo. Dell'eventuale assenza dal
domicilio durante le fasce di reperibilità,
la cui durata è fissata dal ministro della
pubblica amministrazione, bisogna dare
preventiva comunicazione all'ente e la
relativa giustificazione può essere
costituita anche dalla effettuazione di
analisi cliniche, visite mediche ecc..
La spesa del personale comprende anche
quelle sostenute dalle società cosiddette
in house, nonché a quelle che svolgono
funzioni «volte a soddisfare esigenze di
interesse generale» e inoltre a quelle «che
svolgono attività nei confronti della
pubblica amministrazione a supporto di
funzioni amministrative di natura
pubblicistica». In tal modo si vuole
precludere ogni possibilità di aggiramento
del tetto alla spesa di personale
(articolo ItaliaOggi dell'08.07.2011). |
EDILIZIA PRIVATA: Appalti,
unica regia. Ecco la stazione su base
regionale. Firmato il decreto. E le p.a.
locali sosterranno i costi.
Al via la stazione unica
appaltante, su base regionale, cui potranno
fare riferimento le amministrazioni statali,
le regioni e gli enti locali come centrale
di committenza per l'affidamento di appalti
di lavori, forniture e servizi; alla
stazione unica appaltante (SUA) gli enti
rimborseranno i costi sostenuti e il
rapporto fra l'ente e la SUA sarà definito
da apposita convenzione.
È quanto prevede
il
dpcm firmato dal presidente del consiglio
dei ministri e dai ministri Maroni,
Alfano, Romani, Matteoli, Sacconi, Fitto e
Brunetta sulla stazione unica appaltante
previsto dall'art. 13 della legge
13.08.2010, n. 136 (Piano straordinario
contro le mafie approvato dal consiglio dei
ministri il 28.01.2010).
Il decreto è finalizzato a promuovere
l'istituzione in ambito regionale di una o
più stazioni uniche appaltanti con
l'obiettivo di rendere più penetrante
l'attività di prevenzione e contrasto ai
tentativi di condizionamento della
criminalità mafiosa, favorendo la celerità
delle procedure, l'ottimizzazione delle
risorse e il rispetto della normativa in
materia di sicurezza sul lavoro.
Il ricorso alla stazione unica appaltante
(una o più su base regionale) non
rappresenterà un obbligo per le
amministrazioni ma una facoltà; potranno
aderire alla SUA lo stato, le regioni, gli
enti pubblici territoriali, gli altri enti
pubblici non economici, gli organismi di
diritto pubblico, le associazioni, unioni e
concorsi di enti pubblici, le imprese
pubbliche e i soggetti che operano in virtù
di un diritto speciale o di esclusiva.
Nello svolgimento della funzione di centrale
di committenza (che in base al Codice dei
contratti pubblici si esplica
nell'acquisizione di forniture, lavori e
servizi destinati ad altre amministrazioni e
nell'aggiudicazione di appalti o nella
conclusione di accordi quadro) rientra in
generale l'attività di «gestione della
procedura di gara», ma anche la
collaborazione con l'ente che ha aderito
alla SUA per la messa a punto dello schema
di contratto, la scelta della procedura di
gara, la predisposizione dei capitolati
speciali e generali, l'applicazione dei
criteri di valutazione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, quale
criterio di aggiudicazione utilizzare e per
predisporre tutti gli atti di gara (bando,
disciplinare e lettere di invito).
La SUA dovrà inoltre prendersi carico dello
svolgimento della procedura di gara, curando
anche la fase di pubblicità e le
comunicazioni agli interessati, oltre a
effettuare anche le verifiche in ordine al
possesso dei requisiti di partecipazione;
sempre alla SUA spetta il compito di
nominare la commissione giudicatrice (in
caso di aggiudicazione con offerta
economicamente più vantaggiosa), curare gli
eventuali contenziosi e infine collaborare
con l'ente per la stipula del contratto.
Il decreto definisce i contenuti essenziali
della convenzione facendo particolare
riferimento, all'ambito di applicazione
della convenzione (cioè la o le procedure
interessate), ai profili attinenti il
rimborso dei costi sostenuti della SUA, alla
suddivisione degli oneri relativi ai
contenziosi, all'obbligo di trasmissione, da
parte dell'ente aderente, alla SUA e alla
prefettura, dei contratti stipulati e delle
varianti intervenute nel corso
dell'esecuzione dei contratti.
Per quel che riguarda le forme di
monitoraggio e di controllo sugli appalti il
dpcm prevede un serrato collegamento fra
prefetture, soggetto cui dovranno affluire
tutte le informazioni e i dati utili alla
prevenzione delle infiltrazioni della
criminalità organizzata, e SUA, alla quale
le prefetture metteranno a disposizione le
informazioni sulle imprese partecipanti alla
gara.
Chi aderisce alla SUA potrà invece delegare
la verifica dei progetti e l'esame delle
varianti al provveditorato interregionale
per le opere pubbliche. L'ente interessato
ad avvalersi della SUA dovrà stipulare una
convenzione per disciplinare la
collaborazione
(articolo ItaliaOggi
del 05.07.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI:
Ricorsi appalti, contributo
unificato doppio.
Ritocco all'aumento del
contributo unificato per i ricorsi sugli
appalti: è (solo) raddoppiato. Per tutte le
controversie, a prescindere dal valore.
Questa la versione della manovra Tremonti
nel testo inviato al Quirinale, che non
contiene la novella alla legge Pinto
sull'indennizzo per processi troppo lunghi e
neppure la sospensione dei processi agli
irreperibili. Anche se spunta una
sospensione d'ufficio delle sentenze civili
esecutive, dietro pagamento di cauzione.
Sul contributo unificato il testo della
manovra, nell'ultima versione, prevede che
per i ricorsi sugli appalti (articolo 119,
comma 1, lettere a) e b) del codice del
processo amministrativo, dlgs 104/2010), il
contributo dovuto è di 4 mila euro. Si
tratta del raddoppio rispetto all'importo
attualmente dovuto, pari a 2 mila euro.
Insomma un incremento deciso, anche se di
importo più basso rispetto a una versione
antecedente del decreto-legge.
Scorrendo i testi precedenti si trovava,
infatti, un incremento progressivo per fasce
di valore: si prevedeva il contributo dovuto
di 3 mila euro per le controversie è pari o
inferiore ad euro 200 mila; di euro 4 mila
per quelle di importo compreso tra 200 mila
euro e un milione; di euro 5 mila per le
controversie di valore superiore a un
milione.
Peraltro il risultato finale non dovrebbe
pesare sulla finanza pubblica, considerato
che l'aumento a 4 mila euro si applica anche
alle controversie per cui si prevedeva solo
un aumento a 3 mila euro.
Il risultato peserà di certo sulle spalle di
chi vuole difendersi in giudizio; anche le
pubbliche amministrazioni dovranno fare
molta attenzione al contenzioso. Una
eventuale soccombenza comporterà un
potenziale rimborso di somme molto alte:
anche il solo rimborso del contributo
unificato può raggiungere cifre salate: si
pensi al rimborso del contributo pagato per
il ricorso e per un successivo atto di
motivi aggiunti e la restituzione tocca già
8 mila euro.
La manovra contiene, infine, due novità per
il codice di procedura civile e, in
particolare, per il regime della sospensione
delle sentenze esecutive nella pendenza di
giudizi di impugnazione. Con una aggiunta
all'articolo 283 del codice di procedura
civile si prevede che la sospensione
dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione
della sentenza di primo grado è in ogni caso
concessa per condanne di ammontare superiore
a dieci milioni di euro se la parte che ne
fa istanza presta idonea cauzione.
Allo stesso modo all'articolo 373 si prevede
che la sospensione della sentenza impugnata
in cassazione è in ogni caso concessa per
condanne di ammontare superiore a venti
milioni di euro dietro idonea cauzione
(articolo ItaliaOggi
del 05.07.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni private avanti
tutta. Silenzio-assenso sul rilascio dei permessi.
Estesa la Scia. Gli interventi nel settore
dell'edilizia contenuti nel dl sviluppo,
ispirati alla sburocratizzazione.
Silenzio-assenso sui permessi di costruire,
definitivo sdoganamento della Scia in
edilizia e piano città. Sono i tre punti
dell'intervento nel comparto dell'edilizia
privata del decreto sviluppo, tutti ispirati
alla sburocratizzazione delle procedure
amministrative e a consentire una
edificazione più libera e incentivata.
Con il silenzio-assenso si avrà certezza sui
tempi di conclusione del procedimento per
ottenere il titolo abilitativo (ma si
scarica la responsabilità dell'istruttoria
sul progettista privato e si rischiano
contestazioni su un titolo, che non è
documentale). Con la Scia in edilizia si
potranno realizzare subito gli interventi
minori. Con il piano città, infine, si cerca
di dare al settore quell'impulso che non è
arrivato dai famosi «piani casa» con premi
di cubatura, permessi in deroga ai piani
regolatori e applicabilità della legge
statale in mancanza di adeguamento da parte
delle regioni.
In dettaglio, in materia di permessi, il
procedimento cambia per il progettista di
fiducia del privato o dell'impresa che vuole
edificare una nuova costruzione. Il
professionista avrà maggiori oneri: deve
integrare la documentazione da allegare alla
domanda per il rilascio del permesso con una
sua dichiarazione che asseveri la conformità
del progetto non solo agli strumenti
urbanistici e ai regolamenti edilizi, ma
anche alle altre normative di settore (norme
antisismiche, di sicurezza, antincendio,
igienico-sanitarie e quelle sull'efficienza
energetica). Si tratta di una asseverazione
sottoscritta a pena di responsabilità penali
e disciplinari.
Il decreto, a questo proposito, prevede la
sanzione penale della reclusione da uno a
tre anni per false dichiarazioni o
attestazioni oltre la segnalazione al
competente ordine professionale per
l'irrogazione delle sanzioni disciplinari.
Cambiano, poi, i tempi del procedimento e le
prerogative degli uffici tecnici comunali.
Innanzi tutto è esteso da 15 a 30 giorni,
decorrenti dalla presentazione della
domanda, il periodo in cui il responsabile
del procedimento può interrompere il termine
entro il quale è tenuto a formulare la
proposta di provvedimento, esclusivamente
allo scopo di richiedere documenti
integrativi.
Medesima estensione da 15 a 30 giorni,
decorrenti dalla proposta di provvedimento o
dall'esito della conferenza di servizi, è
prevista per il termine entro il quale deve
essere adottato il provvedimento finale da
parte del responsabile del procedimento.
Tale termine può arrivare a 40 giorni nel
caso il responsabile del procedimento abbia
comunicato al richiedente i motivi che
ostano all'accoglimento della domanda.
Tenuto conto dei termini intermedi il
termine per l'adozione del provvedimento
conclusivo è di 90 giorni per i centri
urbani con meno di 100 mila abitanti e di
150 giorni per i comuni con oltre 100 mila
abitanti o per i progetti particolarmente
complessi, sempreché l'amministrazione non
richieda delle integrazioni documentali.
Ma la novità più importante è l'introduzione
del silenzio-assenso al posto del
silenzio-rifiuto, sulla domanda di rilascio
del permesso di costruire qualora sia
decorso inutilmente il termine per
l'adozione del provvedimento conclusivo e il
dirigente o il responsabile dell'ufficio non
abbiano opposto motivato diniego.
Se non viene adottato un provvedimento di
diniego, il permesso si intende tacitamente
rilasciato. Tranne alcuni casi: e cioè i
casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali. È mantenuto il
silenzio-rifiuto per gli immobili sottoposti
a un vincolo la cui tutela compete
all'amministrazione comunale o ad altro
soggetto preposto alla tutela, qualora
manchi l'assenso di tali soggetti.
Il decreto sviluppo, poi, prolunga, da 60 a
75 giorni, decorrenti dalla data di
presentazione della domanda, il termine per
il rilascio del permesso di costruire quando
esso sia stato richiesto in alternativa alla
Dia (e cioè per gli interventi edilizi
minori) e fa salve le norme regionali che
prevedono misure di ulteriore
semplificazione e riduzioni di termini
procedimentali.
---------------
Sanzioni,
tolleranza del 2% sugli abusi
Nessuna demolizione se l'abuso edilizio è
mantenuto nel limite del 2% rispetto al
progetto originario. Con un comma aggiunto
all'articolo 34 del Testo unico per
l'edilizia (dpr 380/2001), che regola gli
interventi eseguiti in parziale difformità
dal permesso di costruire, il decreto
sviluppo stabilisce che vengono considerati
non parzialmente difformi dal titolo
abilitativo edilizio le violazioni di
altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta fino al 2% delle misure progettuali
per singola unità immobiliare. L'inserimento
della percentuale del 2% consente, pertanto,
a questo tipo di violazioni la non
applicazione delle sanzioni più gravi, quali
la rimozione o la demolizione a cura e a
spese dei responsabili degli abusi.
--------------
Resta
invariata la disciplina della SuperDia.
La disciplina della Scia (Segnalazione
certificata di inizio attività) è
applicabile anche alla Dia in edilizia, a
esclusione della Dia alternativa o
sostitutiva del permesso di costruire.
Quindi la Scia non può sostituire la
SuperDia (prevista per gli interventi
edilizi di nuova costruzione o comunque
maggiori).
La Scia è diversa dalla Dia perché con la
prima i lavori si possono iniziare subito,
mentre con la seconda i lavori devono
iniziare dopo 30 giorni (per dar tempo
all'ufficio tecnico di verificare la
conformità dei progetti). Quindi poter usare
la Scia costituisce una indubitabile
semplificazione. Il decreto sviluppo
interviene, dunque, con una norma di
interpretazione autentica, che precisa in
modo definitivo la sostituzione della Dia
con la Scia anche in edilizia. Con
esclusione, però, dei casi in cui la Dia, in
base alla normativa statale o regionale, sia
alternativa o sostitutiva del permesso di
costruire.
Inoltre le disposizioni sulla Scia in
edilizia, chiarisce il decreto, si
interpretano nel senso che non sostituiscono
le leggi regionali che hanno ampliato
l'ambito applicativo della Dia alternativa
al permesso di costruire (la SuperDia). E la
Scia non sostituisce neanche le
autorizzazioni o i nulla osta che devono
comunque essere rilasciati in presenza di
vincoli ambientali, paesaggistici o
culturali. Nel caso di immobili vincolati,
la Scia può operare, ma solo una volta
acquisito l'assenso dell'ente competente
alla relativa tutela. Il decreto sviluppo,
inoltre, aggiunge ai casi già previsti di
esclusione dall'applicabilità della Scia
anche quelli relativi alla normativa
antisismica.
Circa le modalità di presentazione, la Scia
deve essere sempre corredata dalle
dichiarazioni, attestazioni e asseverazioni
nonché dai relativi elaborati tecnici, ma
può essere presentata a mezzo posta con
raccomandata con avviso di ricevimento e, in
tal caso, si considera presentata al momento
della ricezione da parte
dell'amministrazione. Prevista anche la
modalità di trasmissione telematica. Vengono
dimezzati i tempi per i controlli delle
amministrazioni sugli interventi realizzati
con la Scia in materia edilizia: si passa da
60 a 30 giorni. Vengono comunque fatte salve
le disposizioni relative alle sanzioni.
---------------
Il Piano casa cambia pelle e diventa Piano città.
Dopo il Piano casa scatta il Piano città. Le
coordinate sono le stesse: rivitalizzare il
settore edilizio, elargendo premi di
cubatura e interventi in deroga con
l'obiettivo di razionalizzare il patrimonio
edilizio e riqualificare le aree urbane.
Il decreto prevede una staffetta
stato-regioni. Le autonomie regionali
avranno 60 giorni per approvare proprie
leggi con la possibilità di riconoscere
volumetria aggiuntiva rispetto a quella
preesistente come misura premiale, di
disporre la delocalizzazione delle relative
volumetrie in aree diverse, di disciplinare
il cambio di destinazione d'uso, e modifiche
della sagoma necessarie per l'armonizzazione
architettonica con le strutture esistenti.
Tutto ciò con esclusione degli immobili
abusivi o situati nei centri storici o in
aree a inedificabilità assoluta, mentre
vengono compresi gli immobili abusivi se
condonati.
Gli interventi potranno essere realizzati in
deroga, ma con rispetto degli standard
urbanistici, delle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie,
delle norme relative all'efficienza
energetica, di quelle relative alla tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema, nonché
delle disposizioni del Codice dei beni
culturali.
Con altra disposizione si prevede che,
trascorsi 120 giorni dall'entrata in vigore
della legge di conversione del decreto
sviluppo, il piano città sarà immediatamente
applicabile alle regioni a statuto ordinario
che non hanno provveduto ad approvare
proprie leggi. Il decreto fissa il tetto dei
premi di cubatura: 20% del volume
dell'edificio se destinato a uso
residenziale; 10% della superficie coperta
per edifici adibiti a uso diverso.
Viene inoltre precisato che le volumetrie e
le superfici di riferimento devono essere
calcolate sulle distinte tipologie
edificabili e pertinenziali esistenti e
devono essere asseverate dal tecnico
abilitato in sede di presentazione della
documentazione relativa al titolo
abilitativo previsto
(articolo ItaliaOggi del
04.07.2011). |
ENTI LOCALI:
Sui servizi torna il freno a nuove società
partecipate.
Gli effetti del referendum sui servizi
pubblici locali non vanno tutti nella
direzione di dare mano libera ai Comuni né
di un moltiplicarsi delle società
partecipate. Anzi, l'abrogazione della norma
rischia di costringere più di un comune alla
messa in liquidazione delle sue controllate
e comporta il divieto di aprirne nuove.
Infatti, il venire meno dell'articolo 23-bis
ha l'effetto di ampliare la portata
dell'articolo 14, comma 32, del Dl 78/2010,
che vieta ai comuni sotto i 30mila abitanti
di costituire nuove società (e ne ammette
una per i comuni da 30 a 50mila abitanti).
La norma si muove in due direzioni.
Anzitutto vieta da subito la costituzione di
nuove società da parte dei comuni minori, a
meno che questi non riescano a costituire
una società a cui partecipino comuni che
messi insieme non superino la soglia di
popolazione prevista e nelle quali le quote
siano paritetiche o proporzionali agli
abitanti (per evitare l'escamotage di
costituire società al 99% di un ente
soltanto). Ancora, costringe questi comuni a
chiudere le partecipate che alla data del 31.12.2013 non siano collocate con
continuità nell'area del l'utile, e quindi a
condizione che abbiano avuto utili negli
ultimi tre bilanci e, soprattutto, che non
sia mai stato ridotto il capitale (anche se
poi ricostituito) «negli esercizi
precedenti».
Fino ad oggi l'orientamento generale era
stato quello di ritenere che i servizi a
rilevanza economica non rientrassero in
questa previsione di legge, perché soggette
a una disciplina speciale (Sezione Puglia,
del. 56/Par/2010) che in alcuni casi
obbligava alla loro istituzione (Sezione
Lombardia, del. Lombardia/861/2010/par).
Pertanto, "vittime" di questa norma
sembravano soltanto le società strumentali
previste dall'articolo 14 del decreto
Bersani, in quanto frutto di una scelta del
l'ente locale.
Venute meno oggi le «forme obbligatorie di
gestione» previste dall'articolo 23-bis, è
però possibile la gestione in economia e,
con essa, diventa applicabile il vincolo
previsto dal Dl 78/2010. Si preannunciano
perciò temporali per quelle società di
servizi pubblici che non godono di una
disciplina speciale (come accade per acqua, rifiuti, gas, trasporto pubblico, ecc.).
Come effetto indotto, forse, avremo la
crescita dimensionale di alcune società
altrimenti a rischio chiusura, evitabile se
i piccoli comuni si coalizzano. Accanto a
questo risultato se ne avrà probabilmente un
secondo, quello cioè di stimolare
l'immaginazione di chi vuole eludere la
norma.
Ma la strada della trasformazione eterogenea
in aziende speciali è preclusa per legge.
Infatti, resta a tutti gli effetti in vigore
il comma 8 dell'articolo 35 della
Finanziaria 2002 (legge 448/2001) che
istituisce l'obbligo di gestire i servizi
pubblici esternalizzati, di cui al comma 1
dell'articolo 113 del Tuel (anch'esso
sopravvissuto alla mannaia del 23-bis), solo
nella forma di società di capitali,
obbligando alla trasformazione delle aziende
speciali ancora esistenti.
Se però il legislatore vuole davvero ridurre
il numero di società degli enti locali,
dovrà occuparsi anche di rendere le loro
liquidazioni concretamente possibili. È
necessario introdurre delle agevolazioni
fiscali sui trasferimenti degli immobili e,
soprattutto, pensare a qualche forma di
neutralizzazione degli effetti di tali
operazioni ai fini del patto, almeno per
quanto riguarda indebitamento e personale.
Solo così avremo l'effetto di una concreta
riduzione delle società in essere.
Altrimenti si assisterà a costose elusioni,
che rischiano di diventare ancora più ardite
alla luce delle previste modifiche che la
manovra in via di approvazione prevede di
fare al comma 7 dell'articolo 76 del Dl
112/2008 in materia di computo del tetto
alle spese di personale negli enti locali (articolo Il Sole 24 Ore del
04.07.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI SERVIZI:
Ai sensi dell'art. 24, c. 4, del
D.Lgs. n. 93/2011, fino al 28.06.2011, sono
legittime le gare bandite dai comuni per
l'affidamento del servizio di distribuzione
di gas naturale.
L'art. 24, c. 4, del D.Lgs. n. 93/2011,
stabilisce che nel caso in cui gli enti
locali, alla data di entrata in vigore del
medesimo decreto (28.06.2011), abbiano
pubblicato bandi di gara per l'affidamento
del servizio di distribuzione di gas
naturale e non siano pervenuti
all'aggiudicazione dell'impresa vincitrice,
possono procedere all'affidamento del
servizio di distribuzione di gas naturale
secondo le procedure applicabili alla data
di indizione della relativa gara, senza
dover attendere la determinazione degli
ambiti, come invece richiesto dal D.M. del
19.01.2011.
Fatto salvo ciò, a decorrere dalla data di
entrata in vigore del decreto (29.06.2011)
le gare per l'affidamento del servizio di
distribuzione sono effettuate unicamente per
ambiti territoriali di cui all'art. 46-bis,
c. 2, del d.l. 01.10.2007, n. 159,
convertito, con modificazioni, dalla l.
29.11.2007, n. 222 (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
ordinanza 07.07.2011 n. 1104 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità
dell'esclusione di un concorrente da una
gara, per il mancato rispetto di semplici
irregolarità formali, agevolmente
percepibili come tali.
Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale, il mancato rispetto delle
formalità richieste dal bando di gara,
ancorché a pena di esclusione, deve essere
interpretato alla luce del comune canone di
ragionevolezza, ed in ossequio all'esigenza
di assicurare la massima partecipazione alla
gara, non legittima l'esclusione del
concorrente ogniqualvolta questi sia
incorso, come nel caso di specie, in una
semplice irregolarità formale,
immediatamente percepibile come tale ed
insuscettibile di compromettere il regolare
corso della procedura, avuto riguardo agli
interessi pubblici presidiati dalla
previsione invocata dalla stazione
appaltante.
Nel caso di specie, l'impresa esclusa,
contrariamente alle disposizioni del bando
di gara, aveva contrassegnato i plichi
contenenti la documentazione amministrativa,
mediante la medesima numerazione. La
corretta identificazione delle buste non
investe elementi sostanziali dell'offerta,
ma ha la funzione di permetterne l'apertura
nel corretto ordine; né detta funzione può
dirsi pregiudicata dall'erronea numerazione
dei plichi, grazie alla corretta indicazione
del contenuto riportata sui plichi stessi.
Peraltro, in siffatta ipotesi,
l'amministrazione procedente avrebbe dovuto
richiedere chiarimenti alle imprese
interessate, esercitando quella facoltà, di
carattere generale, che si collega proprio
all'esigenza di evitare che la massima
partecipazione alle gare sia compromessa da
carenze meramente formali (TAR Toscana, Sez.
II,
sentenza 06.07.2011 n. 1155 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
VARI:
Valida la multa fatta con
autovelox anche senza numero di matricola
sul verbale.
Non può essere annullata una multa fatta con
l'autovelox perché nel verbale non viene
indicato il numero di matricola
dell'apparecchio.
Lo ha precisato la II Sez. civile della
Corte di Cassazione con la
sentenza 04.07.2011 n. 14564.
La decisione dei giudici di legittimità ha
ribaltato quanto deciso in primo e secondo
grado. In entrambe i gradi di giudizio il
verbale era stato annullato proprio per
l'assenza dell'indicazione del numero di
matricola sul verbale.
I giudici di piazzale Clodio colgono
l'occasione per enunciare il seguente
principio di diritto: "la mancata
indicazione del numero di matricola
dell'apparecchiatura, non prevista dal
codice quale contenuto necessario del
verbale, non può mai essere motivo di
nullità della sanzione per violazione del
diritto di difesa" (tratto e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
APPALTI:
Sull'illegittimità
dell'ammissione ad una gara di un
concorrente che abbia dichiarato di voler
ricorrere al subappalto, senza tuttavia
indicare il subappaltatore, né i requisiti
di partecipazione da quest'ultimo posseduti.
Ai sensi dell'art. 118 del d.lgs. n.
163/2006, le dichiarazioni relative al
subappalto possono essere rese in fase
esecutiva, ma solo qualora l'appaltatore
abbia i requisiti per eseguire in proprio
l'opera senza ricorrere al subappalto.
Infatti, in mancanza del possesso dei
requisiti da parte dell'appaltatore, il
ricorso al subappalto si configura alla
stregua di un avvalimento, con conseguente
obbligo delle dichiarazioni al momento
dell'offerta, così come previsto dall'art.
49 del d.lgs. n. 163/2006.
Pertanto, nel caso di specie, è illegittimo
il provvedimento di ammissione ad una gara
adottato da una stazione appaltante nei
confronti di un concorrente che, essendo
privo dei requisiti necessari per
partecipare alla procedura, abbia dichiarato
di voler ricorrere al subappalto, senza
tuttavia indicare il subappaltatore, né i
requisiti di partecipazione da quest'ultimo
posseduti (TAR Lazio-Sez. III,
sentenza 01.07.2011 n. 5806 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Subappalto e dichiarazioni
obbligatorie.
Il concorrente, qualora sprovvisto dei
requisiti necessari per la partecipazione
alla gara, ha l’obbligo di indicare
espressamente il soggetto subappaltatore ed
il possesso dei requisiti da quest’ultimo
posseduti.
Così ha deciso il TAR Lazio-Roma, Sez. III,
con la
sentenza 01.07.2011 n. 5806,
nell’ambito di una gara per l’affidamento
dei lavori di manutenzione di edifici
universitari.
Nel caso in esame l’aggiudicatario aveva
proposto ricorso incidentale nei confronti
di una delle concorrenti che a sua volta
aveva impugnato dinanzi ai Giudici di primo
grado l’avvenuta aggiudicazione.
Oggetto del ricorso incidentale era in
particolare l’illegittimità dell’ammissione
alla gara perché nella domanda di
partecipazione non sarebbero stati indicati
i subappaltatori oltre al fatto che il
ricorrente principale sarebbe stato
sprovvisto dei requisiti per assumere
direttamente le opere per cui aveva
dichiarato il subappalto.
I Giudici di prime cure ritengono fondata la
domanda proposta dall’aggiudicatario
sull’assunto che “L'affidamento in
subappalto o in cottimo è sottoposto alle
seguenti condizioni:
1) che i concorrenti all'atto dell'offerta o
l'affidatario, nel caso di varianti in corso
di esecuzione, all'atto dell'affidamento,
abbiano indicato i lavori o le parti di
opere ovvero i servizi e le forniture o
parti di servizi e forniture che intendono
subappaltare o concedere in cottimo;
2) che l'affidatario provveda al deposito
del contratto di subappalto presso la
stazione appaltante almeno venti giorni
prima della data di effettivo inizio
dell'esecuzione delle relative prestazioni;
3) che al momento del deposito del contratto
di subappalto presso la stazione appaltante
l'affidatario trasmetta altresì la
certificazione attestante il possesso da
parte del subappaltatore dei requisiti di
qualificazione prescritti dal presente
codice in relazione alla prestazione
subappaltata e la dichiarazione del
subappaltatore attestante il possesso dei
requisiti generali di cui all'articolo 38;
4) che non sussista, nei confronti
dell'affidatario del subappalto o del
cottimo, alcuno dei divieti previsti
dall'articolo 10 della legge 31.05.1965, n.
575, e successive modificazioni.”
Su quale debba essere l’esatta
interpretazione dell’art. 118 del D.Lgs.
163/2006, la giurisprudenza ha più volte
sostenuto che la mancata o incompleta
dichiarazione non incide sulla
partecipazione ma esclusivamente sulla
possibilità di ricorrere al subappalto
(Consiglio di Stato n. 3969/2009; Consiglio
di Stato 9577/2010).
Questa interpretazione presuppone tuttavia
che l’appaltatore possegga i requisiti per
eventualmente eseguire l’opera, viceversa si
correrebbe il rischio che possa realizzare
l’opera un soggetto sprovvisto dei requisiti
necessari, “con inutilità di tutto il
sistema di qualificazione dei lavori
pubblici.”
In conclusione, tali considerazioni derivano
dal prevalente orientamento
giurisprudenziale secondo il quale in caso
di mancanza dei requisiti da parte
dell’appaltatore il ricorso al subappalto è
sostanzialmente un avvalimento, con la
conseguente applicazione del regime delle
dichiarazioni previste dall’art. 49 del
Codice dei contratti (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
caso di vincolo sopravvenuto, la
Soprintendenza deve puntualmente indicare le
ragioni per le quali la conservazione
dell'intervento sia incompatibile con i
valori tutelati.
Con il ricorso in commento il ricorrente
aveva impugnato il decreto della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
per il Paesaggio di Roma con cui era stato
espresso parere negativo alla concessione
edilizia in sanatoria per un immobile di sua
proprietà.
Tra i motivi di ricorso era stata
dedotta l’illegittimità la violazione e
falsa applicazione dell’art. 32 L. n.
47/1985: la ricorrente sostiene, in
particolare, che la Soprintendenza -e,
conseguentemente, il Comune nel
provvedimento di rigetto della istanza di
condono- nel riportare le ragioni
giustificative del parere negativo non
avrebbe in alcun modo comparato l’interesse
privato al mantenimento del manufatto con
l’interesse pubblico al rispetto del vincolo
anche in relazione alla circostanza secondo
cui il vincolo archeologico sarebbe solo
indiretto ed imposto circa quindici anni
dopo la realizzazione del manufatto.
Nello
stabilire che le censure sono infondate i
giudici del Tribunale amministrativo di
Roma spiegano che, secondo il costante
orientamento della giurisprudenza, anche in
caso di vincolo successivo, è comunque
necessario il parere dell'Autorità preposta
alla gestione del vincolo, in quanto la
compatibilità dell'opera con il contesto
ambientale deve essere valutata con
riferimento al momento in cui deve essere
esaminata la domanda di sanatoria (Cons.
Stato Sez. V 22/12/1994 n. 1574; Cons. Stato
A.P. 22/07/1999 n. 20; Cons. Stato Sez. VI
22/08/2003 n. 4765; ecc.).
I giudici capitolini
aggiungono che la giurisprudenza ha,
peraltro, precisato che, nel caso di vincolo
assoluto di inedificabilità, lo stesso non
può considerarsi del tutto inesistente per
il solo fatto che sia sopravvenuto
all'edificazione (e ritenere quindi che
l'abuso sia sanabile solo perché l'art. 33,
comma 1, della L. 47/1985 si riferisce ai
vincoli di inedificabilità assoluta imposti
prima dell'esecuzione delle opere): in
questi casi deve essere applicato lo stesso
regime indicato nella previsione generale
di cui all'art. 32, comma 1, della L. 47/1985,
che subordina il rilascio della concessione
in sanatoria per opere sottoposte a vincolo,
al parere favorevole dell'autorità preposta
alla sua tutela (cfr. Cons. Stato A.P. n.
20/1999).
In pratica, il vincolo da assoluto
diviene relativo, ed è necessario il
rilascio del parere di conformità. Occorre
però rilevare che, secondo la
giurisprudenza, nel compiere il giudizio di
compatibilità, l'Amministrazione non può non
tener conto delle prescrizioni recate dal
vincolo stesso, così come accade nel caso di
vincolo relativo sopravvenuto (Cons. Stato,
Sez. V, 07/10/2003 n. 5918), con l'effetto,
quindi, di poter ritenere non sanabile il
manufatto quando contrasti con le
prescrizioni recate dal provvedimento di
vincolo.
D’altra parte, occorre anche
osservare, quanto alla motivazione del
provvedimento della Soprintendenza in
ipotesi di vincolo successivo, che il parere
negativo al rilascio della sanatoria non può
ritenersi atto vincolato, da adottarsi in
via automatica solo per effetto
dell'esistenza del vincolo di
inedificabilità, dovendo la Soprintendenza
svolgere i necessari accertamenti in
concreto per valutare la compatibilità del
manufatto con il provvedimento di vincolo.
In altre parole, concludono gli stessi
giudici, in caso di vincolo sopravvenuto,
l'accertamento della Soprintendenza deve
essere concreto ed approfondito e nella
motivazione dell'atto devono essere
puntualmente indicate le ragioni per le
quali la conservazione dell'intervento
(conseguente al rilascio della sanatoria)
sia incompatibile con i valori tutelati
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza
01.07.2011 n. 5800
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istanza di accertamento di
conformità ai sensi dell'articolo 13 della
l. n. 47/1985 rende illegittima l'ordinanza
di acquisizione gratuita al patrimonio
indisponibile non preceduta da una nuova
ordinanza di demolizione.
Allorché dopo la notifica dell'ordinanza di
demolizione il privato presenti istanza di
accertamento di conformità ai sensi
dell’art. 13 della legge n. 47/1985, il
Comune, prima di adottare l'ordinanza di
acquisizione gratuita al patrimonio
indisponibile del comune delle opere in
questione deve emanare una nuova ingiunzione
a demolire, con l’assegnazione di un nuovo
termine per adempiere (cfr., altresì, Cons.
Stato, sez. V, 26.06.2007, n. 3659; TAR
Sicilia, Palermo, Sez. II, 21.12.2005, n.
7814; 08.07.2009, n. 1220; TAR Sicilia
Catania, sez, I, 04.11.2008, n. 1911; TAR
Campania, sez. VII, 19.02.2009, n. 975)
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.07.2011 n.
1282 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Va
qualificato come inadempimento ex art. 2 L.
241/1990 il comportamento
dell'Amministrazione regionale che ometta di
pronunciarsi nei 180 giorni dall'istanza
sulla richiesta di autorizzazione unica alla
costruzione e gestione di un impianto
fotovoltaico.
In relazione al procedimento preordinato al
rilascio dell'autorizzazione unica per la
costruzione e gestione di un impianto
fotovoltaico, l'art. 12, comma 4, del
decreto legislativo 29.12.2003, n. 387,
stabilisce che "Il termine massimo per la
conclusione del procedimento di cui al
presente comma non può comunque essere
superiore a centottanta giorni".
La fissazione di un termine procedimentale
di durata massima, con evidenti finalità
acceleratorie, ancorché non perentorio
comporta la qualificazione come
inadempimento del fatto stesso dell'inutile
spirare di tale termine, posto a presidio
della certezza dei tempi dell'azione
amministrativa, qualora sull'istanza della
parte non sia stato emesso alcun
provvedimento, positivo o negativo.
Anche la Corte Costituzionale, con sentenza
n. 364 del 09.11.2006, ha rinvenuto la "ratio"
del citato termine nel principio di
semplificazione amministrativa e di celerità
che, con riferimento alla fondamentale
materia della produzione, trasporto e
distribuzione nazionale di energia,
garantisce, in modo uniforme sul territorio
nazionale, la conclusione entro un termine
definito del procedimento autorizzativo
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II,
sentenza 01.07.2011 n.
1280 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente da una gara, per omessa
allegazione di un CD, contenente i files
dell'offerta in formato pdf, nel caso in cui
ciò sia prescritto dal bando.
E' legittimo il provvedimento di esclusione
da una gara adottato da una stazione
appaltante nei confronti di una ditta
concorrente, che abbia omesso di allegare il
CD contenente i files dell'offerta in
formato pdf, in quanto, nel caso di specie,
la clausola del bando è chiara ed inequivoca
nel comminare l'esclusione dalla gara,
nell'ipotesi di mancata adempimento della
suddetta previsione, pertanto non vi è
spazio per una qualsiasi interpretazione di
tipo teleologico in relazione al principio
del favor partecipationis.
Peraltro, la richiesta di produrre il CD,
inserita nella lex specialis, non
risulta illogica né sproporzionata, in
quanto trattasi del deposito di supporti
informatici di facile e corrente utilizzo,
soprattutto per una società che si occupa
proprio di elaborazione dati, e che appare
funzionale allo scopo di rendere la
procedura di gara celere e sicura,
concretizzando, in tal modo, una delle
direttive ispiratrici della disciplina
sostanziale e processuale in materia di
appalti pubblici, senza comportare alcun
aggravio a carico della concorrente (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 01.07.2011 n. 1007 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Responsabilità del datore di
lavoro ex art. 2087 c.c. - Natura
contrattuale - Riparto degli oneri probatori
- Art. 1218 c.c..
La responsabilità del datore di lavoro ex
art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e
costituisce una norma di chiusura del
sistema infortunistico che obbliga il
medesimo datore di lavoro a tutelare
l’integrità psico-fisica dei propri
dipendenti imponendogli l’adozione di tutte
le cautele necessarie a preservare il bene
della salute nell’ambiente ed in costanza di
lavoro.
La natura contrattuale dell’obbligo in esame
esige che il riparto degli oneri probatori
nella domanda risarcitoria da infortunio sul
lavoro si ponga sullo stesso piano di quello
previsto dall’art. 1218 c.c. in ordine
all’adempimento delle obbligazioni.
Pertanto il lavoratore che agisce per il
risarcimento del danno deve allegare e
provare l’esistenza dell’obbligazione
lavorativa, l’esistenza del danno e il nesso
causale tra quest’ultimo e la prestazione,
mentre il datore di lavoro deve provare la
dipendenza del danno da causa a lui non
imputabile, ossia da caso fortuito o da
forza maggiore e di avere adempiuto
interamente all’obbligo di sicurezza
apprestando tutte le misure per evitare il
danno (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 01.07.2011 n. 560 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo di rispetto ferroviario -
Art. 49 DPR n. 753/1980 - Natura - Vincolo
di inedificabilità relativo.
Il vincolo di rispetto ferroviario di cui
all'art. 49 del DPR 753/1980, rappresenta un
vincolo di inedificabilità relativa e non
assoluta.
Infatti, ai sensi dell'art. 60 del DPR
citato, gli uffici compartimentali di F.S.
possono autorizzare riduzioni delle distanze
fissate dagli art. 49 e 55; inoltre l'art.
50, comma 1°, dello stesso DPR stabilisce
espressamente che il divieto ex art. 49 "si
applica a tutti gli edifici e manufatti i
cui progetti non siano stati approvati in
via definitiva dai competenti organi"
alla data di entrata in vigore del DPR
753/1980, mentre i vincoli di
inedificabilità assoluta, ai sensi dell'art.
33 della legge 47/1985, sono tali solo "se
siano stati imposti prima dell'esecuzione
delle opere".
Ne segue che il vincolo ex art. 49 del DPR
n. 753/1980, in quanto relativo, si applica
anche agli abusi preesistenti e quindi alla
odierna fattispecie, come ritenuto dalla
giurisprudenza oramai consolidata dopo la
pronuncia in tal senso della Adunanza
Plenaria n. 20/1999 del Consiglio di Stato
(TAR Emilia Romagna-Bologna, sez. II,
04.08.2008, n. 3593) (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 01.07.2011 n. 552 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
richiesta di voltura di un’insegna produce
una semplice novazione soggettiva
dell’intestatario dell’autorizzazione già
rilasciata.
Con il ricorso in rassegna il ricorrente
aveva impugnato la determinazione
dirigenziale del Comune di Roma con la quale
era stata rigettata l’istanza tesa ad
ottenere la voltura dei tassabili apposti
all’esterno di un locale.
Sostiene la
società ricorrente che il Comune di Roma
sarebbe incorso in un grossolano errore,
respingendo l’istanza proposta sulla scorta
di un solo asserito contrasto tra le
dimensioni dell’insegna di cui alla
richiesta di voltura e le prescrizioni
normative comunali applicate in quanto
attualmente in vigore, senza tenere in alcun
conto la memoria presentata dalla medesima
Società istante nel corso del procedimento,
nella quale si chiariva che “il disco
luminoso in questione era rimasto nella
struttura assolutamente immutato per
dimensioni e collocazione e che non poteva
avere rilevanza la sopravvenienza di un
presunto limite” normativamente creato da
una deliberazione comunale varata
successivamente rispetto al momento del
rilascio dell’autorizzazione originaria.
Osservano i giudici del Tribunale
amministrativo di Roma che la richiesta di
voltura di una autorizzazione già rilasciata
provoca l’avvio di una procedura ove
l’esercizio del potere da parte
dell’Amministrazione competente è di tipo
vincolato, non potendosi confondere tale
intervento modificativo del titolare
dell’autorizzazione (già a suo tempo
rilasciata) con l’esercizio del potere di
rilascio di (una nuova) autorizzazione che
costituisce tipicamente attività
discrezionale.
Analogamente per quel che
avviene nell’ambito dell’edilizia -ambito
nel quale la giurisprudenza ha chiarito come
la voltura di un permesso di costruire non
dà luogo ad altro che a una novazione
soggettiva del rapporto, in particolare essa
non implica il rilascio di un nuovo e
autonomo titolo edilizio e non richiede né
presuppone pertanto una nuova verifica in
ordine alla compatibilità del progetto con
la normativa urbanistico-edilizia ma solo
una verifica, a contenuto non discrezionale,
in ordine alla trasferibilità del titolo ai
successori (cfr., tra le altre, TAR
Lazio, Latina, 12.01.2010 n. 3 e TAR
Sicilia, Catania, Sez. I, 15.02.2007
n. 276); e infatti, ai fini della validità e
efficacia della concessione edilizia è
persino irrilevante che si proceda a voltura
nel senso che l'attività edificatoria può
essere realizzata sia dal proprietario del
suolo, titolare della relativa concessione,
sia dai suoi successori od aventi causa,
onde non è necessaria la voltura del titolo concessorio per legittimare la realizzazione
delle opere autorizzate da questi ultimi
(cfr., in tal senso, TAR Marche, 14.05.2008 n. 266)– anche in materia di
rilascio di titoli abilitativi inerenti
l’attività di commercio la richiesta della
voltura dell’autorizzazione non implica il riesercizio del potere discrezionale
attivato al momento del rilascio dell’atto
autorizzativo, ma solo un accertamento, di
natura vincolata, avente ad oggetto l’individuazione del nuovo intestatario
dell’autorizzazione e la verifica del
possesso in capo ad esso dei requisiti
soggettivi per poter svolgere l’attività
descritta nell’autorizzazione a suo tempo
rilasciata ad altro intestatario.
Del resto,
qualora la disposizione, anche regolamentare
che stabilisce nuove prescrizioni per il
rilascio dell’autorizzazione in un
determinato settore (nella specie
commerciale), intenda imporre l’applicazione
delle nuove regole alle autorizzazioni già
rilasciate, dovrebbe prevedere tale
retrodatazione normativa espressamente,
motivando puntualmente ed attentamente tale
grave ed eccezionale portata retroattiva,
imputandone peraltro le adeguate ragioni a
motivi di sopravvenuto superiore interesse
pubblico (rispetto al buon diritto degli
autorizzati di far valere la posizione
acquisita con il rilascio, a suo tempo,
dell’autorizzazione) pena l’indiscutibile
illegittimità della norma.
Sotto il profilo
normativo, d’altronde il sopra esposto
indirizzo interpretativo trova piana
aderenza alle prescrizioni contenute,
proprio in materia di attività commerciale,
nelle disposizioni dell’art. 64 del decreto
legislativo 26.03.2010 n. 59 (decreto
recante le norma di attuazione della
direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi
nel mercato interno)
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Lazio-Roma,
Sez. II,
sentenza
30.06.2011 n. 5733
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sul
potere rappresentativo del procuratore
stabile dell'impresa e sull'individuazione
dei soggetti tenuti a rendere le
dichiarazioni ex articolo 38.
1. In assenza di un' espressa comminatoria
di esclusione, il potere rappresentativo del
procuratore stabile dell'impresa risultante
dal certificato camerale, non deve essere
dimostrato attraverso la produzione della
procura, richiesta solo in caso di
procuratore occasionale.
2. I procuratori della società non sono
tenuti a rendere le dichiarazioni di cui
all'articolo 38 del d.lgs. n. 163/2006.
3. L'articolo 84 del d.lgs. 163/2006 non si
applica agli appalti di servizi di cui
all'Allegato II B
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2011 n.
3926 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: E'
attribuita ai dirigenti la responsabilità
delle procedure d’appalto, dall'indizione
della gara alla stipulazione del contratto.
All’interno del sistema di cui al d.lgs. n.
267 del 2000, ma, ancor prima, già con
l’avvento dell’art. 6 della legge
15.05.1997, n. 127, modificativo dell’art.
51 della legge 06.06.1990, n. 142, esiste
una netta separazione di ruoli tra organi di
governo locale e relativa dirigenza, dove ai
primi spettano i compiti di indirizzo (la
fissazione delle linee generali cui
attenersi e degli scopi da perseguire), e
alla seconda quelli di gestione.
Più in particolare, alla Giunta competono
gli atti rientranti nelle funzioni “di
indirizzo e controllo
politico-amministrativo” che non siano
assegnati agli altri organi di governo
(artt. 48-107 T.U. cit.), e per converso ai
dirigenti è attribuita tutta la gestione,
amministrativa, finanziaria e tecnica,
comprensiva dell’adozione di tutti i
provvedimenti, anche discrezionali, ed in
particolare proprio la responsabilità delle
procedure d’appalto e la stipulazione dei
contratti, e sugli stessi dirigenti incombe
la diretta ed esclusiva responsabilità della
correttezza amministrativa della medesima
gestione (art. 107 cit., commi 3 e 6).
Lo stesso art. 107 del T.U. impone
specificamente agli statuti di uniformarsi
al principio per cui i poteri di indirizzo e
di controllo politico-amministrativo
spettano agli organi di governo, mentre la
gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica è attribuita ai dirigenti mediante
autonomi poteri di spesa, di organizzazione
delle risorse umane, strumentali e di
controllo.
Tale sistema normativo supera le eventuali
distribuzioni di competenza in senso diverso
contenute nelle disposizioni di secondo
grado, ivi compresi gli statuti, che gli
enti locali possano avere emanato con
efficacia generale, sia sotto il profilo
della gerarchia delle fonti, che sotto
l'aspetto sistematico (C.d.S. V, n. 7488 del
16.11.2004)
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2011 n.
3925 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La necessità di una
formalizzazione del giudizio di ammissione
va esclusa in tutti i casi in cui si
manifesti subito la non incidenza delle
condotte emerse sull'affidabilità
professionale dell'impresa.
Nel caso di partecipazione di un RTI ad una
gara di appalto, la polizza fideiussoria
deve essere intestata non solo alla società
capogruppo, ma anche alle mandanti.
Il Codice degli appalti (d.lgs. n. 163/2006)
non prevede che il giudizio favorevole
all'ammissione di un'impresa ad una gara
d'appalto debba essere necessariamente
formalizzato.
Pertanto, nel caso di specie, la stazione
appaltante qualora non ritenga il precedente
penale dichiarato dal concorrente incisivo
della sua moralità professionale, non è
tenuta ed esplicitare in maniera analitica
le ragioni di siffatto convincimento,
potendo la motivazione di non gravità del
reato risultare anche per facta
concludentia, ossia con l'ammissione
alla gara dell'impresa, mentre è la
valutazione di gravità che richiede
l'assolvimento di un particolare onere
motivazionale. La stazione appaltante deve
invero motivare puntualmente le esclusioni,
e non anche le ammissioni, se su di esse non
vi è contestazione.
Pertanto, se può ammettersi che un'esigenza
di motivazione espressa si imponga al
cospetto di precedenti penali che
obiettivamente si presentino, prima facie,
riconducibili all'area dei "reati gravi
in danno dello Stato o della Comunità"
ed incidenti sulla morale professionale, sì
da esigere una specifica valutazione
amministrativa al riguardo, la necessità di
una formalizzazione del giudizio di
ammissione va invece esclusa in tutti i
casi, in cui si manifesti subito la non
incidenza delle condotte emerse
sull'affidabilità professionale
dell'impresa.
---------------
In giurisprudenza si è da tempo affermato il
principio secondo cui, nel caso di
partecipazione di un RTI ad una gara di
appalto, la polizza fideiussoria, mediante
la quale viene costituita la cauzione
provvisoria, deve essere intestata non solo
alla società capogruppo, ma anche alle
mandanti. Ciò al fine di evitare il
configurarsi una carenza di garanzia per la
stazione appaltante, con riferimento a quei
casi in cui l'inadempimento non dipenda
dalla capogruppo designata, bensì dalle
mandanti.
Peraltro, il fideiussore, al fine di
assicurare l'operatività della garanzia di
fronte ai possibili inadempimenti da "coprire"
con la cauzione provvisoria, deve richiamare
la natura collettiva della partecipazione
alla gara di più imprese, identificandole
singolarmente e contestualmente, e deve
dichiarare di garantire, mediante la
cauzione provvisoria, non solo la mancata
sottoscrizione del contratto, ma ogni altro
obbligo derivante dalla partecipazione alla
gara, pena l'esclusione dal procedimento.
Rientrano, dunque, nella portata della
garanzia, anche le inadempienze ascrivibili
a fatti di una delle imprese mandanti, di
cui la mandataria dovrebbe pur sempre
rispondere, in virtù del vincolo di
solidarietà che discende dalla presentazione
dell'offerta congiunta (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 30.06.2011 n. 3924 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Prima
del d.m. 24.10.2007, il solo fatto che il
d.u.r.c. non fosse regolare non costituiva
di per sé prova di una grave violazione
contributiva definitivamente accertata,
atteso che, secondo le circolari 26.07.2005,
n. 92 Inps e 25.07.2005, n. 38 Inail, era
ostativo alla dichiarazione di regolarità
contributiva qualsivoglia inadempimento, a
prescindere da qualsivoglia soglia di
gravità.
Una irregolarità contributiva può ritenersi
definitivamente accertata solo quando, alla
data di scadenza del termine di proposizione
delle domande di partecipazione alla gara,
siano scaduti i termini per la contestazione
dell’infrazione ovvero siano stati respinti
i mezzi di gravame proposti avverso la
medesima.
Rileva la sezione che le tesi poste a base
del provvedimento di autotutela e quelle
poste a sostegno dell’impugnata sentenza non
sono suscettibili di favorevole esame alla
luce dei principi giurisprudenziali
diffusamente illustrati da questo Consiglio
(cfr. le fondamentali decisioni sez. VI,
04.08.2009, nn. 4905, 4906 e 4907, da ultime
espressamente riprese da sez. IV, n. 1228
del 2011 e sez. V, n. 789 del 2011, cui si
rinvia a mente dell’art. 74 c.p.a.), e delle
peculiari circostanze di fatto che
contraddistinguono la presente vicenda; in
particolare:
a) nella vicenda in trattazione non può
trovare applicazione il d.m. 24.10.2007,
entrato in vigore successivamente al termine
di presentazione delle domande di
partecipazione alla gara, alla
aggiudicazione definitiva ed all’emanazione
del primo ed unico d.u.r.c. negativo;
b) prima del d.m. 24.10.2007, il solo fatto
che il d.u.r.c. non fosse regolare non
costituiva di per sé prova di una grave
violazione contributiva definitivamente
accertata, atteso che, secondo le circolari
26.07.2005, n. 92 Inps e 25.07.2005, n. 38
Inail, era ostativo alla dichiarazione di
regolarità contributiva qualsivoglia
inadempimento, a prescindere da qualsivoglia
soglia di gravità;
c) l’art. 38 cit., prima del d.m. del 2007
in questione e del regolamento attuativo del
codice dei contratti pubblici, crea una
differenza tra la regolarità contributiva
richiesta al partecipante alla gara e la
regolarità richiesta all’aggiudicatario al
fine della stipula del contratto; infatti il
concorrente può essere escluso solo in
presenza di gravi violazioni definitivamente
accertate, sicché le violazioni non gravi e
quelle non definitivamente accertate non
sono causa di esclusione; invece, al fine
della stipula del contratto, l’affidatario
deve presentare la certificazione di
regolarità ai sensi dell’art. 2, d.l. n. 210
del 2002 (art. 38, co. 3, cit.); tale
disposizione, a sua volta, prevede il
rilascio del d.u.r.c. che attesta
contemporaneamente la regolarità
contributiva quanto agli obblighi nei
confronti del’Inps, dell’Inail e della Cassa
edili;
d) una irregolarità contributiva può
ritenersi definitivamente accertata solo
quando, alla data di scadenza del termine di
proposizione delle domande di partecipazione
alla gara, siano scaduti i termini per la
contestazione dell’infrazione ovvero siano
stati respinti i mezzi di gravame proposti
avverso la medesima (circostanza questa che
non ricorre nel caso di specie)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.06.2011 n. 3912 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti fotovoltaici a terra -
Previsioni urbanistiche - Generalizzata
preclusione in area agricola -
Illegittimità.
Contrasta con la normativa nazionale e
comunitaria una generalizzata preclusione
urbanistica di repulsione di impianti
fotovoltaici a terra da tutte le aree
agricole classificate in classe I, II e III
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 30.06.2011 n. 717 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Commissione giudicatrice -
Variazione della consistenza numerica
dell’organo successiva all’apertura delle
buste - Illegittimità.
E’ illegittima l’integrazione della
Commissione giudicatrice avvenuta in un
momento successivo a quello dell’apertura
delle buste delle offerte tecniche.
Va precisato, al riguardo, che la
giurisprudenza amministrativa ha escluso
l’immanenza nell’ordinamento di un principio
di immodificabilità delle commissioni di
gara, ammettendo che i loro membri possano
essere sostituiti quando ciò sia reso
necessario da esigenze di rapidità e
continuità dell’azione amministrativa (Cons.
Stato, sez. V, 03.12.2010, n. 8400).
Viceversa, deve ritenersi preclusa la
variazione della consistenza numerica
dell’organo, intervenuta in un momento in
cui i membri originari dello stesso avevano
già potuto prendere conoscenza dei contenuti
delle offerte tecniche presentate dai
concorrenti.
Evidenti esigenze di trasparenza e di
rispetto della parità di trattamento dei
concorrenti (nonché di garanzia di
continuità delle operazioni valutative)
impongono di individuare in tale momento il
limite invalicabile oltre il quale non può
essere variata la consistenza numerica della
Commissione.
Commissione di gara - Sedute -
Principi di concentrazione e continuità.
Le finalità di imparzialità, pubblicità,
trasparenza e speditezza dell’azione
amministrativa impongono che le sedute delle
commissioni di gara si ispirino al principio
di concentrazione e continuità, tendendo a
concentrare, ove possibile, l’esame delle
offerte tecniche ed economiche in una sola
seduta o, comunque, evitando soluzioni di
continuità che favoriscano possibili
influenze esterne idonee a minare l’assoluta
indipendenza di giudizio dell’organo
incaricato della valutazione (Cons. Stato,
sez. V, 23.11.2010, n. 8155).
Comunicazione di aggiudicazione
definitiva - Omissione - Conseguenze.
L’omissione della comunicazione di
aggiudicazione definitiva non incide sulla
legittimità dell’aggiudicazione medesima, ma
solo sulla decorrenza del termine per
l’impugnazione (cfr., fra le ultime, T.A.R.
Campania, Napoli, sez. I, 11.03.2011, n.
1441) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 30.06.2011 n. 711 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Il
termine per l'impugnazione
dell'aggiudicazione decorre dalla
comunicazione anche nel caso in cui
l'Amministrazione abbia omesso di indicare
nella stessa i vantaggi dell'offerta
vincitrice.
Qualora l'appalto sia stato aggiudicato con
il criterio del prezzo più basso, il termine
per impugnare l'aggiudicazione decorre dalla
comunicazione anche nel caso in cui tale
comunicazione risulti priva degli elementi
indicati all’art. 79, comma 2°, del D. Lgs.
n. 163/2006
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 29.06.2011 n.
1244 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
È possibile discostarsi, in sede
di giustificazione dell’anomalia, dalle
tabelle ministeriali recanti il costo della
manodopera solo sulla scorta di una
dimostrazione puntuale e rigorosa.
La Sezione reputa che le censure svolte
dall’appellante non scalfiscano la ragione
di anomalia data dal ridotto tasso di
assenteismo utilizzato per la formulazione
dell’offerta, ragione che, nell’economia del
provvedimento gravato in prime cure, risulta
idonea a sorreggere, in via autonoma, il
giudizio finale negativo evidenziando
l’inaffidabilità complessiva dell’offerta.
Va osservato, in punto di fatto, che la
stazione appaltante ha riscontrato
l’eccessivo scostamento del “costo orario
medio del lavoro” posto a base
dell’offerta rispetto al corrispondente
parametro delle apposite tabelle
ministeriali, e ciò in quanto la misura del
tasso di assenteismo del personale era stato
indicato dalla ditta nel 3,4% a fronte del
ben più alto 6,5% (per assenze dovute a
malattia, infortuni e maternità) risultante
dai valori tabellari. Secondo
l’Amministrazione, in particolare, ai fini
della determinazione delle “ore annue
mediamente lavorate”, la mera produzione
di un dato riepilogativo delle assenze del
personale nel triennio 2006/2008 avrebbe
rappresentato uno strumento in sé inidoneo a
superare il vincolo, ancorché non
inderogabile, derivante dalle tabelle
ministeriali.
La Sezione, a confutazione dei motivi di
appello all’uopo formulati, deve rimarcare
che se è vero che le tabelle ministeriali
recanti il costo della manodopera espongono
dati non inderogabili, si deve altresì
convenire che le medesime assolvono ad una
funzione di parametro di riferimento dal
quale è possibile discostarsi, in sede di
giustificazione dell’anomalia, solo sulla
scorta di una dimostrazione puntuale e
rigorosa. E tanto specie se si considera che
il dato delle “ore annue mediamente
lavorate” dal personale coinvolge eventi
(malattie, infortuni, maternità) che non
rientrano nella disponibilità dell’impresa e
che quindi, per definizione, necessitano di
stima di carattere prudenziale.
Nel caso di specie detto onere probatorio
non risulta assolto in modo adeguato.
Infatti, la semplice produzione dei modelli
di pagamento INPS relativi ai dati
dell’ultimo triennio non è idonea ad
assolvere a detta funzione dimostrativa in
quanto, per un verso, reca dati aziendali
indistinti e disaggregati che non tengono
nel debito conto del personale specifico da
adibire all’appalto, per altro verso non
introduce dati significativi in relazione
all’esecuzione di un contratto per il quale,
ai sensi del contratto collettivo di
settore, è prevista l’assunzione del
personale in servizio presso la società
precedentemente deputata all’espletamento
del servizio. L’inadeguatezza di detta
documentazione risulta ancor più
significativa in rapporto alla rilevante
misura dello scostamento, che avrebbe
richiesto una dimostrazione particolarmente
rigorosa.
Si deve, in definitiva, convenire che il
giudizio individuale sull’inaffidabilità
dell’offerta in ragione del non giustificato
scostamento del tasso di assenteismo dalla
tabella ministeriale non meritevole di
costituisce espressione di discrezionalità
valutazione tecnica che non appare inficiata
da profili di illogicità e sviamento
suscettibili di sindacato in sede
giurisdizionale. Non risulta apprezzabile
neanche la comparazione con l’offerta
dell’aggiudicataria, posto che le
giustificazioni delle offerte vanno
apprezzate in relazione alle posizioni ed
alle prospettazioni individuali delle
singole imprese (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.06.2011 n. 3865 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: E'
inammissibile il ricorso, ovvero del
singolo motivo di esso, volto a censurare
previsioni di piano che non abbiano rilievo
alcuno per i beni del ricorrente.
- In generale, non spetta al piano
urbanistico, ma direttamente alla legge, di
stabilire l’indennizzo dovuto per
l’espropriazione di un bene.
- Le scelte operate in sede di
pianificazione urbanistica sono espressione
di una discrezionalità molto ampia di cui
l’ente territoriale dispone in materia, e
pertanto non sono sindacabili in sede
giurisdizionale di legittimità al di fuori
dei casi di illogicità ovvero incoerenza
manifeste.
E' illegittimo il nuovo PRG se la relativa
evoluzione demografica è illogica con
l'andamento demografico negli ultimi 40
anni.
E’ noto al Collegio l’orientamento
giurisprudenziale, allo stato minoritario,
secondo il quale ogni cittadino residente in
un dato Comune potrebbe per ciò solo
impugnare gli atti di adozione e
approvazione del relativo strumento
urbanistico generale, indipendentemente da
un diretto e immediato pregiudizio da essi
derivante per un bene a lui riconducibile.
Tale orientamento viene giustificato, in
sintesi, con due autonomi ordini di ragioni,
nessuno dei quali però appare convincente,
sulla scorta delle argomentazioni, che il
Collegio sin da ora dichiara di condividere,
esposte da C.d.S. sez. IV 13.07.2010 n° 4542
e da TAR Sardegna sez. II 06.10.2008 n°
1815, che si citano per tutte in quanto
particolarmente approfondite.
Sotto un primo profilo, si è
sostenuto che, sulla scorta di quanto
affermato –pur per inciso non senza
contrasti- per le fattispecie di
impugnazione di una gara ovvero di una
graduatoria, il cittadino residente sarebbe
comunque titolare di un interesse alla
riedizione dell’attività amministrativa, nel
senso che ove il suo ricorso fosse accolto
l’amministrazione sarebbe tenuta a
riapprovare il piano annullato, con
possibilità di un risultato più favorevole.
E’ però agevole replicare, sulla scorta
della citata C.d.S. 4542/2010, che poter
trarre dall’accoglimento del ricorso una
qualche utilità non significa
automaticamente essere titolari di una
posizione legittimante che consenta di
proporlo: se i due concetti si
identificassero, si finirebbe per consentire
il ricorso stesso anche ai portatori di
interessi di mero fatto e lo si
configurerebbe, in ultima analisi, come
un’azione popolare.
Sotto un secondo profilo, si è anche
affermato che ciascun residente per effetto
di previsioni modificative del territorio di
portata ampia come quelle previste da uno
strumento urbanistico generale subirebbe
comunque una modifica alla propria qualità
di vita, e quindi dovrebbe sempre ritenersi
legittimato ad impugnare l’atto che le
produce.
Tale affermazione però, se può esser vera
per il caso, di rilievo ma comunque
particolare, degli atti che prevedano
singole opere particolarmente impattanti su
ampie porzioni di territorio, nella sua
assolutezza è a sua volta non condivisibile.
Come osservato dalla pure menzionata TAR
Sardegna 1815/2008, dalla cui motivazione si
cita, infatti, essa contraddice la natura
stessa dello strumento urbanistico generale,
costituito “essenzialmente da un insieme
di prescrizioni valevoli per le singole zone
omogenee del territorio comunale o per
singole aree o fabbricati… scindibili ai
fini del loro eventuale annullamento in sede
giurisdizionale”, annullamento che va
“circoscritto alle aree o ai lotti
interessati dalle prescrizioni giudicate
illegittime”.
Opinando diversamente, prosegue la sentenza
citata, sarebbero contraddetti sia il
principio di buon andamento
dell’amministrazione, perché si potrebbe
annullare l’intero piano per far conseguire
al privato un’utilità solo strumentale, sia
il principio dell’interesse processuale,
perché si configurerebbe, ancora una volta,
un’azione popolare ignota al nostro
ordinamento.
Va quindi ribadita
l’inammissibilità del ricorso, ovvero del
singolo motivo di esso, volto a censurare
previsioni di piano che non abbiano rilievo
alcuno per i beni del ricorrente.
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In generale,
non spetta al piano urbanistico, ma
direttamente alla legge, di stabilire
l’indennizzo dovuto per l’espropriazione di
un bene.
Nello specifico, va poi rilevato
che è corretto quanto afferma la difesa del
Comune: la relazione al piano dei servizi
(cfr. doc. 1-sexies ricorrenti) si
riferisce, invero in termini abbastanza
generici, agli indennizzi dovuti non per gli
espropri in quanto tali, ma per i vincoli ad
essi preordinati, che secondo quanto
affermato in giurisprudenza –per tutte,
C.d.S. a.p. 24.05.2007 n° 7- potrebbero
comunque essere legittimamente imposti anche
se lo strumento urbanistico non prevedesse
indennizzo alcuno, fermo il diritto del
proprietario a pretenderlo in base alla
legge.
--------------
E’ invece
fondato e va accolto il quarto motivo di
ricorso, approfondito nella seconda censura
dei motivi aggiunti e imperniato su un
presunto errore nel dimensionamento del
piano, ovvero in termini correnti sulla
stima del futuro numero di abitanti, al
servizio dei quali le previsioni di piano
sono predisposte. In proposito, è evidente,
sulla scorta dei principi sopra affermati,
la legittimazione dei ricorrenti, dato che,
come detto in narrativa, parte dei loro
terreni ha visto mutare la relativa
destinazione d’uso da agricola a
residenziale: come è ovvio la correttezza di
tale previsione di nuovi insediamenti sta e
cade con la corretta stima di un incremento
della popolazione da insediare.
In proposito, va richiamato il noto e
costante orientamento della giurisprudenza,
secondo il quale le scelte operate in sede
di pianificazione urbanistica sono
espressione di una discrezionalità molto
ampia di cui l’ente territoriale dispone in
materia, e pertanto non sono sindacabili in
sede giurisdizionale di legittimità al di
fuori dei casi di illogicità ovvero
incoerenza manifeste: per tutte, in tal
senso, da ultimo C.d.S. sez. IV 24.02.2011
n. 1222. Nel caso di specie, il Collegio
ritiene però che tale illogicità sussista.
In proposito, e in sintesi estrema, due sono
i dati di fatto indiscutibili. Da un lato,
come evidenziano i ricorrenti, nel documento
del piano per il quale è causa il Comune
prevede un considerevole aumento della
popolazione residente, che dovrebbe
accrescersi di 2.979 nuovi abitanti, di cui
2.530 da insediare, in aggiunta agli attuali
7.566. Si tratta di un incremento superiore
al 30% e considerevole anche in valore
assoluto, previsto secondo logica nell’arco
dei cinque anni che ai sensi dell’art. 8,
quarto comma, della l.r. 12/2005
costituiscono il termine di validità del
documento di piano (v. doc. 1-octies
ricorrenti, cit.; dati non dissimili
evidenzia la relazione al piano dei servizi
prodotta come doc. 16 dal Comune a p. 18).
Dall’altro lato, l’evoluzione demografica
del Comune di Soncino, addirittura negli
ultimi quarant’anni, è caratterizzata da una
sostanziale stabilità: con un’alternanza di
piccoli incrementi ovvero decrementi, si
passa dai 7265 abitanti del 1971 ai 7586
risultanti nel 2007: si tratta di dati da
considerare notori, in quanto desunti dalle
statistiche nazionali, ma anche nello
specifico noti al Comune, che non ha mancato
di inserirli in un proprio documento,
senz’altro posteriore al 2007 i cui dati
riporta, ovvero nella relazione sulla
farmacia comunale prodotta in copia sub 11
dai ricorrenti.
Ciò posto, né nella relazione al piano né
altrove negli elaborati dello stesso si
spiega come conciliare la suddetta
discrasia, ovvero da quali fatti concreti si
è ritenuto di desumere un mutamento così
marcato nell’evoluzione demografica del
territorio comunale: si tratta senza dubbio
di una illogicità manifesta, che nella
presente sede è sindacabile, e comporta
l’annullamento del piano: nel riesaminare la
fattispecie, l’amministrazione dovrà quindi
dare debito conto delle proprie stime in
proposito e delle scelte che ne sono
conseguite (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 951 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo paesaggistico - Progetti
originariamente assentiti - Modificazioni -
Nuova verifica di compatibilità -
Presupposti.
Non ogni modificazione del progetto edilizio
originariamente assentito richiede in via
automatica un’ulteriore formale verifica di
compatibilità con i valori tutelati dal
vincolo paesaggistico; quando, in relazione
alla tipologia del manufatto e alle
valutazioni già compiute dall’Autorità
investita del potere di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica, emerge la
modestia della consistenza delle opere
aggiuntive o la obiettiva inidoneità delle
stesse a mutare il quadro di riferimento a
suo tempo oggetto di valutazione, la
reiterazione del procedimento ex art. 146
del d.lgs. n. 42 del 2004 si risolve in un
superfluo accertamento dell’irrilevanza
paesaggistica della “variante” al
permesso di costruire e quindi in un’inutile
duplicazione di attività amministrativa,
incompatibile con il fondamentale principio
di economicità codificato nell’art. 1 della
legge n. 241 del 1990 (TAR Emilia
Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 223 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Prevenzione incendi - Impianto di
distribuzione di carburanti - Procedimento
relativo all’autorizzazione petrolifera in
itinere - Rilascio del permesso di costruire
- Legittimità - Art. 1, c. 2, d.lgs. n.
32/1998.
Ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n.
32 del 1998, è l’autorizzazione petrolifera,
non il permesso di costruire, l’atto
subordinato al rispetto delle prescrizioni
di “prevenzione incendi”; d’altra
parte, nel sistema normativo di cui agli
artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 32 del 1998
l’autorizzazione all’installazione e
all’esercizio dell’impianto e il permesso di
costruire costituiscono gli elementi di una
fattispecie complessa a formazione
progressiva, al cui completarsi -secondo una
scansione temporale non tipizzata- si
realizzano le condizioni di legge per il
legittimo esercizio della relativa attività,
onde è legittimo il rilascio della
concessione edilizia per la realizzazione di
un impianto di distribuzione di carburanti
ancorché il procedimento relativo alla
richiesta dell’autorizzazione petrolifera
sia ancora in itinere (v. TAR Lazio, Latina,
18.09.2008 n. 1177) (TAR Emilia
Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 223 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Titolo edilizio in sanatoria -
Carenza della dichiarazione di conformità di
cui all’art. 17, c. 4, l.r. Emilia Romagna
n. 23/2004 - Mera irregolarità.
L’eventuale carenza della dichiarazione di
conformità di cui all’art. 17, c. 4, l.r.
Emilia Romagna n. 23/2004 assume i caratteri
della mera irregolarità, nel senso che
-fermo restando l’onere del richiedente di
provvedere in merito- il titolo edilizio in
sanatoria rilasciato senza la preventiva
produzione di detto atto non risulta per ciò
solo illegittimo, ma lo diviene unicamente
in presenza di un’effettiva inosservanza di
norme urbanistiche o tecniche cui
l’intervento avrebbe dovuto attenersi (TAR
Emilia Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 223 - link
a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO - Bonifica - Art. 17
d.lgs. n. 22/1997 - Inquinamento prodotto in
epoca precedente all’entrata in vigore -
Applicabilità della norma - Fondamento.
L’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, che
peraltro presenta profili di continuità
sostanziale con le disposizioni pregresse,
trova applicazione a qualunque situazione di
inquinamento in atto al momento dell’entrata
in vigore del decreto legislativo,
indipendentemente dal momento in cui possa
essere avvenuto il fatto o i fatti
generatori dell’attuale situazione
patologica, posto che l’inquinamento dà
luogo ad una situazione di carattere
permanente che perdura fino a che non ne
vengano rimosse le cause ed i parametri
ambientali alterati siano riportati entro i
limiti normativamente accettabili.
La formulazione della norma collega infatti
la pena non al momento in cui viene
cagionato l’inquinamento o il relativo
pericolo ma alla mancata realizzazione, da
parte del responsabile, della bonifica, ai
sensi dell’art. 17.
Non si tratta quindi di portata retroattiva
della norma ma dell’applicazione ratione
temporis della legge onde fare cessare
gli effetti di una condotta omissiva a
carattere permanente, che possono essere
elisi solo con la bonifica; detto
altrimenti, non viene sanzionato
l’inquinamento in epoca precedente prodotto
ma la mancata eliminazione degli effetti che
permangono nonostante il fluire del tempo.
(Cons. Stato, Sez. VI, 09.10.2007 n. 5283).
INQUINAMENTO - Prova -
P.A. - Presunzioni semplici ex art. 2727 c.c..
L’esigenza di effettività della protezione
dell’ambiente consente all’Amministrazione
di avvalersi di prove dirette e indirette,
ossia di presunzioni semplici ex art. 2727
cod.civ., prendendo in considerazione
elementi di fatto dai quali possano trarsi
indizi gravi precisi e concordanti, che
inducano a ritenere verosimile, secondo l’id
quod plerumque accidit, che si sia
verificato un inquinamento e che questo sia
attribuibile a determinati autori (v. Cons.
Stato, Sez. V, 16.06.2009 n. 3885) (TAR
Emilia Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 218 - link
a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Liquami zootecnici -
Spandimento - Materiale detenzione dei
terreni - Necessità - Formale disponibilità
giuridica - Insufficienza.
In tema di attività di spandimento dei
liquami zootecnici, allorché sorga un
contrasto tra privati in ordine all’uso di
date aree, l’Amministrazione deputata al
rilascio del titolo abilitativo deve
necessariamente tenere conto dello stato di
materiale detenzione del bene e non già
della formale disponibilità giuridica dello
stesso, giacché è dal suo effettivo impiego
che deriva il presupposto perché sia
riconosciuta, in quella fase storica,
all’uno anziché all’altro soggetto la
capacità di operarvi. (Nella specie, la
ditta affittuaria delle aree interessate si
era opposta allo spandimento dei liquami
della ricorrente: la mera pretesa di
quest’ultima a che la ditta che aveva la
materiale detenzione dei terreni si
attenesse all’impegno assunto in sede
contrattuale risultava carente del requisito
dell’«effettività», acquisibile solo con una
pronuncia del giudice civile che desse
concreta attuazione al diritto asseritamente
disatteso, così rendendolo effettivo)
(TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 217 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Consorzi - Requisiti di natura
tecnica singolarmente posseduti dalle
imprese consorziate - Cumulo - Requisiti
generali di partecipazione - Ordine pubblico
e moralità - Singole imprese - Possesso e
documentazione.
Con riferimento alle aggregazioni consortili
cui l’ordinamento riconosce la qualità di
soggetti con propria abilitazione a
concorrere per l’affidamento di commesse
pubbliche, sono le singole imprese
consorziate, dotate di autonoma personalità
e di distinta organizzazione di impresa, i
soggetti chiamati ad assumere in concreto le
opere o i servizi oggetto dell’appalto,
onde, se è in astratto ammissibile cumulare
i requisiti di natura tecnica singolarmente
posseduti dalle imprese consorziate, tale
principio non implica affatto che i
requisiti generali di partecipazione,
relativi alla regolarità della gestione
delle singole imprese sotto il profilo
dell’ordine pubblico, anche economico, e
della moralità, possano ritenersi accertati
con esclusivo riferimento al consorzio e non
debbano invece essere posseduti e
documentati dalle singole imprese designate
quali esecutrici del servizio o dell’opera.
(Cons. Stato, Sez. V, 30.01.2002 n. 507;
Cons. St., sez. IV, 07.04.2008 n. 1485;
Cons. St., sez. VI, 24.11.2009 n. 7380;
Cons. Stato, Sez. VI, 15.06.2010 n. 3759).
Modello GAP - Mancata specifica
previsione nel bando di gara - Sanzione
dell’esclusione - Inapplicabilità - Ragioni.
Nel caso in cui la disciplina di gara per
l’affidamento di un appalto nulla disponga
circa la produzione del modello GAP, nessuna
sanzione, tanto meno di esclusione dalla
gara, può essere disposta a carico
dell’impresa concorrente che abbia fatto
legittimo affidamento sul tenore del bando e
del disciplinare di gara e ad essi si sia
attenuta, anche perché il modello GAP non
rappresenta un requisito aggiuntivo per la
partecipazione alle gare, vincolante
immediatamente sia le stazioni appaltanti
che i concorrenti in sede di espletamento
delle procedure selettive, e risponde
piuttosto a finalità di polizia, onde la sua
compilazione costituisce adempimento di un
obbligo che, pur sorgendo per l’ente
appaltante e per il privato in occasione
della indizione della gara di appalto, non
attiene al contenuto della gara, rimanendo
estraneo al rapporto che sorge da questa (v.
TAR Sicilia, Palermo, Sez. III, 11.03.2010
n. 2807) (TAR Emilia Romagna-Parma, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 216 - link
a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Attenti
al litigio, se il collega si sente male sono
guai. Sussiste il reato di lesioni per i
danni subiti a causa di un comportamento
ingiurioso. La suprema corte ribalta la
decisione del gup.
In una lite fra docenti,
se uno dei litiganti si sente male, l'altro
collega rischia una condanna per lesioni.
Lo ha stabilito la V Sez. penale della Corte
di Cassazione, con la sentenza 27.06.2011 n. 25611.
La Suprema corte ha ritenuto plausibile la
tesi della docente offesa, secondo la quale
il giudice dell'udienza preliminare (Gup)
non avrebbe dovuto dichiarare il non luogo a
procedere.
E quindi ha annullato la sentenza impugnata
rinviando gli atti al tribunale di Tivoli
per un nuovo esame. Una sentenza
interessante, visto che il clima nella
scuola è sempre più rovente, anche nei
rapporti tra docenti.
I fatti contestati all'imputato si erano
svolti in una scuola, in cui tanto entrambi
i litiganti prestavano servizio come
insegnanti. Secondo l'ipotesi di accusa si
erano verificati in due diverse circostanze:
una prima volta durante il collegio dei
docenti dell'01.10.2007 e poi il 31 ottobre
successivo, nell'ambito di un vivace
diverbio. In tale occasione un altro collega
era stato testimone e si era anche
interposto tra i due per evitare che la
discussione sfociasse in atti di violenza
fisica. Peraltro, all'ultima fase del
litigio aveva assistito la stessa preside.
In occasione dei litigi intercorsi tra i due
docenti, erano volate parole grosse e
l'imputato aveva apostrofato la collega con
espressioni del tipo: «prevaricatrice>»,
«maleducata», «priva di dignità»,
che però, secondo il Gup, non costituivano
ingiuria.
Infine, per quanto riguarda un ulteriore
epiteto, rivolto sempre dall'imputato alla
collega («necrofila fallica») il
giudice aveva argomentato il non doversi
procedere con il fatto che non risultava
proposta querela. Quanto alle minacce
lamentate dalla docente, il magistrato aveva
ritenuto che non ve ne fossero state. Pur
dando atto che la lite si era svolta in due
fasi, e che nella seconda fase l'imputato
aveva fatto irruzione nello studio della
preside, dove l'antagonista aveva trovato
riparo, tentando di aggredirla fisicamente.
Tentativo non riuscito grazie
all'interposizione di un altro docente, che
già aveva evitato pochi minuti prima che la
lite trascendesse a vie di fatto.
La querelante, peraltro, aveva anche
lamentato le lesioni volontarie, perché lo
stress emotivo le aveva cagionato un rialzo
brusco della pressione, che aveva indotto
un'emorragia cerebrale a sinistra con esiti
protrattisi per oltre 40 giorni. Ma il Gup
aveva osservato che si era trattato di esito
del litigio del tutto imprevedibile, non
ascrivibile all'imputato neppure a titolo di
colpa. Insomma, il giudice monocratico le
aveva dato torto su tutta la linea. La
docente, però, non si era rassegnata e aveva
presentato ricorso per Cassazione. E i
giudici di legittimità le hanno dato
ragione, annullando la sentenza e
rinviandola al mittente.
Secondo la Cassazione il Gup aveva
affermato, senza dimostrarlo, che le
invettive rivolte dall'imputato alla docente
ricorrente non avevano valenza denigratoria.
Il tutto «nonostante la loro evidente
portata ingiuriosa», si legge nella
sentenza, «risultante anche dal contesto
e dalla pluralità delle espressioni
offensive, indubbiamente e chiaramente
lesive del prestigio professionale, della
dignità e del decoro della parte offesa».
In più il Gup aveva dichiarato che
l'imputato non aveva tenuto un atteggiamento
minaccioso nei confronti dell'antagonista,
contraddicendo la stessa ricostruzione del
fatto esposta in sentenza.
E infine aveva escluso l'applicazione
dell'articolo 586 del codice penale, che
peraltro, punisce proprio le lesioni
derivanti da altro comportamento illecito «con
affermazione meramente assertiva,
sostanzialmente immotivata»
(articolo ItaliaOggi del 05.07.2011). |
APPALTI:
La giurisdizione del giudice
amministrativo in materia di appalti
pubblici è limitata alle controversie
concernenti la fase pubblicistica di scelta
del contraente e non comprende le vicende
successive alla stipulazione del contratto.
Sulle questioni relative alla fase di
esecuzione dei contratti pubblici (vicenda
alla quale non sfugge l'esecuzione
dell'oggetto di una concessione con
riferimento ai rapporti tra il
concessionario ed un sub-appaltatore, come
nel caso di specie), la giurisprudenza è
stata sempre chiarissima e ferma
nell'affermare che la giurisdizione del
giudice amministrativo in materia di appalti
pubblici è limitata alle controversie
concernenti la fase pubblicistica di scelta
del contraente e non comprende le vicende
successive alla stipulazione del contratto,
afferendo queste ultime alla fase paritetica
di esecuzione che è riservata al giudice
ordinario.
Infatti, per pacifica opinione
giurisprudenziale, le disposizioni recanti
devoluzione alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo di tutte le
controversie relative alle procedure di
affidamento di appalti pubblici riguardano
il solo segmento pubblicistico dell'appalto,
inclusi i provvedimenti di non ammissione
alla gara o di esclusione dei concorrenti, e
non anche la fase concernente l'esecuzione
del rapporto, ove resta operante la
competenza giurisdizionale del giudice
ordinario, come giudice dei diritti, al
quale spetta verificare la conformità alla
normativa positiva delle regole attraverso
cui i contraenti hanno disciplinato i loro
contrapposti interessi e delle relative
condotte attuative (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 27.06.2011 n. 5662 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La procedura per la constatazione
del silenzio-rifiuto non può essere
utilizzata per rimettere in discussione
provvedimenti ormai divenuti inoppugnabili.
Come ha costantemente affermato la
giurisprudenza, non è ravvisabile alcun
obbligo per l'Amministrazione di
pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere
un provvedimento in via di autotutela, non
essendo coercibile ab extra
l'attivazione del procedimento di riesame
della legittimità di atti amministrativi
mediante l'istituto del silenzio-rifiuto e
lo strumento di tutela giurisdizionale
offerto, costituendo l'esercizio del potere
di autotutela facoltà ampiamente
discrezionale dell'Amministrazione, che non
ha alcun dovere giuridico di esercitare
detto potere (cfr., ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. V, 01.03.2010 n. 1156 e
Sez. VI, 16.12.2008 n. 6234). Stante,
dunque, il carattere altamente discrezionale
della potestà di autotutela amministrativa
da parte della P.A., ne deriva che essa non
ha alcun obbligo di provvedere su istanze
che ne sollecitino l'esercizio, per cui
sulle stesse non si forma il silenzio e la
relativa azione, volta a dichiararne
l'illegittimità, è da ritenersi
inammissibile.
Ed invero, la possibilità di ricorrere alla
procedura del silenzio è condizionata alla
esistenza di due presupposti distinti e cioè
un obbligo rispetto al quale
l'Amministrazione risulti inadempiente e la
insussistenza di ragioni giustificative.
Tale obbligo è costantemente ritenuto
insussistente con riferimento alle istanze
di autotutela, alle riproposizioni di
istanze già esaminate dall'Amministrazione,
alle istanze del tutto prive di fondamento
ed alle istanze non dotate dei requisiti
minimi di ammissibilità secondo la
legislazione di settore.
Pertanto, nel caso in cui venga proposta una
istanza del privato intesa a sollecitare
l'esercizio del potere di autotutela della
Amministrazione, non è dato ravvisare un
obbligo di provvedere a carico della stessa
in ragione della discrezionalità
dell'attività della P.A. in tema di atti di
ritiro cui il riesame è di norma
finalizzato, della sussistenza rispetto
all'esercizio di tale potere non di una
posizione di interesse legittimo, ma di mero
interesse di fatto, nonché dell'esigenza di
certezza delle situazioni giuridiche e di
efficienza gestionale che sono a base
dell'agire della pubblica amministrazione e
che verrebbero a trovare detrimento da una
ritenuta doverosità del riesame.
Il che impone di ricordare che il giudizio
in materia di silenzio inadempimento si
ricollega, sul piano logico-sistematico, al
dovere imposto a tutte le amministrazioni
pubbliche di concludere tutti i procedimenti
mediante l'adozione di provvedimenti
espressi nei casi in cui essi conseguano
obbligatoriamente ad una istanza ovvero
debbano essere iniziati d'ufficio, secondo
la previsione dell'articolo 2 della legge
07.08.1990 n. 241, il che postula pur sempre
l'esercizio di una potestà amministrativa
rispetto alla quale la posizione del privato
si configuri come un interesso legittimo,
trovando solo in tale prospettiva razionale
giustificazione la ratio del predetto
giudizio, volto ad accertare se
l'amministrazione abbia, con il silenzio,
violato il predetto obbligo di provvedere
(cfr., ex multis, Cons. Stato, Ad.
pl. 09.01.2002 n. 1 e Sez. IV, 24.03.2003 n.
1521), essendo lo scopo del ricorso avverso
il silenzio rifiuto quello di ottenere un
provvedimento esplicito dell'Amministrazione
che elimini lo stato di inerzia e assicuri
al privato una decisione che investe la
fondatezza o meno della sua pretesa.
Sulla scorta di tali principi va, dunque,
escluso che la procedura per la
constatazione del silenzio-rifiuto possa
essere utilizzata per ottenere la riapertura
di procedimenti già definiti in sede
amministrativa ovvero per rimettere in
discussione provvedimenti ormai divenuti
inoppugnabili, non sussistendo l'obbligo
dell'Amministrazione di provvedere -e, di
conseguenza, non sussistendo un'ipotesi di
silenzio-rifiuto- allorquando l'interessato,
attraverso la procedura del silenzio
rifiuto, abbia sollecitato l'esercizio del
potere di autotutela, rispetto al quale è
ravvisabile una posizione, non di interesse
legittimo, ma di mero interesse di fatto,
anche in ragione della mancanza di un
obbligo dell'Amministrazione di attivarsi in
via di autotutela.
Con particolare riguardo ai provvedimenti di
autotutela, va difatti precisato che essi
sono manifestazione dell'esercizio di un
potere tipicamente discrezionale della
Pubblica amministrazione che non ha alcun
obbligo di attivarlo, in quanto subordinato
alla sussistenza della attualità e della
concretezza dell'interesse pubblico, che
solo può giustificare l'emanazione del
provvedimento di autotutela e che, in ogni
caso, non può concretarsi nel mero
ripristino della legalità violata, e,
qualora intenda farlo, deve valutare la
sussistenza o meno di un interesse che
giustifichi la rimozione dell'atto,
valutazione di cui essa sola è titolare e
che non può ritenersi dovuta nel caso di una
situazione già definita, salvo l'obbligo
generale di buona amministrazione che,
tuttavia, non si concreta nel dovere
giuridico di rispondere alla richiesta del
privato, se non in presenza di procedimenti
per i quali sussista l'obbligo di
conclusione con provvedimento espresso.
Ciò, d'altra parte, non può ritenersi
contrastante con esigenze di diritto
sostanziale, perché la certezza delle
situazioni giuridiche definite è essa stessa
un bene irrinunciabile posto a tutela dei
cittadini e non può essere elusa mediante
l'impugnazione del silenzio-rifiuto
formatosi su un'istanza diretta a
sollecitare l'adozione di provvedimenti di
annullamento o di modifica di precedenti
determinazioni, non impugnate nei termini e
nelle forme di rito.
Sicché, in conclusione, la Pubblica
amministrazione, nell'ambito della generale
potestà di autotutela, può in ogni momento
rivedere discrezionalmente gli atti e
provvedimenti adottati, ma non ha alcun
obbligo di pronunziarsi sulle istanze volte
ad ottenere un provvedimento favorevole da
parte di coloro che non abbiano
tempestivamente impugnato l'atto la cui
legittimità pongono in contestazione.
Ne consegue che su dette istanze non si
forma il silenzio rifiuto impugnabile e
quindi che è inammissibile il ricorso
proposto avverso il predetto comportamento
omissivo (TAR Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 27.06.2011 n. 5661 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
clausola escludente della lex specialis deve
essere immediatamente impugnata a pena di
irricevibilità del ricorso.
Secondo i noti princìpi sanciti dalla
decisione n. 1/2003 dell’A.P. del Consiglio
di Stato, ribaditi –dopo l’entrata in vigore
del codice del processo amministrativo-
dalla sentenza n. 4/2011 della stessa A.P.,
quando venga contestata una clausola del
bando “escludente”, in relazione alla
illegittima previsione di determinati
requisiti di qualificazione, sorge in capo
alla parte un onere di immediata
impugnazione della clausola medesima (massima
tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it
- TAR Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 27.06.2011 n.
1222 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La destinazione a verde pubblico
attrezzato costituisce vincolo conformativo
e non espropriativo.
La giurisprudenza ha ripetutamente affermato
che la destinazione a verde pubblico
attrezzato costituisce vincolo conformativo
e non espropriativo, in quanto incidente su
categorie di beni aventi caratteristiche
omogenee e non comportante l’azzeramento
delle facoltà proprietarie sui medesimi
(C.d.S. IV, 12.05.2010 n. 2843) (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 27.06.2011 n. 1111 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il concorrente che intenda far
ricorso all'istituto dell'avvalimento deve
produrre in sede di gara il relativo
contratto.
In caso di ricorso all'istituto dell'avvalimento,
ai sensi dell'art. 49, c. 2, del d.lgs. n.
163/06, il concorrente deve produrre una
dichiarazione sottoscritta dall'impresa
ausiliaria, con cui quest'ultima si obbliga
verso il primo e nei confronti della
stazione appaltante a mettere a disposizione
le risorse necessarie di cui è difetta il
concorrente, nonché in originale o copia
autentica il contratto in virtù del quale
l'impresa ausiliaria si obbliga nei
confronti del concorrente a fornire i
requisiti e a mettere a disposizione le
risorse necessarie per tutta la durata
dell'appalto.
La cognizione in sede di gara di tale
contratto è importante per poter esaminare
in concreto le pattuizioni stabilite tra le
parti, ed appurare se, dalle stesse, emerga
una concreta cessione di mezzi e risorse tra
ausiliaria e concorrente. La necessaria
produzione in giudizio del contratto di
avvalimento è quindi ragionevole, e comporta
che gli accordi tra le parti in tale materia
dovranno senz'altro rivestire una forma
scritta, tale da poter essere prodotti nella
documentazione di gara.
Inoltre, la necessità che l'utilizzo dell'avvalimento
sia accompagnato dalla produzione in atti
del relativo contratto, non è in contrasto
con la normativa europea in materia,
trattandosi di un onere probatorio che può
essere facilmente assolto e che riveste,
peraltro, una chiara funzione di certezza
delle relazioni giuridiche (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 27.06.2011 n. 1110 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Le scelte relative alla
destinazione dei suoli operate dagli
strumenti urbanistici generali necessitano
di specifica motivazione quando sussista, in
capo al privato, un'aspettativa qualificata.
E' pertinente il richiamo al consolidato
orientamento giurisprudenziale (a cui questa
Sezione ha fatto recentemente riferimento
nella sentenza 14.02.2011 n. 304) secondo
cui le scelte relative alla destinazione dei
suoli operate dagli strumenti urbanistici
generali non necessitano, in linea di
massima, di specifica motivazione, salvo i
casi in cui non sussista, in capo al
privato, un’aspettativa qualificata, che
tuttavia non può derivare dalla diversa
destinazione urbanistica precedentemente
attribuita alla medesima area, rispetto alla
quale l'amministrazione conserva ampia
discrezionalità, potendo anche modificare
in peius la destinazione stessa (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 29.12.2009 n.
9006).
Nell'elaborazione giurisprudenziale
posizioni di aspettativa qualificata, tali
da imporre all'amministrazione di motivare
le proprie scelte pianificatorie, sono state
riconosciute in relazione alle seguenti
situazioni:
a) superamento degli standards minimi di cui
al d.m. 02.04.1968, con l'avvertenza che la
motivazione ulteriore va riferita
esclusivamente alle previsioni urbanistiche
complessive di sovradimensionamento,
indipendentemente dal riferimento alla
destinazione di zona di determinate aree;
b) convenzioni di lottizzazione, accordi di
diritto privato intercorsi tra il Comune e i
proprietari delle aree, giudicati di
annullamento di dinieghi di un titolo
edilizio o di silenzio-rifiuto su una
domanda edilizia;
c) modificazione in zona agricola della
destinazione di un'area limitata, interclusa
da fondi edificati in modo non abusivo (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. IV, 12.05.2010 n.
2843 e 22.06.2006 n. 3880; TAR Firenze, Sez.
I, 06.07.2010 n. 2307; TAR Napoli, Sez. II,
20.04.2010 n. 2034; TAR Milano, Sez. II,
24.02.2010 n. 452) (TAR Toscana, Sez. I,
sentenza 27.06.2011 n. 1092 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla ratio del divieto di
all'art. 13 del D.L. 223/2006 (decreto
Bersani) e sull'interpretazione della
locuzione "oggetto esclusivo".
Sul periodo transitorio per la cessazione
degli affidamenti diretti e divieto di
partecipazione alle gare.
L'art. 13 del D.L. 223/2006, convertito in
l. 248/2006 (c.d. decreto Bersani) trova
fondamento nel fatto che l'U.E. ha
reiteratamente previsto la necessità che gli
Stati membri provvedano alla
regolamentazione dell'accesso al mercato
degli appalti pubblici da parte di organismi
di proprietà o partecipati da Enti pubblici
(IV considerando della Direttiva
2004/18/CE).
Lo scopo del divieto di cui al citato art.
13 è quello di evitare le distorsioni alla
concorrenza provocate dalle Società che
fruiscono dei vantaggi connessi
all'affidamento senza gara: esse potrebbero
partecipare alle procedure comparative
sfruttando le posizioni privilegiate
acquisite senza il previo confronto
concorrenziale.
Se dunque la ratio è quella di
tutelare i principi di concorrenza e di
trasparenza nonché quello di libertà di
iniziativa economica -che risulterebbero
turbati dalla presenza (diretta o indiretta)
della mano pubblica la quale provoca
un'elusione del rischio d'impresa- devono
considerarsi partecipate da amministrazioni
pubbliche regionali o locali anche le
Società partecipate da Società intermedie
controllate da dette amministrazioni: il
divieto previsto dall'art. 13, in altri
termini, deve ritenersi applicabile ad
un'impresa partecipata da un'altra impresa,
che a sua volta è controllata da
amministrazioni pubbliche locali.
---------------
La locuzione "oggetto esclusivo"
contemplata all'art. 13 del D.L. 223/2006,
va riferita al rapporto con l'Ente
territoriale di riferimento in senso
rafforzativo del legame con lo stesso, che
non consente proiezioni "extra ambito":
diversamente opinando si perviene ad
un'interpretazione sostanzialmente
abrogatrice della disposizione, in quanto è
sufficiente contemplare nello Statuto un
oggetto sociale plurimo -peraltro consueto
nell'odierna realtà delle Società
partecipate- per scongiurare la sua
applicazione, in contrasto con la ratio
già diffusamente descritta.
---------------
La data del 31/12/2010, per la cessazione
degli affidamenti diretti sancisce la
definitiva scadenza del periodo transitorio,
oltre la quale nessuna deroga all'apertura
alla concorrenza può essere consentita. Il
temperamento costituito dalla possibilità di
partecipare alle "prime gare" ha
esaurito la sua funzione con la conclusione
della fase transitoria e non può più essere
ritenuto ammissibile, in quanto estenderebbe
ulteriormente nel tempo un beneficio già
garantito agli affidatari diretti per 8
anni.
Il sistema delineato con la stratificazione
normativa (art. 113 del D.Lgs. 267/2000, c.
15-bis e art. 23-bis del D.L. 112/2008), ha
infatti garantito a sufficienza i soggetti
beneficiari di affidamenti diretti,
legittimando il prolungamento o comunque il
mantenimento dell'efficacia dei contratti in
corso fino al 31/12/2010, pur in costanza
del sacrificio della logica aspirazione
degli operatori del settore al rispetto del
principio comunitario della parità di
trattamento, attraverso l'assegnazione dei
servizi pubblici mediante un confronto
comparativo aperto a tutte le imprese
interessate (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 24.06.2011 n. 939 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
I bandi di gara d'appalto per gli
affidamenti dei servizi pubblici, possono
prevedere requisiti di capacità più rigorosi
di quelli indicati dalla legge, purché non
discriminanti rispetto alle regole proprie
del settore.
I bandi di gara, quali atti generali, si
sottraggono all'obbligo di motivazione.
Secondo un consolidato indirizzo
giurisprudenziale, i bandi di gara d'appalto
per gli affidamenti dei servizi pubblici,
possono prevedere requisiti di capacità più
rigorosi di quelli indicati dalla legge,
purché non discriminanti rispetto alle
regole proprie del settore, rientrando nel
potere discrezionale della P.A. la
fissazione di requisiti di partecipazione
superiori a quelli previsti dalla legge, e
di conseguenza, può pretendere
l'attestazione di requisiti di capacità
tecnica, diversi ed ulteriori dalla semplice
iscrizione in albi od elenchi.
L'esercizio di tale potere discrezionale
costituisce attuazione dei principi
costituzionali di imparzialità e buon
andamento dell'azione amministrativa di cui
all'art. 97 Cost., sostanziandosi
nell'apprestamento degli strumenti e misure
più adeguati, efficienti ed efficaci, al
fine di un corretto ed effettivo
perseguimento dell'interesse pubblico
concreto, in relazione all'oggetto
dell'appalto da affidare, laddove le
previsioni contenute nelle relative
disposizioni normative di settore sono volte
a stabilire una semplice presunzione di
possesso dei requisiti minimi e, pertanto,
ben possono essere derogati
dall'amministrazione.
Di conseguenza le scelte così operate dalla
P.A. sono ampiamente discrezionali, e si
sottraggono, pertanto, al sindacato del G.A..
---------------
I bandi di gara, quali atti generali, si
sottraggono all'obbligo di motivazione, così
che il sindacato sulla scelta di fissare
requisiti ulteriori e più rigorosi di quelli
previsti dalla legge, riguarda il corretto
esercizio del potere amministrativo sotto il
profilo della ragionevolezza e non
arbitrarietà, in relazione all'oggetto del
contratto e all'interesse pubblico
perseguito.
La clausola contestata, nel caso di specie,
è diretta all'accertamento in concreto del
requisito di capacità tecnica, al fine del
corretto espletamento del delicato servizio
di accertamento e riscossione dell'imposta
comunale sulla pubblicità.
D'altra parte, l'iscrizione nell'Albo dei
soggetti abilitati ad effettuare attività di
accertamento e riscossione dei tributi degli
enti locali, costituisce una presunzione del
possesso dei requisiti di capacità tecnica
ed economico-finanziaria, non potendo
tuttavia escludersi, in mancanza di
un'apposita norma in tal senso, il potere
dell'amministrazione di fissare ulteriori
requisiti, tenuto conto dell'effettivo
oggetto del contratto, al fine di rendere il
servizio quanto più efficiente ed efficace
possibile (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2011 n. 3809 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI -
Opere mobili - Assenza del prescritto
permesso di costruire - Reato di costruzione
edilizia abusiva - Zona sottoposta a vincolo
paesaggistico - Art. 181 D.Lgs. n. 42/2004 -
Artt. 44, lett. c) e 3, 1° c. - lett. e.5),
T.U. n. 380/2001.
Ai sensi dell'art. 3, 1° comma, lett. e.5),
del T.U. n. 380/2001, è configurabile il
reato di costruzione edilizia abusiva anche
nell'ipotesi di installazione di roulotte,
camper e case mobili, sia pure montati su
ruote e non incorporati al suolo, aventi una
destinazione duratura per soddisfare
esigenze abitative.
Pertanto, devono ritenersi, pienamente
equiparate alle "nuove costruzioni",
ai fini della necessità del rilascio del
permesso di costruire, le strutture
abitative mobili (quali quelle che
caratterizzano la vicenda in esame:
descritte negli stessi documenti di acquisto
come furgoni attrezzati per uso abitazione)
che, pure avendo la parvenza della mobilità,
hanno caratteristiche obiettive di stabilità
e capacita di trasformare in modo durevole
l'area occupata ed utilizzata
definitivamente a scopo edilizio.
BENI CULTURALI ED
AMBIENTALI - Distruzione o l'alterazione
delle bellezze protette - Natura di reato di
danno - Presupposto per la configurabilità
del reato - Art. 734 cod. pen..
La contravvenzione di cui all'art. 734 cod.
pen. si configura come un reato di danno, e
non di pericolo (o di danno presunto),
richiedendo per la sua punibilità che si
verifichi in concreto la distruzione o
l'alterazione delle bellezze protette.
Non è sufficiente, pertanto, per integrare
gli estremi del reato, né l'esecuzione di
un'opera né la semplice alterazione dello
stato naturale delle cose sottoposte a
vincolo, ma occorre che tale alterazione
abbia effettivamente determinato la
distruzione o il deturpamento della bellezza
naturale (Cass., Sez. Unite, 12.01.1993, n.
248) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.06.2011 n. 25015 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il potere di autotutela, di per
sé esercitabile anche dopo un considerevole
lasso di tempo purché contemperato con il
principio di ragionevolezza, in presenza di
una superiore esigenza di legalità, quale la
rilevata nullità radicale del provvedimento,
fa sì che l'interesse pubblico al suo
esercizio sia in re ipsa, dovendosi
identificare nella cessazione di ulteriori
effetti contra legem.
La firma in calce al provvedimento
amministrativo è tanto più necessaria in
quanto solo in base ad essa è possibile
verificare se l'agente firmatario sia dotato
della competenza ad emettere quel
determinato tipo di atti o provvedimenti e,
ancora prima, se l'emissione di quella data
categoria di atti rientri nella sfera di
attribuzione dell'organo o dell'ente.
Il potere di autotutela, di per sé
esercitabile anche dopo un considerevole
lasso di tempo (in applicazione dell'art.
21-nonies della L. n. 241 del 1990) purché
contemperato con il principio di
ragionevolezza, in presenza di una superiore
esigenza di legalità, quale la rilevata
nullità radicale del provvedimento, fa sì
che l'interesse pubblico al suo esercizio
sia in re ipsa, dovendosi
identificare nella cessazione di ulteriori
effetti contra legem (cfr. Cons.
Stato, Sez. VI, 18.08.2009, n. 4958).
Per gli atti
amministrativi la firma in calce al
provvedimento è tanto più necessaria in
quanto solo in base ad essa è possibile
verificare se l'agente firmatario sia dotato
della competenza ad emettere quel
determinato tipo di atti o provvedimenti e,
ancora prima, se l'emissione di quella data
categoria di atti rientri nella sfera di
attribuzione dell'organo o dell'ente (cfr.
in termini: TAR Veneto, sez. II, 13.11.2009,
n. 2883)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.06.2011 n. 1606 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
L’atto con cui il competente
organo comunale affida a un professionista
l'incarico della redazione di un progetto
per un'opera pubblica è valido e vincolante
nei confronti dell'ente soltanto qualora
contenga la previsione dell'ammontare del
compenso dovuto al professionista e dei
mezzi per farvi fronte, con la conseguenza
che l'inosservanza di tali prescrizioni
determina la nullità della determinazione in
parola, che si estende al contratto di
prestazione d'opera poi stipulato col
professionista.
L’atto con cui il competente organo comunale
affida a un professionista l'incarico della
redazione di un progetto per un'opera
pubblica è valido e vincolante nei confronti
dell'ente soltanto qualora contenga la
previsione dell'ammontare del compenso
dovuto al professionista e dei mezzi per
farvi fronte, con la conseguenza che
l'inosservanza di tali prescrizioni
determina la nullità della determinazione in
parola, che si estende al contratto di
prestazione d'opera poi stipulato col
professionista (cfr. TAR Campania Salerno,
sez. II, 15.04.2010, n. 3908) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.06.2011 n. 1606 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla scelta normativa di non
estendere l'art. 12 del DPR n. 252/1998
anche agli appalti di servizi.
La scelta normativa di non estendere l'art.
12 del DPR 252/1998 anche agli appalti di
servizi, pur se opinabile, non risulta
irragionevole alla luce delle più cospicue
garanzie ratione temporis predisposte
in tema di appalti di lavori (si pensi
all'albo costruttori e, quindi, all'Autorità
per la vigilanza sui lavori pubblici ed al
sistema di qualificazione SOA), idonee a
garantire un controllo sull'affidabilità
delle imprese operanti in questo settore,
più penetrante rispetto al campo degli
appalti di servizi e di forniture.
---------------
L'art. 10, c. 2, del D.p.r. 252/1998,
laddove dispone il divieto il divieto per le
Amministrazioni destinatarie di informazioni
di infiltrazioni mafiose di: "stipulare,
approvare o autorizzare i contratti o i
subcontratti, autorizzare, rilasciare o
comunque consentire le concessioni o le
erogazioni", persegue un'esigenza di
tutela dell'ordine pubblico, al fine di
anticipare la soglia di difesa sociale nel
campo della lotta alla criminalità
organizzata, rispetto alla quale l'art. 12
del medesimo D.p.r. 252/1998 si pone quale
eccezione ad una manipolazione analogica.
Il citato art. 12 del D.p.r. 252/1998,
ponendosi come eccezione, si riferisce
espressamente ai lavori pubblici e non anche
agli appalti di servizi, tuttavia l'appalto
in oggetto, trattandosi di una concessione
di costruzione e gestione, si qualifica sia
come appalto di lavori che di servizi
pertanto, va esclusa un'applicazione in via
analogica del precetto anzidetto, nonché
dell'art. 37, c. 19, del Codice dei
Contratti, che fa riferimento al subentro di
un diverso mandante nella fase di esecuzione
del contratto e non in quella
dell'affidamento, nella quale un'intervenuta
interdittiva antimafia impedisce al
concorrente la possibilità di aggiudicarsi
l'appalto (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.06.2011 n. 3697 -
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Spedizione illecita di
rifiuti - Ritagli di materiali tessili -
Sottoprodotto - Esclusione - Trattamento
diverso dalla normale pratica industriale -
Fattispecie: Verifica della perdita della
qualifica di rifiuto - Artt. 184-bis e ter,
259, c. 1, 260, c. 1, D.Lgs. n. 152/2006 -
Art. 483 c.p. - Art. 2, c. 1, punto 35 lett.
e) Reg. 259/1993 CEE e s.m. Reg. CE
1013/2006 - Art. 9-bis, c. 1, lett. a), D.L.
n. 172/2008 conv. con mod. L. n. 210/2008 -
D.L.vo n. 205/2010 in att. Dir. n.
2008/98/CE.
I ritagli di materiali tessili, non possono
rientrare nella nozione di sottoprodotto,
sia pure come novata dall'art. 184-bis del
D.Lgs. n. 152/2006, trattandosi di materiali
già sottoposti ad un ulteriore trattamento
diverso dalla normale pratica industriale
(art. 184 bis, comma 1 lett. c)
(Fattispecie: verifica della sussistenza del
fumus dei reati con riferimento ai criteri
specificati nel vigente art. 184-ter del D.
Lgs n. 152/2006, concernenti la perdita
della qualifica di rifiuto) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.06.2011 n. 24427 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione della sede di un
sindacato dei lavoratori non è esente dal
versamento del contributo di costruzione (oo.uu.
+ costo di costruzione).
La sede sindacale palesemente non è
riconducibile ad alcuno degli interventi
elencati dall’art. 16, commi VII e VII-bis (urbanizzazione
primaria: “strade residenziali, spazi di
sosta o di parcheggio, fognature, rete
idrica, rete di distribuzione dell'energia
elettrica e del gas, pubblica illuminazione,
spazi di verde attrezzato… cavedi
multiservizi e i cavidotti per il passaggio
di reti di telecomunicazioni") e VIII (urbanizzazione
secondaria: “asili nido e scuole
materne, scuole dell'obbligo nonché
strutture e complessi per l'istruzione
superiore all'obbligo, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese e altri edifici
religiosi, impianti sportivi di quartiere,
aree verdi di quartiere, centri sociali e
attrezzature culturali e sanitarie”).
Procedendo da alcune considerazioni
generali, è da osservare come l'art. 17, III
comma, lett. c), dpr 380/2001, disponga che
il contributo di costruzione non è dovuto “per
gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione,
eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”; la norma
riproduce il previgente art. 9, lett. f),
della l. 28.01.1977 n. 10, cui, nelle
successive citazioni giurisprudenziali, si
farà parimenti riferimento.
Anzitutto, è indubbio che la disposizione
deve ritenersi di stretta interpretazione,
in quanto introduce ipotesi di deroga alla
previsione generale, di cui all’art. 16, I
comma, del d.lgs. 380/2001, la quale
assoggetta a contributo tutte le opere che
comportino trasformazione del territorio.
È poi evidente che lo speciale regime di
gratuità richiede il concorso di due
requisiti, l'uno di carattere
soggettivo e l'altro di carattere
oggettivo (così, da ultimo, C.d.S. IV,
02.03.2011, n. 1332).
Il primo di questi,
per vero, consiste nell'esecuzione delle
opere da parte di enti istituzionalmente
competenti, vale a dire “da parte di
soggetti ai quali la realizzazione
dell'opera sia demandata in via
istituzionale” (così, in motivazione,
C.d.S., V, 12.07.2005, n. 3774).
Secondo un orientamento particolarmente
rigoroso l’opera, per conseguire il
beneficio, deve allora essere
necessariamente realizzata “da un ente
pubblico, non competendo la stessa ad opere
eseguite da soggetti privati, quale che sia
la rilevanza sociale dell'attività dagli
stessi esercitata nella o con l'opera
edilizia alla quale la concessione si
riferisce” (C.d.S.. V, 15.12.2005, n.
7140).
In ogni caso, ammettendo possa trattarsi
anche di un privato, questo deve operare “per
conto di un ente pubblico (come nella figura
della concessione di opera pubblica o in
altre analoghe figure organizzatorie ove
l'opera sia realizzata da soggetti che non
agiscano per scopo di lucro o che
accompagnino tale lucro ad un legame
istituzionale con l'azione
dell'amministrazione per la cura degli
interessi della collettività)” (così
C.d.S., IV, 10.05.2005, n. 2226).
Il secondo requisito,
come detto, è rappresentato dalla
riconduzione del manufatto alla categoria
delle opere pubbliche o di interesse
generale.
Orbene, nonostante parte ricorrente offra
sul punto una ponderosa ricostruzione, è
anzitutto da escludere che la C.I.S.L. sia
qualificabile come un “ente
istituzionalmente competente”,
Invero, non v’è dubbio che la ricorrente
rientri tra le organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative, ma non per
questo cessa di essere un’associazione
privata non riconosciuta che, appunto,
rappresenta e tutela, anche nelle sedi
istituzionali, gli interessi categoriali dei
lavoratori ad essa iscritti, senza per
questo acquistare uno status ed una
qualifica che presupporrebbe l’attuazione,
mai operata, dell’art. 39 della Costituzione
(ex multis, Cass. lav., 06.07.2000,
n. 9043: “Le organizzazioni sindacali dei
lavoratori e quelle dei datori di lavoro
sono tradizionalmente inquadrate tra le
associazioni non riconosciute, in
considerazione della loro natura di gruppi
-di lavoratori o datori di lavoro-
organizzati in modo stabile e provvisti di
strumenti finanziari e organizzativi
adeguati per lo svolgimento di una attività
comune di autotutela” ed “in assenza
di una legislazione di attuazione dell'art.
39, parte II, cost. per la relativa
disciplina occorre far riferimento alla
normativa dettata dagli art. 36, 37 e 38
c.c.”).
La sede dell’associazione sindacale, a sua
volta, non può essere qualificata come
un’opera pubblica, o d’interesse generale,
ma soltanto come un bene strumentale,
mediante il quale l’associazione persegue i
propri compiti statutari.
Ciò non esclude che all’interno di tale
edificio possano svolgersi attività che
realizzano scopi di utilità collettiva, ma
ciò si realizza per la destinazione
concretamente impressa sull’edificio –o
parte di esso- dal suo proprietario, e non
in relazione alle caratteristiche
intrinseche dell’opera, che la destinano
direttamente alla fruizione collettiva, come
per una strada o un edificio pubblico.
Infine, va altresì escluso che una sede
sindacale possa costituire un’opera di
urbanizzazione eseguita da privato in
attuazione di strumenti urbanistici, come
pure la ricorrente in subordine sostiene.
È bensì vero che il Comune di Vicenza ha
variato la destinazione dell’area,
consentendone l’attuale destinazione, ma ciò
non basta ad assimilare l’edificio costì
realizzato ad un’opera d’urbanizzazione,
primaria o secondaria.
Invero, la sede sindacale palesemente non è
riconducibile ad alcuno degli interventi
elencati dall’art. 16, commi VII e VII-bis
(urbanizzazione primaria: “strade
residenziali, spazi di sosta o di
parcheggio, fognature, rete idrica, rete di
distribuzione dell'energia elettrica e del
gas, pubblica illuminazione, spazi di verde
attrezzato… cavedi multiservizi e i
cavidotti per il passaggio di reti di
telecomunicazioni") e VIII
(urbanizzazione secondaria: “asili nido e
scuole materne, scuole dell'obbligo nonché
strutture e complessi per l'istruzione
superiore all'obbligo, mercati di quartiere,
delegazioni comunali, chiese e altri edifici
religiosi, impianti sportivi di quartiere,
aree verdi di quartiere, centri sociali e
attrezzature culturali e sanitarie”).
D’altra parte, lo strumento generale
comunale non ha qualificato l’intervento
de quo come opera d’urbanizzazione
(cfr., per tale ipotesi, C.d.S.. V,
7140/2005 cit.), mentre la convenzione
30.03.2007 si riferisce genericamente ad “attrezzature
d’interesse collettivo”, oltre a
prevedere, giova nuovamente ricordarlo, che
il sindacato è tenuto alla corresponsione
degli “oneri dovuti relativamente
all’intervento”
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 16.06.2011 n. 1047 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Decorrenza del termine per
impugnare il permesso a costruire.
Certamente il termine decadenziale per
l'impugnazione del permesso di costruire
decorre dalla piena conoscenza
dell'esistenza e dell'entità delle
violazioni urbanistiche o dal contenuto
specifico del progetto edilizio (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n.
8705; Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010,
n. 8705; Consiglio Stato, sez. V,
24.08.2007, n. 4485).
Tuttavia il principio della certezza delle
situazioni giuridiche e di tutela di tutti
gli interessati deve far ritenere che il
soggetto concessionario non si possa
lasciare nella perpetua incertezza sulla
sorte del proprio titolo edilizio.
Ai fini della decorrenza del termine di
impugnazione di un permesso di costruire il
requisito della piena conoscenza non postula
necessariamente la conoscenza di tutti i
suoi elementi, essendo sufficiente quella
degli elementi essenziali quali l'autorità
emanante, la data, il contenuto dispositivo
e il suo effetto lesivo, salva la
possibilità di proporre motivi aggiunti ove
dalla conoscenza integrale del provvedimento
e degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità (cfr. Consiglio
Stato, sez. V, 12.07.2010, n. 4482).
Ciò posto, in ossequio al vecchio brocardo “diligentibus
jura succurrunt”, una volta che
l’interessato viene informato
dall’amministrazione degli estremi del
provvedimento, aveva il preciso dovere di
tutelare senza indugio i propri interessi
legittimi (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.06.2011 n. 3583 - link
a www.giustizia-amministrativa.it).
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Impugnazione del
permesso di costruire: i termini per il
ricorso al TAR decorrono dalla conoscenza
degli elementi essenziali del provvedimento.
Con la sentenza 13.06.2011 n. 3583 la IV
sezione del Consiglio di Stato precisa un
importante principio in tema di decorrenza
dei termini per impugnare un permesso di
costruire.
Il Collegio ribadisce il presupposto
-pacifico in giurisprudenza- che “il
termine decadenziale per l'impugnazione
decorre dalla piena conoscenza
dell'esistenza e dell'entità delle
violazioni urbanistiche o dal contenuto
specifico del progetto edilizio (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010, n.
8705; Consiglio Stato, sez. VI, 10.12.2010,
n. 8705; Consiglio Stato, sez. V,
24.08.2007, n. 4485).”
Ma precisa che il concetto di “piena
conoscenza” “non postula
necessariamente la conoscenza di tutti i
suoi elementi, essendo sufficiente quella
degli elementi essenziali quali l'autorità
emanante, la data, il contenuto dispositivo
e il suo effetto lesivo (omissis)”.
I Giudici di Palazzo Spada, nel decidere il
caso concreto, confermano la sentenza di
primo grado che aveva dichiarato l’irricevibilità
del ricorso in quanto notificato ben oltre
il termine decadenziale di 60 giorni
ritenendo che il ricorrente di fatto avesse
avuto “un’adeguata cognizione dei dati
lesivi del Permesso di Costruire” ben
prima della materiale disponibilità del
permesso di costruire stesso.
Precisando che “il principio della
certezza delle situazioni giuridiche e di
tutela di tutti gli interessati deve far
ritenere che il soggetto concessionario non
si possa lasciare nella perpetua incertezza
sulla sorte del proprio titolo edilizio”
il Collegio sottolinea lo specifico dovere
in capo all’interessato di “tutelare
senza indugio i propri interessi legittimi”
“una volta informato (omissis)
dall’amministrazione degli estremi del
provvedimento” e ribadisce come –in
ossequio al vecchio borcardo “diligenti
bus iura succurrunt”- resti sempre “salva
la possibilità di proporre motivi aggiunti
ove dalla conoscenza integrale del
provvedimento e degli atti presupposti
emergano ulteriori profili di illegittimità
(cfr. Consiglio Stato , sez. V, 12.07.2010,
n. 4482).”
La conoscenza di fatto dell’esistenza e
dell’entità delle violazioni urbanistiche e
del contenuto specifico del progetto
edilizio integra quindi una “piena
conoscenza” che può anche prescindere
dalla materiale disponibilità dell’atto
stesso e ne impone la tempestiva
impugnazione con riserva di motivi aggiunti
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio assenso equivale a
rilascio di concessione solo per l’edilizia
residenziale.
L’art. 8 del d.l. 23.01.1982, nr. 9,
convertito con modificazioni nella legge
25.03.1982, nr. 94, che prevede il formarsi
della c.d. concessione tacita per il
silenzio-assenso, decorso il termine di 90
giorni dalla presentazione della domanda
senza che sia intervenuto e comunicato il
provvedimento motivato con cui viene negato
il rilascio, costituisce uno strumento
eccezionale rispetto alla disciplina
generale e, pertanto, ha un campo di
applicazione ben definito ai soli interventi
di edilizia residenziale, diretti alla
costruzione di abitazione ed al recupero del
patrimonio abitativo esistente.
Giova richiamare i pregressi orientamenti di
questo Consiglio di Stato, secondo cui:
a)
l’art. 8 del decreto legge 23.01.1982, nr.
9, convertito con modificazioni nella legge
25.03.1982, nr. 94, che prevede il formarsi
della c.d. concessione tacita per il
silenzio-assenso, decorso il termine di 90
giorni dalla presentazione della domanda
senza che sia intervenuto e comunicato il
provvedimento motivato con cui viene negato
il rilascio, costituisce uno strumento
eccezionale rispetto alla disciplina
generale e, pertanto, ha un campo di
applicazione ben definito ai soli interventi
di edilizia residenziale, diretti alla
costruzione di abitazione ed al recupero del
patrimonio abitativo esistente ed ha avuto
in origine carattere transitorio con
efficacia temporale, dapprima limitata al
31.12.1984 e con successive leggi prorogata
al 31.12.1991, sino all’entrata in vigore
della legge 17.02.1992, nr. 179, con cui la
disciplina della concessione tacita è stata
definitivamente acquisita nell’ordinamento
con norma di regime (cfr. Cons. Stato, sez.
V, 28.12.2001, nr. 6438; id., 28.02.1995, nr.
295);
b)
quanto al citato art. 79, l.r. nr. 61 del
1985, nella parte in cui prescrive
l’attestazione del progettista per la
formazione del silenzio-assenso su domanda
di concessione di costruzione, esso va letto
in sintonia col citato art. 8, d.l. nr. 9
del 1982, le cui disposizioni sono state
qualificate “norme fondamentali di
riforma economico-sociale”, sicché la
previsione va a sua volta limitata ai soli
interventi di edilizia residenziale (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 19.02.1997, nr. 173;
id., 01.02.1995, nr. 156) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 13.06.2011 n. 3582 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Esecuzione di giudicato in tema
di annullamento di concessione edilizia.
L'annullamento giurisdizionale del permesso
di costruire provoca la qualificazione di
abusività delle opere edilizie realizzate in
base ad esso, per cui il Comune, stante
l'efficacia conformativa della sentenza del
giudice amministrativo, oltre che
costitutiva e ripristinatoria, è obbligato a
dare esecuzione al giudicato adottando i
provvedimenti consequenziali. Tali
provvedimenti non devono, peraltro, avere ad
oggetto necessariamente la demolizione delle
opere realizzate, il citato art. 38, D.P.R.
06.06.2001, n. 380, prescrivendo, in caso di
annullamento del permesso di costruire, una
nuova valutazione da parte del dirigente del
competente ufficio comunale riguardo la
possibilità di restituzione in pristino;
qualora la demolizione non risulti
possibile, il Comune dovrà irrogare una
sanzione pecuniaria, nei termini fissati
dallo stesso art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n.
380.
Come è noto, l'annullamento giurisdizionale
del permesso di costruire provoca la
qualificazione di abusività delle opere
edilizie realizzate in base ad esso, per cui
il Comune, stante l'efficacia conformativa
della sentenza del giudice amministrativo,
oltre che costitutiva e ripristinatoria, è
obbligato a dare esecuzione al giudicato
adottando i provvedimenti consequenziali.
Tali provvedimenti non devono, peraltro,
avere ad oggetto necessariamente la
demolizione delle opere realizzate, il
citato art. 38, D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
prescrivendo, in caso di annullamento del
permesso di costruire, una nuova valutazione
da parte del dirigente del competente
ufficio comunale riguardo la possibilità di
restituzione in pristino; qualora la
demolizione non risulti possibile, il Comune
dovrà irrogare una sanzione pecuniaria, nei
termini fissati dallo stesso art. 38, D.P.R.
06.06.2001, n. 380 (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza 13.06.2011 n. 3571 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’Autorità per la Vigilanza sui
contratti pubblici è legittimata a proporre
appello.
Il Collegio ritiene che l’Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici sia
legittimata a proporre appello avverso la
sentenza del Tar che abbia annullato la
segnalazione della stazione appaltante circa
i provvedimenti di esclusione di un’impresa
da una gara pubblica.
Tale segnalazione, invero, pur provenendo da
una diversa Amministrazione (il soggetto che
bandisce la gara) è, comunque, un atto
strumentale e necessario per l’esercizio, da
parte dell’Autorità di vigilanza, di una sua
specifica competenza provvedimentale,
quella, appunto, di procedere alla relativa
iscrizione nel Casellario informatico.
Tra la segnalazione della stazione
appaltante e la successiva iscrizione nel
Casellario ad opera dell’Autorità vi è,
certamente, un rapporto di presupposizione,
con la conseguenza che l’annullamento del
provvedimento presupposto (l’atto di
segnalazione) va ad incidere inevitabilmente
sulla validità del provvedimento
presupponente (l’iscrizione).
Il nesso di presupposizione che avvince
questi due provvedimenti radica in capo
all’Autorità di vigilanza una posizione
differenziata e giuridicamente rilevante,
togliendo ogni dubbio in ordine
all’esistenza di una sua legittimazione
processuale che le consente di difendere in
giudizio, anche mediante la proposizione di
un autonomo appello, il provvedimento di
segnalazione adottato dalla stazione
appaltante.
Dall’annullamento giurisdizionale del
provvedimento di segnalazione deriva,
infatti, un ostacolo giuridico all’esercizio
del potere di iscrizione nel Casellario
informatico. E l’Autorità, che di tale
potere di iscrizione è titolare, ha
senz’altro un interesse giuridicamente
rilevante alla rimozione di quell’ostacolo,
al fine di poter curare l’interesse
pubblico, particolare e concreto, in vista
del quale la legge le attribuisce il potere
di iscrizione.
Né si può obiettare che in questo modo il
processo amministrativo diventi uno
strumento a tutela di un astratto interesse
alla legittimità dell’azione amministrativa.
Nel caso di specie, infatti, l’Autorità di
vigilanza non agisce a tutela di un astratto
interesse pubblico. Al contrario, essa si fa
portatrice di un interesse che certamente è
pubblico, ma che, a livello processuale, si
traduce in un interesse “personale” e
“concreto”.
Si tratta, infatti, dell’interesse al
corretto esercizio del potere amministrativo
specificamente attribuito all’Autorità di
vigilanza per la cura di un interesse
pubblico particolare e concreto: quello di
assicurare, tramite l’aggiornamento del
Casellario informatico, la conoscibilità
delle notizie che possono incidere corretta
conduzione delle procedure di affidamento
dei contrati pubblici.
Sotto questo profilo, è evidente la
differenza che esiste tra la legittimazione
e l’interesse del privato ricorrente e
quella del soggetto pubblico titolare del
potere. Mentre il primo, eccettuate le
ipotesi tassative di azione popolare, può
agire in giudizio solo a tutela di interessi
“privati”, la Pubblica
Amministrazione agisce, anche in tramite gli
strumenti processuali, a tutela di interessi
pubblici, che non sono però astratti
interessi alla legalità, ma quegli interessi
pubblici particolari e concreti che essa, di
volta in volta, è chiamata a perseguire, ed
in vista dei quali l’ordinamento le
attribuisce il potere amministrativo.
Ne discende che l’Amministrazione, quando
ritiene che quegli interessi pubblici
particolari siano ostacolati o compromessi,
può senz’altro intraprendere le opportune
iniziative giurisdizionali ritenute
opportune o necessarie alla loro difesa. Può
ad esempio costituirsi in giudizio per
difendere la legittimità di atti che essa
stesso ha adottato (ed è questa l’ipotesi
normale, in cui è in contestazione proprio
il provvedimento emanato al fine di
soddisfare l’interesse pubblico); ma può
anche intraprendere iniziative
giurisdizionali per difendere la legittimità
di provvedimenti adottati da altri soggetti
pubblici, nei casi in cui l’annullamento di
tali provvedimenti possa avere l’effetto di
impedire l’esercizio del potere di cui è
titolare. In entrambi i casi, la
legittimazione e l’interesse all’iniziativa
giurisdizionale derivano dalla necessità di
curare, anche nel processo, l’interesse
pubblico particolare alla cui cura quella
Pubblica Amministrazione è preposta.
Nel caso di specie è evidente che
l’annullamento giurisdizionale della
segnalazione della stazione appaltante
incide sul potere dell’Autorità appellante,
impedendone ab origine l’esercizio.
Annullando la segnalazione di un
provvedimento di esclusione legittimamente
adottato, il Tar, infatti, accerta, ex
ante, che non vi sono i presupposti per
l’esercizio del potere di iscrizione da
parte dell’Autorità per la vigilanza sui
contratti pubblici, la quale, quindi, è il
soggetto maggiormente inciso da tale
decisione (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.06.2011 n. 3567 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Istituto dell’avvalimento e
limiti alla garanzia della libertà di
concorrenza.
La finalità dell’avvalimento non è "quella
di arricchire la capacità (tecnica o
economica che sia) del concorrente, ma
quella di consentire a soggetti che ne siano
privi di concorrere alla gara ricorrendo ai
requisiti di altri soggetti”, se e in quanto
da questi integralmente e autonomamente
posseduti, in coerenza con la normativa
comunitaria sugli appalti pubblici che è
volta in ogni sua parte a far sì che la
massima concorrenza sia anche condizione per
la più efficiente e sicura esecuzione degli
appalti.
Nelle Direttive CE in materia di appalti
pubblici n. 18 (articoli 47 e 48) e n. 17
(articolo 54), del 2004, l’istituto dell’avvalimento
è previsto con formulazione sostanzialmente
identica per la quale “Un operatore
economico può, se del caso, e per un
determinato appalto, fare affidamento sulle
capacità di altri soggetti, a prescindere
dai suoi legami con questi ultimi. In tal
caso deve dimostrare alla amministrazione
che disporrà dei mezzi necessari, ad esempio
mediante presentazione dell’impegno a tal
fine di questi soggetti.” (art. 47,
comma 2, della direttiva n. 18 citata); alla
luce di questa previsione è corretto
affermare che l'istituto, in quanto così
ampiamente definito (altresì nell’art. 49,
comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006), ha “portata
generale nel diritto comunitario, al fine di
garantire il principio di libertà di
concorrenza” (Cons. Stato, Sez. V,
19.03.2009, n. 1624), poiché, se ciascun
soggetto può avvalersi dei requisiti di
altri, viene così posto in grado di
concorrere il più vasto numero di soggetti,
non essendo perciò consentite limitazioni
nell’applicazione dell’istituto che possano
inficiare tale scopo.
La massima concorrenza deve però dispiegarsi
entro il limite (e al fine) della garanzia
per la stazione appaltante di ricevere la
migliore prestazione, che non è a sua volta
assicurata se nessuno dei soggetti
concorrenti possiede i requisiti
preventivamente identificati in relazione
all’oggetto e agli importi di gara, essendo
questi richiesti come presupposto della
capacità del partecipante di formulare una
offerta congrua e valutabile e di fornire
quindi, se aggiudicatario, la migliore
prestazione; non si comprenderebbe,
altrimenti, la ratio della
preordinazione di un sistema di requisiti di
qualificazione per categorie di lavori e
classifica (per importi nel loro ambito) se
nessuno dei concorrenti o dei soggetti
ausiliari fosse poi, in concreto, vincolato
a possederli, non potendo in tal caso il
candidato/offerente “dimostrare alla
amministrazione che disporrà dei mezzi
necessari” a provare le capacità
richieste per l’esecuzione dell’appalto.
La finalità dell’avvalimento non è perciò “quella
di arricchire la capacità (tecnica o
economica che sia) del concorrente, ma
quella di consentire a soggetti che ne siano
privi di concorrere alla gara ricorrendo ai
requisiti di altri soggetti” (Cons.
Stato: Sez. V, 17.03.2009, n. 1589; Sez. IV,
20.11.2008, n. 5742), se e in quanto da
questi integralmente e autonomamente
posseduti (cfr. anche Cons. Stato, Sez. V,
23.02.2010, n. 1054), in coerenza con la
normativa comunitaria sugli appalti pubblici
che è volta in ogni sua parte a far sì che
la massima concorrenza sia anche condizione
per la più efficiente e sicura esecuzione
degli appalti.
Non contrasta con tale conclusione la
normativa di cui al vigente art. 49, comma
6, per il quale “Per i lavori, il
concorrente può avvalersi di una sola
impresa ausiliaria per ciascuna categoria di
qualificazione. Il bando di gara può
ammettere l'avvalimento di più imprese
ausiliarie in ragione dell'importo
dell'appalto o della peculiarità delle
prestazioni, fermo restando il divieto di
utilizzo frazionato per il concorrente dei
singoli requisiti economico-finanziari e
tecnico-organizzativi di cui all'articolo
40, comma 3, lettera b), che hanno
consentito il rilascio dell'attestazione in
quella categoria.”.
Non può essere accolta, infatti, una
interpretazione per cui il divieto di
utilizzo frazionato dei requisiti varrebbe
soltanto nel caso dell’avvalimento di più
imprese ausiliarie (ai sensi della seconda
parte del comma) e non anche in quello di
una sola impresa ausiliaria (di cui alla
prima parte), essendo evidente che il
legislatore si è occupato di vietare
espressamente l’utilizzo frazionato per la
fattispecie in cui tale utilizzo è in
concreto ipotizzabile, proprio in ragione
della pluralità delle imprese ausiliarie, e
non per quella in cui ci si avvalga di una
sola impresa ausiliaria, non essendo
altrimenti giustificato un divieto posto
soltanto per un caso e non per l’altro.
Ciò è confermato dalla intervenuta
abrogazione del comma 7 del medesimo art.
49, ai sensi del d.lgs. n. 152 del 2008, in
cui era anche previsto “che l’avvalimento
possa integrare un preesistente requisito
tecnico o economico già posseduto
dall’impresa avvalente in misura o
percentuale indicata nel bando stesso”,
nonché dall’osservazione che la somma delle
classifiche risulta espressamente prevista
soltanto per i consorzi stabili (art. 36,
comma 7, del d.lgs. n. 163 del 2006).
Tale ricostruzione non contrasta con quanto
indicato dalla citata nota C(2008)0108 della
Commissione europea, relativa a limitazioni
all’avvalimento riscontrate nel testo
previgente dei commi 6 e 7 dell’art. 49 del
d.lgs. n. 163 del 2006, cui sono seguite le
modifiche disposte con il d.lgs. n. 152 del
2008 (essenzialmente restringendo ai lavori,
nel comma 6, la previsione dell’avvalimento
di una sola impresa ausiliaria, e abrogando
il comma 7 che recava la possibilità del
bando di gara di limitare l’avvalimento per
tipo di requisiti e di prevedere la loro
integrazione); per effetto delle modifiche
intervenute la normativa di cui all’art. 49
non risulta infatti prevedere, come sopra
visto, la possibilità dell’integrazione dei
requisiti parziali né è interpretabile in
tal senso.
In tale quadro si deve concludere che non vi
è ragione per il rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267
del TFUE, trattandosi di un caso in cui la
corretta applicazione del diritto
comunitario si impone con evidenza tale da
non dare adito a nessun ragionevole dubbio
interpretativo sulla soluzione da dare alla
questione sollevata (Cons. Stato Sez. VI,
09.02.2011, n. 896); scopo della normativa
comunitaria è infatti chiaramente quello far
concorrere alle gare anche i soggetti che
non hanno i requisiti se li ha l’impresa
ausiliaria ma non quello di consentire che
chi non ha i requisiti possa comunque
presentare offerte, così impegnandosi ad
eseguire prestazioni per cui non ha i
presupposti, poiché, in questo caso, non
sarebbero contestualmente assicurate la
libera concorrenza e l’uso efficiente delle
risorse pubbliche, ciò che costituisce,
invece, la finalità ultima della stessa
normativa (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.06.2011 n. 3565 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica
utilità ed avviso pubblico.
Una forma di pubblicità, priva
dell’indicazione delle particelle catastali
interessate dall’approvazione del progetto
dell'opera e dell’elenco delle ditte
espropriande, non è idonea a far conoscere
ai proprietari quali terreni di loro
proprietà siano interessati alla
realizzazione dell’opera e di poter
conseguentemente partecipare al procedimento
amministrativo.
E’ fondata la censura di violazione
dell’art. 16, d.P.R. n. 327/2001, sotto il
profilo dell’inosservanza delle formalità da
rispettare in caso di pubblicità di massa in
luogo dell’avviso individuale di avvio del
procedimento.
Dispone, infatti, l’art. 16, co. 2, d.P.R.
n. 327/2001, che lo schema dell'atto di
approvazione del progetto deve richiamare
gli elaborati contenenti la descrizione dei
terreni e degli edifici di cui è prevista
l'espropriazione, con l'indicazione
dell'estensione e dei confini, nonché,
possibilmente, dei dati identificativi
catastali e con il nome ed il cognome dei
proprietari iscritti nei registri catastali.
Aggiunge il co. 4 del medesimo articolo che
al proprietario dell'area ove è prevista la
realizzazione dell'opera è inviato l'avviso
dell'avvio del procedimento, mentre il co. 5
dispone che allorché il numero dei
destinatari sia superiore a 50 si osservano
le forme di cui all'art. 11, co. 2.
A sua volta l’art. 11, co. 2, d.P.R. n.
327/2001 dispone che l'avviso di avvio del
procedimento è comunicato personalmente agli
interessati alle singole opere previste dal
piano o dal progetto. Allorché il numero dei
destinatari sia superiore a 50, la
comunicazione è effettuata mediante pubblico
avviso da affiggere all'albo pretorio dei
Comuni nel cui territorio ricadono gli
immobili da assoggettare al vincolo, nonché
su uno o più quotidiani a diffusione
nazionale e locale e, ove istituito, sul
sito informatico della Regione o Provincia
autonoma nel cui territorio ricadono gli
immobili da assoggettare al vincolo.
L'avviso deve precisare dove e con quali
modalità può essere consultato il piano o il
progetto.
Vero è che tali previsioni non erano
applicabili, ratione temporis, al
procedimento espropriativo per cui è
processo, atteso che il d.P.R. n. 327/2001 è
entrato in vigore il 30.06.2003, laddove
l’avviso di massa nel caso di specie è stato
pubblicato il 28.04.2003, in applicazione
dell’art. 8, l. n. 241/1990.
Ma anche in applicazione dell’art. 8, l. n.
241/1990, l’avviso pubblico sostitutivo
dell’avviso individuale non può limitarsi
alla generica descrizione dell’opera
pubblica e alle generica indicazione del
Comune in cui ricade, ma deve anche
descrivere i terreni o edifici espropriandi,
e ove possibile indicare i dati catastali
degli immobili e i nomi dei proprietari
catastali.
Se si può consentire che nella pubblicità di
massa siano omessi i dati catastali degli
immobili e i nomi dei proprietari catastali,
non può invece acconsentirsi all’omissione
della descrizione delle immobili, quanto
meno con indicazione del relativo indirizzo
o zona.
Diversamente infatti, gli interessati non
sono posti in condizione di comprendere,
dalla pubblicità di massa contenuta
nell’albo pretorio e sulla stampa
quotidiana, che sono proprio le loro
proprietà ad essere oggetto del procedimento
espropriativo.
La giurisprudenza di questo Consesso ha già
affermato, con principi che il Collegio
condivide, che le richiamate disposizioni
facoltizzano l’amministrazione ad avvalersi
di forme di pubblicità diverse dalla
comunicazione personale, ma tale scelta non
può incidere sull’onere dell’individuazione
del soggetto destinatario della
comunicazione, né sul contenuto della stessa
comunicazione, come definito dalla normativa
richiamata.
Diversamente opinando, non si tratterebbe
più di scegliere una forma di comunicazione,
individuale o collettiva, bensì di
consentire o meno l’effettiva partecipazione
dell’interessato al procedimento.
Pertanto, anche la forma di pubblicità,
prescelta in luogo della comunicazione
personale, deve essere idonea allo scopo di
assicurare l’effettiva partecipazione del
privato al procedimento amministrativo, in
primo luogo, mediante l’identificazione dei
soggetti incisi dalla procedura ablativa, in
quanto proprietari del terreno, secondo le
risultanze catastali.
Per converso, una forma di pubblicità, priva
dell’indicazione delle particelle catastali
interessate dall’approvazione del progetto
dell'opera e dell’elenco delle ditte
espropriande, non è idonea a far conoscere
ai proprietari quali terreni di loro
proprietà siano interessati alla
realizzazione dell’opera e di poter
conseguentemente partecipare al procedimento
amministrativo (Cons. giust. sic. 04.11.2008
n. 902; Cons. St., sez. IV, 22.06.2006 n.
3885; Cons. St., sez. VI, 08.03.2004 n.
1077; Cons. giust. sic., 20.01.2003 n. 25) (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 13.06.2011 n. 3561 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’esclusione dalla gara d’appalto
radica l’interesse ad agire.
L’esclusione è idonea di per sé a radicare
l’interesse al ricorso, indipendentemente
dall’esito della gara stessa e dalla
circostanza che in caso di ammissione
l’imprenditore comunque non sarebbe
risultato aggiudicatario, e dunque dalla
prova che l’esito della gara sarebbe stato
sicuramente o probabilmente favorevole;
l’interesse al ricorso in tema di procedure
di gara, infatti, è un interesse strumentale
a rimettere in discussione il rapporto,
provocando la rinnovazione della gara con il
vantaggio per l’interessato di parteciparvi.
L’esclusione lede l’interesse
dell’imprenditore a vedersi valutare la
propria offerta, indipendentemente
dall’esito della gara, di talché l’interesse
a ricorrere contro l’esclusione è
configurabile ex se e non occorre che sia
dimostrato che l’esito della gara sarebbe
sicuramente o probabilmente favorevole,
anche perché siffatta dimostrazione
implicherebbe, da un lato, una disvelazione
di dati relativi ad un’offerta ancora
segreta e, dall’altro lato, l’anticipazione
da parte del giudice di verifiche
caratterizzate da un significativo tasso di
discrezionalità tecnica, riservate alla
stazione appaltante.
Secondo consolidata giurisprudenza,
l’esclusione è idonea di per sé a radicare
l’interesse al ricorso, indipendentemente
dall’esito della gara stessa e dalla
circostanza che in caso di ammissione
l’imprenditore comunque non sarebbe
risultato aggiudicatario, e dunque dalla
prova che l’esito della gara sarebbe stato
sicuramente o probabilmente favorevole;
l’interesse al ricorso in tema di procedure
di gara, infatti, è un interesse strumentale
a rimettere in discussione il rapporto,
provocando la rinnovazione della gara con il
vantaggio per l’interessato di parteciparvi
[Cons. giust. sic., 22.04.2002 n. 203; Cons.
St., sez. VI, 28.04.1998 n. 576; Cons. St.,
sez. VI, 17.06.1998 n. 972].
Si è anche ritenuto che l’esclusione lede
l’interesse dell’imprenditore a vedersi
valutare la propria offerta,
indipendentemente dall’esito della gara, di
talché l’interesse a ricorrere contro
l’esclusione è configurabile ex se e
non occorre che sia dimostrato che l’esito
della gara sarebbe sicuramente o
probabilmente favorevole, anche perché
siffatta dimostrazione implicherebbe, da un
lato, una disvelazione di dati relativi ad
un’offerta ancora segreta e, dall’altro
lato, l’anticipazione da parte del giudice
di verifiche caratterizzate da un
significativo tasso di discrezionalità
tecnica, riservate alla stazione appaltante
[Cons. St., sez. VI, 28.04.1998 n. 576].
Tale orientamento trova la sua
giustificazione nella circostanza che quando
viene disposta l’esclusione, normalmente non
sono ancora note le offerte degli altri
concorrenti, sicché è impossibile per il
ricorrente escluso provare che in caso di
ammissione avrebbe vinto la gara.
Tale soluzione incontra un temperamento solo
nel caso in cui il sistema di gara sia
quello del prezzo più basso, e al momento
dell’impugnazione dell’esclusione o
successivamente siano noti i ribassi
offerti, sicché può evincersi con certezza
se il ricorrente escluso, in caso di
ammissione, avrebbe o no vinto.
Diverso discorso va fatto per il caso di
sistema di gara con metodo dell’offerta
economicamente più vantaggiosa, in cui il
concorrente escluso non è oggettivamente in
grado di dimostrare che la propria offerta
sarebbe risultata aggiudicataria, atteso che
l’esito della gara dipende dalla valutazione
delle offerte tecniche da parte della
Commissione, e l’offerta dell’escluso non è
stata, per definizione, valutata.
Pertanto, in siffatta evenienza, è
inesigibile da parte del ricorrente la prova
che avrebbe vinto la gara.
E’ quanto si verifica nel caso di specie, in
cui il metodo di aggiudicazione è quello
dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
Il ricorrente di primo grado non era tenuto
a dimostrare che avrebbe vinto la gara, se
ammesso, perché la sua offerta non è stata
mai valutata dalla Commissione (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 13.06.2011 n. 3555 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L’accesso ai documenti non
compendia anche l’obbligo di un facere a
carico dell’Amministrazione.
Occorre avere presente, in punto di diritto,
che l’obbligo dell’Amministrazione di
garantire l’accesso documentale presuppone
che questa sia in possesso degli atti
richiesti per averli formati e/o perché li
detiene, sempre che, però, la domanda
formulata dall’interessato attenga soltanto
alla visione di tali atti ed eventualmente
all’estrazione di copie, ma non anche
all’adozione di provvedimenti.
Nella specie, invece, la richiesta di
accesso, come deducibile dagli atti di
causa, si collegava alla presupposta
richiesta fatta dall’Associazione appellata
ad ANAS di adottare, sia un provvedimento di
declassamento delle due arterie da
autostrade a strade extraurbane, sia un
provvedimento che esonerasse gli
automobilisti dall’obbligo del pagamento del
pedaggio nelle tratte interessate dalla
costruzione della terza corsia.
Per giurisprudenza della Sezione, l’accesso
ai documenti non compendia anche l’obbligo
di un facere a carico
dell’Amministrazione (cfr. ad es., n. 6326
del 2004) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.06.2011 n. 3529 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La tutela del terzo leso è
possibile mediante l’esperimento (nei
confronti del soggetto pubblico titolare del
potere di vigilanza edilizia e in
contraddittorio con il denunciante) di
un’azione atipica di accertamento volta a
stabilire l’insussistenza dei presupposti
per svolgere l’attività edilizia sulla base
di una semplice d.i.a.; azione il cui
fondamento va trovato nel principio di
effettività della tutela giurisdizionale
sancito dall’art. 24 Cost. e da esercitare
comunque nel termine di gg. 60 dalla
conoscenza del sostanziarsi del titolo
edilizio.
E' nota, a proposito della natura della
d.i.a., l’esistenza di due differenti
impostazioni giurisprudenziali, l’una
delle quali individua nella fattispecie la
sussistenza di un provvedimento
autorizzatorio implicito derivante da una
valutazione legale tipizzata (Cons. Stato,
IV, 13.01.2010 n. 72, 24.05.2010, n. 3263,
10.12.2009, n. 7730, nonché, in precedenza,
Cons. Stato, sez. IV, 25.11.2008 , n. 5811;
Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3742;
Cons. Stato, sez. IV, 12.09.2007, n. 4828;
Cons. Stato, sez. VI, 05.04.2007, n. 1550):
la d.i.a., per tale impostazione, non
sarebbe uno strumento di liberalizzazione
dell'attività, ma rappresenterebbe una
semplificazione procedimentale che consente
al privato di conseguire un titolo
abilitativo tacito, rispetto al quale ultimo
la tutela del terzo che si pretenda leso non
incontrerebbe limiti diversi da quelli
ordinariamente previsti in riferimento a
provvedimenti espressi.
Diversamente, altra impostazione (Cons.
Stato, IV, 13.05.2010, n. 2919, 12.03.2009,
n. 1474 e 19.09.2008, n. 4513) afferma
essere la d.i.a. un atto di natura privata,
inserito in un nuovo schema ispirato alla
liberalizzazione delle attività economiche
private, con la conseguenza che, per
l'esercizio delle stesse, viene a non essere
più necessaria l'emanazione di un titolo
provvedimentale di legittimazione: il potere
di verifica di cui dispone
l'Amministrazione, a differenza di quanto
accade nel regime a previo atto
amministrativo, non sarebbe finalizzato
all'emanazione dell'atto amministrativo di
consenso all'esercizio dell'attività, bensì
al controllo, privo di discrezionalità,
della corrispondenza di quanto dichiarato
dall'interessato rispetto ai canoni
normativi stabiliti per l'attività in
questione.
Appunto quest’ultimo orientamento appare al
Collegio più convincente, in particolare
sulla scorta di due considerazioni.
La prima è che, diversamente
opinando, non si spiegherebbe per quale
ragione il legislatore tiene distinto
l’istituto in commento (disciplinato
dall’art. 19 L. 241/1990) da quello del
silenzio assenso (disciplinato dal
successivo art. 20 e costituente una mera
semplificazione procedimentale, in forza
della quale si perviene ad una
autorizzazione tacita, del tutto
equipollente ad un provvedimento esplicito
di accoglimento); la seconda è che
tale impostazione appare in linea con
l’evoluzione dell’ordinamento,
caratterizzata dall’aumentare delle
fattispecie in cui un esercizio del potere
amministrativo non si ha sempre e
necessariamente, bensì solo eventualmente
(all’esito di un procedimento di verifica di
quanto dichiarato ed attestato dal privato
interessato, per il quale vi sono perciò
ambiti sempre più ampi entro cui viene a
presentare rilevanza l’assunzione diretta di
responsabilità da parte sua, come appunto
dimostrato dall’introduzione della s.c.i.a.).
Diversi sono poi i mezzi di tutela
riconosciuti al terzo controinteressato in
detta fattispecie da chi opta per
quest’ultima ricostruzione.
Alcuni ritengono che il terzo possa agire
con lo strumento del silenzio-rifiuto,
ovvero che egli, decorso il termine per
l'esercizio del potere inibitorio senza che
la P.A. sia intervenuta, abbia
legittimazione a richiedere
all'Amministrazione, nell’esercizio dei
poteri di vigilanza e controllo sul
territorio, di porre in essere i
provvedimenti di "autotutela"
adottabili ai sensi degli artt. 21-quinquies
e 21-nonies L. 241/1990, attivando in caso
di inerzia il rimedio di cui all'art. 21-bis
L. 1034/1971 (oggi art. 117 codice del
processo amministrativo).
Altri ritengono invece che la tutela del
terzo leso sia possibile mediante
l’esperimento (nei confronti del soggetto
pubblico titolare del potere di vigilanza
edilizia e in contraddittorio con il
denunciante) di un’azione atipica di
accertamento volta a stabilire
l’insussistenza dei presupposti per svolgere
l’attività edilizia sulla base di una
semplice d.i.a.; azione il cui fondamento va
trovato nel principio di effettività della
tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24
Cost. e da esercitare comunque nel termine
di gg. 60 dalla conoscenza del sostanziarsi
del titolo edilizio (posto che il suo regime
va strutturato in modo analogo all’azione di
annullamento che vi sarebbe stata qualora
l’intervento fosse stato assentito a mezzo
di permesso di costruire; e ciò onde
assicurare la certezza dei rapporti di
diritto pubblico). La cognizione di detta
azione risulta oggi devoluta al G.A.
nell’ambito della giurisdizione esclusiva a
lui attribuita ai sensi dell’art. 133, commi
1, lett. a), n° 3, e 1, lett. f), del codice
del processo amministrativo.
Appunto a quest’ultima impostazione (cfr.
Cons. di Stato sez. VI, n° 717 del
09.02.2009; Cons. di Stato sez. VI, n° 2139
del 15.04.2010; TAR Campania-Salerno n° 1291
dell’08.02.2010; TAR Calabria-Reggio
Calabria n° 915 del 23.08.2010; TAR
Lombardia–Milano n° 4886 del 23.10.2009; TAR
Puglia–Bari n° 4242 del 17.12.2010) ritiene
di aderire il Tribunale, stante la
possibilità di assicurare all’interessato,
in tal modo, una tutela effettiva e
tempestiva pur in assenza di un
provvedimento amministrativo suscettibile di
essere impugnato secondo lo schema ordinario
della tutela degli interessi legittimi.
A tal proposito, va evidenziato come l’esperibilità
di un’azione di accertamento atipica anche
con riferimento a posizioni di interesse
legittimo appaia coerente con il sistema
giuridico nei casi in cui l’attività
amministrativa sia di tipo vincolato o
comunque allorché determinati effetti siano
collegati al ricorrere di specifici
presupposti, e in particolare quando vi sia
un oggettivo interesse alla verifica della
sussistenza della posizione sostanziale
stessa (ad es. per stabilire se, per la
presenza dei necessari elementi, si sia o
meno sostanziato un provvedimento tacito).
In tal senso appare invero deporre la
considerazione che, qualora la P.A. sia
venuta meno all’obbligo di concludere il
procedimento e l’interessato si sia attivato
ai sensi dell’art. 31 del codice del
processo amministrativo, il G.A., a mente
del comma 3 di quest’ultimo, “può
pronunziare sulla fondatezza della pretesa
dedotta in giudizio” appunto “solo
quando si tratta di attività vincolata o
quando risulta che non residuano ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità e
non sono necessari adempimenti istruttori
che debbano essere compiuti
dall’Amministrazione”: risulterebbe
infatti incongruo che l’ordinamento
consentisse al giudice di effettuare
accertamenti sulla fondatezza della pretesa
del privato soltanto in presenza di una
inerzia della P.A., e limitasse invece il
suo potere d’intervento all’annullamento del
provvedimento nel caso di adozione di un
provvedimento (espresso o tacito che sia) di
diniego
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.06.2011 n. 3099 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La struttura in questione
[struttura costituita da travi di legno di
abete posti sia verticalmente (con spessore
di cm. 20 x 15 e fissati al suolo con barre
filettate e bulloni in ferro), che
orizzontalmente (con spessore di cm. 10 x
15, ancorati con barre filettate e bulloni
in ferro ai travi lamellari posizionati in
modo verticale), nonché da travicelli sempre
di legno di abete piallati e squadrati,
aventi spessore di cm. 5 x 5. Con
posizionamento delle travi e dei travicelli,
la presenza di un ordito a doppia falda in
legno nella parte superiore della struttura,
e un ingombro complessivo per una superficie
coperta di mq. 30 (mt. 6 x 5). La base del
manufatto è costituita da una platea di
cemento armato, e lo stesso è dotato di una
copertura precaria (forse pagliarelle) posta
sull’ordito a doppia falda] non può essere
ricondotta alla tipologia del “pergolato” e
deve qualificarsi quale "nuova costruzione"
che, in zona vincolata, presuppone il
preventivo rilascio dell'autorizzazione
paesaggistica.
Ritiene il
Collegio che la struttura in questione
[struttura costituita da travi di legno di
abete posti sia verticalmente (con spessore
di cm. 20 x 15 e fissati al suolo con barre
filettate e bulloni in ferro), che
orizzontalmente (con spessore di cm. 10 x
15, ancorati con barre filettate e bulloni
in ferro ai travi lamellari posizionati in
modo verticale), nonché da travicelli sempre
di legno di abete piallati e squadrati,
aventi spessore di cm. 5 x 5. Con
posizionamento delle travi e dei travicelli,
la presenza di un ordito a doppia falda in
legno nella parte superiore della struttura,
e un ingombro complessivo per una superficie
coperta di mq. 30 (mt. 6 x 5). La base del
manufatto è costituita da una platea di
cemento armato, e lo stesso è dotato di una
copertura precaria (forse pagliarelle) posta
sull’ordito a doppia falda] non possa
essere ricondotta alla tipologia del “pergolato”,
definibile come manufatto realizzato in
struttura leggera di legno che funge da
sostegno per piante rampicanti o per teli,
il quale realizza in tal modo una
ombreggiatura di superfici di modeste
dimensioni durante la bella stagione,
destinato ad un uso del tutto provvisorio e
costituente altresì un elemento ornamentale,
e perciò assentibile con d.i.a. (cfr. TAR
Emilia Romagna–Bologna n° 36 del 19.01.2011;
TAR Puglia–Bari n° 222 del 06.02.2009).
Al contrario, dev'essere qualificato
intervento di nuova costruzione, ai sensi
dell'art. 3 D.P.R. n. 380/2001, la
realizzazione di un’opera costituita da
pilastri e travi in legno di importanti
dimensioni, atti a rendere la struttura
solida e robusta e a far desumere una sua
permanenza prolungata nel tempo (cfr. Cons.
di Stato sez. IV, n° 4793 del 02.10.2008;
TAR Campania–Napoli n° 1438 del 12.03.2010):
proprio in quest’ultima ipotesi è
inquadrabile invero la fattispecie in
discussione, posto che le rilevanti
dimensioni e consistenza delle travi
utilizzate, il loro stabile collegamento (a
mezzo di bulloni e perni metallici) con una
platea cementizia appositamente realizzata,
la notevole estensione superficiaria
ricoperta e la presenza di una copertura
(ancorché precaria) risultano chiaro indice
dell’essere preordinata l’opera ad un
utilizzo prolungato nel tempo e non certo
provvisorio
Peraltro, appunto l’imponenza della
costruzione (da valutare comunque nella sua
totalità e complessità –cfr. TAR
Lazio–Latina n° 259 del 10.05.2004)-
conferisce alla stessa caratteristiche di
rilevanza edilizia, ambientale, estetica e
funzionale, pur in assenza di opere in
muratura e di chiusure perimetrali, con
conseguente necessità di una sua
abilitazione a mezzo di permesso di
costruire, in ogni caso previo assenso
dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo paesistico gravante in zona (non
potendo farsi rientrare l’opera in alcuna
delle ipotesi in cui l’art. 149 Decr. Leg.vo
42/2004 esclude la necessità
dell’autorizzazione paesaggistica)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.06.2011 n. 3099 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIA e violazione articolo 481
cod.pen..
La relazione di accompagnamento alla DIA
edilizia (che costituisce parte integrante
ed essenziale della dichiarazione stessa di
inizio dell’attività) ha natura di “certificato”
per quanto riguarda: sia la descrizione
dello stato attuale dei luoghi, sia la
ricognizione degli eventuali vincoli
esistenti sull’area o sull’immobile
interessati dall’intervento, sia la
rappresentazione delle opere che si intende
realizzare e l’attestazione della conformità
delle stesse agli strumenti urbanistici ed
al regolamento edilizio (fattispecie
relativa al reato di cui all'articolo 481
c.p. commesso da architetto direttore dei
lavori) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 08.06.2011 n. 23072 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere in cemento armato e
responsabilità del direttore dei lavori.
Il Direttore dei lavori,
in quanto primo garante della sicurezza, è
certamente tenuto all’osservanza delle
prescrizioni imposte dall’art. 75 del D.P.R.
380/2001 attraverso lo specifico obbligo di
inibire l’utilizzazione dell’edificio prima
del rilascio del certificato di collaudo.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale di
questa Corte, il reato di cui all'art. 75,
D.P.R. 380/2001 è configurabile -tra gli
altri- anche a carico del costruttore, del
committente o del proprietario (da ultimo
Cass. Sez. 3^ 24.11.2010 n. 1802, Marrocco,
Rv. 249133).
Tale tesi giustifica anche -pur in assenza
di una affermazione esplicita- l'estensione
della responsabilità a soggetti quali il
direttore dei lavori, non espressamente
indicati nel testo normativo: tanto, in
correlazione con la ratio incriminatrice
della norma urbanistica la quale mira a
salvaguardare la sicurezza pubblica in modo
assoluto.
Ne consegue che il Direttore dei lavori, in
quanto primo garante della sicurezza, è
certamente tenuto all'osservanza delle
prescrizioni imposte dall'art. 75 del D.P.R.
380/2001 attraverso lo specifico obbligo di
inibire l'utilizzazione dell'edificio prima
del rilascio del certificato di collaudo
(rilascio avvenuto, come ricordato dalla
difesa dei due ricorrenti, il 29.10.2004)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.06.2011 n. 22291 -
link a www.lexambiente.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Assistenza
ai portatori di handicap e diniego
dell’Amministrazione? Il TAR dispone il
trasferimento del poliziotto per
consentirgli di assistere il genitore
disabile.
Il TAR della Lombardia-Milano, Sez. I, con
sentenza 08.06.2011 n. 1428 ha
ordinato all’Amministrazione che aveva
rigettato l’istanza, di trasferire un agente
di polizia presso qualsiasi ufficio o
reparto della Polizia di Stato la cui
prossimità sia tale da consentire allo
stesso l’assistenza nei confronti del
genitore portatore di handicap grave.
Il TAR Lombardia, con la sentenza n.
1428/2011, si è occupato di un caso relativo
ad un agente di polizia che aveva presentato
domanda di trasferimento ad altra sede per
gravi ed eccezionali situazioni familiari la
quale era stata rigettata
dall’Amministrazione.
Già con ordinanza del 10.06.2010, il
Tribunale Amministrativo Regionale per la
Lombardia, aveva accolto il ricorso del
poliziotto, rilevando che il provvedimento
impugnato non conteneva una motivazione
adeguata ad evidenziare perché i fatti
dedotti dal ricorrente fossero stati
ritenuti non sufficienti ad integrare il
requisito delle gravissime ed eccezionali
situazioni personali contemplato dalla
fattispecie sul trasferimento ad altra sede
ai sensi dell’art. 55 D.P.R. 24.04.1982, n.
335.
Tuttavia, in esecuzione della suddetta
ordinanza l’Amministrazione ha nuovamente
negato il trasferimento ed il ricorrente ha
impugnato anche questo secondo
provvedimento.
A questo punto il TAR Lombardia ha
verificato che era stato accertato che il
genitore del ricorrente fosse portatore di
handicap in situazione di gravità, con
impedimento permanente delle capacità
motorie, ai sensi della legge 104/1992 -come
attestato dalla Commissione di prima istanza
della ASL- nonché che il ricorrente fosse
figlio unico e che sua madre soffrisse di
disturbi depressivi connessi ai disagi
giornalieri conseguenti alla predetta
situazione familiare, come risultante da
documentazione medica prodotta.
Inoltre il Tribunale ha ritenuto del tutto
generica l’affermazione dell’Amministrazione
di avere valutato gli elementi addotti a
sostegno dell’istanza e dell’insussistenza
dei presupposti per il suo accoglimento,
senza indicare concrete ragioni di fatto o
giuridiche a supporto della determinazione
adottata e senza spendere alcuna parola per
evidenziare per quale motivo i fatti dedotti
dal ricorrente a sostegno della sua domanda
sarebbero non sufficienti ad integrare il
requisito delle gravissime ed eccezionali
situazioni personali contemplato dalla
fattispecie sul trasferimento ad altra sede
ai sensi dell’art. 55 D.P.R. 24.04.1982, n.
335.
Quindi il diniego è stato ritenuto
illegittimo ed il TAR, acclarata la
fondatezza della pretesa del ricorrente ad
ottenere il trasferimento di riavvicinamento
(non essendo stata evidenziata nel corso del
procedimento e del successivo processo
alcuna valida causa ostativa), ha ricordato
che di recente il Consiglio di Stato, nella
sua più autorevole composizione, ha
affermato (sia pure in obiter dictum)
che il codice del processo amministrativo ha
introdotto, anche in presenza di un
provvedimento espresso di rigetto e sempre
che non vi osti la sussistenza di profili di
discrezionalità amministrativa e tecnica,
l’azione di condanna volta ad ottenere
l’adozione dell’atto amministrativo
richiesto (cfr. Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato, 23.03.2011 n. 3).
Stante quanto sopra, il Tribunale ha
ordinato all’amministrazione di disporre il
trasferimento del ricorrente presso
qualsiasi ufficio o reparto della Polizia di
Stato la cui prossimità rispetto al luogo di
residenza del disabile sia tale da
consentire allo stesso l’assistenza nei
confronti del genitore (commento tratto da
www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI: Usare
abusivamente il permesso ''invalidi'' non e'
reato.
Non integra ne' il
delitto di sostituzione di persona, ne'
quello di truffa ai danni dell'ente
territoriale che esercita la vigilanza della
viabilità la condotta di colui che esponga
sul parabrezza dell'auto un contrassegno per
invalidi, rilasciato ad altra persona che
non si trova a bordo del veicolo, al fine di
accedere all'interno di una zona a traffico
limitato.
Secondo la Corte di cassazione, infatti,
l’uso abusivo del permesso invalidi su
un’autovettura, per il parcheggio nelle zone
riservate o per il transito in una ZTL,
realizzato esibendo il relativo contrassegno
sul parabrezza del veicolo in assenza del
titolare del permesso, integra [solo]
l’illecito amministrativo di cui
all’articolo 188, commi 4 e 5, del codice
della strada.
Non integra, quindi, integra il reato di
sostituzione di persona punito dall’articolo
494 c.p. [in termini, Cassazione, Sezione II,
08.06.2010, PM in proc. Zangheri; nonché,
Sezione V, 02.02.2010, PM in proc. Righi].
Infatti, la semplice esibizione del
contrassegno importa soltanto il presupposto
perché il veicolo possa sostare o circolare
nelle zone altrimenti interdette, ma non
attribuisce al conducente, neppure
indirettamente, la qualifica soggettiva di
accompagnatore del disabile, né comporta una
dichiarazione di attestazione della presenza
del titolare a bordo del veicolo.
In realtà, precisa il giudice di
legittimità, in virtù del principio di
specialità di cui all’articolo 9 della legge
24.11.1981 n. 689, applicabile quando il
medesimo fatto sia punito da una
disposizione penale e da una disposizione
che prevede una sanzione amministrativa, è
nella previsione normativa dell’articolo
188, commi 4 e 5, del codice della strada
che sono contemplate “tutte” le
ipotesi di abuso delle strutture stradale
riservate agli invalidi, dalla loro
utilizzazione in assenza di autorizzazione,
o fuori delle condizioni e dei limiti
dell’autorizzazione, all’uso improprio
dell’autorizzazione.
Nella condotta suddetta non è neppure
ravvisabile il reato di truffa [in termini,
oltre alla citata sentenza Zangheri, cfr.
Cassazione, Sezione II, 30.04.2009, Albani,
relativa alla ravvisata insussistenza della
truffa aggravata ai danni dello Stato in
caso di falsificazione materiale del
contrassegno assicurativo esposto sul
parabrezza dell'autoveicolo].
Infatti, osserva la Corte, l’atto di
disposizione patrimoniale [qui, in ipotesi,
di carattere omissivo], necessario per
fondare la fattispecie della truffa, non
potrebbe configurarsi nel fatto che gli
organi di polizia addetti al controllo della
circolazione stradale, indotti in errore,
non abbiano contestato le infrazioni
amministrative, né nel fatto che l’ente
pubblico [normalmente il comune]
destinatario dell’importo delle sanzioni
abbia subito l’inadempienza dell’agente: in
tal caso, per poter ravvisare il reato, e
non le sole violazioni amministrative
previste dall’articolo 188 del codice della
strada, mancherebbe la necessaria
cooperazione della vittima e mancherebbe,
quindi, la sequenza, necessaria per la
sussistenza della truffa, “artificio/induzione
in errore/profitto”, perché il profitto
per l’agente discende direttamente
dall’elusione al controllo e dal mancato
versamento delle somme che sarebbero dovute
a titolo delle violazioni amministrative in
materia di circolazione stradale, senza che
sia ipotizzabile alcuno “spostamento”
di risorse economiche dal soggetto in
ipotesi “truffato” all’autore della
condotta (Corte di Cassazione, Sez. I
penale, sentenza 07.06.2011 n. 24454
- commento tratto da www.ipsoa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici vincolati, anche il
fotovoltaico sconta l'autorizzazione
paesaggistica.
La
Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19328,
infligge un nuovo colpo al fotovoltaico
negando la semplificazione ex art. 28,
Allegato 1, del D.P.R. 139/2010 in materia
di procedure semplificate e autorizzazione
paesaggistica.
La Corte ha, infatti, affermato che per
l'installazione di pannelli fotovoltaici su
un edificio vincolato è comunque necessario
il rilascio della prescritta autorizzazione
paesaggistica dato che si tratta "inequivocabilmente"
di un intervento idoneo a incidere
negativamente sull'assetto paesaggistico.
Molti sono ancora gli ostacoli burocratici e
amministrativi che si oppongono allo
sviluppo del fotovoltaico in Italia ed in
Europa. Di recente, ne ha offerto una nuova
accurata “fotografia” il progetto del
Consorzio PV LEGAL con la pubblicazione
dell’aggiornamento del proprio database,
grazie al quale viene offerta una panoramica
delle procedure amministrative di 12 paesi
europei.
Tale iniziativa è finanziata dal programma
Intelligent Energy Europe e vede riunite
alcune tra le maggiori associazioni di
categoria europee del settore, tra cui
Assosolare per l’Italia. Proprio con
riferimento al nostro paese, come molti
osservatori hanno dichiarato, dopo la
chiusura del Terzo Conto energia decisa dal
c.d. “Decreto Romani” (D.Lgs.
03.03.2011, n. 28 – G.U. 28.03.2011, n. 71)
e l’introduzione del Quarto Conto Energia
(D.M. 05.05.2011 – G.U. 12.05.2011, n. 109),
in vigore dal 6 maggio e operativo
dall'01.06.2011, si sta attraversando una
fase di transizione caratterizzata da una
grande incertezza apportata da tali
provvedimenti i quali, lungi dal rassicurare
gli operatori, hanno invece portato ad un
vero e proprio deleterio blocco del mercato.
È dopo questa premessa, pertanto, che si
potrà comprendere meglio lo stato d’animo di
quegli operatori che non avranno accolto di
buon grado la recente sentenza n. 19328 del
17.05.2011 della Cassazione.
Nell’occasione la Corte è stata chiamata ad
esaminare l’ordinanza del Tribunale di
Gorizia con cui è stata rigettata la domanda
di riesame di un decreto del G.I.P. di
sequestro preventivo di un fabbricato
abusivo.
Nella specie, il ricorrente deduceva che le
opere realizzate consistevano
nell'installazione sul tetto del manufatto
di un pannello fotovoltaico di ridotte
dimensioni, avvenuta peraltro in
sostituzione di pannelli precedentemente
installati. Il ricorrente, in pratica,
spiegava che l'attività svolta non
richiedeva alcuna autorizzazione, dato che a
suo dire rientrava in ipotesi di normale
manutenzione e che non era comunque
modificativa dell'originario assetto del
territorio.
La Cassazione ha riconosciuto parzialmente
fondato in ricorso con riferimento alla
motivazione relativa alla violazione
urbanistica che risulta carente, e non già,
quindi, per gli aspetti inerenti alla
normativa paesaggistica, con riferimento ai
quali risulta ineccepibile. È proprio su
tali ultimi profili che ci soffermeremo.
La Corte osserva, innanzitutto, che il
provvedimento impugnato l'installazione di
pannelli fotovoltaici era avvenuta su un
immobile integralmente abusivo ed oggetto di
diverse ordinanze di demolizione (l'ultima
delle quali risalente al 14.11.2007) e che
l'installazione dei pannelli sul tetto
risultava aver modificato l'aspetto
esteriore dell'edificio.
Da ciò il corretto rilievo, da parte dei
giudici del riesame, della piena sussistenza
del fumus dei reati ipotizzati e del
periculum in mora, poiché
l’installazione dei pannelli solari appare
funzionale all’utilizzazione dell'immobile
abusivo (aggravando le conseguenze
dell'attività edilizia eseguita senza titolo
abilitativo).
Secondo la Corte:
- “l'installazione di pannelli solari è
inequivocabilmente un intervento idoneo ad
incidere negativamente sull'assetto
paesaggistico e richiede l'autorizzazione
dell'ente preposto alla tutela del vincolo”;
- la necessità di tale autorizzazione è
esplicitamente prevista dal D.P.R.
09.07.2010 n. 139 (“Regolamento recante
procedimento semplificato di autorizzazione
paesaggistica per gli interventi di lieve
entità, a norma dell'art. 146, comma 9, del
decreto legislativo 22.01.2004, n. 42, e
successive modificazioni”) il quale,
nell'Allegato 1, indica tra gli interventi
soggetti ad autorizzazione semplificata, al
punto 25, i "pannelli solari, termici e
fotovoltaici fino ad una superficie di 25 mq",
specificando che la disposizione non si
applica nelle zone territoriali omogenee “A”
di cui all’art. 2 del D.M. n. 1444/1968 ed
in quelle ad esse assimilabili e nelle aree
vincolate ai sensi dell'art. 136, comma 1,
lettere b) e c), del D.Lgs. n. 42/2004 (c.d.
“Codice del paeaggio”), ferme
restando le diverse e più favorevoli
previsioni del D.Lgs. 30.05.2008, n. 115 (“Attuazione
della direttiva 2006/32/CE relativa
all'efficienza degli usi finali dell'energia
e i servizi energetici e abrogazione della
direttiva 93/76/CEE”), e dell’art. 1,
comma 289, della “finanziaria 2008”
(legge 24.12.2007, n. 244);
- la mancanza di autorizzazione è idonea a
configurare il reato paesaggistico il quale,
come indicato dalla ormai consolidata
giurisprudenza di legittimità, ha natura di
reato formale e di pericolo (v., da ultimo,
Cass. Sez. III, 22.01.2010 n. 2903).
Come osservato da qualcuno, però, tale
interpretazione non sembra tener conto di
quanto disposto dall’art. 28, Allegato 1,
del D.P.R. 139/2010 che avrebbe consentito
l’applicazione delle più favorevoli
disposizioni previste dal D.Lgs. 30.05.2008,
n. 115. La Cassazione, cioè, avrebbe potuto
far ricadere il caso dell’impianto
fotovoltaico in questione tra gli interventi
di manutenzione ordinaria ex art. 11, comma
3, del D.Lgs. n. 115/2008 (“impianti
solari fotovoltaici aderenti o integrati nei
tetti degli edifici con la stessa
inclinazione e lo stesso orientamento della
falda e i cui componenti non modificano la
sagoma degli edifici stessi”) i quali,
ai sensi dell’art. 6, comma 2, lettera d),
del D.P.R. n. 380/2001 possono essere
realizzati senza alcun titolo abilitativo ma
semplicemente previa comunicazione, ai sensi
dell’art. 149, comma 1, del D.Lgs. n.
42/2004: in questa ipotesi, infatti, non
ricorrendo un’alterazione dello stato dei
luoghi e dell'aspetto esteriore degli
edifici non è richiesta l'autorizzazione
paesaggistica.
A latere si rammenta che il procedimento per
il rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica ha subito alcune modifiche a
seguito della emanazione del D.L. n. 70/2011
(c.d. “decreto Sviluppo”),
attualmente in corso di conversione in legge
(commento tratto da www.ipsoa.it - link a
www.lexambiente.it). |
APPALTI FORNITURE:
Bando per appalti di forniture. Legittimità
dell’aggiudicazione in favore di una ditta
che ha offerto attrezzature non
corrispondenti alla descrizione degli
allegati tecnici del capitolato, nel caso in
cui assicurino alla P.A. le prestazioni
richieste.
Nel caso in cui il bando di una gara di
appalto per l’aggiudicazione di forniture
preveda espressamente che, in sede di
scrutinio delle offerte tecniche da parte
della commissione di gara, "saranno comunque
prese in considerazione ed opportunamente
valutate proposte di prodotti in grado di
garantire le medesime prestazioni delle
apparecchiature specificate negli allegati
al presente capitolo", è legittima
l’aggiudicazione in favore di una ditta che
ha offerto attrezzature che, pur non essendo
corrispondenti alla descrizione degli
allegati tecnici del capitolato, siano
comunque idonee ad assicurare alla stazione
appaltante le medesime prestazioni dei
prodotti specificamente richiesti dalla lex
specialis; in tal caso, infatti, il criterio
utilizzato dalla P.A. è quello
dell’equivalenza delle prestazioni tra i
diversi prodotti, con la conseguenza che, in
sostanza, la stazione appaltante, pur
indicando negli allegati del capitolato una
certa tipologia di apparecchiature, non si è
preclusa la possibilità di ottenere e
valutare proposte di prodotti ulteriori,
egualmente idonei ad assicurare alla
amministrazione le prestazioni richieste
(1).
---------------
(1) Ha osservato la sentenza in rassegna
che, nella specie, se non fosse stata
apposta nel bando la riserva secondo cui
alla commissione di gara era riconosciuta la
possibilità di prendere in considerazione e
valutare opportunamente proposte di prodotti
in grado di garantire le medesime
prestazioni delle apparecchiature
specificate nella lex specialis, la gara per
cui si controverte non avrebbe potuto che
essere aggiudicata alla odierna appellante,
ma ciò sarebbe avvenuto in violazione
dell’art. 68, co. 2, del codice degli appalti,
a mente del quale le specifiche tecniche
devono consentire pari accesso agli
offerenti e non devono comportare la
creazioni di ostacoli ingiustificati alla
libera concorrenza.
Al riguardo la giurisprudenza del Consiglio
di Stato ha sottolineato che nei casi in cui
le specifiche tecniche risultino tutte
incentrate su un prodotto già confezionato
dalle imprese produttrici, il riferimento
tecnico deve essere necessariamente
temperato attraverso il riferimento al
concetto di equivalenza (Cons. Stato, V, 24.07.2007 n. 4138; VI 19.09.2007 n.
4884).
Infatti non possono essere introdotte
specifiche tecniche che menzionino prodotti
di una fabbricazione o di una provenienza
determinata e procedimenti particolari
aventi l’effetto di favorire o eliminare
talune imprese in assenza del temperamento
con criterio di equivalenza (massima
tratta da www.regione.piemonte.it -
Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 13.05.2011
n. 2905 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le ferie arretrate vanno
risarcite.
Termine di prescrizione decennale per i
riposi non goduti. L'orientamento della
Corte di cassazione: l'indennità sostitutiva
non ha natura retributiva.
L'indennità sostitutiva delle ferie non
godute ha natura risarcitoria. Il termine di
prescrizione è quello di dieci anni.
Questo
l'orientamento espresso dalla Corte di
Cassazione con la
sentenza
11.05.2011 n. 10341.
La corte ha così deciso di
uniformarsi a diverse prese di posizioni
precedenti della suprema corte secondo cui
«l'indennità sostitutiva delle ferie e dei
riposi settimanali non goduti ha natura non
retributiva ma risarcitoria e, pertanto, è
soggetta alla prescrizione ordinaria
decennale, decorrente anche in pendenza del
rapporto di lavoro» (Cass. n. 9999/2009,
Cass. n. 3298/2002, Cass. n. 13039/1997, Cass.
n. 8212/1997, Cass. n. 2231/1997, Cass. n.
8627/1992).
Ciò in quanto tale indennità è pur sempre
correlata a un inadempimento contrattuale
del datore di lavoro, che obbliga
quest'ultimo (quando l'adempimento in forma
specifica sia divenuto impossibile) al
risarcimento del danno, che comprende, in
primo luogo, la retribuzione dovuta per il
lavoro prestato nei giorni destinati alle
ferie o al riposo (nonché la riparazione di
eventuali ulteriori danni subiti dal
lavoratore a seguito del mancato ristoro
delle energie psicofisiche) e che soggiace
alla prescrizione ordinaria decennale
prevista dall'art. 2946 c.c., e non già a
quella quinquennale ex art. 2947 c.c..
Nonostante sia ormai assodato che il diritto
alle ferie è inviolabile, è però possibile
che in un determinato periodo (esercizio
sociale) maturino periodi feriali che non
siano goduti entro la fine del medesimo
periodo. E in questo caso si possono
presentare due ipotesi:
a) nonostante la
chiusura del periodo è ancora possibile per
il dipendente godere delle ferie (in quanto
per esempio il contratto collettivo
stabilisce il termine ultimo per godere
delle stesse nei mesi successivi alla
chiusura dell'anno solare);
b) è decorso
inutilmente anche questo periodo: in questo
caso il prestatore di lavoro ha diritto a un
risarcimento del danno denominato «indennità
sostitutiva delle ferie» che corrisponde,
normalmente, alla retribuzione di un giorno
di lavoro per ogni giorno di ferie non
goduto.
Quindi qualora i lavoratori non godano delle
ferie essi hanno conseguentemente diritto
alla relativa indennità sostitutiva, ma a
questo punto è poi da chiarire: il momento
in cui sorge l'obbligo di pagare l'indennità
sostitutiva delle ferie; l'eventuale
esistenza di un termine prescrizionale.
Per individuare anche questo secondo aspetto
occorre in primo luogo accertare il momento
in cui sorge il diritto a ricevere il
pagamento dell'indennità. Tale momento è
teoricamente lo stesso in cui matura tale
diritto e, quindi, coincide con il momento
in cui il prestatore non ha più la
possibilità di godere del periodo feriale
(ciò significa che ogni anno si dovrebbero
monetizzare le ferie eventualmente non
godute e pagare di conseguenza l'indennità).
È anche vero che non sempre si assiste a un
comportamento come quello descritto. Il
differimento del pagamento dell'indennità
sostitutiva come spesso avviene nella prassi
comporta la necessità di verificare se il
diritto debba essere ritenuto prescrivibile
ed eventualmente in che tempo.
Il
riferimento in tema di prescrizione del
diritto alle ferie o, meglio, dell'indennità
sostitutiva, è da ritrovare negli artt. 2946
e 2948 del codice civile che rispettivamente
sostengono che «salvi i casi in cui la legge
dispone diversamente, i diritti si
estinguono per prescrizione con il decorso
di dieci anni» e che «si prescrivono in
cinque anni: gli interessi e tutto ciò che
deve pagarsi periodicamente ad anno o in
termini più brevi».
In sostanza il nostro
ordinamento prevede due diversi termini
prescrizionali ognuno dei quali applicabile
a ipotesi differenziate. Il dubbio è quindi
relativo a quale delle due ipotesi possa
rapportarsi il nostro caso: in sostanza se
l'indennità sostitutiva delle ferie sia
soggetta alla ordinaria prescrizione
decennale o, invece, alla minore
prescrizione quinquennale poiché l'indennità
sostituiva andrebbe pagata ogni anno.
In un
primo tempo si era sostenuto che «i crediti
di lavoro relativi alle ferie e ai riposi
non goduti non hanno carattere risarcitorio,
bensì retributivo, per cui dovendo essere
erogati con la stessa periodicità della
normale retribuzione, sono assoggettabili
alla prescrizione quinquennale» (Cass. Lav.
16.02.1989 n. 927). In sostanza si
sosteneva che civilisticamente l'indennità
da riconoscere era assimilabile alla
retribuzione e quindi doveva ritenersi
valido il termine di prescrizione di cinque
anni.
Tale orientamento sembra però ormai
superato e quello più recente sostiene
invece che «l'indennità sostitutiva delle
ferie non godute ha natura risarcitoria e
non retributiva e, pertanto, è soggetta alla
prescrizione ordinaria decennale». E ciò
può avere riflessi anche in ambito contabile (articolo ItaliaOggi del
04.07.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio d'uso gratis solo se non cresce il
carico urbanistico.
L'esenzione degli oneri «segue» la necessità
della dotazione di servizi.
Il cambio d'uso non è sempre "gratuito", ma
non solo. Il pagamento del contributo di
costruzione è uno degli snodi critici della
materia edilizia e, nel corso degli anni,
una nutrita giurisprudenza ha chiarito gli
aspetti più problematici della materia,
specie per quel che riguarda la natura
giuridica del contributo, le varie ipotesi
di esenzione e i presupposti per il suo
pagamento in relazione alla tipologia
dell'intervento che si intende realizzare.
La definizione di «carico».
A quest'ultimo riguardo il Tar
Lombardia-Brescia, Sez. I, con la recente
sentenza
03.03.2011 n. 375, affronta una delle questioni di
maggior rilievo nella materia, quella del
cambio di destinazione d'uso, anche se
attuato in assenza di interventi
costruttivi, qualora questo determini
comunque un aumento del cosiddetto «carico
urbanistico».
Questo concetto non è definito dalla
legislazione vigente, ma la giurisprudenza
della Cassazione l'ha individuato come
«l'effetto che viene prodotto
dall'insediamento primario come domanda di
strutture ed opere collettive, in dipendenza
del numero delle persone insediate su di un
determinato territorio» (Sezioni unite
penali, 20.03.2003, sentenza n. 12878).
In altri termini, poiché ogni insediamento
umano è costituito da un elemento primario
(abitazioni, uffici, opifici, negozi,
eccetera), è necessario proporzionare
questo primo elemento a quello cosiddetto
secondario o di servizio (opere pubbliche in
genere, uffici pubblici, parchi, strade,
fognature, elettrificazione, servizio
idrico, condutture di erogazione del gas),
in relazione al numero degli abitanti
insediati e alle caratteristiche delle
attività svolte in quello stesso territorio.
Proprio partendo da questa considerazione, i
giudici bresciani, richiamando propri
precedenti orientamenti (n. 145/2005, n.
646/2004 e n. 34/1998) rilevano come il
presupposto imponibile per il pagamento dei
contributi di urbanizzazione vada ravvisato
nella domanda di una maggiore dotazione di
servizi nel l'area di riferimento (rete
viaria, fognature eccetera), che sia indotta
dalla destinazione d'uso concretamente
impressa al manufatto. Questo perché una
diversa utilizzazione dell'edificio rispetto
a quella stabilita nel l'originario titolo
abilitativo può determinare una variazione
quantitativa e qualitativa del carico
urbanistico.
Il pagamento degli oneri si giustifica
quindi con la necessità di ridistribuire –in modo equo per la comunità– i costi
sociali delle opere di urbanizzazione,
facendoli gravare sugli interessati che
beneficiano delle utilità derivanti dalla
loro presenza. Il contributo di
urbanizzazione infatti, secondo il Consiglio
di Stato (sezione V, n. 2359/2009 e n.
2258/2006), pur non avendo natura
tributaria, costituisce comunque «un
corrispettivo di diritto pubblico posto a
carico del costruttore, connesso al rilascio
della concessione edilizia, a titolo di
partecipazione del concessionario ai costi
delle opere di urbanizzazione in proporzione
all'insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae».
Il mutamento rilevante.
Da questi elementi la sentenza del Tar
Lombardia fa derivare che il presupposto
imponibile si verifica in tutti i casi di
«mutamento rilevante» della destinazione
d'uso dalla quale derivi un maggior carico
urbanistico, con conseguente necessità per
l'interessato di pagare la differenza tra
gli oneri di urbanizzazione già corrisposti
per la destinazione d'uso originaria e
quelli, se più elevati, dovuti per la nuova
destinazione impressa al l'immobile (ad
esempio, la trasformazione di un albergo in
un edificio residenziale).
Quanto al concetto di «mutamento rilevante»,
la pronuncia chiarisce un elemento
importante, specificando che lo stesso
sussiste in tutti i casi di «passaggio tra
due categorie funzionalmente autonome dal
punto di vista urbanistico, qualificate
sotto il profilo della differenza del regime
contributivo in ragione di diversi carichi
urbanistici, cosicché la circostanza che le
modifiche di destinazione d'uso senza opere
non sono soggette a preventiva concessione o
autorizzazione sindacale non comporta ipso jure l'esenzione dagli oneri di
urbanizzazione e quindi la gratuità
dell'operazione».
Di conseguenza, ciò che assume rilievo ai
fini del pagamento non è la necessità o meno
di un titolo abilitativo per l'attività di
trasformazione edilizia che si vuole
realizzare (permesso di costruire o Dia): il
presupposto impositivo si può verificare
anche nel caso di mutamento di destinazione
d'uso del fabbricato di tipo «funzionale»,
cioè senza alcuna esecuzione di opere (si
veda anche anche Tar Campania-Napoli n.
6271/2008, citata nella scheda a destra)
(articolo Il Sole 24
Ore del 04.07.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'ente paga la tassa per l'Albo degli
avvocati dipendenti.
LUNGA QUERELLE - Anche per la Cassazione
l'onere è dell'amministrazione. Per l'Aran e
la Corte dei conti l'interesse e, quindi, la
spesa sono invece del professionista.
Ancora un punto segnato a favore degli
avvocati dipendenti degli enti pubblici: la
tassa annuale di iscrizione all'Albo deve
restare a carico dell'amministrazione di
appartenenza.
A stabilirlo è la Sez. I del Consiglio di Stato, nel
parere 23.02.2011 n. 678/2010, richiesto
dal dipartimento degli Affari interni e
territoriali del ministero dell'Interno, per
decidere in ordine a un ricorso
straordinario al Capo dello Stato.
La materia
del contendere è rappresentata dalla
delibera adottata da una giunta comunale,
con la quale è stata abrogata la possibilità
di assumere, a carico del bilancio comunale,
la tassa annuale. Con decreto del 31 maggio
2011, pubblicato nei giorni scorsi, il
Presidente della Repubblica ha accolto il
ricorso proposto dagli avvocati pubblici
contro l'abrogazione. «Il Dpr utilizza il
buon senso prima ancora del diritto»,
sostiene Antonella Trentini, vicepresidente
dell'Unione nazionale avvocati enti
pubblici.
La materia è stata oggetto di vari
interventi interpretativi. Dapprima, l'Aran,
con parere 05.06.2002
n. V6.27, ha
sostenuto che l'avvocato dipendente di una
pubblica amministrazione, pur operando
esclusivamente a favore di questa, ha un
interesse proprio a mantenere l'iscrizione
all'albo e, quindi, non è possibile
procedere al rimborso della relativa tassa.
Nello stesso senso si è espressa la Corte
dei conti, sin dalla sezione autonomie, con parere 07.06.2007 n. 6935/C21, seguite,
poi, da una serie di delibere, univoche,
delle sezioni regionali. I giudici contabili
affermano che, pur se l'iscrizione
rappresenta un requisito per l'accesso al
posto, la stessa è mantenuta nell'esclusivo
interesse dell'ente e procura, al dipendente
avvocato, i benefici economici riconosciuti
da norme di legge e contrattuali, in caso di
soccombenza della controparte.
Osserva
ancora la Corte dei conti che non è
presente, nel nostro panorama legislativo o
contrattuale, una norma che autorizzi l'ente
ad assumere, a proprio carico, l'onere della
tassa di iscrizione all'albo:
rappresentando, quest'ultima, un requisito
per l'assunzione del dipendente, è lo stesso
lavoratore che ne deve sopportare la spesa.
Ma, analogamente a quanto si registra a
proposito dell'Irap, la giurisprudenza dà
ragione agli avvocati, a scapito della
prassi. E così il Consiglio di Stato si pone
nella linea opposta rispetto ai pareri sin
qui esaminati. Partendo dal presupposto che
sussiste un rapporto di esclusività che lega
il dipendente e l'ente pubblico e che la
prestazione resa assume carattere di
continuità, giunge a conclusione che la
tassa in questione deve rimanere a carico
dell'amministrazione di appartenenza, quale
unica beneficiaria dei risultati ottenuti
dall'avvocato pubblico. Questo in modo del
tutto analogo a quanto prevede l'art. 1719
Codice civile, in materia di mandato. Si
devono, ovviamente, escludere i casi in cui
all'avvocato sia permesso assumere ulteriori
incarichi rispetto a quelli conferiti dal
datore di lavoro.
Il Consiglio di Stato
ricorda che nella medesima direzione si era
espressa anche la Corte di cassazione, con
la sentenza n. 3928/2007, la quale,
ribadendo il principio della prestazione
resa nell'esclusivo interesse
dell'amministrazione pubblica, ha osservato
come la tassa di iscrizione non può essere
compensata con l'indennità di toga, in
quanto quest'ultima ha carattere
retributivo, e non può neppure essere
considerata come costo sostenuto
nell'interesse della persona, al pari delle
spese universitarie.
È vero che tuttora vige il divieto di
estensione del giudicato, ma non si può
nascondere che i massimi consessi si sono
espressi in maniera univoca e, quindi, sarà
improbabile, in sede di ricorso, una diversa
soluzione al problema (articolo Il Sole 24 Ore del
04.07.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
URBANISTICA:
Il ricorso alla
tecnica perequativa non appare affetto da
vizi di legittimità, non essendo di per sé
vietato dalla legge e non presentando
aspetti di illogicità o irrazionalità,
essendo espressione di un approccio diverso
al problema dell’organizzazione del
territorio.
Il ricorso alla cd. urbanistica perequativa
è infatti dettato dalla volontà di operare
in modo da ridistribuire in maniera
equilibrata i vantaggi economici
dell’edificabilità impressa alle aree,
dotandole della medesima potenzialità
edificatoria.
Tale modello è stato ritenuto compatibile
con i valori del nostro ordinamento e
consente, superando il modello tradizionale
della ripartizione del territorio in zone,
ognuna con la propria destinazione, di
conseguire maggiori utilità, sia per i
singoli proprietari dei terreni sia per
l’amministrazione pubblica e con essa per
l’intera collettività.
Non può ritenersi illegittima la
decisione dell’amministrazione di dare corso,
all’interno del comparto, alla realizzazione
delle opere di pubblico interesse, comunque
ivi previste, proprio alla luce delle
difficoltà riscontrate in ordine
all’approvazione dello strumento attuativo.
La scelta, poi, di non procedere secondo lo
schema tradizionale dell’espropriazione è
frutto di un’attività di pianificazione
senza dubbio nuova, che si propone di
raggiungere gli obiettivi di
riqualificazione urbanistica di ampie zone
del territorio comunale senza ricorrere alla
procedura espropriativa, previa imposizione
dei vincoli di destinazione, e che quindi
trova la sua ragione e convenienza
nell’evitare le lungaggini ed il peso
economico del procedimento espropriativo
ordinario.
L’impiego di tale tecnica consente infatti
di addivenire al conseguimento degli
obbiettivi di pubblico interesse senza
un’eccessiva penalizzazione degli interessi
privati, coinvolgendo i proprietari dei
terreni in precisi obiettivi di sviluppo,
evitando il ricorso alla imposizione dei
vincoli preordinati alla futura
espropriazione, generatrice di contenziosi,
senza implicare oneri per la finanza
pubblica.
Premesso che in questa sede non è consentito
sindacare le scelte operate
dall’amministrazione, in quanto esse
costituiscono espressione di un
apprezzamento di merito, sottratto in
generale al sindacato di legittimità a meno
che non risultino evidenti illogicità o
abnormità, né sono ravvisabili nella
fattispecie posizioni qualificate,
meritevoli di particolari attenzioni e
garanzie derivanti da precedenti
destinazioni, coma già osservato dal
Tribunale sul punto (cfr. TAR Veneto, n.
1504/2009), “…il ricorso alla tecnica
perequativa non appare affetto da vizi di
legittimità, non essendo di per sé vietato
dalla legge e non presentando aspetti di
illogicità o irrazionalità, essendo
espressione di un approccio diverso al
problema dell’organizzazione del territorio.
Il ricorso alla cd. urbanistica perequativa
è infatti dettato dalla volontà di operare
in modo da ridistribuire in maniera
equilibrata i vantaggi economici
dell’edificabilità impressa alle aree,
dotandole della medesima potenzialità
edificatoria.
Tale modello è stato ritenuto compatibile
con i valori del nostro ordinamento e
consente, superando il modello tradizionale
della ripartizione del territorio in zone,
ognuna con la propria destinazione, di
conseguire maggiori utilità, sia per i
singoli proprietari dei terreni sia per
l’amministrazione pubblica e con essa per
l’intera collettività”.
Invero, lo strumento della perequazione,
sebbene non contemplato a livello di
legislazione nazionale, è stato
progressivamente introdotto dalle
legislazioni regionali, cui è affidata la
disciplina del territorio (anche dalla
stessa legge regionale veneta n. 11/2004,
art. 35) e persegue l’obiettivo di eliminare
le disuguaglianze create dalla funzione
pianificatoria, in particolare dalla
zonizzazione e dalla localizzazione diretta
degli standards, quanto meno all’interno di
ambiti di trasformazione, creando le
condizioni necessarie per agevolare
l’accordo fra i privati proprietari delle
aree incluse in essi e promuovere
l’iniziativa privata.
Peraltro, neppure la difesa istante giunge a
contestare in sé la scelta di utilizzare la
tecnica perequativa al fine di addivenire ad
una disciplina del territorio e della sua
riqualificazione, contestando semmai le
difficoltà che detta scelta può presentare
all’atto pratico nell’ipotesi in cui, come
accade nel caso della ricorrente, non si
riesca a dare corso allo strumento
attuativo.
Invero, ciò che danneggia parte ricorrente
non è tanto la previsione contenuta
nell’art. 38 NTA nella parte in cui ammette
la possibilità per l’amministrazione, al
fine di dare corso alla programmazione delle
opere pubbliche, di dare corso agli
interventi in via diretta, senza attendere
la formazione del PUA previsto, né la
successiva previsione contenuta nell’ultima
parte della norma che testualmente dispone:
“In tal caso, quanto sopra avrà luogo senza
pregiudizio alla modalità di compensazione e
perequazione da osservare in sede di SUA
esteso all’intero (o al restante) ambito.
Conseguentemente si stabilisce che ogni
proprietà conserva il diritto ad una
cubatura proporzionale all’estensione della
sua area, indipendentemente dalle previsioni
dello strumento urbanistico generale, e
sopporta, nella medesima proporzione, gli
oneri dell’iniziativa”.
Quindi, ex se la previsione contestata non è
pregiudizievole per la ricorrente,
individuando uno schema procedimentale
diverso da quello ordinario (previsione
dell’opera pubblica e relativa
localizzazione –imposizione del vincolo
preordinato all’espropriazione –espropriazione del bene– realizzazione
dell’opera pubblica), contemplando la
possibilità di mantenere la cubatura
spettante proporzionalmente ad ogni
proprietario del comparto e di recuperarla,
quanto meno in termini economici, in altra
parte dell’ambito.
Ciò che invece costituisce fonte di danno
per la ricorrente è la difficoltà intrinseca
di dare concreta attuazione agli accordi con
gli altri proprietari del comparto al fine
di addivenire all’approvazione del PUA e
quindi dare concreta realizzazione alle
capacità di sfruttamento edificatorio delle
aree (quello che parte ricorrente definisce
l’“atterraggio” sulla restante parte del
comparto della cubatura ad essa spettante).
Ma tale difficoltà non può costituire ex se
causa di illegittimità della previsione
contenuta nelle NTA e quindi della scelta
comunale di procedere secondo la tecnica
perequativa, né dell’avvenuto computo, in
sede di acquisizione dei terreni sui quali
andranno realizzate le opere pubbliche
(strada ed asilo nido), del mero valore
agricolo degli stessi, senza tenere conto
della cubatura ad essi riferibile, proprio
in quanto teoricamente recuperabile dai
proprietari (che diversamente, laddove
potessero poi recuperare su altra parte del
compendio la cubatura non utilizzata nel
terreno di proprietà, godrebbero di un
ingiustificato arricchimento).
Si tratterà, semmai, laddove gli accordi fra
i componenti del comparto non dovessero
giungere a buon fine, così rendendo di per
sé inattuabile la previsione urbanistica, di
valutare le singole responsabilità in ordine
ai danni derivanti alla ricorrente dalla
mancata conclusione degli accordi di
comparto ovvero potrà essere valutata la
possibilità di un intervento risolutivo
d’autorità da parte della stessa
amministrazione comunale
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 10.01.2011 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Le
circolari amministrative sono atti diretti
agli organi e uffici periferici ovvero
sottordinati, che non hanno di per sé valore
normativo o provvedimentale. “e consegue che
tali atti non rivestono una rilevanza
determinante nella genesi dei provvedimenti
che ne fanno applicazione.
Inoltre, è evidente che tali atti di
indirizzo interpretativo non sono vincolanti
per i soggetti estranei all'amministrazione,
mentre, per gli organi destinatari esse sono
vincolanti solo se legittime, potendo essere
disapplicate qualora siano contra legem.
Come esattamente rilevato dal TAR, le
circolari amministrative sono atti diretti
agli organi e uffici periferici ovvero
sottordinati, che non hanno di per sé valore
normativo o provvedimentale. “Ne consegue
che tali atti non rivestono una rilevanza
determinante nella genesi dei provvedimenti
che ne fanno applicazione”.
Inoltre, è evidente che tali atti di
indirizzo interpretativo non sono vincolanti
per i soggetti estranei all'amministrazione,
mentre, per gli organi destinatari esse sono
vincolanti solo se legittime, potendo essere
disapplicate qualora siano contra legem
(C. Stato, sez. IV, 27-11-2000, n. 6299)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 15.10.2010 n. 7521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vincolo
idrogeologico - Mancata iscrizione del corso
d’acqua nell’elenco delle acque pubbliche -
Irrilevanza - Fattispecie: fossato di
convogliamento delle acque piovane - D.P.R.
n. 238/1999.
Ai fini del vincolo idrogeologico è
irrilevante sia la mancata iscrizione del
corso d’acqua negli appositi elenchi delle
acque pubbliche, stante il carattere
dichiarativo e non costitutivo di detti
elenchi (cfr. l’art. 1 della legge
05.01.1994, n. 36 e l’art. 1, comma 4, del
D.P.R. n. 238/1999), sia la circostanza che
manchi una sorgente a monte e che, pertanto,
abitualmente non vi scorra acqua: anche a
voler prescindere dal chiaro disposto
dell’art. 93 R.D. 25.07.1904, n. 523, è
infatti evidente che anche un fossato
creatosi naturalmente tra due rilievi
collinari, convogliando le acque meteoriche,
può determinare il dilavamento dei terreni,
mettendone in pericolo la stabilità e
turbando il regime delle acque superficiali
(art. 1 R.D. 30.12.1923, n. 3267).
In tal senso è assai significativo che
l’art. 1, comma 2, del D.P.R. 18.02.1999, n.
238 definisca pubbliche anche le acque
piovane, non appena convogliate in un corso
d’acqua (TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 05.07.2010 n. 5564 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell’art. 9, comma 1,
lett. f), legge 28.01.1977 n. 10, devono
concorrere due requisiti per usufruire dello
speciale regime di gratuità della
concessione edilizia e, precisamente, un
requisito di carattere oggettivo,
attinente al carattere pubblico o comunque
di interesse generale delle opere da
realizzare, e un requisito di carattere
soggettivo, in quanto le opere devono
essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente ovvero da soggetti anche privati
che non agiscano per scopo di lucro ovvero
abbiano un legame istituzionale con l’azione
dell’Amministrazione volta alla cura di
interessi pubblici; detta situazione non
ricorre nel caso di sottoscrizione di un
apposito atto di vincolo di destinazione ad
uso pubblico di un impianto sportivo con
annessa piscina, trattandosi pur sempre di
opere di proprietà privata di cui il
realizzatore ha assunto l’impegno di
assicurarne l’uso da parte del pubblico.
Un immobile destinato a casa di cura privata
è equiparabile ad un’attività industriale ex
art. 2195 codice civile, trattandosi di
un’attività imprenditoriale diretta alla
prestazione di servizi sanitari. Pertanto,
sconta solamente il pagamento degli oo.uu. e
non anche del costo di costruzione.
Ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f),
legge n. 10/1977 (ora art. 17, comma 3,
lett. c d.p.r. n. 380/2001) il contributo di
costruzione non è dovuto per opere pubbliche
o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti.
Non ricorre nella presente fattispecie
l’ipotesi dell’esonero totale di cui al
citato art. 17, comma 3, lett. c), d.p.r. n.
380/2001 poiché la società ricorrente
(soggetto privato), seppure abbia
manifestato l’intenzione di realizzare
un’opera di interesse pubblico (i.e.
residenza sanitaria assistenziale per
anziani e persone a mobilità ridotta, casa
di riposo e residenza protetta), non risulta
che agisca per conto della pubblica
amministrazione, né che abbia un
collegamento giuridicamente rilevante con la
stessa P.A. (cfr. sul punto Cons. Stato,
Sez. V, 10.07.2000, n. 3860), il che
unicamente le consentirebbe di rientrare
nell’ipotesi di esonero totale di cui
all’art. 9, comma 1, lett. f), legge n.
10/1977 (ora art. 17, comma 3, lett. c),
d.p.r. n. 380/2001).
Invero secondo quanto affermato di recente
da Cons. Stato, Sez. IV, 29.05.2009, n. 3359
“Ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f),
legge 28.01.1977 n. 10, devono concorrere
due requisiti per usufruire dello speciale
regime di gratuità della concessione
edilizia e, precisamente, un requisito di
carattere oggettivo, attinente al carattere
pubblico o comunque di interesse generale
delle opere da realizzare, e un requisito di
carattere soggettivo, in quanto le opere
devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente ovvero da
soggetti anche privati che non agiscano per
scopo di lucro ovvero abbiano un legame
istituzionale con l’azione
dell’Amministrazione volta alla cura di
interessi pubblici; detta situazione non
ricorre nel caso di sottoscrizione di un
apposito atto di vincolo di destinazione ad
uso pubblico di un impianto sportivo con
annessa piscina, trattandosi pur sempre di
opere di proprietà privata di cui il
realizzatore ha assunto l’impegno di
assicurarne l’uso da parte del pubblico.”.
La ricorrente non fornisce quindi alcuna
prova in ordine alla concorrenza dei due
requisiti predetti (oggettivo e soggettivo)
pur essendo suo onere.
Ne consegue il rigetto del ricorso
introduttivo e del ricorso per motivi
aggiunti relativamente alla censura fondata
sulla asserita violazione dell’art. 9, comma
1, lett. f legge n. 10/1977 (ora art. 17,
comma 3, lett. c d.p.r. n. 380/2001).
Tuttavia sono integrati, nel caso di specie,
gli estremi dell’ipotesi di cui all’art. 10,
comma 1 legge n. 10/1977 (ora art. 19, comma
1 d.p.r. n. 380/2001) di parziale esenzione
dal contributo urbanistico venendo in
rilievo una concessione edilizia relativa ad
un immobile destinato a casa di cura privata
che, secondo quanto affermato da Cons. Stato
n. 46/1992, è equiparabile ad un’attività
industriale ex art. 2195 codice civile
trattandosi di un’attività imprenditoriale
diretta alla prestazione di servizi
sanitari.
Invero ai sensi dell’art. 10, comma 1 legge
n. 10/1977 “La concessione relativa a
costruzioni o impianti destinati ad attività
industriali o artigianali dirette alla
trasformazione di beni ed alla prestazione
di servizi comporta la corresponsione di un
contributo pari all’incidenza delle opere di
urbanizzazione, di quelle necessarie al
trattamento e allo smaltimento dei rifiuti
solidi, liquidi e gassosi e di quelle
necessarie alla sistemazione dei luoghi ove
ne siano alterate le caratteristiche.
L’incidenza di tali opere è stabilita con
deliberazione del consiglio comunale in base
a parametri che la regione definisce con i
criteri di cui alle lettere a) e b) del
precedente art. 5, nonché in relazione ai
tipi di attività produttiva.”.
Attualmente in base all’art. 19, comma 1
d.p.r. n. 380/2001 “Il permesso di
costruire relativo a costruzioni o impianti
destinati ad attività industriali o
artigianali dirette alla trasformazione di
beni ed alla prestazione di servizi comporta
la corresponsione di un contributo pari alla
incidenza delle opere di urbanizzazione, di
quelle necessarie al trattamento e allo
smaltimento dei rifiuti solidi, liquidi e
gassosi e di quelle necessarie alla
sistemazione dei luoghi ove ne siano
alterate le caratteristiche. La incidenza di
tali opere è stabilita con deliberazione del
consiglio comunale in base a parametri che
la regione definisce con i criteri di cui al
comma 4, lettere a) e b) dell’articolo 16,
nonché in relazione ai tipi di attività
produttiva.”.
Cons. Stato, Sez. V, 16.01.1992, n. 46 ha
affermato in una fattispecie analoga alla
presente che “Alla concessione edilizia
relativa ad un immobile destinato a casa di
cura privata spetta la parziale esenzione
dal contributo urbanistico, prevista
dall’art. 10 legge 28.01.1977 n. 10 per le
concessioni relative a costruzioni o
impianti destinati ad attività industriali o
artigianali dirette alla trasformazione di
beni ed alla prestazione di servizi; dal
momento che l’attività imprenditoriale
diretta alla prestazione di servizi sanitari
è a pieno titolo un’attività industriale,
giusta la definizione di "attività
industriale" che si ricava dall’art. 2195
c.c.”
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 01.04.2010 n. 1246 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per accertare se sussistono o
meno i presupposti per la decadenza di una
concessione edilizia, l’effettivo inizio dei
lavori deve essere valutato non via generale
ed astratta, ma con specifico riferimento
all’entità ed alle dimensioni
dell’intervento edificatorio programmato ed
autorizzato, all’evidente scopo di evitare
che il termine prescritto possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici e
non oggettivamente significativi di un
effettivo intendimento del titolare della
concessione di procedere alla realizzazione
dell'opera assentita.
Il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e materiali
di costruzione non sono di norma sufficienti
a manifestare una reale volontà di
esecuzione del manufatto (occorrendo, a tal
fine, anche la messa a punto
dell’organizzazione del cantiere e altri
indizi che dimostrino il concreto proposito
di proseguire i lavori sino alla loro
ultimazione).
La giurisprudenza amministrativa,
pronunciandosi in ordine a fattispecie
analoghe a quella ora all’esame, ha già
chiarito che per accertare se sussistono o
meno i presupposti per la decadenza di una
concessione edilizia, l’effettivo inizio dei
lavori deve essere valutato non via generale
ed astratta, ma con specifico riferimento
all’entità ed alle dimensioni
dell’intervento edificatorio programmato ed
autorizzato, all’evidente scopo di evitare
che il termine prescritto possa essere eluso
con ricorso a lavori fittizi e simbolici e
non oggettivamente significativi di un
effettivo intendimento del titolare della
concessione di procedere alla realizzazione
dell'opera assentita.
Il semplice sbancamento del terreno e la
predisposizione degli strumenti e materiali
di costruzione non sono di norma sufficienti
a manifestare una reale volontà di
esecuzione del manufatto (occorrendo, a tal
fine, anche la messa a punto
dell’organizzazione del cantiere e altri
indizi che dimostrino il concreto proposito
di proseguire i lavori sino alla loro
ultimazione), ma possono, tuttavia,
verificarsi casi particolari in cui il solo
sbancamento, per interessare un’area di
vaste proporzioni, costituisce sicuro
indizio di un animus aedificandi e
configura quindi valido avvio dei lavori,
impedendo il verificarsi della decadenza
della concessione;
Nel caso di specie le opere eseguite, con
specifico riferimento a quanto dichiarato e
documentato con il gravame, sembrano di
modesta entità in relazione all’intervento
programmato, ove si consideri che con il
permesso in questione è stata autorizzata la
costruzione di un edificio ad uso
residenziale dell’altezza di oltre quindici
metri e della volumetria di oltre mc. 3.700,
mentre lo scavo realizzato appare di modeste
dimensioni e di costo ridotto in relazione
all’impegno finanziario richiesto per
realizzare l’opera progettata
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 08.03.2010 n. 152 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non sussiste una pregiudiziale
incompatibilità tra la destinazione agricola
di un'area e la sua utilizzazione a
parcheggio.
La destinazione a zona agricola di un'area,
salva la previsione di particolari vincoli
ambientali o paesistici, non impone un
obbligo specifico di utilizzazione effettiva
in tal senso, avendo solo lo scopo di
evitare insediamenti residenziali; essa,
pertanto, non costituisce ostacolo alla
installazione di opere che non riguardino
l'edilizia residenziale e che, per contro,
si rivelino per ovvi motivi incompatibili
con zone abitate e quindi necessariamente da
realizzare in aperta campagna.
Non sussiste una pregiudiziale
incompatibilità tra la destinazione agricola
di un'area e la sua utilizzazione a
parcheggio: la giurisprudenza
amministrativa, infatti, ha avuto occasione
di chiarire che la destinazione a zona
agricola di un'area, salva la previsione di
particolari vincoli ambientali o paesistici,
non impone un obbligo specifico di
utilizzazione effettiva in tal senso, avendo
solo lo scopo di evitare insediamenti
residenziali; essa, pertanto, non
costituisce ostacolo alla installazione di
opere che non riguardino l'edilizia
residenziale e che, per contro, si rivelino
per ovvi motivi incompatibili con zone
abitate e quindi necessariamente da
realizzare in aperta campagna (cfr., CdS,
Sez. V, 15.06.2001 n. 3178; TAR Veneto, Sez.
II, 31.10.2000 n. 1952 e Sez. III,
18.03.2002 n. 1108)
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 15.02.2010 n. 178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI:
Per attribuire una nuova
denominazione ad una strada, il comune,
prima di procedere alla variazione della
denominazione esistente, deve previamente
chiedere ed ottenere sia l'autorizzazione
del Ministero dei beni culturali,
trattandosi di mutazione della denominazione
già sussistente, sia l'autorizzazione
prefettizia, ove la scelta ricada sul
nominativo di un personaggio contemporaneo.
Il principio si applica anche alle piazze
comunali, posto che l’art. 1 del R.D.L. n.
1158/1923 stabilisce che “le Amministrazioni
municipali, qualora intendano mutare il nome
di qualcuna delle vecchie strade o piazze
comunali, dovranno chiedere ed ottenere
preventivamente l'approvazione del Ministro
dell'istruzione pubblica per il tramite
delle competenti Soprintendenze ai
monumenti”.
Per attribuire una nuova denominazione ad
una strada, il comune, prima di procedere
alla variazione della denominazione
esistente, deve previamente chiedere ed
ottenere sia l'autorizzazione del Ministero
dei beni culturali, ai sensi dell'art. 1
r.d.l. 10.05.1923, n. 1158, convertito nella
l. 17.04.1925, n. 473, trattandosi di
mutazione della denominazione già
sussistente, sia l'autorizzazione
prefettizia di cui all'art. 1 l. 23.06.1927,
n. 1188, ove la scelta ricada sul nominativo
di un personaggio contemporaneo (TAR Lazio
Sez. II, 07-03-1983, n. 199).
Il principio si applica anche alle piazze
comunali, posto che l’invocato art. 1 del
R.D.L. n. 1158/1923, così come convertito in
L. n. 473/1925, stabilisce che “le
Amministrazioni municipali, qualora
intendano mutare il nome di qualcuna delle
vecchie strade o piazze comunali, dovranno
chiedere ed ottenere preventivamente
l'approvazione del Ministro dell'istruzione
pubblica per il tramite delle competenti
Soprintendenze ai monumenti” (TAR
Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 09.02.2010 n. 171 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
caratteristica dell’ATI mista è quella di
combinare il modello dell’ATI verticale con
quello dell’ATI orizzontale, sicché
all’interno della prima sono possibili
ulteriori sub-raggruppamenti orizzontali che
frazionino tra loro o la prestazione della
mandataria o la prestazione della mandante.
Proprio la struttura dell’ATI mista consente
il sub-raggruppamento orizzontale e quello
verticale, purché nell’ambito della
prestazione principale resti ferma la regola
del solo raggruppamento orizzontale.
La caratteristica dell’ATI mista è quella di
combinare il modello dell’ATI verticale con
quello dell’ATI orizzontale, sicché
all’interno della prima sono possibili
ulteriori sub-raggruppamenti orizzontali che
frazionino tra loro o la prestazione della
mandataria (sicché si avrà un’ATI
orizzontale per la prestazione principale e
una verticale che separa la prestazione
secondaria) o la prestazione della mandante
(che svolge la prestazione “secondaria”,
separabile in ATI verticale, ma che a sua
volta può essere un’ATI orizzontale che nel
complesso svolge la prestazione secondaria).
In pratica, ferma la massima flessibilità
che consente la combinazione dei due
modelli, resta dovuto il rispetto del limite
di legge per cui il segmento di ATI
verticale, che realizza lo scorporo, non può
coinvolgere la prestazione principale (sul
punto particolarmente chiara e con
considerazioni tuttora valide Cons. St. sez.
IV 09.07.1998 n. 702).
Come già
evidenziato in termini generali, proprio la
struttura dell’ATI mista consente il
sub-raggruppamento orizzontale e quello
verticale, purché nell’ambito della
prestazione principale resti ferma la regola
del solo raggruppamento orizzontale. Ciò che
la legge vieta è in definitiva che tutto ciò
che la stazione appaltante ha qualificato
principale venga svolto in esclusiva da una
mandante. D’altro canto sulle prestazioni
eseguite in ATI orizzontale sono obbligate
in solido tutte le componenti dell’ATI e vi
è comunque (in virtù della suddivisione pro
quota e non per tipo) anche una effettiva
partecipazione all’attività della
mandataria, interlocutore diretto della
stazione appaltante; per contro nell’ATI
verticale sono necessariamente responsabili
in solido verso la stazione appaltante della
parte di servizio scorporata solo la
mandante verticale e la mandataria, che
risponde dell’attività della mandante ma
dichiaratamente non vi prende in alcun modo
parte. L’effetto che il divieto di scorporo
vuole dunque evitare è duplice: l’esonero di
responsabilità delle restanti mandanti oltre
che la responsabilità in assenza di
partecipazione all’attività da parte della
mandataria
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 29.01.2010 n. 454 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Risultano
inammissibili, per intervenuta acquiescenza,
le censure proposte con il ricorso
giurisdizionale da un partecipante ad una
gara a trattativa privata, nel caso in cui
il ricorrente, da un lato, abbia posto a
base di tali censure la contestazione
dell’utilizzo di un siffatto strumento di
selezione del contraente, per difetto di
condizioni legittimanti la scelta del tipo
di gara, e, dall’altro, lo stesso
partecipante dichiari di avere presentato
domanda di partecipazione alla gara in
questione, evidenziando, chiaramente ed
univocamente, la volontà di accettare la
tipologia di gara prescelta
dall’Amministrazione procedente.
Il sindacato
giurisdizionale esperibile in ordine agli
apprezzamenti tecnico-discrezionali
effettuati dalla Commissione di gara in sede
di valutazione comparativa delle offerte non
può che limitarsi alla verifica della
sussistenza o meno di indici sintomatici di
non corretto esercizio del potere
discrezionale, sub specie di difetto di
motivazione, illogicità manifesta, erroneità
dei presupposti di fatto, incoerenza della
procedura valutativa e dei relativi esiti.
Secondo il costante orientamento della
giurisprudenza, risultano inammissibili, per
intervenuta acquiescenza, le censure
proposte con il ricorso giurisdizionale da
un partecipante ad una gara a trattativa
privata, nel caso in cui il ricorrente, da
un lato, abbia posto a base di tali censure
la contestazione dell’utilizzo di un
siffatto strumento di selezione del
contraente, per difetto di condizioni
legittimanti la scelta del tipo di gara, e,
dall’altro, lo stesso partecipante dichiari
di avere presentato domanda di
partecipazione alla gara in questione,
evidenziando, chiaramente ed univocamente,
la volontà di accettare la tipologia di gara
prescelta dall’Amministrazione procedente
(cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V,
09.10.2003, n. 6072).
Il sindacato
giurisdizionale esperibile in ordine agli
apprezzamenti tecnico-discrezionali
effettuati dalla Commissione di gara in sede
di valutazione comparativa delle offerte non
può che limitarsi alla verifica della
sussistenza o meno di indici sintomatici di
non corretto esercizio del potere
discrezionale, sub specie di difetto
di motivazione, illogicità manifesta,
erroneità dei presupposti di fatto,
incoerenza della procedura valutativa e dei
relativi esiti (C.d.S., Sez. V, 12.10.2004,
n. 6566)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 19.11.2008 n. 5442 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
Se è rimessa ai
dirigenti la responsabilità delle procedure
d'appalto ne segue che ai medesimi compete
pure il correlativo potere di approvazione
per quanto attiene alla verifica tecnica e
di legittimità degli atti di gara, a questa
riconnettendosi quel perfezionamento
dell’iter procedimentale al quale solo può
ricollegarsi la responsabilità piena del
funzionario.
L’ordinamento non prevede alcuna
incompatibilità a carico del funzionario
che, in ragione dell’ufficio ricoperto,
svolga le funzioni di Presidente della
Commissione aggiudicatrice dell’appalto e
sia successivamente competente ad approvare
gli atti di gara.
L’aggiudicazione di una gara pubblica è un
atto di gestione. Come tale, secondo la
ripartizione delle attribuzioni definita dal
d.lgs. n. 267/2000, essa è riservata alla
competenza del dirigente del settore e non
degli organi elettivi o politici dell’Ente
locale, ai quali ultimi viene riservata
l’attività di indirizzo, che consiste nella
fissazione delle linee generali da seguire,
da parte della P.A., e degli scopi da
perseguire con l’attività di gestione.
La
giurisprudenza ha precisato più volte come
l’art. 6, comma 2, della l. n. 127/1997, nel
novellare l’art. 51 della l. n. 142/1990,
abbia rimesso ai dirigenti “la
responsabilità delle procedure d’appalto”
(oltre alla presidenza delle relative
Commissioni valutatrici) e la stipulazione
dei contratti (nello stesso senso è ora
l’art. 107, comma 3, lett. a), b) e c) del
d.lgs. n. 267/2000). Orbene, se è rimessa ai
dirigenti la responsabilità di tali
procedure, ne segue che ai medesimi compete
pure il correlativo potere di approvazione
per quanto attiene alla verifica tecnica e
di legittimità degli atti di gara, a questa
riconnettendosi quel perfezionamento
dell’iter procedimentale al quale solo può
ricollegarsi la responsabilità piena del
funzionario (C.d.S., Sez. V, 26.09.2002, n.
4938; id., 06.05.2002, n. 2408; id.,
12.04.2001, n. 2293).
Ne discende che l’ordinamento non prevede
alcuna incompatibilità a carico del
funzionario che, in ragione dell’ufficio
ricoperto, svolga le funzioni di Presidente
della Commissione aggiudicatrice
dell’appalto e sia successivamente
competente ad approvare gli atti di gara
(C.d.S., Sez. V, n. 4938/2002, cit.).
L’aggiudicazione di una gara pubblica è un
atto di gestione. Come tale, secondo la
ripartizione delle attribuzioni definita dal
d.lgs. n. 267/2000, essa è riservata alla
competenza del dirigente del settore e non
degli organi elettivi o politici dell’Ente
locale, ai quali ultimi viene riservata
l’attività di indirizzo, che consiste nella
fissazione delle linee generali da seguire,
da parte della P.A., e degli scopi da
perseguire con l’attività di gestione
(C.d.S., Sez. V, 29.08.2006, n. 5047)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 19.11.2008 n. 5442 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il contributo di urbanizzazione
ex art. 11, comma 2, della L. 28.01.1977 n.
10 deve essere determinato al momento del
rilascio della concessione ed è quindi a
tale momento che occorre avere riguardo per
la determinazione della entità del
contributo facendo perciò applicazione della
normativa vigente al momento del rilascio
del provvedimento concessorio.
Sussiste la irretroattività delle
determinazioni comunali a carattere
regolamentare con cui vengono stabiliti i
criteri generali e le nuove tariffe e/o
modalità di calcolo per gli oneri di
urbanizzazione ribadendosi l’integrale
applicazione del principio tempus regit
actum e, quindi, la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie
sopravvenute (anche se di poco) rispetto al
momento del rilascio della concessione
edilizia.
Costituisce orientamento consolidato della
giurisprudenza la affermazione che il
contributo di urbanizzazione ex art. 11,
secondo comma, della L. 28.01.1977 n. 10
deve essere determinato al momento del
rilascio della concessione ed è quindi a
tale momento che occorre avere riguardo per
la determinazione della entità del
contributo facendo perciò applicazione della
normativa vigente al momento del rilascio
del provvedimento concessorio (Sez. V
25.10.1993 n. 1071, 12.07.1996 n. 850,
06.12.1999 n. 2058, Sez. IV 19.07.2004 n.
5197).
Da tale affermazione di principio è stato
tratto il corollario della irretroattività
delle determinazioni comunali a carattere
regolamentare con cui vengono stabiliti i
criteri generali e le nuove tariffe e/o
modalità di calcolo per gli oneri di
urbanizzazione ribadendosi l’integrale
applicazione del principio tempus regit
actum e, quindi, la irrilevanza ed
ininfluenza di disposizioni tariffarie
sopravvenute (anche se di poco) rispetto al
momento del rilascio della concessione
edilizia (C.G.A. 07.08.2003 n. 289)
(CGARS,
sentenza 27.05.2008 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Corso d'acqua - Esecuzione di
opere di difese spondili - Testo unico delle
leggi sulle opere idrauliche R.D. 523/1904 -
Divieti di cui all’art. 96, c. 1, lett. f) e
lett. G) - Reato di pericolo e di danno -
Differenza - Accertamento - Configurabilità
- Fondamento.
Ha natura di reato di pericolo, il reato di
cui all'art. 96, lett. f), del R.D.
25.07.1904 n. 523 che vieta “le
piantagioni di alberi e siepi, le fabbriche,
gli scavi e lo smovimento del terreno a
distanza dal piede degli argini e loro
accessori minore di quella stabilita dalle
discipline vigenti nelle diverse località,
ed in mancanza di tali discipline, a
distanza minore di metri quattro per le
piantagioni e smovimento del terreno e di
metri dieci per le fabbriche e per gli scavi”.
Sicché, per la sussistenza della fattispecie
contravvenzionale, essendo puniti
comportamenti ritenuti dal legislatore
potenzialmente lesivi dell'assetto
idrogeologico del territorio e, quindi, del
corrispondente interesse pubblico, non
occorre l'ulteriore verifica che l'azione
illecita abbia recato nocumento all'alveo
del corso d'acqua o alle sue sponde. Mentre,
configura un'ipotesi di reato di danno, ai
sensi del R.D. 25.07.1904, n. 523, art. 96,
comma 1, lett. g), del cui disposto è
sanzionata l'esecuzione di "qualunque
opera o fatto che possa alterare lo stato la
forma, le dimensioni, la resistenza e la
convenienza all'uso, a cui sono destinati
gli argini e loro accessori, e manufatti
attinenti".
In questi casi, per la configurazione del
reato, sussiste la necessità di un concreto
accertamento del danno arrecato agli argini
e loro accessori, dovendosi escludere la
sussistenza del reato ogniqualvolta
l'esecuzione delle opere non abbia alterato
in alcun modo il regime del corso d'acqua
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.11.2006 n. 36502 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Acqua - Fiumi e corsi d’acqua -
Art. 96, lett. f), R.D. 523/1904 - Divieto
di costruzione sull’argine - Ratio.
Il divieto di costruzione nella fascia di 10
metri dagli argini dei corsi d’acqua
pubblici -di cui all’art. 96, lett. f, del
R.D. 25.7.04 n. 523- tende ad evitare che la
realizzazione di manufatti alteri lo stato
attuale degli elementi e delle pertinenza
idriche, sia per conservarne la sagoma
effettiva, sia per permettere il necessario
controllo dell’andamento del bacino, e ciò
sia nel suo assetto sia nel naturale
deflusso delle acque.
Inoltre la mancanza di fabbricati nei pressi
dei corsi d’acqua è utile a consentire una
tempestiva e libera effettuazione dei lavori
di manutenzione e di riparazione che possono
occorrere sulle opere idrauliche esistenti
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 01.03.2005 n. 304 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: E'
legittimo l'operato di un comune che, dopo
aver espletato la gara del servizio nettezza
urbana e risultata deserta, è ricorso allo
strumento dell'ordinanza contingibile ed
urgente -a ridosso della scadenza del
contratto d'appalto vigente- al fine di
prevenire eventuali ipotesi di emergenze
sanitarie e di igiene pubblica.
Il contratto scaduto non conteneva alcuna
clausola di rinnovo e -come è noto- il
principio della sussistenza di un pactum
renovandi implicito, tendenzialmente non è
applicabile ai contratti della Pubblica
Amministrazione.
Ritiene il Collegio di dovere evidenziare,
nella fattispecie in esame, i seguenti
importanti punti di fatto e princìpi di
diritto:
a) l’esecuzione del servizio pubblico di
raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi
urbani deve, in generale, essere svolto con
efficacia ed immediatezza a tutela del bene
pubblico indicato dalla legge; pertanto
qualora la necessità di provvedere si
appalesi imperiosa -specie al fine di
prevenire eventuali ipotesi di emergenze
sanitarie e di igiene pubblica- il Sindaco
può legittimamente ricorrere allo strumento
dell’ordinanza contingibile ed urgente, ai
sensi dell’art. 50, comma 5, del dec. leg.vo
18.08.2000, n. 267, anche se sussiste una
apposita disciplina che regoli, in via
ordinaria, la materia;
b) nel caso di specie, la gara per
l’affidamento del servizio de quo era
andata deserta e la mancata partecipazione
ad essa del gestore uscente può avere
legittimato nell’Amministrazione procedente
la convinzione che siffatto comportamento
denotasse scarso interesse allo svolgimento
del servizio di cui trattasi;
c) il contratto scaduto non conteneva alcuna
clausola di rinnovo e -come è noto- il
principio della sussistenza di un pactum
renovandi implicito, tendenzialmente non
è applicabile ai contratti della Pubblica
Amministrazione (art. 6, comma 2, l.
24.12.1993, n. 537);
d) trattandosi di un servizio, il Comune
-nell’ambito dei poteri ad esso riservati-
doveva effettuare la sua acquisizione al
miglior prezzo di mercato (art. 6, c. 5,
della citata l. n. 537/1993) ed in termini
generali, le ragioni del risparmio e della
convenienza economica ben possono prevalere
sulla eventuale conferma di un canone più
oneroso in favore del gestore uscente;
e) il Comune, nel caso, non era tenuto ad
effettuare alcuna gara informale preventiva
al fine di individuare il soggetto onerato
della prestazione d’urgenza e, pertanto, il
contatto informale effettuato nei confronti
delle due menzionate ditte non doveva
sottostare ad alcuna particolare procedura.
né rispettare le regole tipiche delle
procedure concorsuali
(CGARS,
sentenza 27.01.2005 n. 21 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
E' illegittima la clausola del
bando di gara la quale (uniformandosi al
bando tipo regionale) disponga che in caso
di offerte uguali si procede al sorteggio e
non alla procedura di presentazione di
offerte migliorative, in quanto in contrasto
con l’articolo 77 del R.D. n. 827 del 1924,
contenuto in un corpo normativo (il
regolamento di contabilità generale dello
Stato) che trova applicazione generalizzata
indipendentemente dal suo richiamo negli
atti (compresi i bandi di gara) della
pubblica Amministrazione.
In sede di predisposizione del bando di gara
l'amministrazione può motivatamente
integrare o sostituire le clausole contenute
negli schemi di bandi-tipo nel caso di
lacune nello schema o difformità rispetto
alla normativa, ovvero qualora si tratti di
appalti di opere atipiche, con il concorso
di due condizioni: - che non sia vulnerato
il principio della par condicio dei
concorrenti; - che le prescrizioni richieste
siano pertinenti rispetto al fine di
garantire la maggiore serietà del
procedimento di gara, senza peraltro imporre
ai concorrenti compiti troppo gravosi.
Osserva il Collegio che (come già ritenuto
con sentenza di questo Tribunale
amministrativo regionale n. 2055 del
05.08.2004) è illegittima la clausola del
bando di gara la quale (uniformandosi al
bando tipo regionale) disponga che in caso
di offerte uguali si procede al sorteggio e
non alla procedura di presentazione di
offerte migliorative, in quanto in contrasto
con l’articolo 77 del R.D. n. 827 del 1924,
contenuto in un corpo normativo (il
regolamento di contabilità generale dello
Stato) che trova applicazione generalizzata
indipendentemente dal suo richiamo negli
atti (compresi i bandi di gara) della
pubblica Amministrazione non è stato né
implicitamente né esplicitamente abrogato
dalla legge Merloni in atto vigente ed a
tutte le norme di contabilità generale dello
stato fa espresso riferimento l'art. 21,
ultimo comma, della legge regionale n. 47
del 1977, contenente norme in materia di
bilancio e di contabilità della Regione
siciliana (Consiglio di Stato VI, 03.12.1998
n. 1648).
E' utile
richiamare il costante indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale in sede
di predisposizione del bando di gara
l'amministrazione può motivatamente
integrare o sostituire le clausole contenute
negli schemi di bandi-tipo nel caso di
lacune nello schema o difformità rispetto
alla normativa (anche quale interpretata
dalla giurisprudenza), ovvero qualora si
tratti di appalti di opere atipiche, con il
concorso di due condizioni:
- che non sia vulnerato il principio della
par condicio dei concorrenti;
- che le prescrizioni richieste siano
pertinenti rispetto al fine di garantire la
maggiore serietà del procedimento di gara,
senza peraltro imporre ai concorrenti
compiti troppo gravosi (Cons. giust. amm.
sic., sez. consult., 08-09-1989, n.
421/1989, in Giur. amm. sic., 1990, 32, cft.
C.S., Sez. V, 18.10.1974 n. 411; Sez. VI,
17.02.1988 n. 188; C.G.A. 10.05.1988 n. 86,
par. Sez. riunite 10.04.1990 n. 133; TAR
Sicilia-Palermo, Sez. 1^, 29.05.1987 n. 322,
10.05.1988 n. 86, 15.07.1991 n. 450; TAR
Sicilia-Catania, Sez. 1^, 02.04.1992 n. 251,
Sez. 3^, 28.05.1991 n. 217
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 11.01.2005 n. 19 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La clausola del bando di gara
secondo cui “L’Ente appaltante si riserva la
facoltà di interrompere o annullare in
qualsiasi momento la gara in base a
valutazioni di propria, esclusiva
competenza, senza che i concorrenti possano
vantare diritti e/o aspettative di sorta.
Inoltre, l’Ente appaltante si riserva la
facoltà di non procedere all’aggiudicazione
dell’appalto in tutto o in parte ovvero di
procedervi anche nel caso di una sola
offerta” non può ritenersi conforme
all'ordinamento.
Una clausola di tal genere configurerebbe in
pratica una condizione meramente potestativa
e come tale sarebbe affetta da nullità:
violerebbe, infatti, sia il principio
civilistico di buona fede -consentendo in
pratica il recesso ingiustificato dalle
trattative con esonero da responsabilità ex
art. 1337 c.c.-, sia il principio
pubblicistico di imparzialità e buona
amministrazione di cui all’art. 97 Cost.,
consentendo ad un soggetto destinatario
delle norme in tema di evidenza pubblica, di
agire senza rendere conto delle proprie
scelte.
La clausola quindi non può che essere
interpretata conformemente alle norme di cui
agli artt. 1362 e seguenti del codice
civile. Pertanto, facendo applicazione degli
artt. 1366 e 1367 c.c., deve ritenersi che
l’ente appaltante possa sì decidere di
sospendere la procedura ovvero di non
aggiudicare l’appalto, ma di detta scelta
debba rendere conto, fornendo adeguata
motivazione. La clausola, infatti, non
attribuisce alla stazione appaltante il
diritto di decidere arbitrariamente, ma le
consente soltanto di operare delle scelte
discrezionali, che come tali devono essere
motivate.
La clausola contenuta al punto VI.4.5 del
bando di gara disponeva che “L’Ente
appaltante si riserva la facoltà di
interrompere o annullare in qualsiasi
momento la gara in base a valutazioni di
propria, esclusiva competenza, senza che i
concorrenti possano vantare diritti e/o
aspettative di sorta”; detta clausola
però prevedeva inoltre che “l’Ente
appaltante si riserva la facoltà di non
procedere all’aggiudicazione dell’appalto in
tutto o in parte ovvero di procedervi anche
nel caso di una sola offerta”.
Pertanto, la clausola in questione prevedeva
la facoltà per la stazione appaltante di
sospendere il procedimento, di annullare la
gara, di non procedere all’aggiudicazione
ovvero di procedervi anche in caso di una
sola offerta lasciando quindi all’Ente un
ventaglio di possibilità tutte ugualmente
utilizzabili.
Si tratta pertanto di valutare, in via
generale, se una clausola di tale natura
–qualora interpretata nel senso propugnato
dalla stessa stazione appaltante (e cioè
come piena libertà di decisione senza dover
rendere conto delle proprie scelte)- possa
ritenersi conforme all’ordinamento.
Una clausola di tal genere, come ha
correttamente rilevato parte ricorrente,
configurerebbe in pratica una condizione
meramente potestativa e come tale sarebbe
affetta da nullità (cfr. Cons. Stato Sez. VI
30/09/1997 n. 1418): violerebbe, infatti,
sia il principio civilistico di buona fede
-consentendo in pratica il recesso
ingiustificato dalle trattative con esonero
da responsabilità ex art. 1337 c.c.-, sia il
principio pubblicistico di imparzialità e
buona amministrazione di cui all’art. 97
Cost., consentendo ad un soggetto
destinatario delle norme in tema di evidenza
pubblica, di agire senza rendere conto delle
proprie scelte.
La clausola quindi non può che essere
interpretata conformemente alle norme di cui
agli artt. 1362 e seguenti del codice
civile.
Pertanto, facendo applicazione degli artt.
1366 e 1367 c.c., deve ritenersi che l’ente
appaltante possa sì decidere di sospendere
la procedura ovvero di non aggiudicare
l’appalto, ma di detta scelta debba rendere
conto, fornendo adeguata motivazione.
La clausola, infatti, non attribuisce alla
stazione appaltante il diritto di decidere
arbitrariamente, ma le consente soltanto di
operare delle scelte discrezionali, che come
tali devono essere motivate.
Peraltro, essendo prevista nella stessa
clausola di cui al punto VI.4.5. del bando
la facoltà per la stazione appaltante di
procedere all’aggiudicazione anche in caso
di unica offerta, non può condividersi la
tesi propugnata da parte resistente secondo
cui – trattandosi di unica offerta – la
sospensione del procedimento sarebbe stata
disposta in applicazione dell’art. 69 del
R.D. n. 642/24 e come tale non sarebbe stata
necessaria alcuna motivazione.
La tesi della resistente sarebbe stata
condivisibile ove non fosse stata prevista
espressamente la facoltà per la stazione
appaltante di procedere all’aggiudicazione
in presenza di unica offerta, perché la
sospensione del procedimento sarebbe stata
imposta dalla previsione del regolamento di
contabilità pubblica: in presenza però di
una clausola che consente la facoltà di
aggiudicazione anche in presenza di offerta
unica, ritiene il Collegio che qualunque
decisione avesse adottato la società A.D.R.
avrebbe dovuto essere congruamente motivata,
dovendosi fare applicazione dei comuni
principi valevoli in tema di esercizio di
poteri discrezionali, applicabili alla
società intimata in quanto soggetto
destinatario delle norme in tema di evidenza
pubblica.
Ne consegue che il ricorso risulta fondato
essendo il provvedimento impugnato affetto
da carenza di motivazione.
L’annullamento per difetto di motivazione di
detto atto riverbera i suoi effetti sul
successivo bando, con il quale la società
A.D.R. ha indetto la nuova gara per
l’espletamento del medesimo servizio, di
durata questa volta, annuale (TAR Lazio-Roma,
Sez. III-ter,
sentenza 14.10.2004 n. 10952 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel sistema dell’art. 77 del R.D.
23.05.1924 n. 827 il sorteggio assume un
carattere meramente residuale, trovando
applicazione solo nel caso in cui nessuno
dei presentatori di offerte eguali sia
presente ovvero, se i presenti non vogliano
migliorare la propria proposta negoziale,
nel corso di una apposita fase
procedimentale all’uopo indetta dal seggio
di gara.
Pertanto, si tratta di stabilire se con con
la locuzione “i presenti” -ex art. 77 R.D.
827/1924- il legislatore abbia inteso
riferirsi a tutti indistintamente i
concorrenti che hanno presentato offerte
uguali ovvero anche ad alcuni soltanto di
essi. La norma è nel senso che la richiesta
di miglioramento dell’offerta deve essere
fatta ai presenti, siano essi tutti o alcuni
soltanto di “coloro che fecero offerte
uguali”. D’altra parte, non è priva di
significato la circostanza che, qualora
fosse stata ritenuta necessaria, al fine di
esperire la licitazione migliorativa, la
presenza di tutti i concorrenti che avevano
presentato uguale offerta, il riferimento
sarebbe stato certamente a tutti i
concorrenti che fecero offerte uguali e non
ai soli presenti. Pertanto, ove i migliori
offerenti siano solo due, va da sé che “i
presenti” debbano essere identificati in uno
solo dei due offerenti, al quale va, quindi,
chiesto, prima di procedere al ballottaggio,
se intenda migliorare l’offerta.
L’art. 77
del R.D. 23.05.1924 n. 827 così dispone: “Quando
nelle aste ad offerte segrete due o più
concorrenti, presenti all’asta, facciano la
stessa offerta ed essa sia accettabile, si
procede nella medesima adunanza ad una
licitazione fra essi soli, a partiti segreti
o ad estinzione di candela vergine, ...
Colui che risulta migliore offerente è
dichiarato aggiudicatario.
Ove nessuno di coloro che fecero offerte
uguali sia presente, o i presenti non
vogliano migliorare l’offerta, ..., la sorte
decide chi debba essere l’aggiudicatario”.
Nella specie, si è verificata l’ipotesi di
cui al primo comma, avendo le soc. ... e ...
presentato la migliore uguale offerta.
Pertanto, la Commissione ha ritenuto che,
nell’impossibilità di esperire la
licitazione tra i due migliori concorrenti,
essendo presente solo uno di loro,
l’aggiudicazione dovesse essere affidata al
ballottaggio, ai sensi di quanto disposto
dal secondo comma.
La norma, come giustamente ha osservato il
TAR, prendendo, peraltro, atto
dell’esistenza di un non univoco indirizzo
giurisprudenziale in materia, non è stata
correttamente interpretata ed applicata.
E’ innegabile che nel sistema dell’art. 77
il sorteggio assume un carattere meramente
residuale, trovando applicazione solo nel
caso in cui nessuno dei presentatori di
offerte eguali sia presente ovvero, se i
presenti non vogliano migliorare la propria
proposta negoziale, nel corso di una
apposita fase procedimentale all’uopo
indetta dal seggio di gara.
Si tratta, quindi, di stabilire se con con
la locuzione “i presenti” il
legislatore abbia inteso riferirsi a tutti
indistintamente i concorrenti che hanno
presentato offerte uguali (i quali, come si
evince dal primo comma, possono essere anche
più di due), ovvero anche ad alcuni soltanto
di essi.
La norma, che non si presta ad
interpretazioni che vadano oltre la sua
stessa lettera, attesa la sua chiarezza e la
evidente finalità di cercare di conseguire
un esito migliore della gara, prima di
ricorrere al ballottaggio, ad avviso del
Collegio, è nel senso che la richiesta di
miglioramento dell’offerta deve essere fatta
ai presenti, siano essi tutti o alcuni
soltanto di “coloro che fecero offerte
uguali”.
D’altra parte, non è priva di significato la
circostanza che, qualora fosse stata
ritenuta necessaria, al fine di esperire la
licitazione migliorativa, la presenza di
tutti i concorrenti che avevano presentato
uguale offerta, il riferimento sarebbe stato
certamente a tutti i concorrenti che fecero
offerte uguali e non ai soli presenti.
Pertanto, ove i migliori offerenti siano
solo due, va da sé che “i presenti”
debbano essere identificati in uno solo dei
due offerenti, al quale va, quindi, chiesto,
prima di procedere al ballottaggio, se
intenda migliorare l’offerta.
Né tale conclusione appare in contrasto con
i principi che regolano le gare e, in
particolare, con quello della parità dei
concorrenti -che secondo l’accennato
contrario orientamento giurisprudenziale
sarebbe violato, essendo data la possibilità
di migliorare l’offerta ad alcuni o anche ad
uno solo di essi- perché, nei casi in cui
trova applicazione l’art. 77 (come nella
specie, in quanto nel bando è stato
espressamente richiamato con caratteri in
grassetto), i concorrenti sono consapevoli
delle modalità di aggiudicazione previste da
questa norma nell’eventualità, rara ma non
impossibile, di parità di offerte e,
pertanto, pur non essendo la loro presenza
obbligatoria, è una loro libera scelta di
partecipare o non partecipare alle
operazioni di gara e, nel secondo caso,
correre l’alea di non poter proporre una
offerta migliorativa (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 22.06.2004 n. 4362 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Distanza dai corsi d'acqua.
Il divieto di cui all'art. 96, lett. g),
r.d. 25.07.1904, n. 523 (t.u. delle leggi
sulle opere idrauliche) appare riferito ad
opere e atti che investono gli alvei delle
acque pubbliche, le sponde e difese, e cioè
lo spazio soggiacente alle piene ordinarie,
le sponde e le ripe interne, formanti con
l'alveo del corso d'acqua una unità
inscindibile per il contenimento e
l'economia di scorrimento delle acque, o,
comunque, le opere e i fatti che incidano
sull'economia e sul regime dell'alveo del
corso d'acqua, come sopra definito.
Ciò è confermato dalle disposizioni degli
artt. 57 e 58 stesso t.u., le quali -mentre
assoggettano al controllo della pubblica
amministrazione "i progetti per
modificazioni di argini e per costruzioni e
modificazioni di altre opere di qualsiasi
genere che possono direttamente o
indirettamente influire sul regime dei corsi
d'acqua, ecc." (art. 57)- consentono una
eccezione per "le opere eseguite dai
privati per semplice difesa, aderente alle
sponde dei loro beni, che non alterino in
alcun modo il regime dell'alveo" (art.
58). (Nella specie, relativa ad
annullamento senza rinvio di sentenza di
condanna perché il fatto non è previsto
dalla legge come reato, l'imputato, per
riparare le vasche di decantazione
dell'acqua proveniente dal lavaggio degli
inerti (ghiaia e sabbia), aveva rialzato
l'argine del fiume (operando peraltro sulla
sua proprietà), e ciò non solo non aveva
cagionato alcun pregiudizio all'ambiente e
al paesaggio, ma aveva rinforzato l'argine
del fiume, senza incidere sul regime
dell'alveo e sul suo assetto) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale, sentenza
08.03.1994 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 04.07.2011 |
ã |
UTILITA' |
URBANISTICA:
1° marzo 2011: Seminario sulla VAS in
Lombardia.
La Direzione Generale Territorio e
Urbanistica ha organizzato il 1° marzo 2011
il seminario "Valutazione ambientale
strategica (VAS) in Lombardia: procedimento
e rapporto ambientale di qualità", che
ha visto una notevole partecipazione da
parte delle amministrazioni pubbliche e del
mondo professionale.
L’evento era infatti destinato a tutti
coloro che, dovendo predisporre piani e
programmi soggetti a VAS, hanno vissuto non
poche preoccupazioni in relazione alla
sentenza del TAR che aveva annullato parte
della disciplina regionale in materia di VAS,
dando inizio ad un periodo di incertezze, in
particolare per i Comuni.
Il seminario ha costituito l’occasione per
analizzare la sentenza n. 133 del Consiglio
di Stato del 12.01.2011 che ha accolto il
ricorso della Regione Lombardia contro la
sentenza del TAR n. 1526/2010, confermando
la legittimità dell'individuazione
dell'Autorità competente per la Valutazione
Ambientale Strategica (VAS) all’interno
della stessa amministrazione che procede
alla formazione del Piano.
E’ stato in particolare approfondito
dall’Avvocatura regionale il principio che
sta alla base dell’introduzione della VAS in
Lombardia, “il principio di integrazione”:
la Valutazione Ambientale Strategica non è
condotta sul piano già elaborato, ma è
integrata nel piano, ovvero durante tutto il
suo processo di redazione, costituendone la
linea guida verso la sostenibilità
ambientale. Il processo di VAS non termina
con l’approvazione del piano, ma evolve con
il suo monitoraggio nella fase attuativa.
Tale impostazione è coerente con la
filosofia che sta alla base della legge
regionale 12/2005 (legge per il governo del
territorio) e presuppone che ogni pubblica
amministrazione, oltre a procedere
all’elaborazione del piano per la sua
adozione e approvazione, si occupi del
relativo procedimento di VAS, individuando
al suo interno le due autorità -procedente e
competente in materia di VAS- e definendo le
regole per il processo di informazione e
partecipazione di tutti i soggetti
coinvolti: i soggetti competenti in materia
ambientale, gli enti territorialmente
interessati ed il pubblico.
Il seminario è stato inoltre l’occasione per
guardare in modo concreto, dopo una prima
fase di attuazione della direttiva, a nuovi
traguardi: un procedimento più efficace e un
rapporto ambientale di qualità, per una VAS
realmente a supporto di piani e programmi
sostenibili.
Sono stati infatti puntualmente descritti
gli aspetti che rendono il processo di VAS
efficace e di qualità, è stato evidenziato
anche il ruolo fondamentale di ARPA e delle
ASL come contributo al miglioramento della
qualità dei rapporti ambientali, è stato
approfondito il rapporto sinergico tra la
procedura di VAS e quella di VIA, è stato
infine analizzato l’aspetto paesaggistico
come parte integrante della VAS e in
relazione alle procedure di autorizzazione
paesaggistica. ... (link a
www.territorio.regione.lombardia.it).
---------------
Segnaliamo, di particolare interesse:
-
intervento di Piero GARBELLI - DG Territorio
e Urbanistica;
-
intervento di Filippo DADONE - DG Ambiente,
Energia e Reti;
-
intervento di Sergio CAVALLI - DG Sistemi
Verdi e Paesaggio. |
LAVORI PUBBLICI:
Come calcolare i costi della sicurezza e
della manodopera.
La Regione Umbria ha pubblicato le Linee
Guida per il calcolo dei costi e gli oneri
per la sicurezza e del costo presunto della
manodopera.
Le somme indicate devono essere congrue
relativamente al lavoro da affidare e non
possono essere soggette a ribasso d’asta.
Nel documento sono riportati:
- Linee guida per il calcolo dei costi e
degli oneri della sicurezza e per la
determinazione del costo presunto della
manodopera nell'affidamento dei lavori
pubblici;
- Esempio di calcolo per l’attuazione delle
linee guida;
- Schema delle somme componenti un quadro
economico su cui non effettuare il ribasso
ai sensi dell’art. 23 della L.R. n. 23/2010;
- Contabilità dei costi e degli oneri nei
subappalti;
- Tabella delle categorie di cui al D.P.R.
554/1999 e D.P.R 207/2010;
- Elenco degli oneri della sicurezza;
- Elenco costi minimi della manodopera da
non assoggettare a ribasso d’asta (30.06.2011
- link a
www.acca.it). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
L. Fanizzi,
Lo smaltimento delle acque reflue mediante
sistemi ad evapotraspirazione
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Tapetto,
Considerazioni sui rifiuti sanitari prodotti
dalle attività di assistenza sanitaria
domiciliare (A.D.I.) (link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Pierobon,
Ancora sul Sistri: dualità, l’apparente
potenza del produttore, disposizioni
rilevanti, il sistema informatico e le
sanzioni (parte 4^) (link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
F. Zavatarelli,
Scarico di Acque Reflue Industriali: Brevi
Note sullo “stato dell’arte” sub art.
137, c. 1, D.Lgs. 152/2006 (link
a www.lexambiente.it). |
APPALTI:
F. Gavioli,
Regolamento appalti, una check list
per le offerte anomale (link a
www.ipsoa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
A. Scarcella,
La «colpa» negli infortuni sul lavoro
(link a www.ipsoa.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Assegni al nucleo familiare: a
chi spetta cosa dei componenti e del reddito
del nucleo familiare. I nuovi livelli di
reddito per il calcolo dell’importo in
vigore fra il luglio 2011 e il giugno 2012
(CGIL di Bergamo,
nota luglio 2011). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
LAVORI PUBBLICI:
Qualificazione nelle categorie le cui
declaratorie prevedono l'installazione di
impianti all’interno degli edifici e, in
particolare, l’esecuzione di lavorazioni
ricomprese nell'elenco di cui all'articolo 1
del D.M. 22.01.2008 n. 37 che ha novellato
la legge 05.03.1990 n. 46 (comunicato
del Presidente del 24.06.2011 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del
29.06.2011, "Pubblicazione ai sensi
dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dell’elenco dei «Tecnici
competenti» in acustica ambientale
riconosciuti dalla Regione Lombardia alla
data del 13.06.2011, in attuazione dell’art.
2, commi 6 e 7 della legge 26.10.1995, n.
447, della deliberazione 17.05.2006, n.
8/2561 e del decreto 30.05.2006, n. 5985"
(comunicato
regionale 21.06.2011 n. 65). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del
24.06.2011:
- "Illustrazione delle principali
modifiche al Regolamento regionale n. 1/2004
in tema di assegnazione e gestione degli
alloggi di ERP" (comunicato
regionale 23.06.2011 n. 70).
- "Testo
coordinato del Regolamento regionale
10.02.2004 n. 1, “Criteri
generali per l’assegnazione e la gestione
degli alloggi di edilizia residenziale
pubblica (art. 3, comma 41, lett. m), l.r.
05.01.2000, n. 1)” integrato con le
modifiche apportate dai Regolamenti
regionali 27.03.2006, n. 5 e 20.06.2011, n.
3". |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 25 del 24.06.2011,
"Modifiche al regolamento regionale
10.02.2004 n. 1 [Criteri generali per
l’assegnazione e la gestione degli alloggi
di edilizia residenziale pubblica (art. 3,
comma 41, lettera m), l.r. 05.01.2000, n.
1)]" (Regolamento
regionale 20.06.2011 n. 3). |
APPALTI: G.U.
24.06.2011 n. 145 "Determinazione, per il
periodo 01.01.2011-31.12.2011, della misura
del tasso d’interesse di mora da applicare
ai sensi dell’articolo 30 del capitolato
generale di appalto dei lavori pubblici"
(D.M. 27.05.2011).
---------------
Appalti, tasso di mora
2011 al 4,08 per cento.
Rispetto al 2010, il tasso si abbassa ancora
di 0,20 punti percentuali. Dal 2009 ad oggi
il saggio è passato dal 6,64 per cento
all'attuale 4,08 per cento.
Ai sensi dell'art. 133, comma 1, del decreto
legislativo del 12.04.2006, n. 163, la
misura del tasso di interesse di mora da
applicare ai sensi dell'art. 30 del
capitolato generale di appalto dei lavori
pubblici, approvato con decreto del
Ministero dei lavori pubblici del
19.04.2000, n. 145, e' fissata per il
periodo 01.01.2011-31.12.2011 al 4,08 per
cento. |
QUESITI &
PARERI |
EDILIZIA PRIVATA - VARI:
Vendita di energia al GSE: quali vincoli di
contabilità e bilancio sui proventi?
Domanda.
Un Comune (3600 abitanti) ha realizzato un
impianto fotovoltaico per la vendita di
energia al GSE. Vi sono vincoli di
contabilità e di bilancio per i relativi
proventi? E' tenuto alla procedura dell'unbundling
(separazione contabile)? Si chiede se vi
sono indicazioni dell'Autorità e come si
deve procedere.
Risposta.
Occorre ricordare che, per quanto riguarda
la vendita dell'energia prodotta da un
impianto fotovoltaico, si possono utilizzare
due diverse modalità:
a) la vendita indiretta, mediante la stipula
di una convenzione di ritiro dedicato con il
GSE (il Gestore dei Servizi Energetici);
b) la vendita diretta, attraverso la vendita
in borsa o a un grossista tramite un "contratto
bilaterale".
Il quesito in esame si riferisce alla prima
modalità di vendita, ove è il Comune il
soggetto che vende energia, prodotta dai
propri impianti fotovoltaici, in favore del
GSE. Il quesito pone, complessivamente, le
seguenti problematiche:
1) Sussistono vincoli di contabilità e di
bilancio in merito all'acquisizione dei
proventi della vendita?
Non sussistono precisi vincoli in tal senso.
Il Comune acquisisce i proventi della
vendita nel titolo III delle entrate (le
entrate correnti), prevedendo uno specifico
codice di intervento 3.05.......,
denominandolo, ad esempio, "Contributo da
conto energia fotovoltaico". In buona
sostanza, si tratta di entrate correnti,
cioè di risorse economiche, non presentanti
alcun vincolo di destinazione specifica, ma
liberamente utilizzabili, in aderenza alle
ordinarie regole contabili degli Enti
Locali. Quindi, possono finanziare
direttamente le spese correnti oppure
possono finanziare spese in conto capitale,
attraverso la loro preventiva confluenza
nell'avanzo di amministrazione.
2) Il Comune è obbligato ad osservare la
procedura dell'unbundling per la
gestione finanziaria dei proventi della
vendita? Vi sono indicazioni dell'Autorità
in tal senso?
Con il termine di "unbundling contabile",
si fa riferimento alla separazione contabile
delle differenti aree di attività di
un'impresa. Ad esempio: le attività di
produzione, approvvigionamento, stoccaggio,
trasporto, distribuzione. Il Comune, per la
gestione finanziaria dei proventi derivanti
dalla vendita di energia, non è
assolutamente obbligato ad adottare tale
sistema. Infatti, l'AEEG (Autorità per
l'Energia Elettrica ed il Gas) prevede
l'obbligatorietà di tale sistema, ma solo
per le "imprese di settore".
In tal senso, la Deliberazione 18-01-2007,
n. 11/07, significativamente si intitola: "Obblighi
di separazione amministrativa e contabile (unbundling)
per le imprese operanti nei settori
dell'energia elettrica e del gas". A
conferma di ciò, nell'allegato all'indicata
Deliberazione (art. 3), si definisce
l'ambito di applicazione della Deliberazione
medesima. Orbene, in tale articolo, si
stabilisce che le norme contenute nel
presente Testo integrato si applicano ad
ogni soggetto:
"a) di diritto italiano che opera in una
o più attività dei settori dell'energia
elettrica e/o del settore del gas naturale
e/o distribuzione, misura e/o vendita di
altri gas a mezzo reti;
b) di diritto estero che opera in una o più
attività dei settori dell'energia elettrica
e del gas naturale in Italia, anche per
mezzo di sedi secondarie o di unità locali;
c) di diritto italiano o estero appartenente
ad un gruppo che opera in una o più attività
dei settori dell'energia elettrica e del gas
naturale, che intrattiene rapporti economici
o patrimoniali funzionali allo svolgimento
delle attività degli esercenti di cui alle
lettere a) e b)".
Orbene, il Comune, quale Ente autonomo
territoriale, non rientra in alcuna delle
tre indicate categorie di soggetti
obbligati. Infatti, al di là delle categorie
sub "b" e "c" (ovviamente non riferentisi al
Comune), non è suscettibile di applicazione
nemmeno la categoria "a", per la chiara
ragione che il Comune, pur essendo un Ente
di "diritto italiano", non opera
istituzionalmente nei settori dell'energia
elettrica o del gas naturale.
Infine, deve essere ricordato che, ai sensi
della Circ. 19-07-2007, n. 46/E dell'Agenzia
delle Entrate, per il Comune, quale Ente non
commerciale, "i proventi non assumono
alcuna rilevanza, sia ai fini I.V.A., in
assenza dei presupposti soggettivi ed
oggettivi del tributo, sia ai fini delle
imposte dirette, configurando un contributo
a fondo perduto non riconducibile ad alcuna
delle categorie reddituali di cui all'art.
6, comma 1, del T.U.I.R.". (punto 9.1 -
Circolare) (29.06.2011 - tratto da
www.ipsoa.it). |
SICUREZZA LAVORO:
L'imprenditore che svolge l'incarico di RSPP
deve possedere un titolo di studio
specifico?
Domanda.
L'imprenditore artigiano che si autonomina
RSPP, oltre che frequentare l'apposito corso
di formazione, deve essere in possesso del
diploma di istruzione secondaria superiore,
di cui all'art. 32 comma 2 del D.Lgs.
81/2008?
Risposta.
La
normativa consente ai datori di lavoro, nei
casi previsti dall'allegato II del D.lgs. n.
81/2008 di svolgere direttamente l'incarico
di responsabile del servizio di prevenzione
e protezione.
Il riferimento di legge da applicare nel
caso in cui il datore di lavoro decidesse di
avvalersi di tale possibilità, è costituito
dall'articolo 34 del D.Lgs. n. 81/2008, che
pone come requisiti essenziali per il
rispetto della norma:
1) la preventiva informazione al
rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza
2) la frequentazione di appositi corsi di
formazione
Non vi è alcun espresso riferimento
all'eventuale titolo di studio di cui il
datore di lavoro debba essere in possesso,
né si ritiene possa applicarsi quanto
indicato dall'articolo 32, il quale si
riferisce ai responsabili ed agli addetti al
servizio di prevenzione e protezione esterni
e interni, ma diversi dal datore di lavoro,
per il quale il riferimento normativo è
l'articolo 34 (28.06.2011 - tratto da
www.ipsoa.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
PUBBLICO IMPIEGO: Circolare
a firma Brunetta-Carfagna-Giovanardi
chiarisce le regole sui tempi di lavoro.
Malati gravi, diritto al part-time. Criteri
di priorità fissati dalle p.a. con norme
generali.
Il part-time resta un
diritto per i dipendenti pubblici affetti da
patologie oncologiche salva vita e,
comunque, le amministrazioni pubbliche
debbono adottare provvedimenti generali per
stabilire i criteri di priorità ai fini
della concessione del tempo parziale.
Ancora, la revisione dei part-time concessi
prima della vigenza del dl 78/2008, richiede
necessariamente un contraddittorio con i
dipendenti interessati.
Prova a fare chiarezza sul regime del
part-time la
circolare 30.06.2011 n. 9/2011
del Dipartimento della funzione pubblica,
messa a punto dai ministri Brunetta,
Carfagna e Giovanardi e diffusa ieri, che
illustra alcune regole operative per la
rivalutazione delle trasformazioni dei
rapporti di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale.
Il chiarimento giunge piuttosto in ritardo,
dal momento che il termine previsto
dall'articolo 16 della legge 183/2010 per
rivisitare i part-time concessi prima
dell'entrata in vigore dell'art. 73 del dl
112/2008, convertito in legge 133/2008, è
ampiamente scaduto e, dunque, le
amministrazioni hanno già esaurito il tempo
a disposizione per eventualmente disporre in
via unilaterale l'ampliamento del tempo
parziale a suo tempo concesso.
Per altro verso, l'applicazione
dell'articolo 16 del collegato lavoro ha già
determinato molteplici e contraddittori
giudicati, da parte del giudice del lavoro.
Buona fede e correttezza.
L'articolo 16 della legge 183/2010 ha
consentito in via transitoria alle
amministrazioni di rivedere i part-time
concessi prima del maggio 2008, in modo da
ripristinare un rapporto paritetico tra
datore e lavoratore e permettere alle
amministrazioni, in un regime di forte
contenimento delle assunzioni, di modificare
il regime orario dei propri dipendenti e
reperire, così, maggiori risorse orarie
lavorative. La circolare spiega che si è
trattato di un potere eccezionale, che ha
consentito alle amministrazioni di
modificare unilateralmente il regime orario,
in deroga alla regola generale che prevede
la determinazione consensuale delle
condizioni contrattuali.
Il medesimo articolo 16 ha consentito la
modifica, prevedendo espressamente in capo
alle amministrazioni l'obbligo di obbedire
ai principi di buona vede e correttezza.
Secondo la circolare, tale obbligo doveva
essere adempiuto attraverso una valutazione
ben ponderata delle esigenze organizzative
dell'ente, in rapporto alla situazione
personale del singolo dipendente. Allo
scopo, spiega la circolare, era necessario
un contraddittorio col dipendente, prima
dell'emanazione del provvedimento
unilaterale di revisione del rapporto
orario, che tenesse conto non solo delle
esigenze che a suo tempo indussero il
dipendente a chiedere il part-time, oltre
che quelle successivamente maturate.
Non necessariamente, oltre tutto, secondo
Palazzo Vidoni, la revisione del part-time
doveva portare riportare il regime orario a
tempo pieno. Le amministrazioni avrebbero
potuto contare su almeno due altre opzioni:
spostamento interno dei dipendenti o
concedere al lavoratore un tempo congruo per
riorganizzare la propria vita personale.
Criteri di priorità.
Fissati i criteri in base ai quali i
dipendenti pubblici potevano conservare il
part-time, nonché ottenere ancora oggi, con
priorità, la trasformazione del rapporto da
tempo pieno a tempo parziale, pur divenuta
discrezionale a seguito della legge
133/2008.
La circolare ricorda alle amministrazioni la
necessità di stabilire con provvedimenti
organizzativi di carattere generale i
criteri di priorità e la graduazione, ai
fini della concessione del part-time,
tenendo anche conto della sussistenza di
disposizioni di legge e contrattuali che
fondino tuttora un diritto alla
trasformazione del rapporto di lavoro da
parte del dipendente.
Principale fattispecie che costituisce un
diritto alla trasformazione a part-time è
l'articolo 12-bis, comma 1, della legge
61/2000, ai sensi del quale hanno diritto ad
accedere al part-time i lavoratori affetti
da patologie oncologiche con residue
capacità lavorative. I successivi commi 2 e
3, dell'articolo 12-bis, attribuiscono
titoli di precedenza per il part-time ai
lavoratori il cui coniuge o i cui figli o
genitori siano affetti da patologie
oncologiche; in terzo luogo i lavoratori che
assistono conviventi con inabilità
lavorative totali e permanenti, qualificate
come gravi; seguono i lavoratori con figli
conviventi di età non superiore a 13 anni;
infine, lavoratori con figli conviventi in
situazione di handicap grave.
La circolare considera meritevoli di tutela
la posizione dei familiari di studenti
affetti da disturbi specifici
dell'apprendimento. Nel caso in cui il
lavoratore vanti un diritto alla
trasformazione, l'amministrazione non può
negare il part-time ed è tenuta ad adottare
il provvedimento entro 60 giorni dalla
domanda. Se, invece, l'istanza provenga da
dipendenti che vantino diritti di priorità,
le loro istanze andranno valutate con
precedenza rispetto alle altre, ferma
restando la discrezionalità della
concessione della trasformazione
(articolo ItaliaOggi
del 02.07.2011). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia: dal 1° settembre 2011
entra in vigore il nuovo ACE Certificazione
energetica edifici.
Dal 1° settembre 2011 entrerà in vigore, in
Lombardia, il nuovo modello di attestato di
certificazione energetica degli edifici
(ACE) , approvato dalla regione con delib.
n. IX/1811 del 31.05.2011.
Le principali modifiche rispetto al vigente
modello di ACE riguardano:
- l'eliminazione nel box “Accettazione
del Comune” del timbro per accettazione
del Comune e del relativo logo presente
nella prima pagina dell'ACE;
- la sostituzione della dicitura “Numero
di protocollo” con “Codice
identificativo”;
- l'inserimento del comune catastale, dato
fondamentale per identificare un immobile
presso il catasto e non sempre coincidente
con il comune amministrativo;
- l'inserimento della dicitura “Installazione/sostituzione
VMC” nel box riguardante i possibili
interventi migliorativi del sistema edificio
impianto termico.
Fino al 1° settembre sarà valido l'ACE
predisposto secondo il modello riportato
nell'allegato C alla DGR VIII/ 8745/2008
(tratto da link a
www.immobili24.ilsole24ore.com). |
ESPROPRIAZIONE: MANOVRA
CORRETTIVA/ Espropri
senza titolo, arriva il super-indennizzo.
Super-indennizzo per gli espropri senza
titolo. Chi subisce da parte della p.a.
un'occupazione espropriativa senza titolo,
oltre ad avere l'usuale indennizzo riceverà
anche un risarcimento a forfait del 10%,
calcolato sul valore venale. La manovra
Tremonti disciplina l'utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse
pubblico. E da un lato assicura l'opera alla
p.a., ma dall'altro compensa economicamente
il sacrificio del privato. La regola è fatta
valere retroattivamente anche ai fatti
anteriori alla entrata in vigore del decreto
legge, purché l'ente espropriante dichiari
la prevalenza dell'interesse pubblico.
Si interviene sul Testo unico degli espropri
(dlgs 327/2001), inserendo l'articolo
42-bis. Il problema è rappresentato dai casi
in cui l'amministrazione usa un immobile di
un privato per realizzare un'opera pubblica,
ma non ha un valido titolo espropriativo o
una valida dichiarazione di pubblica
utilità. Da un lato sorge l'interesse a
conservare l'opera, dall'altro lato vi è
l'interesse del privato a vedersi
riconosciuto un ristoro per l'illegittimità
subita.
L'articolo 42-bis prevede un
bilanciamento tra gli interessi in
conflitto, a seguito del quale la p.a. può
disporre che il bene sia acquisito, ma non
retroattivamente, al suo patrimonio
indisponibile e che al proprietario sia
corrisposto un doppio indennizzo: sia per il
pregiudizio patrimoniale sia per quello non
patrimoniale. L'indennizzo del danno non
patrimoniale è forfettariamente liquidato
dalla legge nella misura del 10% del valore
venale del bene. La stessa regola vale non
solo quando manchi l'atto espropriativo, ma
anche quando è stato annullato l'atto
costitutivo del vincolo preordinato
all'esproprio, oppure la dichiarazione di
pubblica utilità o il decreto di esproprio.
L'amministrazione può anche acquisire il
bene in pendenza del giudizio per
l'annullamento degli atti.
In tali casi si
computano a conguaglio le somme
eventualmente già erogate al proprietario a
titolo di indennizzo. Il danno non
patrimoniale è calcolato, come si è visto,
con la regola del 10%. L'indennizzo
patrimoniale, invece, è determinato, di
regola, in misura corrispondente al valore
venale del bene utilizzato per scopi di
pubblica utilità, con le specifiche del
Testo unico espropri per il calcolo del
valore dei terreni edificabili (articolo
37). Oltre al capitale è dovuto l'interesse
del 5% annuo per il periodo di occupazione
senza titolo, salvo che non risulti dagli
atti la prova di una diversa entità del
danno.
Insomma a chi ha subito una occupazione
espropriativa spetta il valore venale del
bene espropriato, gli interessi e il 10% sul
valore venale. Trattandosi di un esborso a
carico della p.a. a fronte di una attività
omessa o di una attività illegittima, la
manovra Tremonti prevede alcuni sbarramenti.
Innanzi tutto l'atto di acquisizione deve
spiegare chiaramente quali attuali ed
eccezionali ragioni di interesse pubblico
giustificano l'uso di denaro pubblico e deve
spiegare che non ci sono alternative
ragionevoli.
Nell'atto si deve indicare l'ammontare
dell'indennizzo, che deve essere pagato
entro 30 giorni. In ogni caso fino a che non
è avvenuto il saldo o il deposito delle
somme dovute, l'immobile rimane in proprietà
del privato.
L'atto di acquisizione è notificato al
proprietario e comporta il passaggio del
diritto di proprietà. Inoltre il medesimo
atto è soggetto a trascrizione presso la
conservatoria dei registri immobiliari a
cura dell'amministrazione procedente.
Se l'occupazione riguarda un terreno
utilizzato per finalità di edilizia
residenziale pubblica, agevolata o
convenzionata, o un terreno destinato a
essere attribuito per finalità di interesse
pubblico in uso speciale a soggetti privati,
il provvedimento è di competenza
dell'autorità che ha occupato il terreno e
la liquidazione forfetaria dell'indennizzo
per il pregiudizio non patrimoniale aumenta:
è pari al venti per cento del valore venale
del bene.
Il decreto fissa una norma transitoria: le
nuove disposizioni si applicano anche ai
fatti anteriori e anche se vi è già stato un
provvedimento di acquisizione
successivamente ritirato o annullato;
tuttavia deve essere comunque rinnovata la
valutazione dell'interesse pubblico e si
deve fare il conguaglio con le indennità
eventualmente già pagate. Una forma di
vigilanza sul procedimento è rappresentata
dall'obbligo di trasmettere l'atto di
acquisizione, entro trenta giorni, alla
Corte dei conti: il giudice contabile potrà
così verificare la regolarità e congruità
dell'operazione.
L'obbligo di indennizzo patrimoniale e non
patrimoniale si applica anche per
l'acquisizione del diritto di servitù. La
p.a., a questo proposito, può procedere
all'eventuale acquisizione del diritto di
servitù al patrimonio dei soggetti, privati
o pubblici, titolari di concessioni,
autorizzazioni o licenze o che svolgono
servizi di interesse pubblico nei settori
dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o
energia
(articolo ItaliaOggi
del 02.07.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: MANOVRA
CORRETTIVA/ P.a., stop
ai furbetti della malattia. Più sono le
assenze, più aumenta il rischio di visita
fiscale. Fari puntati su chi resta a casa
prima o dopo un giorno di festa.
Malattia degli statali: la pubblica
amministrazione dovrà disporre il controllo
sulle assenze dei lavoratori valutando la
condotta complessiva del dipendente.
Stante
il tenore letterale della disposizione si
può al momento ipotizzare che lavoratori che
difficilmente si assentano dal servizio per
episodi di malattia, difficilmente
riceveranno la visita del medico fiscale, al
contrario invece, di chi fa della malattia
un largo uso.
Si dovranno, inoltre, considerare gli oneri
economici connessi all'effettuazione della
visita fiscale, ma sempre tenendo conto del
«bene primario», ovvero l'esigenza di
contrastare e prevenire l'assenteismo. In
ogni caso, queste valutazioni non sussistono
e si dovrà dare corso, sin dal primo giorno
di assenza alla richiesta di effettuazione
della visita fiscale, se la malattia insorge
nei giorni immediatamente precedenti o
successivi ad un giorno festivo.
Praticamente, si tratta di porre un freno al
malcostume di allungare «ponti» festivi con
un giorno di malattia.
I commi di interesse sono il 6, 7 e 8
dell'articolo 17 della bozza di manovra
correttiva varata giovedì sera dal governo.
Si stabilisce che le pubbliche
amministrazioni devono disporre il controllo
sulle assenze per malattia dei dipendenti
«valutando la condotta complessiva del
dipendente e gli oneri connessi
all'effettuazione della visita, tenendo
conto dell'esigenza di contrastare e
prevenire l'assenteismo». In attesa,
ovviamente, di una circolare della Funzione
pubblica che faccia estrema chiarezza sul
punto, salta subito all'occhio una
considerazione. La pubblica amministrazione,
quindi, ricevuta la comunicazione di assenza
per malattia del dipendente ha davanti a sé
un bivio. Deve valutare tre parametri.
Il
primo, la condotta complessiva del
dipendente. Si può ipotizzare che il
dirigente dell'ufficio pubblico dia
disposizioni affinché si mandi il medico
fiscale a casa di quei dipendenti «più
soliti» ad assentarsi per malattia, mentre
chi ne fa un uso sporadico sarà «salvato»?
Poi, il dirigente dovrà valutare gli oneri
connessi all'effettuazione della visita (e
sul piatto, la manovra mette 70 mln di euro
a regime). Infatti, le visite fiscali
disposte dalla p.a. per l'accertamento della
malattia dei propri dipendenti, dopo un
lungo contenzioso conclusosi innanzi alla
Consulta, non sono gratuite ma devono essere
rimborsate alle aziende sanitarie. Quindi,
c'è anche il lato economico da tenere in
debita considerazione. Il tutto, rimarcando
l'esigenza di contrastare e prevenire
l'assenteismo.
Queste considerazioni comunque, su una sorta
di discrezionalità della dirigenza
dell'ufficio a disporre dell'effettuazione
della visita fiscale in relazione alla
condotta del dipendente, non sussistono in
un caso, ovvero quando l'assenza si verifica
nelle giornate precedenti o successive a
quelle lavorative. Qui, l'assenza deve
essere accertata sin dal primo giorno. È
questo, infatti, uno strumento che «dovrebbe»
stroncare il malcostume di effettuare dei «ponti»
da allungare a festività, grazie al giorno
di malattia.
Andiamo sulle fasce orarie di reperibilità
alla visita fiscale, oggi fissate in
9,00-13,00 e 15,00-18,00. Anche qui, novità
in arrivo. Dovrà attendersi un decreto della
funzione pubblica, che disciplinerà le nuove
fasce di reperibilità e il regime delle
esenzioni (probabilmente per i dipendenti
affetti da forme tumorali o che devono
sottoporsi a terapie salvavita). Si precisa
sin da adesso, comunque, che qualora il
dipendente debba allontanarsi dall'indirizzo
comunicato durante le fasce di reperibilità,
per effettuare visite mediche, prestazioni o
accertamenti specialistici o per altri
giustificati motivi (sempre documentati),
deve dare preventiva comunicazione
all'amministrazione. Nel caso l'assenza è
dovuta allo svolgimento di esami
diagnostici, terapie o visite
specialistiche, l'assenza è giustificata
dall'attestazione del medico o dalla
direzione della struttura, anche privata,
che ha svolto la visita o la prestazione.
Il settimo comma della manovra, poi, dispone
che le sopracitata indicazioni, si applicano
anche al personale in regime di diritto
pubblico (ovvero i magistrati ordinari,
amministrativi e contabili, gli avvocati e
procuratori dello Stato, il personale
militare e le Forze di polizia di Stato, il
personale della carriera diplomatica e della
carriera prefettizia).
Infine, la norma mette nero su bianco che la
possibilità da parte della p.a. di risolvere
unilateralmente il contratto con i
dipendenti che hanno maturato un'anzianità
massima contributiva di quaranta anni
(prevista dall'articolo 17, comma 35-novies
del dl n. 78/2009) non necessita di
ulteriore motivazione, qualora
l'amministrazione interessata, abbia
preventivamente determinato, in via
generale, i relativi criteri applicativi «con
atto generale di organizzazione interna»
(ovvero una circolare), preventivamente
sottoposta al visto dei competenti organi di
controllo
(articolo ItaliaOggi
del 02.07.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
La richiesta di
trasmissione di copia del protocollo in
entrata e uscita. Consiglieri, registri aperti.
Regolamento ad hoc per disciplinare il
diritto.
I consiglieri comunali possono richiedere la
trasmissione, con cadenza mensile fino a
scadenza del relativo mandato, di copia
dell'intero registro di protocollo generale
in entrata e in uscita dell'ente?
L'esercizio del diritto di accesso è
previsto dall'articolo 43, comma 2, del dlgs
267/2000, definito dal Consiglio di Stato
(sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo
pubblico funzionalizzato», finalizzato al
controllo politico-amministrativo
sull'ente nell'interesse della collettività
e, come tale, diverso dal diritto di
accesso, di cui agli artt. 22 e ss. della
legge n. 241/1990, riconosciuto ai soggetti
interessati allo scopo di predisporre la
tutela di posizioni soggettive lese.
In
merito al rilascio periodico del riepilogo
del protocollo generale dell'ente,
comprensivo della posta in arrivo e in
uscita, la giurisprudenza, con orientamento
costante, ha ritenuto non conforme a legge
il diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e
di quello riservato del Sindaco (cfr. Tar
Campania, Salerno, n. 26/2005), precisando
(Tar Lombardia, Brescia, n. 362/2005) che:
«Le norme disciplinanti l'accesso dei
consiglieri comunali non pongono limiti
quantitativi agli atti cui si chieda di
accedere, né presuppongono che, di tali
atti, i richiedenti conoscano già il
contenuto, sia pure approssimativamente, ben
potendo l'intervento connesso al mandato
ravvisarsi opportuno anche a seguito
dell'acquisita conoscenza di atti
precedentemente del tutto ignorati».
Inoltre
ha affermato (Tar Sardegna, n. 29/2007) che
è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti
e notizie riservate e di materie coperte da
segreto, posto che i consiglieri comunali
sono comunque tenuti al segreto ai sensi
dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Infine ha
specificato che al registro di protocollo
generale dell'amministrazione locale è
riconosciuta la piena riconducibilità alle
categorie di documenti suscettibili di
accesso, in quanto idoneo a fornire notizie
e informazioni utili all'espletamento del
mandato dei consiglieri comunali non essendo
ammissibile imporre loro l'onere di
specificare in anticipo l'oggetto degli atti
che intendono visionare, trattandosi di
informazioni di cui gli stessi possono
disporre solo in conseguenza dell'accesso
(Tar Lombardia, Brescia, n. 163/2004; Tar
Emilia Romagna Sez. Parma, n. 28/2006; Tar
Calabria - Cz - n. 1749/2007).
Tuttavia, il
Tar Sardegna (sentenza n. 32/2008) ha
puntualizzato che il diritto di accesso si
concretizza nel prendere visione dei soli
oggetti del protocollo generale che
rientrano nella sfera di interesse del
consigliere richiedente e che sono utili per
l'espletamento del suo mandato ed ha
evidenziato che «ben appare giustificato il
diniego opposto dall'Amministrazione» nel
caso in cui si sia «in presenza di
continue richieste di accesso di portata
tale da determinare notevoli difficoltà
organizzative» per l'ente.
Anche il Tar
Puglia (sent. n. 115/2011) ha affermato che
«gli unici limiti all'esercizio del diritto
di accesso dei consiglieri comunali si
rinvengono, per un verso, nel fatto che esso
debba avvenire in modo da comportare il
minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e, per altro verso, che non debba
sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche, fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri debba essere
attentamente vagliata in concreto al fine
di non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazioni al diritto
stesso».
Anche la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi ha richiamato il
consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, Sez. V. n.
929/2007) secondo cui il diritto del
consigliere di accesso agli atti «non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell'ente con l'unico
limite di poter esaudire la richiesta,
qualora sia di una certa gravosità, secondo
i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo
corrente», limite della proporzionalità e
ragionevolezza delle richieste,
contemperando, quindi, il diritto di accesso
con l'esigenza di non intralciare lo
svolgimento dell'attività amministrativa e
il regolare funzionamento degli uffici
comunali, comportando ad essi il minor
aggravio possibile, sia dal punto di vista
organizzativo che economico (Corte dei
conti, sez. Liguria n. 1/2004).
In tal
senso, sulla base del principio di
economicità che incombe sia sugli uffici
tenuti a provvedere, sia sui soggetti che
chiedono prestazioni amministrative (parere
del 12.12.2002) ha riconosciuto «la
possibilità per il consigliere di avere
accesso diretto al sistema informatico
interno, anche contabile, dell'ente
attraverso l'uso della password di servizio
proprio al fine di evitare che le continue
richieste di accesso si trasformino in un
aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale» (cfr.
parere 29.11.2009). Anche la
giurisprudenza ha ritenuto legittime norme
regolamentari contenenti accorgimenti
finalizzati a ridurre i costi.
In merito, il
Consiglio di stato (Sez. V, sent. n.
6742/2007) ha condiviso l'avviso del
Ministero dell'interno in merito alla
possibile riproduzione di planimetrie su
cd-rom, qualora il consigliere chieda
l'estrazione di copie di atti la cui
fotoriproduzione comporti costi elevati.
Pertanto, è fatto salvo il diritto del
consigliere di accedere ai registri di
protocollo finalizzato all'individuazione
degli atti che potrebbero interessare per
l'espletamento del proprio mandato. L'ente
locale, nell'ambito della propria autonomia,
può dotarsi di una specifica normativa
regolamentare per disciplinare le modalità
di esercizio del diritto al fine di renderle
compatibili con il regolare svolgimento
dell'attività degli uffici.
In tal senso,
l'istanza di accesso ad atti non ancora
formati, che impegnino l'amministrazione
anche per il futuro, potrebbe concretizzare
una fattispecie vietata qualora il
regolamento comunale -nello specificare le
modalità e le forme di esercizio di tali
diritti in attuazione delle norme statali e
statutarie- escludesse dall'accesso e dal
rilascio di copie «le richieste generiche
che non permettono l'individuazione del
provvedimento o le richieste generalizzate
relative a intere pratiche o a categorie di
provvedimenti»
(articolo ItaliaOggi
dell'01.07.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ INDENNITÀ
DI FUNZIONE/1
Può essere corrisposta al vicesindaco di un
comune l'indennità di funzione prevista per
il sindaco -per il periodo durante il quale
ha svolto funzioni di supplenza conseguenti
alla sospensione di diritto del sindaco
dalla carica, successivamente revocata- prevista dall'art. 59, comma 1, lett. c) del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267?
Anche in base ai pareri pronunciati dal
Consiglio di stato, proprio sulla
problematica inerente alle prerogative del
vicesindaco, si ritiene che
all'amministratore possa essere corrisposta
l'indennità di carica prevista per il
sindaco, per il periodo di concreto
esercizio dei poteri sostitutivi.
INDENNITÀ
DI FUNZIONE/ 2
Un Comune deve ripetere gli importi
dell'«indennità di funzione onnicomprensiva»
determinata a favore dei consiglieri
comunali in sostituzione dei gettoni di
presenza, come previsto dall'art. 5, comma
7, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
nelle more della legge di conversione?
La manovra finanziaria varata con il
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito
con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n.
122, nel testo ormai definitivo ha disposto,
all'art. 5, comma 7, che con decreto del
ministro dell'Interno –da emanarsi di
concerto con il Ministero dell'economia e
delle finanze– siano rideterminati in
riduzione gli importi della indennità di
funzione degli amministratori comunali e
provinciali già previsti nel decreto
ministeriale 04.04.2000, n. 119, e siano
determinati gli importi dei gettoni di
presenza per i consiglieri comunali per la
partecipazione a consigli e commissioni.
L'originaria formulazione dell'art. 5, comma
7, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
prima che la legge di conversione n.
122/2010 statuisse il mantenimento dei
gettoni di presenza per tale categoria di
amministratori, aveva previsto che, sempre
con decreto del ministro dell'Interno, fosse
determinata ex novo l'indennità di
funzione dei consiglieri comunali e
provinciali, dettando anche un parametro cui
attenersi, e cioè l'importo massimo mensile
pari ad un quinto dell'indennità massima
prevista per il rispettivo sindaco o
presidente. Dopo la modifica apportata in
sede di conversione del citato
decreto-legge, il legislatore è tornato al
regime dei gettoni di presenza per i
consiglieri comunali e provinciali,
confermando la disposizione secondo cui i
nuovi importi sono determinati con il
decreto interministeriale previsto dal
citato art. 5, comma 7.
Appare, dunque, chiaro che il legislatore ha
ritenuto di subordinare l'applicazione dei
nuovi importi -tanto nell'originaria
formulazione dell'art. 5, comma 7, del
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, quanto in
quella modificata dalla legge di
conversione, che ripristina il sistema
basato sui gettoni di presenza-
all'emanazione del nuovo regolamento di
attuazione.
Pertanto, fino alla conclusione dell'iter di
emanazione del nuovo regolamento per la
determinazione della misura delle indennità
di funzione e dei gettoni di presenza da
corrispondere agli amministratori degli enti
locali, nessuna variazione al previgente
sistema basato sui gettoni di presenza e
alla quantificazione dei relativi importi
risulta autorizzata dalla normativa sopra
richiamata
(articolo ItaliaOggi
dell'01.07.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: Marcia indietro sul part-time.
Via libera alla trasformazione unilaterale a
tempo pieno. Dal collegato disco verde al
datore di lavoro: lo dice un'ordinanza del
tribunale di Trento.
Marcia indietro sul part-time nel pubblico
impiego: è legittima la trasformazione
unilaterale a tempo pieno da parte del
datore pubblico, in applicazione
dell'articolo 16 della legge 183/2010
(cosiddetto collegato lavoro).
Il Tribunale di Trento, con l'ordinanza 16.06.2011, n. 323 ha totalmente ribaltato
la decisione adottata lo scorso 4 maggio con
ordinanza in sede cautelare dal tribunale in
composizione monocratica.
Nel giudizio
d'urgenza di prime cure, il giudice
monocratico l'unilaterale ampliamento
dell'orario di lavoro, da tempo parziale a
tempo pieno, disposto da un dirigente del
tribunale di Trento nei riguardi di una
funzionaria di cancelleria, aveva violato la
direttiva 15/12/1997, n. 97/81/Ce,
finalizzata a perseguire «l'esigenza di
adottare misure volte ad incrementare
l'intensità occupazionale della crescita, in
particolare mediante un'organizzazione più
flessibile del lavoro che risponda sia a i
desideri dei lavoratori che alle esigenze
della competitività», nonché l'articolo 5
del dlgs 61/2000.
Secondo il giudice
monocratico le disposizioni richiamate
prima, poiché tutelano il lavoratore nelle
sue scelte di vita e lavorativa volte a
ridurre il tempo di lavoro, la
trasformazione del rapporto di lavoro da
tempo parziale a tempo pieno poteva aver
luogo solo con il consenso del lavoratore.
Tale impostazione viene, tuttavia, rigettata
in sede di reclamo all'ordinanza, da parte
del tribunale in composizione collegiale. Le
previsioni della direttiva e del citato
articolo 5, stando al nuovo giudizio, non
impediscono alle amministrazioni di
ripristinare d'imperio il tempo pieno. Non
rileva la circostanza che la normativa
europea vieti di licenziare il lavoratore
esclusivamente per il solo fatto di
rifiutare la trasformazione del tempo di
lavoro: esigenze organizzative superiori,
consentono al datore di lavoro di tradurle
in atti unilaterali, tipica espressione
della sua supremazia sul lavoratore
subordinato, tali da portare comunque alla
modifica del tempo di lavoro.
Sicché il
rifiuto opposto dal lavoratore può fondare
ad altro titolo violazioni disciplinari,
tali da fondare anche un possibile
licenziamento per giustificato motivo
oggettivo. Il lavoratore che rifiuti la
modifica del tempo di lavoro per esigenze
organizzative, insomma, si espone al rischio
della risoluzione del rapporto di lavoro.
In ogni caso, secondo, l'ordinanza del 16
giugno l'articolo 16 del «collegato lavoro»
ha lo scopo di ripristinare tra datore
pubblico e lavoratore quella posizione
paritaria, nel definire il tempo del
rapporto di lavoro, che era stata lesa dalla
legge 662/1996, che aveva fondato un vero e
proprio diritto potestativo dei pubblici
impiegati di collocarsi a part-time, senza
che l'ente potesse opporvisi. L'articolo 16
della legge 183/2010 riequilibra la
situazione e permette al datore pubblico di
ripristinare il tempo pieno, anche per far
fronte alla necessità di incrementare il
tempo di lavoro in tempo di restrizioni alle
assunzioni, necessità portata alla base del
provvedimento adottato dal Ministero della
giustizia oggetto delle due contrastanti
ordinanze.
Inoltre, considera l'ordinanza del giudice
collegiale, l'articolo 16 compie anche un
atto di giustizia tra dipendenti pubblici,
parificando la posizione di coloro che
avevano chiesto il part-time prima della
riforma operata dal dl 112/2008, convertito
in legge 133/2008, che ha eliminato il
diritto potestativo alla modifica del tempo
di lavoro, e i dipendenti che chiedono il
part-time nel nuovo regime, esposti
all'eventualità che il datore pubblico non
accolga l'istanza.
Infine, l'ordinanza del 16 giugno nega che
la necessità, richiesta dall'articolo 16 del
collegato lavoro, di rivedere i part-time
nel rispetto dei principi di correttezza e
buona fede imponga una verifica congiunta,
tra datore e lavoratore, della permanenza
dell'interesse reciproco alla conservazione
del tempo parziale. In sostanza, il datore
può valutare unilateralmente anche il
rispetto della buona fede e della
correttezza, nel rivedere i provvedimenti di
concessione del tempo parziale.
L'ordinanza proprio su questo punto non
appare del tutto convincente. Non si vede,
infatti, come la buona fede e la correttezza
possano essere garantite, se non
considerando l'affidamento del dipendente
nella prosecuzione del part-time ottenuto
anni prima (nel caso di specie, nel 2000) e
senza un pieno contraddittorio. Poco
convincente è anche il tema del «riequlibrio»
della posizione tra lavoratori: le modifiche
all'ordinamento rendono continuamente
diverse le posizioni dei dipendenti, basti
pensare ai regimi pensionistici
(articolo ItaliaOggi
dell'01.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: In
arrivo il dlgs che recepisce la direttiva
2008/99/Ce sulla tutela penale
dell'ambiente. Ecoreati, le società tremano.
Fino a 750 mila di multa per la gestione
illecita dei rifiuti.
Fino a 750 mila euro per gestione illecita
dei rifiuti, più di 380 mila euro per
l'inquinamento di suolo, acque, e aria,
oltre 350 mila euro per danneggiamento di
habitat, specie vegetali e animali protette.
Queste le sanzioni che colpiranno
direttamente società, persone giuridiche ed
associazioni di fatto per gli illeciti
ambientali commessi in loro interesse dagli
organi dell'ente.
A tingere di verde i «corporate crimes» sarà
il nuovo decreto legislativo di recepimento
delle direttive 2008/99/Ce sulla tutela
penale dell'ambiente e 2009/123/Ce
sull'inquinamento da navi, decreto già
approvato dal consiglio dei ministri il 07.04.2011, attualmente all'esame delle
commissioni parlamentari, e sulla cui
approvazione definitiva in tempi brevissimi
spinge ora l'Ue, che ha lo scorso 16 giugno
formalmente contestato all'Italia
l'inosservanza dei termini di recepimento
(scaduti rispettivamente il 16 novembre ed
il 16.12.2010), concedendo solo due
ulteriori mesi di tempo per l'adeguamento
prima di adire la Corte di giustizia.
Nuove responsabilità per persone fisiche ed
enti. Due le linee direttrici che informano
in nuovo decreto in itinere: da un lato
l'introduzione di nuovi ecoreati cui
risponderanno le persone fisiche; dall'altro
una parallela, autonoma e distinta
responsabilità (a titolo di illecito
amministrativo) per tutti i principali
illeciti ambientali (vigenti ed emanandi), a
carico degli enti collettivi cui le condotte
«contra legem» saranno riconducibili per
l'agire di loro amministratori, dirigenti e
dipendenti.
Tecnicamente l'ampliamento della
responsabilità degli enti sarà disposta
mediante il «travaso» dei reati ambientali
nell'elenco degli illeciti recato dal dlgs
231/2001, il provvedimento che disciplina la
responsabilità amministrativa delle
organizzazioni collettive.
I nuovi reati ambientali. Le nuove condotte
penalmente rilevanti per le persone fisiche
previste dall'approvando decreto legislativo
(con speculare responsabilità amministrativa
degli enti che se avvantaggeranno)
coincideranno con le azioni poste a danno di
habitat, fauna e flora. I nuovi reati,
introdotti direttamente nel Codice penale e
puniti a titolo di contravvenzione,
consisteranno infatti in: uccisione,
cattura, possesso ingiustificati di specie
animali protette; distruzione, prelevamento
o possesso ingiustificati di specie vegetali
protette; distruzione o deterioramento
significativo di habitat all'interno siti
protetti.
Gli illeciti ambientali degli enti. Mediante
la citata riformulazione del dlgs 231/2001
sulla responsabilità amministrativa degli
enti, gli illeciti ambientali già previsti e
quelli di nuova introduzione da parte del
nuovo decreto saranno direttamente
imputabili alle organizzazioni collettive.
In quanto commessi da loro organi e a loro
vantaggio, le organizzazioni collettive
risponderanno infatti di gestione illecita
dei rifiuti, inosservanza delle norme
sull'impatto ambientale, inquinamento di
suolo, acque, e aria, danneggiamento di
specie animali e vegetali protette. ...
(articolo
ItaliaOggi del 27.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
tetto agli stipendi colpisce le risorse
variabili.
La Ragioneria generale dello Stato sdogana,
dopo lunghe e travagliate vicissitudini, la
circolare
15.04.2011 n. 12 sull'applicazione dell'articolo
9 del Dl 78/2010, con particolare
riferimento ai commi 1, 2-bis e 4.
Le componenti.
Secondo la Ragioneria stessa, il trattamento
ordinariamente spettante per l'anno 2010 è
composto dal trattamento fondamentale (vale
a dire lo stipendio base, la tredicesima e
la Ria) e dal «trattamento accessorio
avente carattere fisso e continuativo»,
in cui bisogna far confluire l'indennità di
amministrazione per lo Stato, l'indennità di
comparto per gli enti locali, la
retribuzione di posizione e le «indennità
pensionabili», espressione non molto
felice, considerando che, dal 1996, anche
tutto il salario accessorio è utile ai fini
del calcolo della pensione.
Non rientrano nel tetto lo straordinario, le
maggiorazioni orarie e le indennità di
turno. Per il calcolo, si deve far
riferimento al concetto di ordinarietà, e
quindi non rilevano i congedi, i permessi
non retribuiti e le aspettative.
Limite del 3,20%.
Il limite del 3,20% interessa solo i non
dirigenti degli enti locali e i dipendenti
della sanità, ma tale vincolo riguarda
unicamente le risorse aggiuntive di
carattere variabile previste dall'ultimo
contratto collettivo nazionale di lavoro.
Sono fatte salve le risorse variabili
previste dai precedenti Ccnl quali gli
incrementi di cui all'articolo 15, commi 2 e
5, del Ccnl 01.04.1999. La posizione della
Ragioneria generale dello Stato si pone in
antitesi con i pareri che sono stati
espressi, di recente, da alcune sezioni
regionali della Corte dei conti.
Temi caldi.
Il blocco del trattamento accessorio si
riferisce al fondo per la contrattazione
decentrata. Peccato, però, che la Rgs non
tocchi i temi caldi sul tappeto, quali i
compensi per progettazione e vigili.
Probabilmente il riferimento alle risorse
del fondo conferma l'orientamento elaborato
dalla magistratura contabile che non prevede
esclusioni.
Meno scontate le istruzioni per il calcolo
della riduzione per i cessati, che sarà
proporzionale alla media dei dipendenti di
ciascun anno rispetto a quelli del 2010.
Media pari alla semisomma dei dipendenti
presenti il primo e l'ultimo giorno
dell'anno.
In un contesto di esasperato rigore, la
Ragioneria fa salve le progressioni
economiche al l'interno delle aree ponendo
due condizioni: i soldi si vedranno nel 2014
e la spesa rende indisponibili le risorse
stabili.
Il che suona come un "assalto la
diligenza" delle residue risorse che
dovevano servire per l'attuazione di una
riforma Brunetta sempre più povera
(articolo Il Sole 24
Ore del 27.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Nodo
previdenza sulle progressioni.
Gli effetti del
riconoscimento «giuridico» ma non economico
degli avanzamenti - LE CONSEGUENZE -
Remunerazione congelata per il triennio con
interrogativi sui fondi alla «scadenza» di
gennaio 2004.
La Ragioneria generale dello Stato apre alla
possibilità di effettuare nel triennio
2011-2013 progressioni orizzontali a valenza
giuridica ma non economica. La
circolare
15.04.2011 n. 12
conferma quindi l'orientamento espresso da
alcune sezioni regionali della Corte dei
conti. Tutto nasce dal comma 21
dell'articolo 9 del Dl 78/2010, il quale ha
stabilito che le progressioni di carriera
comunque denominate e i passaggi tra le aree
producono effetti solo giuridici. Di fatto,
la promozione non verrà remunerata se non
dal 2014. Secondo la Rgs, in tale previsione
normativa è possibile ricomprendere anche le
progressioni orizzontali. Questa analisi
presenta però alcuni elementi di criticità.
Il primo deriva dalla distinzione tra i due
istituti, progressioni di carriera e
progressioni economiche, delineata dagli
articoli 23 e 24 del Dlgs 150/2009. Si
tratta di realtà completamente diverse, per
cui l'assimilazione in via interpretativa
appare un po' forzata. In secondo luogo, le
progressioni orizzontali sono un istituto
premiante finalizzato esclusivamente a un
maggiore riconoscimento retributivo. Pensare
che una progressione a valenza
esclusivamente economica possa essere fatta
solo a fini giuridici è impresa ardua. La
terza criticità si rinviene nella modalità
di costituzione e nell'utilizzo del fondo
dal quale le risorse per le progressioni
vengono pescate. Anche in caso di
congelamento retributivo nel triennio, con
la mensilità di gennaio 2014 vi sarebbe una
fuoriuscita cospicua di risorse dal fondo
per pagare le progressioni fino ad allora
solo giuridiche. Come si può ipotecare oggi
la presenza di tali risorse? Soprattutto nel
comparto delle autonomie la progressione
giuridica ma non economica appare una
scommessa.
Infine, la difficile sostenibilità della
tesi della Rgs sta anche nei risvolti che
tale scelta potrebbe portare ai fini
previdenziali. Se a un dipendente viene
riconosciuta una posizione giuridica
superiore, ci si domanda cosa potrebbe
accadere in sede di quantificazione della
pensione. Di fatto il dipendente
risulterebbe inquadrato a un maggior livello
retributivo, senza che sia stato versato
alcun contributo previdenziale. A questo
punto ci si chiede anche se l'ente dovrebbe
provvedere comunque al versamento della
contribuzione obbligatoria, che porterebbe a
un maggiore esborso di risorse finanziarie
senza, dall'altra parte, alcuna prestazione
aggiuntiva da parte dei lavoratori. Forse la
matassa potrà essere sbrogliata dall'Inpdap,
ma di certo non è una situazione da prendere
alla leggera.
La circolare 12, poi, non ha brillato in
chiarezza sulla tematica dell'inclusione o
meno delle somme incentivanti previste da
specifiche disposizioni di legge nel blocco
del salario accessorio per il triennio
2011-2013. A oggi la tesi più accreditata, e
anche più vicina al testo letterale
dell'articolo 9 comma 2-bis, sembra quella
della Corte dei conti del Veneto, che nella
deliberazione 285/2011 ha rilevato l'assenza
di eccezioni per qualsiasi emolumento.
Sulla stessa linea si trovano i dubbi
inerenti alle somme trasferite dallo Stato
per il censimento in corso. A tal fine la
Rgs ha fornito all'Istat con la nota
protocollo 70840/2011 la propria
interpretazione dei fatti. Se in termini di
principio le norme vigenti non contengono
alcuna deroga alle disposizioni in materia
di contenimento della spesa di personale, in
termini più circoscritti la Ragioneria
ritiene che –poiché si tratta di somme
interamente finanziate da risorse statali a
destinazione vincolata– le stesse possono
non essere considerate ai fini del vincolo
di cui ai commi 557 e 562 della Legge
finanziaria 2007
(articolo Il Sole 24
Ore del 27.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
CORTE DEI
CONTI |
APPALTI: Corte
dei conti. Errori formali? Non c'è
responsabilità amministrativa.
L'avere commesso errori di tipo formale che
hanno determinato l'annullamento della
aggiudicazione di una gara e la condanna
dell'ente a risarcire i danni provocati ad
una società partecipante non può essere
definito come colpa grave e, quindi, non
matura responsabilità amministrativa.
Presupposto del maturare di responsabilità
amministrativa è la presenza del dolo o
della colpa grave. E tali elementi non
possono essere in alcun modo dati come
presupposti, ma devono essere adeguatamente
provati.
Possono essere così sintetizzati i
principi dettati dalla
sentenza
17.05.2011 n. 229 della II Sez. giurisdizionale centrale di
appello della Corte dei conti.
Con tale pronuncia sono
stati assolti il sindaco, il segretario e la
presidente della commissione di gara per
l'aggiudicazione del servizio di mensa
scolastica, dopo che l'ente era stato
condannato in primo grado a dovere risarcire
i danni provocati ad una società per errori
formali commessi nella procedura selettiva e
che, nelle more del contenzioso
amministrativo, è stato affidato
provvisoriamente tale servizio alla società
risultata aggiudicataria. Da sottolineare
che la sentenza rovescia la condanna che, in
primo grado, era stata comminata nei
confronti di tali soggetti.
Il presupposto di base da cui la sentenza
parte è il seguente: «In caso di
provvedimenti annullati dal giudice della
legittimità e produttivi di danno erariale,
la sussistenza dell'elemento soggettivo
della colpa grave deve essere comunque
autonomamente provato, non essendo
sufficiente a tal fine l'aver posto in
essere un atto illegittimo». Quindi, con
molta nettezza si distingue tra la
illegittimità degli atti ed il maturare di
responsabilità amministrativa: a tal fine
occorre la presenza di 2 ulteriori elementi,
il danno ed il requisito psicologico del
dolo o della colpa grave.
Elemento
strettamente connesso è il fatto che «il
giudice contabile deve indicare le ragioni
che lo inducono a ravvisare nella condotta
antidoverosa connotazioni di particolare
superficialità e di significativa divergenza
dalla condotta esigibile; e ciò tenuto
conto, ovviamente, di tutte le circostanze
del caso concreto ed avuto riguardo alle
attribuzioni e alla competenza funzionale
del soggetto che si giudica».
Nel caso
specifico che cosa era accaduto: alla base
dell'annullamento della aggiudicazione vi
era la circostanza che l'offerta della
società vincitrice «non era stata presentata
in distinta busta chiusa, contrariamente a
quanto previsto dal bando, per cui le
offerte economiche erano state aperte prima
del giudizio tecnico, falsando, in tal modo,
l'intera procedura». Occorre, per la
maturazione di responsabilità
amministrativa, dimostrare che siamo in
presenza di un errore addebitabile a colpa
grave.
Per la presidente della commissione
di gara non si può ritenere presente tale
elemento, in quanto la stessa ha recepito
nel corso della procedura le perplessità
avanzate dagli altri concorrenti, ha sospeso
la stessa ed ha richiesto un parere al
segretario del comune e solo dopo avere
acquisito lo stesso ha provveduto a
concludere i lavori ed alla trasmissione
alla giunta, peraltro senza omettere nulla
nella relazione su quanto avvenuto.
Anche
per il segretario non si può parlare di
colpa grave: il suo comportamento, «fondato
più su una valutazione sostanziale di
convenienza che su ragioni formali di
regolarità della gara, non appare
contraddistinto da quella irragionevole
trascuratezza dei doveri d'ufficio che
contraddistingue un comportamento
caratterizzato da colpa grave. Infatti, va
tenuto conto che nella fattispecie le
argomentazioni poste a base del parere
favorevole apparivano ragionevolmente
fondate sul fatto che si trattava di
valutare, in una gara esplorativa per
l'aggiudicazione a trattativa privata del
servizio di mensa scolastica, l'offerta più conveniente. Tale
orientamento, peraltro, fu avvalorato
dall'esito favorevole del controllo di
legittimità svolto dal CO.RE.CO. sulle
delibere emesse in esito alla procedura di
gara, oltre che dai pareri tecnici e di
legittimità degli uffici amministrativi».
A maggior ragione non si può parlare di
colpa grave in capo al sindaco, in quanto lo
stesso non ha svolto alcun ruolo: la censura
di «omessa vigilanza» mossagli dai
giudici di primo grado infatti non regge, in
quanto «non si comprende quale attività
avrebbe dovuto svolgere il Sindaco nel caso
concreto, in presenza di specifiche
attribuzioni della commissione di gara, che
comunque non consentivano l'esercizio di
poteri sostitutivi».
Da evidenziare infine che, quanto al
maturare della prescrizione quinquennale
della responsabilità amministrativa, la
seconda sezione centrale sottolinea che essa
matura dalla data del pagamento illecito,
essendo nell'ambito della «responsabilità
indiretta»
(articolo ItaliaOggi
dell'01.07.2011 - link a www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: La
costituzione su una strada privata di una
servitù di uso pubblico può avvenire,
alternativamente, a mezzo della cd.
dicatio ad patriam -costituita dal
comportamento del proprietario di un bene
che metta spontaneamente ed in modo univoco
il bene a disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, producendo
l'effetto istantaneo della costituzione
della servitù di uso pubblico-, ovvero
attraverso l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata dei cittadini,
protratto per il tempo necessario
all'usucapione.
L'accertamento in ordine alla natura
pubblica di una strada presuppone
necessariamente l'esistenza di un atto o di
un fatto in base al quale la proprietà del
suolo su cui essa sorge sia di proprietà di
un ente pubblico territoriale, ovvero che a
favore del medesimo ente sia stata
costituita una servitù di uso pubblico, e
che la stessa sia destinata all'uso pubblico
con una manifestazione di volontà espressa o
tacita dell'ente medesimo, senza che sia
sufficiente a tal fine l'esplicarsi di fatto
del transito del pubblico, né la mera
previsione programmatica della sua
destinazione a strada pubblica, o
l'intervento di atti di riconoscimento da
parte dell'amministrazione medesima circa la
funzione da essa assolta.
La costituzione su una strada privata di una
servitù di uso pubblico può avvenire,
alternativamente, a mezzo della cd.
dicatioad patriam -costituita dal
comportamento del proprietario di un bene
che metta spontaneamente ed in modo univoco
il bene a disposizione di una collettività
indeterminata di cittadini, producendo
l'effetto istantaneo della costituzione
della servitù di uso pubblico-, ovvero
attraverso l'uso del bene da parte della
collettività indifferenziata dei cittadini,
protratto per il tempo necessario
all'usucapione (cfr. C.d.S., sez. V,
24.05.2007, n. 2618).
L'accertamento
in ordine alla natura pubblica di una strada
presuppone necessariamente l'esistenza di un
atto o di un fatto in base al quale la
proprietà del suolo su cui essa sorge sia di
proprietà di un ente pubblico territoriale,
ovvero che a favore del medesimo ente sia
stata costituita una servitù di uso
pubblico, e che la stessa sia destinata
all'uso pubblico con una manifestazione di
volontà espressa o tacita dell'ente
medesimo, senza che sia sufficiente a tal
fine l'esplicarsi di fatto del transito del
pubblico, né la mera previsione
programmatica della sua destinazione a
strada pubblica, o l'intervento di atti di
riconoscimento da parte dell'amministrazione
medesima circa la funzione da essa assolta
(Cassazione civile, sez. II, 07.04.2006 , n.
8204)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 28.06.2011 n. 3868 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica -
Soggetti legittimati - Art. 146 d.lgs. n.
42/2004.
La disposizione di cui all'art. 146, d.lgs.
n. 42 del 2004 individua i soggetti
legittimati a richiedere l'autorizzazione
paesaggistica indicandoli nei "proprietari,
possessori o detentori a qualsiasi titolo di
immobili di aree di interesse paesaggistico",
ovvero, in senso letterale, in tutti coloro
che hanno con la "res", oggetto di
protezione vincolistica, una relazione
dominicale e/o materiale, ovvero, secondo
un'interpretazione estensiva conforme al
dettato costituzionale, a coloro che del
bene debbono avere la disponibilità
materiale, pena l'inefficacia del sistema di
tutela giurisdizionale (TAR Campania Napoli,
sez. III, 09.11.2010, n. 23672) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 1015 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opera abusiva in area protetta -
Assoluzione dalla responsabilità penale -
Sanzione amministrativa - Carattere reale.
L’assoluzione dalla responsabilità penale
non cancella il fatto storico della
realizzazione di un’opera abusiva in area
protetta, venendo altrimenti vanificato
l’intento di maggiore protezione che
l’ordinamento ha imposto a difesa di detti
beni.
La giurisprudenza di questo Tribunale
comunque si è già espressa sul punto (I
sezione n. 137/2009) affermando il carattere
reale della sanzione proprio per garantire
la tutela ambientale e paesaggistica,
costituzionalmente indicata come valore
primario.
Abusi edilizi - Atto
repressivo - Attività vincolata - Ordine di
demolizione - Motivazione - Accertata
abusività.
A fronte degli abusi edilizi,
l’amministrazione non gode di alcun margine
di discrezionalità ed ha quindi l'obbligo di
intervenire con un atto repressivo, dovuto
nell'an e vincolato nel suo
contenuto, senza che su di esso possa
influire alcuna comparazione tra interessi
pubblici ed interessi privati.
In ogni caso, l'ordine di demolizione di
opere edilizie abusive insistenti in area
soggetta ad un vincolo di inedificabilità
assoluta non abbisogna di una motivazione
particolarmente diffusa ed anche
relativamente ad un abuso risalente nel
tempo risulta sufficiente l'affermazione
dell'accertata abusività del manufatto (TAR
Lombardia Brescia, 20.10.2005, n. 1041) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 1015 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Concessione edilizia - Nozione di
costruzione - Precarietà di un manufatto -
Presupposti.
La nozione di costruzione, ai fini del
rilascio della concessione edilizia, si
configura in presenza di opere che attuino
una trasformazione urbanistico-edilizia del
territorio, con perdurante modifica dello
stato dei luoghi, a prescindere dal fatto
che essa avvenga mediante la realizzazione
di opere murarie, cosicché fuoriesce da tale
definizione soltanto l'opera destinata, fin
dall'origine, a soddisfare esigenze
contingibili e circoscritte nel tempo.
In particolare, la precarietà di un
manufatto, al fine di escludere la necessità
del rilascio di un titolo edilizio, va
valutata a prescindere dalla temporaneità
della destinazione soggettivamente impressa
dal costruttore e dalla maggiore o minore
amovibilità delle parti che lo compongono,
considerando invece l'opera alla luce della
sua obiettiva e intrinseca destinazione
naturale che ne riveli l'uso oggettivamente
precario e temporaneo (TAR Campania Napoli,
sez. III, 06.11.2007, n. 1068; TAR Lombardia
Milano, sez. IV, 09.03.2011, n. 644) (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 28.06.2011 n. 1015 -
link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA: In
base all'art. 16 della L. Urbanistica e'
doveroso acquisire il parere della
Soprintendenza qualora il piano attuativo
coinvolga beni vincolati. Il principio,
sancito per i piani particolareggiati, viene
esteso alla generalita' dei piani attuativi
ed anche ai PII.
- La previsione dell’art. 16, co. 3, sui
piani particolareggiati deve essere ritenuta
applicabile anche ai piani attuativi
previsti dalle leggi speciali successive.
Invero, il piano particolareggiato era in
origine previsto per dare attuazione alle
previsioni contenute nello strumento
urbanistico generale senza che le fosse
riconosciuta la possibilità di apportare
variazioni al piano regolatore generale. La
prassi di utilizzare tale strumento
pianificatorio, anche in ragione della sua
scarsa flessibilità, è poi venuta scemando
quando, con il PRG, le amministrazioni
comunali hanno cominciato ad inserire
prescrizioni conformative della proprietà
privata e quindi autoesecutive. Da qui la
sostituzione nella prassi di tale strumento
con i piani attuativi ai quali la normativa
statale ha riconosciuto la possibilità, come
detto, di apportare variazioni alla
pianificazione generale sostituendosi, di
fatto, alla pianificazione
particolareggiata. Ad ogni modo, sia il
piano attuativo che quello particolareggiato
condividono la stessa ratio e natura atteso
che tali strumenti hanno la funzione, oltre
che di attuazione delle prescrizioni
conformative della proprietà privata
contenute nel PRG ovvero nella variante
contenuta nello stesso piano, di
regolamentare la gestione dell’attività di
trasformazione del territorio. In ragione di
ciò, non sembra dubitabile che l’art. 16,
comma 3, della Legge n. 1150/1942, sebbene
riferita espressamente ai piani
particolareggiati, vada applicata anche nel
caso dell’approvazione dei piani attuativi
in variante, proprio in ragione della
medesima funzione che svolgono e della loro
alternatività.
- L’approvazione del d.lgs. 42/2004 non è
una ragione sufficiente per ritenere
implicitamente superata una norma ancora
attualmente vigente quale quella dell’art.
16, co. 3, legge urbanistica. Una norma più
risalente può essere implicitamente abrogata
da una norma successiva quando vi è un
contrasto tra l’una e l’altra, in
applicazione del criterio cronologico, che è
uno dei criteri attraverso cui vengono
risolte le antinomie presenti
nell’ordinamento. Ma occorre pur sempre
dimostrare che vi sia un contrasto tra le
due norme, perché altrimenti il criterio di
soluzione delle antinomie non scatta.
- La circolare del 28.10.1967 del Ministero
L.P. stabiliva che i piani attuativi
andavano sottoposti al controllo ex art. 16
L. 1150/1942 dopo la loro approvazione,
previsione da cui si ricaverebbe che quindi
comunque non potrebbero essere viziati gli
atti impugnati che erano ad essi precedenti.
In realtà, questo argomento non è corretto.
L’art. 16, co. 3, afferma esplicitamente che
i piani sono preventivamente sottoposti alla
competente Soprintendenza. Una circolare
interpretativa che va in senso diverso
dall’esplicito dettato della norma non può
assumere alcun valore interpretativo.
Si ritiene di affrontare il
secondo motivo di ricorso in cui si deduce
la violazione dell’art. 16, co. 3, l. 1150/1942
perché il piano è stato approvato senza
adottare il parere della Soprintendenza che
è necessario in caso di trasformazione
urbanistica di area sottoposta a vincolo.
Si ricorda che
si tratta di un’area posta pressoché sulle
rive del lago di Garda, dell’estensione di
circa 17.900 mq., più altra area ad essa
contigua di 38.600 mq., che verrà
completamente stravolta (ed auspicabilmente
migliorata, visto che una parte di essa è
costituita da un’attività industriale
dismessa) dalla costruzione di 200
appartamenti con palazzine di 5 piani fuori
terra, oltre alberghi, oltre parcheggi, e
servizi. Le forme dell’antropizzazione delle
sponde del lago di Garda nel territorio di
Toscolano saranno completamente riscritte
dall’intervento in parola, così come
cambierà a seguito di esso la forma del
paesaggio di quel tratto di Garda bresciano.
Eppure per un intervento del genere, su area
sottoposta a vincolo di tutela
paesaggistica, non è stato acquisito alcun
parere della Soprintendenza, parere che la
proprietà ritiene di dover chiedere solo in
occasione della richiesta dei singoli
interventi edilizi (cioè quando la
Soprintendenza potrà soltanto salvare il
salvabile, limitandosi a contestare la forma
architettonica dei singoli fabbricati, ma
senza poter più incidere sulle volumetrie
previste e sull’impianto complessivo della
trasformazione urbanistica).
In ricorso si sostiene che la mancata
richiesta di parere della Soprintendenza
sarebbe illegittima ai sensi dell’art. 16 l.
urbanistica, il cui co. 3 dispone in effetti
che “i piani particolareggiati nei quali
siano comprese cose immobili soggette alla
legge 01.06.1939, n. 1089, sulla tutela
delle cose di interesse artistico o storico,
e alla legge 29.06.1939, n. 1497, sulla
protezione delle bellezze naturali, sono
preventivamente sottoposti alla competente
Soprintendenza ovvero al Ministero della
pubblica istruzione quando sono approvati
con decreto del ministro per i lavori
pubblici”.
La norma dell’art. 16, co. 3, citata cita
espressamente i “piani particolareggiati”,
che era la tipologia di strumento
urbanistico che nella impostazione del
legislatore della legge urbanistica era
diretto a dettare concretamente l’assetto
dei suoli. Va quindi preliminarmente
verificato se essa sia applicabile anche
alle numerose tipologie di piani attuativi
in variante previsti dalla legislazione
successiva, ed in particolare ad un piano
integrato di intervento, quale quello in
esame.
I programmi integrati di intervento,
infatti, non esistevano nel momento in cui è
stata dettata la previsione dell’art. 16
legge urbanistica della cui applicazione di
controverte, e sono stati istituiti dalla l.
17.02.1992, n. 179, importando
nell’ordinamento italiano un modello mutuato
da quello dell’amendment
statunitense, che va quindi nella direzione
dell’urbanistica contrattata, e sono stati
definiti “come strumenti urbanistici di
secondo livello rispetto al p.r.g., con
finalità di riqualificare il tessuto
urbanistico, edilizio ed ambientale del
territorio, e sono caratterizzati tra
l’altro, dall’integrazione di differenti
tipologie di intervento, ivi comprese le
opere di urbanizzazione. In particolare,
essi mirano ad obiettivi di riqualificazione
dei tessuti urbani, anche in relazione
all’aspetto ambientale, mediante un insieme
coordinato di interventi e risorse, pubblici
e privati” (Tar Lombardia, Milano, II, 28.03.2007, n. 1241).
Nel senso che la previsione dell’art. 16, co.
3, sui piani particolareggiati debba essere
ritenuta applicabile anche ai piani
attuativi previsti dalle leggi speciali
successive si è già espresso questo
Tribunale, sede di Milano, II, 6541/2007,
secondo cui “il piano particolareggiato era
in origine previsto per dare attuazione alle
previsioni contenute nello strumento
urbanistico generale senza che le fosse
riconosciuta la possibilità di apportare
variazioni al piano regolatore generale.
La
prassi di utilizzare tale strumento pianificatorio, anche in ragione della sua
scarsa flessibilità, è poi venuta scemando
quando, con il PRG, le amministrazioni
comunali hanno cominciato ad inserire
prescrizioni conformative della proprietà
privata e quindi autoesecutive. Da qui la
sostituzione nella prassi di tale strumento
con i piani attuativi ai quali la normativa
statale ha riconosciuto la possibilità, come
detto, di apportare variazioni alla
pianificazione generale sostituendosi, di
fatto, alla pianificazione
particolareggiata.
Ad ogni modo, sia il
piano attuativo che quello particolareggiato
condividono la stessa ratio e natura atteso
che tali strumenti hanno la funzione, oltre
che di attuazione delle prescrizioni
conformative della proprietà privata
contenute nel PRG ovvero nella variante
contenuta nello stesso piano, di
regolamentare la gestione dell’attività di
trasformazione del territorio.
In ragione di
ciò, non sembra dubitabile che l’art. 16,
comma 3, della Legge n. 1150/1942, sebbene
riferita espressamente ai piani
particolareggiati, vada applicata anche nel
caso dell’approvazione dei piani attuativi
in variante, proprio in ragione della
medesima funzione che svolgono e della loro alternatività”.
Nello stesso senso si è espresso, con
riferimento ad un piano di recupero, Tar
Sicilia, Palermo, sez. I, 1531/1997, secondo
cui “qualora le aree inserite in un piano di
recupero siano dichiarate di notevole
interesse pubblico e sottoposte a vincolo ex
l. n. 1497 del 1939, è necessario ai fini
dell'approvazione del piano il parere della
competente soprintendenza che deve essere
emesso entro 2 mesi dalla richiesta”.
---------------
L’approvazione
del d.lgs. 42/2004 non è una ragione
sufficiente per ritenere implicitamente
superata una norma ancora attualmente
vigente quale quella dell’art. 16, co. 3,
legge urbanistica.
Una norma più risalente può essere
implicitamente abrogata da una norma
successiva quando vi è un contrasto tra
l’una e l’altra, in applicazione del
criterio cronologico, che è uno dei criteri
attraverso cui vengono risolte le antinomie
presenti nell’ordinamento. Ma occorre pur
sempre dimostrare che vi sia un contrasto
tra le due norme, perché altrimenti il
criterio di soluzione delle antinomie non
scatta.
Nel caso in esame, non è stata individuata
alcuna specifica norma del d.lgs. 42/2004 con
cui l’art. 16, co. 3, legge urbanistica si
porrebbe in antinomia, ma è stato sostenuto
che il contrasto sussisterebbe con
l’impostazione generale del Codice dei beni
culturali.
Già così l’asserita antinomia diventa molto
labile, finendo per pretendere la
disapplicazione di una norma vigente come
quella dell’art. 16 sulla base di un
generico e soggettivo contrasto con la
impostazione di fondo di altra normativa.
Inoltre, se l’antinomia sussiste non con una
specifica norma, ma con l’impostazione
generale di un intero Codice, a quel punto
essa potrebbe essere risolta, anziché
applicando il criterio cronologico, mercé
l’applicazione del principio di specialità,
che porta a ritenere comunque applicabile la
legge speciale, quale nel caso di specie
sarebbe l’art. 16 che sopravviverebbe
pertanto all’entrata in vigore del d.lgs.
42/2004.
Da ultimo, occorre considerare che non si
comprende come l’approvazione del d.lgs.
42/2004 possa aver mutato i termini della
questione. Il d.lgs. 42/2004 è solo la
codificazione di alcune normative
(segnatamente, quelle che interessano i beni
paesaggistici sono la l. 1497/1939 e la l.
431/1985), che prevedevano già
l’autorizzazione dei singoli interventi
edilizi che incidono su beni paesaggistici,
e che coesistevano con la norma dell’art.
16, co. 3, che chiedeva a monte
l’autorizzazione anche sui progetti
urbanistici. Non si vede perché con la
codificazione questa doppia tutela debba
essere venuta meno, limitandola solo alla
meno incisiva tutela sul solo progetto
edilizio (a parametri urbanistici ormai
dati).
---------------
Non è corretto
l’argomento che la norma dell’art. 16, co.
3, l. urbanistica sia stata implicitamente
abrogata dalla normativa regionale lombarda.
Sul punto, per il vero, si è già pronunciato
questo Tribunale, sede di Milano, sez. II,
6541/2007 che si era posto il problema “di
verificare se la L.R. n. 12/2005 contempli
una disciplina diversa rispetto a quella
statale con riferimento ai piani
particolareggiati e agli strumenti
attuativi.
Ora, sebbene la normativa
regionale detti una disciplina dei piani
attuativi comunali, nulla dice in ordine al
regime di approvazione di strumenti
urbanistici nei quali siano ricompresi
immobili di interesse storico–artistico
ovvero soggetti alla legge n. 1497/1939
sulla protezione delle bellezze naturali,
tanto che, in ragione del principio di
“autocompletamento” dell’ordinamento
giuridico, deve ritenersi ancora applicabile
alla fattispecie in esame l’art. 16, comma
3, della legge n. 1150/1942.
A ciò si
aggiunga che l’art. 103 della L.R. n.
12/2005 (rubricato “disapplicazione di norme
statali”) non contempla tra le normative da
disapplicare la legge n. 1150/1942 ma si
limita a richiamare alcune norme del DPR n.
327/2001 e del DPR n. 380/2001, il che
depone a ulteriore favore del fatto che la
legge urbanistica statale costituisce ancora
normativa fondamentale sul punto che può
essere derogata nel caso in cui la
legislazione regionale rechi una disciplina
generale ed esaustiva della materia di che
trattasi”.
La normativa regionale della Lombardia,
pertanto, non contiene deroghe alla legge
urbanistica.
Va, peraltro, aggiunto che –diversamente da
come sembrerebbe concludere il Tribunale
milanese– in ogni caso una eventuale norma
regionale derogatoria dell’art. 16, co. 3 (e
quindi una norma regionale che decida di
sopprimere un controllo di un organo statale
a tutela del paesaggio nel procedimento di
pianificazione, demandato per il resto agli
enti territoriali), rischierebbe di essere
giudicata incostituzionale, in quanto
finirebbe con il dettare previsioni di minor
tutela su materia riservata alla competenza
legislativa dello Stato, operazione già
giudicata incostituzionale in diverse
pronunce (cfr. per tutte Corte Cost. 182/2006:
“La tutela tanto dell'ambiente quanto dei
beni culturali è riservata allo Stato….: da
un lato, spetta allo Stato il potere di
fissare principi di tutela uniformi
sull'intero territorio nazionale, e,
dall'altro, le leggi regionali, emanate
nell'esercizio di potestà concorrenti,
possono assumere tra i propri scopi anche
finalità di tutela ambientale, purché siano
rispettate le regole uniformi fissate dallo
Stato. Appare, in sostanza, legittimo, di
volta in volta, l'intervento normativo
statale o regionale di maggior protezione
dell'interesse ambientale”).
---------------
Non si può
neanche sostenere –come fa la difesa del controinteressato- che il piano integrato
d’intervento avrebbe caratteristiche di
specialità tali da sottrarlo alla disciplina
dettata per gli altri piani attuativi.
L’obiezioni si fonda su una frase riportata
nella sentenza Tar Milano 6541/2007 più volte
citata, secondo cui l’art. 16, co. 3,
sarebbe applicabile per tutti piani
attuativi, salvo che non siano previste
discipline speciali. Il passaggio della
motivazione della sentenza citata non è
altro che ricognitivo dell’elementare
principio di specialità sulla soluzione
delle antinomie esistenti nell’ordinamento,
per cui se da qualche parte è prevista una
norma speciale derogatoria si applica la
norma speciale.
Ma nella normativa sui piani attuativi non è
prevista alcuna norma speciale derogatoria,
ed in ricorso la specialità del piano
integrato d’intervento la si vorrebbe
ricavare dalle peculiarità della sua
struttura, il che pare francamente tirato.
Senza considerare che, come evidenziato da
Cons. Stato, sez. IV, 3889/2006, “il programma
integrato di intervento di cui alla l.reg.
Lombardia 12.04.1999 n. 9 è uno
strumento urbanistico di secondo livello
rispetto al piano regolatore generale, ha la
finalità di riqualificare il tessuto
urbanistico, edilizio ed ambientale del
territorio ed è caratterizzato dalla
presenza di una pluralità di funzioni,
dall'integrazione di diverse tipologie di
intervento, ivi comprese le opere di
urbanizzazione, da una dimensione capace di
incidere sulla riorganizzazione urbana e dal
possibile concorso di risorse finanziarie
pubbliche o private; l'ampiezza di funzioni
e di contenuti, pertanto, ne definisce la
peculiarità rispetto ad altri strumenti di
pianificazione ad orientamento settoriale,
mirando ad obiettivi di riqualificazione dei
tessuti urbani, anche con riguardo
all'aspetto ambientale, mediante un insieme
coordinato di interventi e risorse, pubblici
e privati, incidenti anche sulle opere di
urbanizzazione e la dotazione degli standards”.
Si tratta cioè di un piano che ha
caratteristiche molto più invasive di altri,
e che ha come conseguenza proprio la
riqualificazione urbanistica di un’area con
conseguenza tali sull’ambiente da rendere –
al contrario - particolarmente appropriata
la necessità di un parere preventivo della
Soprintendenza.
---------------
Da ultimo, la
difesa del controinteressato sostiene che la
circolare del 28.10.1967 del Ministero L.P. stabiliva che i piani andavano
sottoposti al controllo ex art. 16 dopo la
loro approvazione, previsione da cui si
ricaverebbe che quindi comunque non
potrebbero essere viziati gli atti impugnati
che erano ad essi precedenti.
In realtà, questo argomento non è corretto.
L’art. 16, co. 3, afferma esplicitamente che
i piani sono preventivamente sottoposti alla
competente Soprintendenza. Una circolare
interpretativa che va in senso diverso
dall’esplicito dettato della norma non può
assumere alcun valore interpretativo
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.06.2011 n. 959 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La
maggiore antropizzazione di un territorio
determinata dall’aumento del carico
urbanistico, generando l’obbligo per chi era
già insediato sul territorio di dividere
standard e servizi con i nuovi arrivati e di
patire la presenza di altre fonti di rumori
e polveri, induce a ritenere sussistente
l’interesse al ricorso di chi agisce contro
il provvedimento che determina tale aumento
del carico.
Non è seriamente discutibile che i cittadini
di Toscolano Maderno possano agire in
giudizio contro la presentazione del
programma integrato d’intervento in parola.
Premesso che legittimazione ed interesse a
ricorrere si esauriscono nella mera
affermazione (e non nella prova) della
necessità di tutela giurisdizionale
derivante dalla lesione di un proprio
interesse, perché legittimazione ed
interesse non sono altro che modalità della
domanda giudiziale, ma non attengono ancora
al merito, si discute in questo giudizio in
ogni caso di una trasformazione urbanistica
che porterà alla realizzazione di 200 nuovi
appartamenti e di una struttura alberghiera
da 4.000 mc..
La maggiore antropizzazione di un territorio
determinata dall’aumento del carico
urbanistico, generando l’obbligo per chi era
già insediato sul territorio di dividere
standard e servizi con i nuovi arrivati (Toscolano
Maderno attualmente ha circa 7.000 abitanti,
la creazione di 200 appartamenti potrebbe
portare all’aumento anche del 10% del numero
di persone che gravitano sull’area) e di
patire la presenza di altre fonti di rumori
e polveri, induce a ritenere sussistente
l’interesse al ricorso di chi agisce contro
il provvedimento che determina tale aumento
del carico (in senso analogo, cfr. T.r.g.a.
Trento 46/2010, in cui si sostiene che “sono
legittimati all'impugnazione coloro che
possono lamentare una pregiudizievole
alterazione del preesistente assetto
urbanistico ed edilizio per effetto della
realizzazione dell'intervento controverso”)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.06.2011 n. 959 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La dichiarazione sostitutiva di
cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006,
inerente a circostanze relative a terzi,
deve essere resa solo nella misura in cui
fatti ed atti dichiarati rientrino nella
conoscenza diretta del dichiarante.
L'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006,
relativamente alle dichiarazioni sostitutive
rese in ordine a stati, qualità personali e
fatti relativi a terzi, va interpretata in
relazione ai principi generali in tema di
dichiarazioni rese alla P.A. Proprio perché
il soggetto può rendere la dichiarazione
afferente al terzo solo relativamente a
quanto rientri nella propria diretta
conoscenza, ne consegue che, in presenza di
una norma che richiede la predetta
dichiarazione, quest'ultima deve essere resa
se nel senso di attestare solo ciò che è a
conoscenza del dichiarante, ben potendo
l'amministrazione procedere alle opportune
verifiche, in ordine alla sussistenza dei
requisiti in capo a tali soggetti.
Pertanto, la dichiarazione in ordine alle
ragioni che hanno reso impossibile o gravosa
la produzione della dichiarazione "diretta"
da parte dei soggetti interessati, appare
del tutto superflua, né la mancanza di tale
dichiarazione può comportare l'esclusione
dalla gara (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.06.2011 n. 3862 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'asservimento di un fondo, in
caso di edificazione, costituisce una
qualità oggettiva dello stesso, opponibile
ai terzi, che continua a seguire il fondo
anche nei successivi trasferimenti a
qualsiasi titolo intervenuti in epoca
successiva.
Il vincolo creato dall'asservimento per sua
natura permane sul fondo servente a tempo
indeterminato, pena il completo snaturamento
dell'istituto. L'asservimento di un fondo ad
un altro crea, infatti, una relazione
pertinenziale nella quale viene posta
"durevolmente" a servizio di un fondo la
qualità edificatoria di un altro.
Gli effetti derivanti dal vincolo,
integrando una qualità oggettiva del
terreno, hanno carattere definitivo ed
irrevocabile e provocano la perdita
definitiva delle potenzialità edificatorie
dell'area asservita, con permanente
minorazione della sua utilizzazione da parte
di chiunque ne sia il proprietario.
Ad avviso di costante e condivisibile
giurisprudenza, l'asservimento di un fondo,
in caso di edificazione, costituisce una
qualità oggettiva dello stesso, opponibile
ai terzi, che continua a seguire il fondo
anche nei successivi trasferimenti a
qualsiasi titolo intervenuti in epoca
successiva (Consiglio Stato, sez. V,
30.03.1998, n. 387; sez. IV, 06.07.2010, n.
4333).
Va soggiunto che il vincolo creato
dall'asservimento per sua natura permane sul
fondo servente a tempo indeterminato, pena
il completo snaturamento dell'istituto.
L'asservimento di un fondo ad un altro crea,
infatti, una relazione pertinenziale nella
quale viene posta "durevolmente" a
servizio di un fondo la qualità edificatoria
di un altro (cfr. Cons. Stato, Ad Plen., n.
3/2009; Cons. Stato, sez. IV, n. 3766/2008,
secondo cui il "vincolo rimane
cristallizzato nel tempo”).
In definitiva, gli effetti derivanti dal
vincolo, integrando una qualità oggettiva
del terreno, hanno carattere definitivo ed
irrevocabile e provocano la perdita
definitiva delle potenzialità edificatorie
dell'area asservita, con permanente
minorazione della sua utilizzazione da parte
di chiunque ne sia il proprietario (Cass.
pen., sez. III, 21177/2009)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.06.2011 n. 3823 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente da una gara a carico del
cui progettista siano risultate delle
condanne penali non dichiarate.
E' legittimo il provvedimento di esclusione
da una gara adottato da una stazione
appaltante nei confronti di un'impresa, a
carico del cui progettista siano risultate,
a seguito della verifica del possesso dei
requisiti di partecipazione e dall'esame del
relativo certificato del casellario
giudiziale, annotazioni di cui l'incaricato
del progetto non aveva dichiarato
l'esistenza.
Anche a prescindere da ogni considerazione
circa natura e gravità dei reati per i quali
il professionista era stato condannato, in
ogni caso è la stessa dichiarazione non
veritiera che, ai sensi della normativa di
gara, imponeva l'esclusione (TAR Lazio-Roma,
Sez. I-bis,
sentenza 24.06.2011 n. 5651 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla necessità di una compiuta
verbalizzazione delle cautele da osservare
ai fini della conservazione dei plichi
contenenti le offerte.
La commissione deve adottare le cautele
idonee a garantire la segretezza degli atti
di gara e a prevenire rischi di
manomissioni, indicando nel verbale tali
cautele e dando atto a verbale della
integrità dei plichi.
In particolare, dal verbale deve risultare
il nominativo di colui cui siano
materialmente consegnati i plichi, che ne
assume le conseguenti responsabilità, ovvero
-con chiarezza e univocità- deve risultare
l'ufficio cui sono consegnati e all'interno
del quale essi vanno conservati (con
individuazione immediata del suo
responsabile): in qualsiasi momento, ogni
autorità giurisdizionale o amministrativa (a
seconda dei casi e delle relative funzioni,
anche di vigilanza) dalla lettura dei
verbali di consegna deve poter agevolmente
accertare quali siano stati i passaggi dei
plichi, ove essi siano stati collocati nel
corso del tempo, chi abbia posto mano su di
essi e ogni altra circostanza attinente alla
loro integrità e conservazione.
Poiché le cautele sono idonee solo se
assicurano la conservazione dei plichi in
luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e
con individuazione di un soggetto o ufficio
responsabile dell'inaccessibilità del luogo
a terzi, anche se non occorrono 'formule
sacramentali' la verbalizzazione è legittima
se, oltre a indicare le cautele adottate,
indica, sotto la responsabilità dei
verbalizzanti, che le cautele sono state
efficaci in quanto i plichi sono integri
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.06.2011 n. 3803 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Legittima l'esclusione dalla gara
di un'impresa il cui progettista abbia
omesso di presentare il casellario
giudiziale e il certificato dei carichi
pendenti, in violazione di quanto richiesto
a pena di esclusione dal bando.
Le prescrizioni contenute nella lex
specialis hanno portata vincolante e
l'Amministrazione è tenuta a darvi precisa
ed incondizionata esecuzione, senza alcuna
possibilità di valutazione discrezionale
circa la rilevanza dell'inadempimento e
l'incidenza di questo sulla regolarità della
procedura selettiva o ancora sulla congruità
della sanzione contemplata dalla disciplina
di gara, alla cui osservanza la stessa
Amministrazione si è autovincolata al
momento dell'adozione del bando, cfr., ex
multis, Cons. Stato, Sez. V, 16.03.2010,
n. 1513) (massima tratta e link a www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 23.06.2011 n.
1838). |
ESPROPRIAZIONE - URBANISTICA:
Per le ''aree di rispetto''
indennizzo scontato.
Non possono essere annoverati tra
i vincoli “sostanzialmente espropriativi”
quelli derivanti da destinazioni
realizzabili anche attraverso l'iniziativa
privata in regime di economia di mercato.
I limiti non ablatori
normalmente posti nei regolamenti
urbanistici o nella pianificazione
urbanistica e relative norme tecniche,
riguardanti altezza, cubatura, superficie
coperta, distanze, zone di rispetto, indici
di fabbricabilità, limiti e rapporti per
zone territoriali omogenee e simili, sono
vincoli conformativi, connaturali alla
proprietà, e non comportano indennizzo.
Riveste rilievo decisivo nella presente
controversia stabilire se le prescrizioni
che riguardano il fondo dell’appellante
hanno carattere espropriativo, come essa
ritiene o soltanto conformativo, come invece
ritiene il Comune; in questo secondo caso
occorre stabilire anche se gli standards
eccedenti quelli minimi realizzabili previa
convenzione, sono effettivamente
realizzabili in base alle prescrizione del
Piano che li riguarda.
Appare allora opportuno premettere alcune
considerazioni in ordine alla differenza fra
vincolo “espropriativo” e vincolo “conformativo”,
ai fini della corretta qualificazione
giuridica della fattispecie dedotta in
giudizio, per poter poi stabilire se, nel
caso che occupa, sussista o meno
l’illegittimità del diniego impugnato del
permesso di costruire adottato dal Comune.
I criteri di individuazione dei vincoli
espropriativi o di inedificabilità assoluta,
rispetto ai vincoli conformativi, sono stati
elaborati con le sentenze della Corte
Costituzionale 20.05.1999, n. 179 e
18.12.2001, n. 411, ma anche con la più
recente sentenza 09.05.2003 n. 148, nella
parte in cui si riferiscono a vincoli
scaduti, preordinati all'espropriazione o
sostanzialmente espropriativi, senza
previsione di durata e di indennizzo. In
base ai suddetti criteri nonché a quelli
elaborati dalla giurisprudenza
amministrativa formatasi in relazione
all'art. 2 della legge n. 1187 del 1968, i
vincoli di piano regolatore, ai quali si
applica il principio della decadenza
quinquennale, sono soltanto quelli che
incidono su beni determinati, che sono
preordinati all'espropriazione ovvero che
hanno carattere sostanzialmente
espropriativo, tali da determinare l'inedificabilità
dei beni colpiti e, dunque, lo svuotamento
del contenuto del diritto di proprietà,
incidendo sul godimento del bene, tanto da
renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale, ovvero da diminuirne
in modo significativo il valore di scambio (ex
plurimis: Cons. Stato, Sez.V, n. 3 del
03.01.2001 e n. 745 del 24.02.2004), con
conseguente violazione sostanziale del III
comma dell'art. 42 Cost.
Tali indicazioni possono valere anche con
riferimento all’attuale sistema, che, con
l'art. 9, commi 3 e 4, del D.P.R. 08.06.2001
n. 327, entrato in vigore il 30 giugno 2003,
ha soltanto esplicitato con una diversa
terminologia la regola della durata
quinquennale, disciplinando espressamente
gli istituti della decadenza e della
reiterazione.
Invece, la previsione di una determinata
tipologia urbanistica non configurante né un
vincolo preordinato all'espropriazione né l'inedificabilità
assoluta, essendo una prescrizione diretta a
regolare concretamente l'attività edilizia,
inerisce alla potestà conformativa propria
dello strumento urbanistico generale, la cui
validità è a tempo indeterminato, come
espressamente stabilito dall'art. 11 della
legge 17.08.1942 n. 1150. Si parla, in tal
caso, di vincoli urbanistici di tipo “conformativo”,
per indicare i vincoli relativi ai beni
culturali e paesaggistici, posti
direttamente dalla legge ovvero mediante un
particolare procedimento amministrativo a
carico di intere categorie di beni, in base
a caratteristiche loro intrinseche, con
carattere di generalità ed in modo
obiettivo: tali limitazioni delle facoltà
del proprietario ricadono nella previsione
non del comma terzo, bensì del comma
secondo, dell’art. 42, Cost. e non sono
indennizzabili.
In proposito, la precitata sentenza della
Corte Costituzionale n. 179 del 1999, al
punto 5 della parte in diritto, ha precisato
che “sono al di fuori dello schema
ablatorio-espropriativo con le connesse
garanzie costituzionali (e quindi non
necessariamente con l'alternativa di
indennizzo o di durata predefinita) i
vincoli che importano una destinazione
(anche di contenuto specifico) realizzabile
ad iniziativa privata o promiscua
pubblico-privata, che non comportino
necessariamente espropriazione o interventi
ad esclusiva iniziativa pubblica e quindi
siano attuabili anche dal soggetto privato e
senza necessità di previa ablazione del
bene.
Ciò può essere il risultato di una scelta di
politica programmatoria tutte le volte che
gli obiettivi di interesse generale, di
dotare il territorio di attrezzature e
servizi, siano ritenuti realizzabili (e come
tali specificatamente compresi nelle
previsioni pianificatorie) anche attraverso
l'iniziativa economica privata - pur se
accompagnati da strumenti di
convenzionamento”.
Pertanto, i limiti non ablatori normalmente
posti nei regolamenti urbanistici o nella
pianificazione urbanistica e relative norme
tecniche, riguardanti altezza, cubatura,
superficie coperta, distanze, zone di
rispetto, indici di fabbricabilità, limiti e
rapporti per zone territoriali omogenee e
simili, sono vincoli conformativi,
connaturali alla proprietà, e non comportano
indennizzo.
Inoltre, se pure hanno carattere
particolare, i vincoli di destinazione
imposti dal piano regolatore per
attrezzature e servizi realizzabili anche ad
iniziativa privata o promiscua, in regime di
economia di mercato, anche se accompagnati
da strumenti di convenzionamento (ad es.
parcheggi, impianti sportivi, mercati e
strutture commerciali, edifici sanitari,
zone artigianali, industriali o
residenziali), sfuggono allo schema
ablatorio, con le connesse garanzie
costituzionali in termini di alternatività
fra indennizzo e durata predefinita.
Se è vero, infatti, che la previsione
dell'indennizzo è doverosa non soltanto per
i vincoli preordinati all'ablazione del
suolo, ma anche per quelli "sostanzialmente
espropriativi" (secondo la definizione
di cui all'art. 39, comma 1, del precitato
D.P.R. 327/2001), è anche vero che non
possono essere annoverati in quest'ultima
categoria, quei vincoli derivanti da
destinazioni realizzabili anche attraverso
l'iniziativa privata in regime di economia
di mercato (cfr., ex multis, Cons.
St., IV, 28.02.2005, n. 693; VI, 14.05.2000,
n. 2934; Cass. Civ., I, 26.01.2006, n. 1626
e 27.05.2005, n. 11322).
Ciò, in quanto la disciplina urbanistica che
ammette la realizzazione di interventi
edilizi da parte di privati, seppur
conformati dal perseguimento del peculiare
interesse pubblico che ha determinato il
vincolo, non si risolve in una sostanziale
espropriazione, ma solo in una limitazione,
conforme ai principi che presiedono al
corretto ed ordinario esercizio del potere
pianificatorio, dell'attività edilizia
realizzabile sul terreno.
Pertanto, siffatta categoria di vincoli, non
avendo un contenuto sostanzialmente
espropriativo, ma derivando dal
riconoscimento delle caratteristiche
intrinseche del bene, nell’ambito delle
scelte di pianificazione generale, risulta
determinata nell’esercizio della potestà
conformativa propria dello strumento
urbanistico generale, per cui ha validità a
tempo indeterminato, come espressamente
stabilito dall'articolo 11 della legge
1150/1942.
Quanto all’obbligo dell’indennizzo, occorre
precisare che il problema della temporaneità
e della conseguente indennizzabilità della
protrazione dei vincoli urbanistici si può
porre solo nei confronti dei vincoli
preordinati all'espropriazione o
sostanzialmente ablativi: restano, di
conseguenza, fuori dai problemi enunciati
tutti gli altri vincoli attinenti a
destinazioni non coinvolgenti l’esecuzione
di opere pubbliche, ma rimessi alla
iniziativa (anche concorrente) dei singoli
proprietari (come il verde condominiale e
gli accessi privati pedonali), trattandosi
di vincoli meramente conformativi.
In effetti, in linea generale, le opere di
interesse generale costituiscono una
categoria logico-giuridica nettamente
differenziata rispetto a quella delle "opere
pubbliche", poiché si riferiscono a
quegli impianti ed attrezzature che, sebbene
non destinate a scopi di stretta cura della
pubblica Amministrazione, sono idonei a
soddisfare bisogni della collettività,
ancorché vengano realizzate e gestite da
soggetti privati: in tale ambito, ci si
riferisce a supermercati, strutture
alberghiere, stazioni di servizio, banche,
discoteche, etc. (cfr. Cons. di Stato sez.
V, n° 405 del 23.03.1993; Cons. di Stato
sez. V, n. 268 del 27.04.1988; Cons. di
Stato sez. V, n. 1000 dell'11.07.1975; TAR
Campania-Napoli n. 6604 del 23.10.2002; TAR
Puglia-Bari n. 4632 del 21.10.2002; TAR
Puglia-Bari n. 1157 del 28.02.2002; TAR
Basilicata n. 288 del 21.10.1996; TAR
Campania-Napoli n. 180 del 22.05.1990; TAR
Lombardia-Brescia n. 693 dell'08.09.1987;
TAR Piemonte n. 321 del 29.10.1984).
Applicando i già ricordati principi al caso
di specie, discende che le destinazioni a
zona pubblica per attrezzature di pubblico
interesse ne discende, avuto particolare
riguardo alla realizzabilità anche ad
iniziativa privata o promiscua, in regime di
economia di mercato, la sua non
sussumibilità nello schema ablatorio, ma,
piuttosto, nella tipologia dei vincoli
urbanistici di tipo “conformativo”,
che non pongono particolari limitazioni alle
facoltà del proprietario, riconducibili,
come tali, alle previsione non del comma
terzo, bensì del secondo comma, dell’art.
42, Cost..
Conseguentemente, tale normazione di zona
non può che avere validità a tempo
indeterminato, come espressamente stabilito
dall'art. 11 della legge 17.08.1942 n. 1150.
Conclusivamente, nella specie, si deve
ritenere che, il fondo di proprietà del
ricorrente, non risulta gravato da vincolo
preordinato all’espropriazione
(commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.06.2011 n. 3797 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il divieto di costruzione di
opere sugli argini dei corsi d'acqua ha
carattere inderogabile.
In linea generale il divieto di costruzione
di opere dagli argini dei corsi d'acqua,
previsto dall'art. 96, lett. f), t.u.
25.07.1904 n. 523, ha carattere legale ed è
inderogabile, ed è diretto al fine di
assicurare non solo la possibilità di
sfruttamento delle acque demaniali, ma anche
(e soprattutto) il libero deflusso delle
acque scorrenti nei fiumi, torrenti, canali
e scolatoi pubblici (cfr. Cassazione civile,
sez. un., 30.07.2009, n. 17784).
Il divieto sancito dall'art. 96, lett. f),
cit., e dalla successiva lett. g), estende
–con carattere di assoluta inderogabilità-
il divieto a qualunque manufatto o volume
collocato a meno di dieci metri dalla sponda
del fiume, per cui nessuna opera realizzata
in violazione di tali norme può sanata.
Una volta che un corso d’acqua è stato
costitutivamente inserito negli elenchi, la
successiva comunicazione del Magistrato
delle Acque è meramente ricognitiva della
sussistenza di un preesistente vincolo
all’edificazione, di carattere assoluto ed
inderogabile, e comunque va autonomamente
impugnato presso il competente Tribunale
delle Acque.
In difetto, nell'ipotesi di costruzione
abusiva realizzata in contrasto con il
divieto di cui all'art. 96, lett. f), r.d.
25.07.1904 n. 523, trova infatti
applicazione l'art. 33 l. 28.02.1985 n. 47
sul condono edilizio, il quale ricomprende,
nei vincoli di inedificabilità, tutti i casi
in cui le norme vietino in modo assoluto di
edificare in determinate aree (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 26.03.2009, n.
1814; Consiglio Stato, sez. IV, 23.07.2009,
n. 4663).
Nel caso di specie l’autorimessa era stata
realizzato all'interno della c.d. fascia di
servitù idraulica, per cui il diniego di
rilascio di concessione edilizia in
sanatoria è conseguentemente legittimo
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.06.2011 n. 3781 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: È
conforme alla costituzione che i consiglieri
comunali e provinciali possano rendersi
disponibili per autenticare le
sottoscrizioni per la presentazione delle
liste elettorali.
Gli appellanti, nella pronuncia in commento,
hanno contestato che i primi giudici non
avrebbero adeguatamente apprezzato la
questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 14 della legge 21.03.1990, n.
53, respingendola con motivazione
superficiale ed approssimativa, senza
rendersi conto, invece, che tale
disposizione, nella parte in cui prevede che
anche i consiglieri comunali e provinciali
possono rendersi disponibili per autenticare
le sottoscrizioni per la presentazione delle
liste elettorali, determina un’intrinseca
discriminazione tra le liste collegate a
partiti rappresentati nei consigli comunali
e provinciali e quelle prive di tale
collegamento, violando macroscopicamente il
principio della par condicio delle liste
nella delicata fase di raccolta delle
sottoscrizioni per la loro presentazione.
Tale tesi, tuttavia, secondo i giudici del
Consiglio di Stato non merita favorevole
considerazione alla luce della esatta
ricostruzione della ratio della norma
in questione (art. 14 della legge
21.03.1990, n. 53). Infatti essa, spiegano i
giudici d’appello, nel testo derivante dalle
modifiche introdotte dall’articolo 4 della
legge 30.04.1999, n. 120, stabilendo al
primo comma che “Sono competenti ad
eseguire le autenticazioni che non siano
attribuite esclusivamente ai notai e che
siano previste dalla legge 06.02.1948, n.
29, dalla legge 08.03.1951, n. 122, dal
testo unico delle leggi recanti norme per la
elezione alla Camera dei deputati, approvato
con decreto del Presidente della Repubblica
30.03.1957, n. 361, e successive
modificazioni, dal testo unico delle leggi
per la composizione e la elezione degli
organi delle amministrazioni comunali,
approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 16.05.1960, n. 570, e successive
modificazioni, dalla legge 17.02.1968, n.
108, dal decreto-legge 03.05.1976, n. 161 ,
convertito, con modificazioni, dalla legge
14.05.1976, n. 240, dalla legge 24.01.1979,
n. 18 , e successive modificazioni, e dalla
legge 25.05.1970, n. 352, e successive
modificazioni, i notai, i giudici di pace, i
cancellieri e i collaboratori delle
cancellerie delle Corti di appello, dei
tribunali e delle preture, i segretari delle
procure della Repubblica, i presidenti delle
province, i sindaci, gli assessori comunali
e provinciali, i presidenti dei consigli
comunali e provinciali, i presidenti e i
vice presidenti dei consigli
circoscrizionali, i segretari comunali e
provinciali e i funzionari incaricati dal
sindaco e dal presidente della provincia.
Sono altresì competenti ad eseguire le
autenticazioni di cui al presente comma i
consiglieri provinciali e i consiglieri
comunali che comunichino la propria
disponibilità, rispettivamente, al
presidente della provincia e al sindaco”,
ha inteso agevolare lo svolgimento del
procedimento elettorale, ampliando
notevolmente il novero dei soggetti
abilitati all’autenticazione delle firme dei
sottoscrittori di liste (C.d.S., sez.
18.09.2008, n. 4451).
E’ del tutto ragionevole ritenere infatti
che l’aver consentito anche ai consiglieri
provinciali e quelli comunali di poter,
comunicando la propria disponibilità,
rispettivamente, al presidente della
provincia ed al sindaco, eseguire le
autenticazioni delle firme dei presentatori
di lista, lungi dal costituire una misura di
favore per le liste che sono collegate a
partiti già presenti nei consigli
provinciali e comunali e conseguentemente
discriminatoria per le liste che non possono
contare su tale collegamento, ha l’obiettivo
di realizzare una maggiore disponibilità
allo svolgimento del compito di
autenticazione per quelle altre categorie di
soggetti, già normalmente investiti di tale
funzione, quali i notai, i giudici di pace,
i cancellieri e i collaboratori delle
cancellerie delle Corti di appello, dei
tribunali e delle preture, i segretari delle
procure della Repubblica, i presidente delle
province, i sindaci, gli assessori comunali
e provinciali, i presidenti dei consigli
comunali e provinciali, i presidenti e i
vice presidenti dei consigli
circoscrizionali, i segretari comunali e
provinciali e i funzionari incaricati dal
sindaco o dal presidente della provincia:
l’articolo 14 della legge 21.03.1990, n. 53,
non può essere infatti interpretato nel
senso che i funzionari, già in precedenza
abilitati a tali compiti, abbiano perduto le
relative attribuzioni (C.d.S., sez. V,
11.04.1996, n. 402).
Pertanto, anche a voler ammettere, così come
in qualche modo prospettato dagli
appellanti, che il particolare clima della
competizione elettorale, travisandone lo
spirito e le stesse finalità, possa dar
luogo ad episodi e comportamenti
incresciosi, faziosi ed eticamente
inconcepibili proprio nel momento in cui si
esercita il più significativo diritto/dovere
che connota una società democratica (quale
potrebbe essere, per esempio, la dichiarata
ed ingiustificata indisponibilità di un
consigliere comunale o provinciale di
procedere all’autenticazione delle
sottoscrizioni dei presentatori di una lista
avversaria della propria), deve escludersi
in radice che la norma in questione possa di
per sé determinare una violazione della par
condicio dei concorrenti e tanto meno dei
fondamentali precetti costituzionali di
uguaglianza (art. 3) e di rappresentanza
politica (art. 48 e 49).
Ai fini della scrutinio di non manifesta
infondatezza dell’articolo, continuano i
giudici di Palazzo Spada, non può poi
sottacersi che il terzo comma stabilisce che
“Le sottoscrizioni e le relative
autenticazioni sono nulle se anteriori al
centottantesimo giorno precedente il termine
fissato per la presentazione delle
candidature”, individuando un arco
temporale sufficientemente congruo e
ragionevole per la sottoscrizione e
l’autenticazione delle liste, rispetto al
quale l’ampio novero dei soggetti
autorizzati alla funzione di autenticazione
rende effettiva e concreta la possibilità
della più ampia partecipazione possibile
alla competizione elettorale (escludendo,
per converso, che singoli, limitati e
deprecabili situazioni di fatto possano
effettivamente impedire l’esercizio del
ricordato fondamentale diritto di
partecipazione alle elezioni)
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 22.06.2011 n. 3774 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sulla distinzione tra appalto di
servizi e concessione di servizi pubblici.
Mentre negli appalti pubblici di servizi
l'appaltatore svolge la sua attività in
favore di una p.a., la quale utilizza le
relative prestazioni ai fini dell'eventuale
erogazione del servizio pubblico a vantaggio
della collettività, nella concessione di
pubblico servizio il concessionario
sostituisce la p.a. nell'erogazione del
servizio, ossia nello svolgimento
dell'attività diretta al soddisfacimento
dell'interesse collettivo.
L'appalto di servizi concerne dunque
prestazioni rese in favore
dell'Amministrazione, mentre la concessione
di servizi riguarda sempre un articolato
rapporto trilaterale, che interessa
l'Amministrazione, il concessionario e gli
utenti del servizio.
Ciò comporta, di regola, ulteriori
conseguenze sull'individuazione dei soggetti
tenuti a pagare il corrispettivo
dell'attività svolta; normalmente, nella
concessione di pubblici servizi il costo del
servizio grava sugli utenti, mentre
nell'appalto di servizi spetta
all'Amministrazione l'onere di compensare
l'attività svolta dal privato (TAR
Lombardia- Milano, Sez. I,
sentenza 22.06.2011 n. 1622 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La domanda di accesso agli atti
di un procedimento deve avere un oggetto
determinato o quanto meno determinabile e
non può essere generica.
Le eventuali ragioni che ostacolino
l'immediata conoscibilità degli atti di un
procedimento in itinere, oggetto della
richiesta di accesso, non possono
giustificare un provvedimento di diniego,
dovendosi in tale ipotesi adottare una
determinazione di differimento. In ogni
caso, tuttavia, la domanda di accesso deve
avere un oggetto determinato o quanto meno
determinabile e non può essere generica,
dovendo riferirsi a specifici documenti.
L'onere di specificazione dell'oggetto della
domanda di accesso assolve una duplice
funzione, quella di rendere possibile e non
eccessivamente oneroso per l'amministrazione
procedere all'esibizione e quella di
consentire un'attenta valutazione, documento
per documento, in ordine alla sussistenza di
eventuali motivi ostativi e di eventuali
soggetti controinteressati che possano
interloquire sulla domanda, eventualmente
contestandola. Al contrario, una domanda
troppo ampia e generica vanifica, in
particolare, questo secondo profilo, che
proprio la novella del 2005 del capo V della
L. n. 241 del 1990 ha reso particolarmente
importante e hanno appositamente
procedimentalizzato.
Nel caso di specie la ricorrente ha preso
integralmente visione di tutta la
documentazione, ciò nonostante, in sede di
richiesta di accesso nella forma di
estrazione di copia, ha assolto solo in
minima parte il predetto onere di
specificazione. Conseguentemente, l'accesso
deve essere consentito limitatamente al
quesito specificato e respinto per il resto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 22.06.2011 n. 1621 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È illegittima la demolizione e
ricostruzione non autorizzata di un edificio
per il quale risulti approvata una
concessione per riparazione ed adeguamento
igienico-funzionale.
Deve ribadirsi che la demolizione e
ricostruzione non autorizzata di un
edificio, per il quale risulti assentita una
concessione per riparazione ed adeguamento
igienico-funzionale, è operazione
illegittima indipendentemente dalla nozione
teorica di ristrutturazione (nella quale non
v’è dubbio rientri anche la ricostruzione
fedele).
Ciò deve affermarsi certamente in linea di
principio se si considera che viene meno
l’esistenza del manufatto (cfr. Cons. di
Stato, sez. V, n. 1610/2000) (e questo già
mina le possibilità di verifica della
fedeltà della ricostruzione), ma a maggior
ragione allorché, come nella fattispecie in
esame, l’edificio arbitrariamente demolito
era stato oggetto di una richiesta di
variante (ed emerge dal procedimento, cfr.
verb-CE 15.05.2000) che comportava
l’introduzione di elementi del tutto
estranei rispetto al tipo di concessione
emessa (e poi annullata) (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 21.06.2011 n. 3729 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Gli
atti posti in essere dalla polizia
municipale in funzione di polizia
giudiziaria sono sottratti al diritto
d’accesso.
Col ricorso in rassegna il ricorrente
chiedeva l’annullamento di un provvedimento
con il quale il Comune in causa aveva
respinto l'istanza di accesso al verbale dei
VV.UU. relativo all'accertamento eseguito
nell'abitazione del ricorrente in quanto
coperto da segreto istruttorio.
Il Tribunale amministrativo di Cagliari ha
considerato tale istanza infondata sul
presupposto che debbano trovare applicazione
anche nel caso di specie i principi
affermati dalla giurisprudenza
amministrativa in materia, secondo cui “non
ogni denuncia di reato presentata dalla
pubblica amministrazione all'autorità
giudiziaria costituisce atto coperto da
segreto istruttorio penale e come tale
sottratta all'accesso, in quanto, se la
denuncia è presentata dalla pubblica
amministrazione nell'esercizio delle proprie
istituzionali funzioni amministrative, non
si ricade nell'ambito di applicazione
dell'art. 329, c.p.p.; tuttavia se la
pubblica amministrazione che trasmette
all'autorità giudiziaria una notizia di
reato non lo fa nell'esercizio della propria
istituzionale attività amministrativa, ma
nell'esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria specificamente attribuite
dall'ordinamento, si è in presenza di atti
di indagine compiuti dalla polizia
giudiziaria, che, come tali, sono soggetti a
segreto istruttorio ai sensi dell'art. 329
c.p.p. e conseguentemente sottratti
all'accesso ai sensi dell'art. 24, l. n. 241
del 1990.” (cfr. Consiglio di Stato ,
sez. VI, 09.12.2008 , n. 6117).
È stato altresì precisato, continuano i
giudici sardi, che “ai fini
dell'esercizio dell'accesso ai documenti
amministrativi, la polizia municipale
esercita, rispetto alle opere edilizie
abusive, funzioni di polizia giudiziaria,
con la conseguenza che gli atti che
quest'ultima compie e acquisisce
nell'esercizio di tali funzioni sono
assoggettati al regime stabilito dal codice
di procedura penale e al segreto istruttorio
di cui all'art. 329, c.p.p.” (cfr. TAR
Sicilia Palermo, sez. II, 06.06.2008 , n.
757; TAR Emilia Romagna Bologna, sez. II,
05.12.2005, n. 1676).
Poiché nella situazione in commento il
verbale di accertamento in questione è stato
redatto ai sensi dell’articolo 354 c.p.p.,
trattandosi pertanto di atto posto in essere
nell’esercizio di funzioni di polizia
giudiziaria, lo stesso risulta assoggettato
al segreto istruttorio di cui all’articolo
329 c.p.p. e, come tale, sottratto
all’accesso in via amministrativa, dovendosi
in tal caso esercitare l’accesso
esclusivamente nelle forme consentite dalla
partecipazione al procedimento penale cui
l’atto medesimo inerisce e cioè previo nulla
osta dell’autorità giudiziaria
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 20.06.2011 n. 638 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
No, la mancia no!
Chi fa affiggere un cartello che ricorda
all’utenza il divieto di dare mance compie
illecito disciplinare?
Scorrendo alcune recenti
decisioni in materia di lavoro ho “scoperto”
che dare mance è una brutta e cattiva
abitudine; un fenomeno negativo da
scoraggiare in maniera decisa e netta.
E’ quanto ha confermato l’ordinanza
17.06.2011 n. 13425 della VI Sez.
civile della Corte di Cassazione che ha
riconosciuto la riprovevole ed annosa
abitudine di dare mance ai dipendenti.
La vicenda: una gentile titolare di un
ufficio postale in provincia di Rieti ha ben
pensato di adoperarsi presso il proprio
personale dipendente per scoraggiare
–appunto– la prassi delle mance da parte
degli utenti, arrivando fino al punto di
affiggere in ufficio un bel cartello con la
dicitura “si prega cortesemente la gentile
clientela di non lasciare compensi (mance)
ai dipendenti Poste Italiane spa”.
Indubbiamente, la dipendente ha ritenuto di
porre in essere un comportamento del tutto
consono alle sue funzioni e, soprattutto, in
perfetta aderenza allo stile aziendale.
Dello stesso avviso, però, non sono state le
alte sfere di Poste Italiane che, per tutta
risposta, hanno sospeso la signora dal
servizio e dalla retribuzione per due
giorni, rimproverandole l’affissione del
cartello senza permesso. In realtà, la
contestazione riguardava anche un carico di
posta arretrata in giacenza, ma la
principale accusa è stata proprio quella
dell’affissione del cartello con la sacra
dicitura.
La povera signora, rivoltasi al proprio
legale di fiducia, proponeva ricorso al
Tribunale di Roma che confermava la sanzione
di Poste Italiane, mentre la Corte di
Appello ne ha dichiarato la illegittimità.
La parola fine alla vicenda, come si diceva,
è stata messa dalla Cassazione che ha invece
riconosciuto alla signora serietà ed
attaccamento all’azienda.
L’affissione del cartello, al di là della
sua idoneità o meno “ad ingenerare
disagio tra gli utenti“, ha dimostrato
al contrario “un senso di serietà o quanto
meno di solerte intervento da parte del
titolare dell’Ufficio Postale“!
Sfuggendo alla facile ironia sulla vicenda,
si deve sottolineare e confermare il dato
giuridico che emerge: “la condotta della
titolare dell’ufficio non può essere certo
censurata né per mancanza del dovere di
diligenza (art. 2104 cod. civ.), né del
dovere di fedeltà (art. 2105 cod. civ.), né
per violazione delle norme contrattuali,
dovendo al contrario considerarla idonea a
salvaguardare il buon nome e l’immagine
dell’azienda“.
Al riguardo: “la lettura degli artt. 2104
e 1176 del codice civile impongono al
lavoratore di eseguire la prestazione, anche
in assenza di specifiche direttive del
datore di lavoro –come in questo caso–
secondo la particolare qualità dell’attività
dovuta, risultante dalle mansioni e dai
profili professionali che la definiscono, e
di osservare inoltre tutti quei
comportamenti accessori e quelle cautele che
si rendano necessari ad assicurare una
gestione professionalmente corretta”.
Ciò che la nostra titolare dell’ufficio
postale, con serietà e solerzia, ha
indubbiamente fatto! (tratto da e link a
www.leggioggi.it). |
APPALTI:
Sui requisiti che devono
sussistere affinché un consorzio possa
essere qualificato "stabile" ai sensi
dell'art. 36, c. 1, d.lgs. n. 163/2006.
Un consorzio per essere ritenuto "stabile"
ai sensi dell'art. 36, c. 1, d.lgs. n.
163/2006, deve: a) possedere almeno tre
consorziati; b) consorziare imprese che
abbiano deciso (attraverso una
determinazione assunta dai propri organi
deliberativi) di operare congiuntamente nel
settore dei contratti pubblici per un
periodo di tempo non inferiore a cinque
anni; c) avere una autonoma struttura
imprenditoriale tale per cui esso può essere
in grado di eseguire direttamente i
contratti pubblici allo stesso aggiudicati.
In breve, il consorzio stabile è un'impresa
costituita da altre imprese il cui fine è
quello di operare nel settore dei contratti
pubblici in modo strutturale e duraturo e
non congiunturale e transitorio. L'elemento
centrale che connota la stabilità del
consorzio va quindi ravvisato in quello
teleologico, ossia nello "scopo di
operare in modo congiunto nel settore dei
contratti pubblici per almeno cinque anni",
conseguendo l'affidamento in proprio di
contratti pubblici e dandovi esecuzione in
maniera altrettanto diretta ovvero per il
tramite dell'attività dei consorziati (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.06.2011 n. 1104 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini dell'installazione di un radar costiero
di profondità della Guardia di Finanza, in
ambito paesaggisticamente vincolato, è
illegittimo il parere, obbligatorio e
vincolante, rilasciato dalla Soprintendenza
competente, condizionante il successivo
nulla osta della autorità comunale ai sensi
dello stesso art. 146, comma 8, il quale non
è stato reso a tutela dell’interesse
paesaggistico ma delle esigenze della difesa
nazionale (“…esprime, per quanto di
competenza, parere favorevole in via del
tutto eccezionale tenuto conto degli
interessi della difesa nazionale…”) cioè di
un interesse che non poteva, per assenza
delle necessarie cognizioni, e non doveva
essere valutato da quell’Autorità.
Il parere, obbligatorio e vincolante,
rilasciato dalla Soprintendenza competente,
condizionante il successivo nulla osta della
autorità comunale ai sensi dello stesso art.
146, comma 8, non è stato reso a tutela
dell’interesse paesaggistico ma delle
esigenze della difesa nazionale (“…esprime,
per quanto di competenza, parere favorevole
in via del tutto eccezionale tenuto conto
degli interessi della difesa nazionale…”)
cioè di un interesse che non poteva, per
assenza delle necessarie cognizioni, e non
doveva essere valutato da quell’Autorità.
Ciò invalida il parere reso dalla
Soprintendenza, il successivo nulla osta
comunale e gli atti conseguenti
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
ordinanza 17.06.2011 n. 454 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
No alle telecamere installate dal
condomino per la sua sicurezza.
Il condomino non può installare delle
telecamere di controllo riprendendo gli
ambienti condominiali comuni. Anche se
l’installazione è a tutela della propria
sicurezza ed è stata fatta a seguito di
diversi furti ed effrazioni. L’impianto va
dunque rimosso immediatamente a spese del
condomino che lo ha installato e sotto la
sua responsabilità.
Lo ha stabilito Tribunale di Varese, Sez. I
civile, con l'ordinanza
16.06.2011 n. 1273.
Secondo il giudice, infatti, “nel
silenzio della Legge”, il condomino non
ha “alcun potere di installare, per sua
sola decisione, delle telecamere in ambito
condominiale, idonee a riprendere spazi
comuni o addirittura spazi esclusivi degli
altri condomini”. Non solo ma secondo il
tribunale “nemmeno il Condominio ha la
potestà normativa per farlo, eccezion fatta
per il caso in cui la decisione sia
deliberata all’unanimità dai condomini,
perfezionandosi in questo caso un comune
consenso idoneo a fondare effetti tipici di
un negozio dispositivo dei diritti coinvolti”.
Ci troviamo di fronte ad “un vero e
proprio vacuum legis in questa materia, al
cospetto di diritti fondamentali presidiati
dalla Costituzione, come quello alla
riservatezza e alla vita privata (difeso
dalla Convenzione Europea dei diritti
dell’Uomo all’art. 8)”. Infatti, “il
condominio è un luogo di incontri e di vite
in cui i singoli condomini non possono
giammai sopportare, senza il loro consenso,
una ingerenza nella loro riservatezza seppur
per il fine di sicurezza di chi
video-riprende. Né l’assemblea può
sottoporre un condomino ad una rinuncia a
spazi di riservatezza solo perché abitante
del comune immobile, non avendo il
condominio alcuna potestà limitativa dei
diritti inviolabili della persona”.
In assenza di una norma specifica, sono
troppi e rilevanti i problemi posti dalle
videoriprese (motivo per cui il Garante
sollecitava l’intervento del Legislatore): “1)
che utilizzo può essere fatto delle
videoriprese che vengono acquisite dal
singolo proprietario? 2) che garanzie
spettano a chi viene ripreso anche
occasionalmente dalle telecamere? 3) che
limiti incontra la videoripresa rispetto ai
soggetti più vulnerabili come minori e
incapaci?”
Per tutte queste ragioni, secondo il
tribunale, “Il periculum in mora […] è in
re ipsa, trattandosi di diritti fondamentali
e della personalità che ad ogni lesione si
consumano senza possibilità di ripristino
dello status quo ante”. “Peraltro, nel caso
di specie, -conclude il giudice- l’utilizzo
delle telecamere ha causato un impoverimento
delle attività quotidiane della parte
ricorrente e anche stati soggettivi che
militano verso la patologia. Una situazione
che richiede urgente e immediata tutela”
(commento tratto da e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RUMORE - INQUINAMENTO ACUSTICO -
Emissioni sonore - Emergenze sanitarie e di
igiene pubblica - Responsabilità del sindaco
- Ordinanze contingibili ed urgenti - Art.
50/2 D.Lg.vo n. 267/2000.
Al Sindaco, nella sua posizione di garante
dotato di poteri-doveri giuridici in materia
di igiene e sanità pubbliche, compete
l’obbligo di porre rimedi al fenomeno di
inquinamento acustico o nel contrastarlo
(Corte di cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 15.06.2011 n. 24022 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso ai documenti
amministrativi - Interesse ad agire -
Omissione di atti di ufficio - Art. 25 L. n.
241/1990 - Art. 328 cp..
In tema di omissione di atti di ufficio, con
particolare riferimento alla richiesta di
accesso ai documenti amministrativi ai sensi
dell'art. 25 legge 07/08/1990 n.241, dalla
lettura del secondo comma dell'art. 328 cp.,
si ricava che la facoltà di interpello del
privato, cui corrisponde un dovere di
rispondere o di attivarsi servizio,
interesse da parte del pubblico ufficiale o
dell'incaricato di pubblico è riconosciuta
esclusivamente al soggetto, che abbia
interesse al compimento dell'atto.
Tale interesse non si identifica con quello
generale al buon andamento della pubblica
amministrazione, che riguarda tutti i
consociati, ma in quello che fa capo ad una
situazione soggettiva, sulla quale il
provvedimento è destinato direttamente ad
incidere (Cass. Sez. VI 4/2-29/05/2008 n.
21735) (Corte di cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 15.06.2011 n. 24022 -
link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rumore. Inquinamento acustico e
responsabilità del sindaco.
Vicenda concernente l'addebito all’imputato
nella sua qualità di Sindaco di avere
rifiutato sistematicamente il compimento di
atti di ufficio, riguardanti il fenomeno
dell’inquinamento acustico, e che, per
ragioni di igiene e sanità, andavano posti
in essere senza ritardo a tutela della
salute pubblica, nonché di avere nella
predetta qualità omesso di rispondere a
richieste di accesso agli atti
amministrativi, riguardanti gli orari di
apertura e chiusura degli esercizi pubblici
e le modalità di emissioni sonore nel
periodo estivo, nonché agli atti della
polizia municipale, relativi ai controlli
effettuati nel predetto ambito, lasciando
decorrere infruttuosamente il termine di
legge (Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 15.06.2011 n. 24022 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Gestione e
responsabilità.
In tema di gestione dei rifiuti le
responsabilità per la sua corretta
effettuazione, in relazione alle
disposizioni nazionali e comunitarie gravano
su tutti i soggetti coinvolti nella
produzione, distribuzione, utilizzo e
consumo dei beni dai quali originano i
rifiuti stessi, e le stesse si configurano
anche a livello di semplice istigazione,
determinazione, rafforzamento o
facilitazione nella realizzazione degli
illeciti.
Il concetto di “coinvolgimento”
trovava specificazione nelle disposizioni
poste dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 10 ed
attualmente D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 188
(fatte salve le ipotesi di concorso di
persone nel reato), ma anche la mera
osservanza delle condizioni di cui all' art.
10 non vale ad escludere l responsabilità
dei detentori e/o produttori di rifiuti
allorquando costoro si siano resi
responsabili di comportamenti materiali o
psicologici tali da determinare una
compartecipazione, anche a livello di
semplice facilitazione, negli illeciti
commessi dai soggetti dediti alla gestione
dei rifiuti.
I principi sopra richiamati risultano
sostanzialmente ribaditi anche allo luce del
D.L.vo 03.12.2010, n. 205 (art. 216) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2011 n. 23971 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
proprietario di una unità immobiliare sita
nel fondo confinante con quello interessato
dall’intervento, dolendosi tra l’altro del
mancato rispetto delle distanze minime tra
edifici imposte dal D.M. 1444/1968, è
legittimato alla proposizione del ricorso
ricorrendo il requisito della vicinitas,
ovverosia una situazione di prossimità
all'edificio costruendo e stabile
collegamento con la zona incisa, tale da
differenziare la posizione giuridica dei
ricorrenti rispetto alla generalità dei
consociarti intesa come "quisque de populo".
Quanto all’eccezione di carenza di interesse
al ricorso, parte ricorrente ha dedotto di
essere proprietaria di una unità immobiliare
sita nel fondo confinante con quello
interessato dall’intervento, dolendosi tra
l’altro del mancato rispetto delle distanze
minime tra edifici imposte dal D.M.
1444/1968.
Evidente risulta, quindi, che parte
ricorrente sia legittimata alla proposizione
del ricorso ricorrendo il requisito della
vicinitas, ovverosia una situazione di
prossimità all'edificio costruendo e stabile
collegamento con la zona incisa, tale da
differenziare la posizione giuridica dei
ricorrenti rispetto alla generalità dei
consociarti intesa come "quisque de
populo" (Cons. Stato, Sez. IV,
12.09.2007, n. 4821; Cons. Stato, Sez. V,
13.07.2000 n. 3904).
Sussiste, altresì, l’interesse a ricorrere,
in quanto quest’ultimo è ravvisabile ogni
qual volta sia configurabile un’utilità
concreta, anche solo di carattere morale,
che il ricorrente si ripromette di ottenere
dall’accoglimento del ricorso, tenuto conto
della situazione giuridica dello stato in
cui versa.
Ora già la situazione di vicinitas
all'edificio costruendo è tale evidenziare
una diretta e concreta lesione degli
interessi del ricorrente, derivante dal solo
fatto della erigenda costruzione, che si
traduce in una evidente utilità nel caso di
accoglimento del ricorso
Inoltre, nel caso di specie, avendo parte
ricorrente lamentato tra l’altro il mancato
rispetto delle distanze minime tra edifici,
è ben evidente l’interesse al ricorso
risultando palesi i pregiudizi che
l’annullamento degli atti gravati andrebbe
ad ovviare
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.06.2011 n. 3184 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della decorrenza del temine per
l’impugnativa di un permesso di costruire
rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza
dell’atto può dirsi conseguita quando la
costruzione realizzata riveli in modo certo
ed univo le caratteristiche essenziali
dell’opera e l’eventuale non conformità
della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica, sicché, in mancanza di altri in
equivoci elementi probatori, il termine
decorre non con il mero inizio dei lavori
bensì con il loro completamento, a meno che
non si deduca l’inedificabilità assoluta
dell’area o analoghe censure, nel qual caso
risulterebbe sufficiente la conoscenza
dell’iniziativa in corso.
La mera esposizione del cartello di cantiere
recante gli estremi del titolo edilizio non
è sufficiente a far decorrere il termine di
impugnazione.
Ai fini della
decorrenza del temine a quo per
l’impugnativa di un permesso di costruire
rilasciato a terzi, l’effettiva conoscenza
dell’atto può dirsi conseguita quando la
costruzione realizzata riveli in modo certo
ed univo le caratteristiche essenziali
dell’opera e l’eventuale non conformità
della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica, sicché, in mancanza di altri in
equivoci elementi probatori, il termine
decorre non con il mero inizio dei lavori
bensì con il loro completamento, a meno che
non si deduca l’inedificabilità assoluta
dell’area o analoghe censure, nel qual caso
risulterebbe sufficiente la conoscenza
dell’iniziativa in corso (Cons. Stato, Sez.
IV, 08.07.2002, n. 3805; Cons. Stato, Sez.
VI, 09.02.2009, n. 717)
Inoltre, la mera esposizione del cartello di
cantiere recante gli estremi del titolo
edilizio non è sufficiente a far decorrere
il termine di impugnazione (TAR Liguria
Genova, sez. I, 25.01.2010, n. 192; TAR
Campania Salerno, sez. II, 30.07.2009 , n.
4225; TAR Liguria Genova, sez. I,
30.12.2008, n. 2203; TAR Liguria Genova,
sez. I, 30.12.2008, n. 2203)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.06.2011 n. 3184 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sussiste
il carattere di assolutezza e di
inderogabilità delle prescrizioni dettate
con il D.M. 02.04.1968 n. 1444, in tema di
distanze minime tra i fabbricati. Le stesse
hanno carattere pubblicistico e inderogabile
e vincolano anche i comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici; in particolare, quella che
prescrive la distanza minima assoluta di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti ha carattere di
assolutezza ed inderogabilità e risulta
dalla citata fonte normativa statuale,
sovraordinata rispetto agli organi
urbanistici locali.
La regola della distanza di 10 metri tra
pareti finestrate e pareti di edifici
antistanti prevista dalla suddetta norma
vincola anche i Comuni in sede di formazione
e di revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori.
La suindicata inderogabilità da parte degli
strumenti urbanistici e dei regolamenti
edilizi comunali della normativa del D.M. n.
1444/1968, comporta che l’eventuale
introduzione, in via tacita o espressa, da
parte della normativa edilizia comunale di
deroghe alla normativa nazionale sulle
distanze minima, risulterebbe del tutto
illegittima e, come tale, la norma comunale
andrebbe disapplicata.
In punto di diritto il Collegio evidenzia il
carattere di assolutezza e di inderogabilità
delle prescrizioni dettate con il D.M.
02.04.1968 n. 1444, in tema di distanze
minime tra i fabbricati.
Le stesse hanno carattere pubblicistico e
inderogabile e vincolano anche i comuni in
sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici; in particolare,
quella che prescrive la distanza minima
assoluta di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti ha
carattere di assolutezza ed inderogabilità e
risulta dalla citata fonte normativa
statuale, sovraordinata rispetto agli organi
urbanistici locali (TAR Toscana Firenze,
sez. III, 22.06.2004, n. 2289), rendendo
illegittima ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo,
essendo consentita alla p.a. solo la
fissazione di distanze superiori (TAR
Abruzzo Pescara, 09.01.2006, n. 11).
Tale inderogabilità è stata reiteratamente
affermata in giurisprudenza anche in
recentissime decisioni che hanno
puntualizzato come il D.M. 02.04.1968 n.
1444 -emanato in virtù dell'art.
41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto
a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n.
765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di
fonte primaria della norma delegante la
forza di legge, suscettibile di integrare
con efficacia precettiva il regime delle
distanze dalle costruzioni di cui all'art.
872 c.c.; la regola della distanza di 10
metri tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti prevista dalla suddetta
norma vincola anche i Comuni in sede di
formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni
previsione regolamentare in contrasto con
l'anzidetto limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori (TAR Lombardia - Milano,
Sez. IV - sentenza 19.05.2011, n. 1282)
L’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444
sostituisce eventuali disposizioni contrarie
contenute nelle norme tecniche di attuazione
di un piano regolatore; la prescritta
distanza di dieci metri tra pareti
finestrate di edifici antistanti, infatti,
va rispettata in tutti i casi, trattandosi
di norma volta ad impedire la formazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico-sanitario e della sicurezza, per
cui il suo disposto non è eludibile in
funzione della natura giuridica
dell'intercapedine stessa (Consiglio Stato,
Sez. IV - sentenza 09.05.2011, n. 2749).
A questo punto viene in rilievo la questione
dell’applicabilità della normativa sulle
distanze minime dell’indicato art. 9 del
D.M. 02.04.1968 n. 1444 all’intervento in
esame.
L’articolo in questione prevede la necessità
del rispetto della distanza minima assoluta
di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di
edifici antistanti solo per i “nuovi
edifici”.
Tale necessità non ricorre invece per gli
interventi di operazioni di risanamento
conservativo o ristrutturazione, ove è
sufficiente che le distanze tra gli edifici
non siano inferiori a quelle intercorrenti
tra i volumi edificati preesistenti.
Il
Collegio osserva che la suindicata
inderogabilità da parte degli strumenti
urbanistici e dei regolamenti edilizi
comunali della normativa del D.M. n.
1444/1968, comporta che l’eventuale
introduzione, in via tacita o espressa, da
parte della normativa edilizia comunale di
deroghe alla normativa nazionale sulle
distanze minima, risulterebbe del tutto
illegittima e, come tale, la norma comunale
andrebbe disapplicata
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.06.2011 n. 3184 -
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EDILIZIA PRIVATA: Interventi
di ripristino di edifici diruti non possano
essere classificati come restauro e
risanamento conservativo. La ricostruzione
su ruderi o su un edificio già da tempo
demolito, anche se soltanto in parte,
costituisce una nuova opera e, come tale, è
soggetta alle comuni regole edilizie vigenti
al momento della riedificazione.
Con specifico riferimento alle norme sulle
distanze si è ritenuto costituiscono
ristrutturazioni edilizie, con conseguente
esonero dall'osservanza delle prescrizioni
sulle distanze per le nuove costruzioni, gli
interventi su fabbricati ancora esistenti e,
dunque, su entità dotate quanto meno di
murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da
assolvere alle loro essenziali funzioni di
delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa.
Ai fini della qualificazione di un
intervento ricostruttivo come
ristrutturazione, da un lato, non è
sufficiente che un anteriore fabbricato sia
fisicamente individuabile in tutta la sua
perimetrazione, essendo indispensabile a
soddisfare il requisito della sua esistenza
che non sia ridotto a spezzoni isolati,
rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che
la ricostruzione di esso, oltre ad essere
effettuata in piena conformità di sagoma, di
volume e di superficie, venga eseguita in un
tempo ragionevolmente prossimo a quello
della avvenuta demolizione per cause
naturali od opera dell'uomo.
Si evidenzia
che la giurisprudenza, anche di questa
Sezione, ha precisato la nozione di
interventi di ripristino di edifici diruti
riportandola ad organismi edilizi dotati di
sole mura perimetrali e privi di copertura e
non totalmente da ricostruire (TAR Campania,
Napoli, sezione IV, 14.12.2006 n. 10553) e,
correttamente, ha negato che essi possano
essere classificati come restauro e
risanamento conservativo (TAR Campania,
Napoli, sezione IV, 23.12.2010, n. 28002;
TAR Campania Napoli, sez. VIII, 04.03.2010,
n. 1286; TAR Campania, Napoli, sez. VI,
09.11.2009 n. 7049; TAR Lazio, Latina,
15.07.2009, n. 700).
Ancora più evidente è, nel caso di specie,
la non sussumibilità delle concrete opere
assentite sotto tale ultima categoria,
consistendo l’intervento in questione nella
ricostruzione di un edificio interamente
demolito intervenuta a notevole distanza di
tempo (oltre quaranta anni ) dalla sua
demolizione.
Non può quindi tenersi conto della
qualificazione effettuata dalle N.T.A., che
vanno sul punto disapplicate, e la
riconduzione dell’intervento alle categorie
edilizie note va effettuato ai seni del
citato art. 3 del D.P.R. n. 380/2001, ove la
scelta tra le possibili opzioni sono nuova
costruzione o ristrutturazione edilizia.
Ai sensi del comma 1, lett. d), dell’art. 3
del predetto D.P.R. n. 380/2001, rientrano,
difatti, tra gli interventi di
ristrutturazione edilizia anche quelli
consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria e
sagoma di quello preesistente, fatte salve
le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica.
Nei casi di demolizione e ricostruzione,
pertanto, la sussumibilità dell’intervento
nell’una o nell’atra categoria dipende,
pertanto, dalla circostanza se la
ricostruzione sia avvenuta con la stessa
volumetria e sagoma di quello preesistente
ed, in tal senso, la giurisprudenza ha
evidenziato la necessità, affinché si
rimanga nell’ambito della categoria della
ristrutturazione edilizia, della necessità
della fedeltà della ricostruzione del
manufatto, ovverosia che sussista piena
conformità di sagoma, di volume e di
superficie tra il vecchio ed il nuovo
manufatto.
La giurisprudenza ha, inoltre, evidenziato
l’importanza del fattore temporale nel senso
che il concetto di ristrutturazione edilizia
comprende anche la demolizione seguita dalla
fedele ricostruzione del manufatto, purché
tale ricostruzione e venga effettuata in un
tempo ragionevolmente prossimo a quello
della demolizione (TAR Campania Salerno,
sez. II, 21.10.2010, n. 11911).
Ed ancora viene posto il rilievo, accanto al
fattore temporale, quello collegato della
preesistenza dell’immobile assumendo che una
ristrutturazione edilizia postula
necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare -ossia di un
organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e
copertura. Di conseguenza, la ricostruzione
su ruderi o su un edificio già da tempo
demolito, anche se soltanto in parte,
costituisce una nuova opera e, come tale, è
soggetta alle comuni regole edilizie vigenti
al momento della riedificazione (Consiglio
Stato , sez. IV, 13.10.2010 , n. 7476; TAR
Umbria Perugia, sez. I, 05.02.2010, n. 54).
Con specifico riferimento alle norme sulle
distanze si è ritenuto costituiscono
ristrutturazioni edilizie, con conseguente
esonero dall'osservanza delle prescrizioni
sulle distanze per le nuove costruzioni, gli
interventi su fabbricati ancora esistenti e,
dunque, su entità dotate quanto meno di
murature perimetrali, di strutture
orizzontali e di copertura, tali da
assolvere alle loro essenziali funzioni di
delimitazione, sostegno e protezione
dell'entità stessa.
Ne consegue che, pur non esulando dal
concetto normativo di ristrutturazione
edilizia la demolizione del fabbricato ove
sia seguita dalla sua fedele ricostruzione,
ai fini della qualificazione di un
intervento ricostruttivo come
ristrutturazione, da un lato, non è
sufficiente che un anteriore fabbricato sia
fisicamente individuabile in tutta la sua
perimetrazione, essendo indispensabile a
soddisfare il requisito della sua esistenza
che non sia ridotto a spezzoni isolati,
rovine, ruderi e macerie, e, dall'altro, che
la ricostruzione di esso, oltre ad essere
effettuata in piena conformità di sagoma, di
volume e di superficie, venga eseguita in un
tempo ragionevolmente prossimo a quello
della avvenuta demolizione per cause
naturali od opera dell'uomo (Cassazione
civile, sez. II, 27.10.2009 , n. 22688).
Nel caso di specie la ricostruzione è
avvenuta rispetto ad un edificio
integralmente demolito più di 40 anni prima.
L’intervento deve considerarsi quindi nuova
costruzione ed, in quanto, tale assoggettato
alla normativa sulle distanze minime
prevista dall’art. 9 del D.M. 1444/1968
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.06.2011 n. 3184 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso edilizio ed il
protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione
preposta alla vigilanza, comporta la nascita
di una posizione di affidamento nel privato
cittadino, in relazione alla quale
l'esercizio del potere repressivo è
subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche
all'entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente
diverso da quello al mero ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse
privato.
Per pacifico principio giurisprudenziale
(cfr., ex multis, C.d.S., Sez. V,
04.03.2008, n. 883), condiviso anche da
questa Sezione (cfr. 09.04.2010, n. 1890),
il lungo lasso di tempo trascorso dalla
commissione dell'abuso edilizio ed il
protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione
preposta alla vigilanza, comporta la nascita
di una posizione di affidamento nel privato
cittadino, in relazione alla quale
l'esercizio del potere repressivo è
subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche
all'entità e alla tipologia dell'abuso,
indichi il pubblico interesse, evidentemente
diverso da quello al mero ripristino della
legalità, idoneo a giustificare il
sacrificio del contrapposto interesse
privato.
Tale principio è tanto più vero e valido
nella fattispecie in esame, in cui gli abusi
sono notevolmente risalenti nel tempo (in
quanto commessi da oltre 50 anni), sono
stati realizzati direttamente dal
costruttore del fabbricato e, per quanto
riguarda l’immobile di proprietà dei
ricorrenti, sono di lieve entità
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 15.06.2011 n. 3142 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di impianti fotovoltaici, in
assenza di specifiche previsioni normative,
non può ritenersi soggetta a prescrizioni
urbanistiche-edilizie dettate con
riferimento ad altre tipologie di opere,
quali le costruzioni. L’applicazione
analogica non può basarsi sull’assunto di
una supposta equivalenza in termini edilizi
fra il concetto di costruzione e quello di
impianto tecnologico, perché un impianto
fotovoltaico ha caratteristiche del tutto
diverse da quelle delle costruzioni in senso
proprio.
Ritiene il Collegio che la realizzazione di
impianti fotovoltaici, in assenza di
specifiche previsioni normative, non può
ritenersi soggetta a prescrizioni
urbanistiche-edilizie dettate con
riferimento ad altre tipologie di opere,
quali le costruzioni.
L’applicazione analogica non può basarsi
sull’assunto di una supposta equivalenza in
termini edilizi fra il concetto di
costruzione e quello di impianto
tecnologico, perché un impianto fotovoltaico
ha caratteristiche del tutto diverse da
quelle delle costruzioni in senso proprio.
Infatti, gli impianti tecnologici
normalmente non sviluppano volumetria o
cubatura, se non limitatamente ai basamenti
o alle cabine accessorie, non determinano
ingombro visivo paragonabile a quello delle
costruzioni, non hanno l’impatto sul
territorio degli edifici in cemento armato o
muratura e non hanno lo stesso carico
urbanistico.
Pertanto, nel caso in esame, ai fini
dell’individuazione della disciplina sulle
distanze applicabile è necessario
distinguere tra l’impianto, individuato nei
pannelli fotovoltaici, e le cabine
accessorie.
In particolare, una volta stabilito che i
pannelli fotovoltaici non possono essere
paragonati agli edifici anche perché non
esprimono volumetria, deve escludersi
l’applicabilità a questi della disciplina
contenuta nell’art. 83 delle NTA del PRG del
Comune, il quale prende in considerazione le
distanze che devono essere rispettate nella
costruzione degli edifici, ma deve ritenersi
applicabile l’art. 119 delle NTA che,
nell’individuazione delle distanze minime da
osservarsi, richiama il d.m. 01.04.1968 n.
1404.
Questo ultimo, a sua volta, deve essere
interpretato alla luce dell’art. 26 del
regolamento di esecuzione e attuazione del
codice della strada, che disciplina la
distanza dal nastro stradale distinguendo le
costruzioni che sviluppano volumetria e i
muri di cinta.
La normativa prevista per i muri di cinta,
per la quale la distanza dal nastro stradale
deve essere pari a metri 3, può essere
applicata analogicamente anche agli impianti
fotovoltaici, proprio per la loro
caratteristica di non sviluppare volumetria.
Pertanto, l’intervento in questione, con
particolare riferimento ai pannelli
fotovoltaici, deve ritenersi rispettoso
delle distanze, proprio perché, come risulta
dalla perizia del procedimento penale, la
distanza dell’impianto dalla strada comunale
è pari a metri 5
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 15.06.2011 n. 1059 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'esonero
dal rispetto delle distanze legali previsto
dall'articolo 879, comma 2, c.c. per le
costruzioni a confine con piazze e vie
pubbliche, va riferito anche alle
costruzioni a confine delle strade di
proprietà privata gravate da servitù
pubbliche di passaggio, giacché il carattere
pubblico della strada, rilevante ai fini
dell'applicazione della norma citata,
attiene più che alla proprietà del bene,
piuttosto all'uso concreto di esso da parte
della collettività.
La
giurisprudenza della Cassazione più recente
ha ritenuto che “L'esonero dal rispetto
delle distanze legali previsto dall'articolo
879, comma 2, c.c. per le costruzioni a
confine con piazze e vie pubbliche, va
riferito anche alle costruzioni a confine
delle strade di proprietà privata gravate da
servitù pubbliche di passaggio, giacché il
carattere pubblico della strada, rilevante
ai fini dell'applicazione della norma
citata, attiene più che alla proprietà del
bene, piuttosto all'uso concreto di esso da
parte della collettività” (Cass. civ.,
sez. II, 05.03.2008, n. 6006).
La strada in questione, come risulta dalla
trascrizione per vendita, è una strada
interpoderale a servizio dei lotti e come
tale deve essere ritenersi soggetta alle
normative sulle distanze legali,ribadite con
riferimento alle strade interpoderali dalle
stesse N.T.A. (art. 119)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 15.06.2011 n. 1059 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
edificazione su ruderi ha sempre natura di
nuova costruzione in quanto un rudere in
stato di rovina non rientra nel novero delle
costruzioni esistenti che possono essere
demolite e ricostruite.
Nella specie è incontestato che la domanda
di condono edilizio, prodotta
dall’interessata in data 14.03.1995, n.
25667, aveva ad oggetto un immobile
completamente distrutto a causa di un
incendio che, come tale, aveva perduto le
connotazioni essenziali dell’edificio: ciò
configurava l’intervento più che di tipo
conservativo di nuova costruzione.
In effetti, secondo il pacifico orientamento
giurisprudenziale, la edificazione su ruderi
ha sempre natura di nuova costruzione in
quanto “un rudere in stato di rovina non
rientra nel novero delle costruzioni
esistenti che possono essere demolite e
ricostruite” (cfr. Cons. Stato sez. V
10.02.2004, n. 475).
Analogamente: l'area su cui sorgono i ruderi
è da considerare alla stregua di area non
edificata (Cass. Sez. III sent. n.
20776/2006)
(TAR Lazio-Latina,
sentenza 14.06.2011 n. 515 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
condivisibile l’orientamento
giurisprudenziale che ammette la generale
sanabilità degli abusi edilizi laddove gli
interventi realizzati siano conformi alla
legge vigente al momento della disamina
dell’istanza. Invero, pare irragionevole
negare una sanatoria di interventi che
sarebbero legittimamente concedibili al
momento della nuova istanza, perdendo
oltretutto automaticamente efficacia, a
seguito della presentazione di questa, il
pregresso ordine di demolizione e
ripristino, secondo l'orientamento del
Consiglio di Stato in tema di rilevanza su
tale ordine dell'istanza di sanatoria.
Il Collegio condivide la tesi di parte
ricorrente circa l’applicabilità in linea
astratta della L.R. n. 24/09 sul Piano Casa
in via di sanatoria, facendo leva
sull’interpretazione sistematica della
normativa de qua, avuto riguardo alla
necessità del rispetto dei principi di
ragionevolezza e di economicità dell’azione
amministrativa, sottesi a quell’orientamento
giurisprudenziale che ammette la generale
sanabilità degli abusi edilizi laddove gli
interventi realizzati siano conformi alla
legge vigente al momento della disamina
dell’istanza (ex multis da ultimo
Consiglio di Stato, sez. VI, 07.05.2009 , n.
2835).
Alla stregua di tale orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio,
pare irragionevole negare una sanatoria di
interventi che sarebbero legittimamente
concedibili al momento della nuova istanza,
perdendo oltretutto automaticamente
efficacia, a seguito della presentazione di
questa, il pregresso ordine di demolizione e
ripristino, secondo l'orientamento del
Consiglio di Stato in tema di rilevanza su
tale ordine dell'istanza di sanatoria
(Consiglio di Stato sez. VI, 12.11.2008, n.
5646, ex multis).
Il principio normativo della "doppia
conformità", secondo tale orientamento
giurisprudenziale infatti, è riferibile
all'ipotesi ragionevolmente avuta di mira
dal legislatore, desumibile cioè dal senso
obiettivo delle parole utilizzate dall'art.
13 della legge n. 47 del 1985, ovvero dal
vigente art. 36 del DPR 06.06.2001, n. 380,
ipotesi che è quella di garantire il
richiedente dalla possibile variazione in
senso peggiorativo della disciplina
edilizia, a seguito di adozione di strumenti
che riducano o escludano, appunto, lo jus
aedificandi quale sussistente al momento
dell'istanza.
In questa prospettiva la tipicità del
provvedimento di accertamento in sanatoria,
quale espressione di disposizione avente
carattere di specialità, va rigorosamente
intesa come riferimento al diritto "vigente",
(Consiglio di Stato sez. V 29.05.2006, n.
3267), e commisurata alla finalità di "favor"
obiettivamente tutelata dalla previsione, in
modo da risultare conforme al principio di
proporzionalità e ragionevolezza, nel
contemperamento dell'interesse pubblico e
privato.
La norma, infatti, non può ritenersi diretta
a disciplinare l'ipotesi inversa dello
jus superveniens edilizio favorevole,
rispetto al momento ultimativo della
proposizione dell'istanza. In effetti,
imporre per un unico intervento costruttivo,
comunque attualmente "conforme", una
duplice attività edilizia, demolitoria e poi
identicamente riedificatoria, lede parte
sostanziale dello stesso interesse pubblico
tutelato, poiché per un solo intervento, che
sarebbe comunque legittimamente
realizzabile, si dovrebbe avere un doppio
carico di iniziative industriali-edilizie,
con la conseguenza, contrastante con il
principio di proporzionalità, di un
significativo aumento dell'impatto
territoriale ed ambientale, (altrimenti
considerato in termini più ridotti alla luce
della "ratio" della norma in tema di
accertamento di conformità) (Così Consiglio
di Stato, sez. VI, 07.05.2009, n. 2835
cit.).
A conforto di tale opzione ermeneutica il
Consiglio di Stato ha infatti affermato, che
"gli artt. 13 e 15 della l. 28.02.1985,
n. 47, richiedenti per la sanatoria delle
opere realizzate senza concessione e delle
varianti non autorizzate, che l'opera sia
conforme tanto alla normativa urbanistica
vigente al momento della realizzazione
dell'opera, quanto a quella vigente al
momento della domanda di sanatoria, sono
disposizioni contro l'inerzia
dell'Amministrazione, e significano che, se
sussiste la doppia conformità, a colui che
ha richiesto la sanatoria non può essere
opposta una modificazione della normativa
urbanistica successiva alla presentazione
della domanda. Tale regola non preclude il
diritto ad ottenere la concessione in
sanatoria di opere che, realizzate senza
concessione o in difformità dalla
concessione, siano conformi alla normativa
urbanistica vigente al momento in cui
l'autorità comunale provvede sulla domanda
in sanatoria" (Consiglio di Stato sez.
V, 21.10.2003, n. 6498)
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 14.06.2011 n. 42 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Parcheggi pertinenziali.
La costruzione di autorimesse o parcheggi
destinati a pertinenza di fabbricati
esistenti è soggetta ad autorizzazione
gratuita, ai sensi della L. 24.03.1989, n.
122, come modificata dalla L. 15.05.1997, n.
127, art. 17 e dalla L. 07.12.1999, n. 472,
art. 37, a condizione che nella relativa
domanda sia preventivamente indicato il
fabbricato servito, di modo che sia
immediatamente identificabile il vincolo
funzionale previsto per la deroga alla
normale sottoposizione al regime concessorio.
In tema di disciplina legale delle aree
destinate a parcheggio, il vincolo di
pertinenza ex lege a favore delle
unità immobiliari del fabbricato ha
carattere limitato e non si estende nemmeno
ai parcheggi realizzati in eccedenza
rispetto allo spazio minimo richiesto dalla
L. 06.08.1967, n. 765, art. 18, quand’anche
realizzati dallo stesso
proprietario-costruttore (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 10.06.2011 n. 23427 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Disciplina antisismica.
Le disposizioni di cui agli articoli 93 e 94
TU edilizia si applicano a tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa
interessare la pubblica incolumità, a nulla
rilevando la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate, stante
l’esigenza di massimo rigore nelle zone
dichiarate sismiche, che rende necessari i
controlli e le cautele prescritte anche
quando si impiegano elementi strutturali
meno solidi e duraturi rispetto alla
muratura ed al cemento armato.
Ai fini della configurabilità dei reati
connessi alle violazioni delle disposizioni
anzidette non assume rilievo, poi, il
carattere precario della costruzione,
proprio in considerazione delle prevalenti
esigenze di sicurezza alla tutela delle
quali la normativa antisismica si correla
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.06.2011 n. 23076 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Carattere precario della
costruzione (tettoia) - Disciplina
antisismica - Applicazione - Configurabilità
dei reati connessi - Fattispecie - Artt. 93
e 94 T.U.E. n. 380/2001.
A norma dell'art. 93 del T.U.E. 06.06.2001,
n. 380 "chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni",
in zona sismica, deve farne denuncia
all'organo competente con comunicazione alla
quale deve essere allegato il progetto
firmato da un tecnico autorizzato e dal
direttore dei lavori. Le relative opere,
poi, a norma del successivo art. 94, non
possono essere iniziate senza preventiva
autorizzazione.
Tali disposizioni si applicano a tutte le
costruzioni la cui sicurezza possa
interessare la pubblica incolumità, a nulla
rilevando la natura dei materiali usati e
delle strutture realizzate, stante
l'esigenza di massimo rigore nelle zone
dichiarate sismiche, che rende necessari i
controlli e le cautele prescritte anche
quando si impiegano elementi strutturali
meno solidi e duraturi rispetto alla
muratura ed al cemento armato (Cass., Sez.
III, 24.10.2001, n. 38142).
Sicché, ai fini della configurabilità dei
reati connessi alle violazioni delle
disposizioni anzidette non assume rilievo,
l’eventuale carattere precario della
costruzione, proprio in considerazione delle
prevalenti esigenze di sicurezza alla tutela
delle quali la normativa antisismica si
correla (Cass., Sez. III, 10.10.2007, n.
37322; Cass. 19.12 2003, n. 48684; Cass.
04.10.2002, n. 33158) (Fattispecie:
realizzazione in zona sismica, una
tettoia-porticato di circa mq 50,85 in
difformità della autorizzazione, senza darne
preavviso scritto all'autorità competente e
senza depositare previamente il relativo
progetto, nonché in violazione della
normativa tecnica) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 08.06.2011 n. 23076 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Utilizzazione dell'edificio prima
del rilascio del certificato di collaudo -
Responsabilità del direttore dei lavori -
Sussistenza - Art. 75, D.P.R. n. 380/2001.
Il Direttore dei lavori, in quanto primo
garante della sicurezza, è certamente tenuto
all'osservanza delle prescrizioni imposte
dall'art. 75 del D.P.R. n. 380/2001
attraverso lo specifico obbligo di inibire
l'utilizzazione dell'edificio prima del
rilascio del certificato di collaudo.
Certificato di collaudo
- Utilizzo dell’edificio in assenza -
Costruttore, committente, proprietario e
direttore dei lavori - Responsabilità -
Reato di cui all'art. 75, D.P.R. n. 380/2001
- Configurabilità.
Il reato di cui all'art. 75, D.P.R. n.
380/2001 è configurabile -tra gli altri-
anche a carico del costruttore, del
committente o del proprietario (Cass. Sez.
3^ 24.11.2010 n. 1802, Marrocco).
Tale tesi giustifica anche - pur in assenza
di una affermazione esplicita - l'estensione
della responsabilità a soggetti quali il
direttore dei lavori, non espressamente
indicati nel testo normativo, in
correlazione con la ratio
incriminatrice della norma urbanistica la
quale mira a salvaguardare la sicurezza
pubblica in modo assoluto (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.06.2011 n. 22291 -
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EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio
del potere sindacale contemplato dall’art.
378 l. n. 2248/1865, all. F,
configura non già un provvedimento
repressivo in materia edilizia, bensì
un’ipotesi di autotutela possessoria
iuris publici in tema di strade di uso
pubblico, che, in quanto tale, trova il suo
unico presupposto nella necessità di
ripristinare l’uso pubblico della strada
senza necessità di ulteriori motivazioni.
- L'art. 378, L. 20.03.1865 n. 2248, all. F,
attribuisce al sindaco un potere di
autotutela di carattere possessorio, volto
alla conservazione dello stato di fatto dei
beni demaniali comunali e delle strade
comunali soggette ad uso pubblico. Con la
conseguenza che, a prescindere
dall'effettiva esistenza di un diritto reale
di servitù pubblica di passaggio o
dall'esistenza di una pubblica via vicinale
(che tra l'altro prescinde anche
dall'inclusione della via stessa dagli
elenchi comunali), sussiste il potere
dell'amministrazione comunale di rimuovere i
materiali ostativi al libero transito con le
modalità esistenti anteriormente e, quindi,
di ripristinare lo stato dei luoghi, quando
sussista una situazione di fatto di
oggettivo pregiudizio del pubblico
passaggio.
Per l’Amministrazione Comunale appellante,
l’esercizio del potere sindacale contemplato
dall’art. 378 l. n. 2248/1865, all. F,
configura non già un provvedimento
repressivo in materia edilizia, bensì
un’ipotesi di autotutela possessoria
iuris publici in tema di strade di uso
pubblico, che, in quanto tale, trova il suo
unico presupposto nella necessità di
ripristinare l’uso pubblico della strada
senza necessità di ulteriori motivazioni
(cfr. Consiglio Stato n. 25/2009).
Nel caso, la qualificazione pubblica della
via sarebbe stata dimostrata in particolare:
dalle ripetute nel tempo asfaltature da
parte del Comune; dall’apposizione di un
cartello “fine divieto di sosta” da
oltre dieci anni, e dalle dichiarazioni
scritte di dieci cittadini sull’uso pubblico
da tempo immemorabile.
---------------
Come la
concorde giurisprudenza ha sempre
riconosciuto l'art. 378, L. 20.03.1865 n. 2248,
all. F, attribuisce al sindaco un potere di
autotutela di carattere possessorio, volto
alla conservazione dello stato di fatto dei
beni demaniali comunali e delle strade
comunali soggette ad uso pubblico.
Con la conseguenza che, a prescindere
dall'effettiva esistenza di un diritto reale
di servitù pubblica di passaggio o
dall'esistenza di una pubblica via vicinale
(che tra l'altro prescinde anche
dall'inclusione della via stessa dagli
elenchi comunali), sussiste il potere
dell'amministrazione comunale di rimuovere i
materiali ostativi al libero transito con le
modalità esistenti anteriormente e, quindi,
di ripristinare lo stato dei luoghi, quando
sussista una situazione di fatto di
oggettivo pregiudizio del pubblico passaggio
(cfr. Consiglio Stato, sez. V, 08.01.2009,
n. 25; Consiglio Stato, sez. IV, 07.09.2006,
n. 5209; Consiglio Stato, sez. IV,
06.04.2000, n. 1975)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3509 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: L'esercizio
del potere di autotutela possessoria delle
strade vicinali è (e resta) attribuito al
Sindaco dall'art. 378 della legge
20.03.1865, all. F (e dall'art. 15, d.l.Lgt.
01.09.1918 n. 1446) in quanto la detta
disposizione è stata sottratta all'effetto
abrogativo di cui all'art. 2 del d.l.
22.12.2008 n. 200 (convertito, con
modificazioni, nella legge 18.02.2009 n. 9),
dall'art. 1, comma 2, d.lgs. 01.12.2009 n.
179. Non vi sono dubbi quindi che il
generale potere di autotutela del demanio e
del patrimonio indisponibile del comune, di
cui all'art. 378, l. 20.03.1865 n. 2248 all.
F, continui a spettare al sindaco sia in
ragione della persistente vigenza della
norma e sia della riconducibilità del potere
di tutela qui previsto alla funzione di
ufficiale di governo. Per questo motivo,
tale potere non può ritenersi trasferito al
dirigente con l'entrata in vigore del d.lgs.
n. 267 del 2000, atteso che l'art. 107,
comma 5, del predetto testo normativo fa
espressamente salve le competenze del
Sindaco specificamente previste dall'art.
50, comma 3, e dall'art. 54, e cioè proprio
le competenze espressamente attribuitegli
dalla legge nelle materie di ordine e di
sicurezza pubblica, in quanto in tali
fattispecie la tutela del bene comunale
assicura in concreto un diritto, che è di
rilievo costituzionale, quale quella alla
libera circolazione sul territorio di tutti
i cittadini, ancorché non residenti nel
Comune.
Quanto poi al profilo concernente
l’incompetenza del Sindaco affermata dal
TAR, deve invece rilevarsi che l'esercizio
del potere di autotutela possessoria delle
strade vicinali è (e resta) attribuito al
Sindaco dall'art. 378 della legge
20.03.1865, all. F (e dall'art. 15, d.l.Lgt.
01.09.1918 n. 1446) in quanto la detta
disposizione è stata sottratta all'effetto
abrogativo di cui all'art. 2 del d.l.
22.12.2008 n. 200 (convertito, con
modificazioni, nella legge 18.02.2009 n. 9),
dall'art. 1, comma 2, d.lgs. 01.12.2009 n.
179.
Non vi sono dubbi quindi che il generale
potere di autotutela del demanio e del
patrimonio indisponibile del comune, di cui
all'art. 378, l. 20.03.1865 n. 2248 all. F,
continui a spettare al sindaco sia in
ragione della persistente vigenza della
norma e sia della riconducibilità del potere
di tutela qui previsto alla funzione di
ufficiale di governo.
Per questo motivo, tale potere non può
ritenersi trasferito al dirigente con
l'entrata in vigore del d.lgs. n. 267 del
2000, atteso che l'art. 107, comma 5, del
predetto testo normativo fa espressamente
salve le competenze del Sindaco
specificamente previste dall'art. 50, comma
3, e dall'art. 54, e cioè proprio le
competenze espressamente attribuitegli dalla
legge nelle materie di ordine e di sicurezza
pubblica, in quanto in tali fattispecie la
tutela del bene comunale assicura in
concreto un diritto, che è di rilievo
costituzionale, quale quella alla libera
circolazione sul territorio di tutti i
cittadini, ancorché non residenti nel Comune
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3509 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Occupazione d’urgenza immobili a fini
espropriativi.
L’avviso di cui all’art. 11 DPR n. 327/2001
deve contenere, per essere legittimo e
coerente con il predetto articolo, oltre che
con gli artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli
elementi volti a determinare i soggetti
espropriandi ed i beni oggetto del
procedimento amministrativo; e ciò sia che
la comunicazione avvenga personalmente, sia
che essa avvenga in forma collettiva
mediante avviso pubblico.
Anche la giurisprudenza, che ammette
equipollenti, ritiene tuttavia
indispensabile una chiara individuazione dei
soggetti e dei beni espropriandi; in tal
senso, da ultimo, è stato ritenuto che è
idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico,
ad un determinato foglio della mappa
catastale, senza elencazione delle singole
particelle, quando i destinatari
dell’avviso, debitamente elencati, sono
tutti proprietari di fondi che sono
rappresentati in quel foglio.
---------------
Il ricorso alla speciale procedura ex art.
22-bis DPR 327/2001 postula una motivazione
specifica dell’amministrazione in ordine
alle obiettive ragioni di urgenza, avverso
la quale il privato può ricorrere,
richiedendo il sindacato giurisdizionale.
Con riferimento specifico al procedimento
espropriativo, l’avviso di cui all’art. 11
DPR n. 327/2001 deve contenere gli elementi
idonei a rendere edotto il destinatario del
procedimento ablatorio del sacrificio che
gli si intende imporre e dei beni oggetto di
tale sacrificio.
D’altra parte, lo stesso art. 11, nel
prevedere che l’avviso di avvio del
procedimento deve essere inviato “al
proprietario del bene sul quale si intende
apporre il vincolo preordinato
all’esproprio”, presuppone che
l’amministrazione abbia identificato il
proprietario, e ciò può avvenire solo per il
tramite dei beni (e dei loro dati catastali)
da assoggettare a procedimento ablatorio.
Tale contenuto dell’avviso –che, come si è
già detto, l’art. 11 non esclude né
semplifica in caso di comunicazione non
personale, ma per avviso pubblico– proprio
per le finalità cui lo stesso è preordinato,
deve essere a maggior ragione completo ed
idoneo a rendere compiutamente edotto il
proprietario espropriando, proprio con
riferimento al caso di comunicazione non
personale.
Ed infatti –ribadito che l’art. 11 non
distingue il contenuto dell’avviso in
dipendenza delle modalità della sua
comunicazione, così come, in via generale.,
non opera alcuna distinzione l’art. 8 l. n.
241/1990– mentre nel caso di comunicazione
personale il proprietario effettivamente
riceve notizia dell’esistenza di un
procedimento riguardante beni di sua
proprietà, al contrario, laddove vi siano
forme di comunicazione pubblica collettiva,
il proprietario subisce un primo vulnus
consistente nell’onere, postogli a carico
dell’ordinamento, di acquisire una
conoscenza attraverso strumenti che non
necessariamente rientrano, con certezza ed
immediatezza, nella sua sfera di cognizione,
ritenendo altresì l’ordinamento realizzata “iuris
et de iure” tale conoscenza con il
rispetto delle modalità di comunicazione
previste.
Orbene, se tale “onere di assumere
informazione” e “presunzione di
conoscenza” da parte del proprietario
espropriando possono giustificarsi in
considerazione dell’interesse pubblico alla
celerità del procedimento espropriativo,
resta fermo che l’avviso pubblico e
collettivo costituisce modalità eccezionale
di comunicazione (ragionevole,
giustificabile, ma eccezionale), non a caso
prevista dal legislatore solo in presenza di
un numero elevato di espropriandi; numero
che il legislatore stesso, con previsione
tassativa, indica come superiore a 50,
sottraendo opportunamente la determinazione
della eccessività del numero dei proprietari
alla valutazione discrezionale
dell’amministrazione.
Atteso il sacrificio (non irrilevante)
imposto al proprietario espropriando, in
termini di “effettiva” conoscenza
(che, alle condizioni predette, è presunta
come tale), non è affatto ragionevole che lo
stesso proprietario, oltre che seguire
quotidianamente gli avvisi pubblicati nelle
forme previste dall’art. 11, debba per di
più verificare presso l’amministrazione (una
volta avuta contezza dell’avviso), se il
procedimento possa (o meno) riguardare beni
di sua proprietà.
Se tale fosse l’interpretazione, l’art. 11
sarebbe irragionevole (ed in sospetto di
illegittimità costituzionale per violazione
degli articoli 3, 24, 42 e 97 Cost.), in
quanto esso imporrebbe ai privati sacrifici
non ragionevoli e/o giustificabili in
riferimento ad interessi pubblici..
Alla luce di quanto esposto, questo
Consiglio di Stato ritiene che l’avviso di
cui all’art. 11 DPR n. 327/2001 debba
contenere, per essere legittimo e coerente
con il predetto articolo, oltre che con gli
artt. 7 e 8 l. n. 241/1990, gli elementi
volti a determinare i soggetti espropriandi
ed i beni oggetto del procedimento
amministrativo; e ciò sia che la
comunicazione avvenga personalmente, sia che
essa avvenga in forma collettiva mediante
avviso pubblico (e, per le ragioni esposte,
l’onere di completezza è richiesto a maggior
ragione in quest’ultimo caso).
Giova osservare che, anche la giurisprudenza
che ammette equipollenti, ritiene tuttavia
indispensabile una chiara individuazione dei
soggetti e dei beni espropriandi; in tal
senso, da ultimo, è stato ritenuto che è
idoneo il riferimento, nell’avviso pubblico,
ad un determinato foglio della mappa
catastale, senza elencazione delle singole
particelle, quando i destinatari
dell’avviso, debitamente elencati, sono
tutti proprietari di fondi che sono
rappresentati in quel foglio (Cass. civ.,
Sez. Un. 02.12.2009 n. 25345; in senso
conforme, Cons. Stato, sez. IV, 27.06.2008
n. 3245).
---------------
La
giurisprudenza non appare univoca in ordine
alla necessità per l’amministrazione di
motivare sulle ragioni di “particolare
urgenza” che consentono il ricorso allo
speciale procedimento di cui all’art.
22-bis.
Per un verso, si è escluso ogni obbligo di
particolare motivazione, in presenza dei
presupposti previsti dalla disposizione
medesima, ed in particolare del numero degli
espropriandi superiore a 50 (Cons. Stato,
sez. IV, 12.07.2007 n. 3968 e 27.06.2007 n.
3696; sez. III, 29.09.2009 n. 2215).
Altra giurisprudenza ha invece ritenuto che
il ricorso alla speciale procedura ex art.
22-bis postuli una motivazione specifica
dell’amministrazione in ordine alle
obiettive ragioni di urgenza, avverso la
quale il privato può ricorrere, richiedendo
il sindacato giurisdizionale (Cass. civ.,
Sez. Un., 06.05.2009 n. 10362; Cons. Stato,
sez. IV, 22.05.2008 nn. 2459 e 2460).
Il Collegio ritiene di aderire a
quest’ultimo orientamento interpretativo,
affermando, di conseguenza, la necessità di
motivazione in ordine alle ragioni di
particolare urgenza che legittimano il
ricorso al procedimento ex art. 22-bis DPR
n. 327/2001.
Occorre, infatti, osservare che il
procedimento previsto dall’art. 22-bis
citato (occupazione di urgenza preordinata
all’espropriazione) non costituisce –come
pure si è sostenuto– un ordinario
subprocedimento nell’ambito del procedimento
espropriativo, in tal modo facendosi
rivivere un istituto (l’occupazione di
urgenza) conosciuto dal previgente
ordinamento.
Occorre, infatti, osservare che tale
procedimento, o meglio l’art. 22-bis che lo
prevede, non costituisce parte della
disciplina originaria del Testo Unico
espropriazioni, essendo stato, infatti,
introdotto solo con il d.lgs. n. 302/2002.
La disciplina originaria prevede (e tuttora
si prevede):
- una fase di “determinazione provvisoria
dell’indennità di espropriazione” (art.
20), cui può seguire l’immissione in
possesso (nel caso in cui si concordi sulla
misura dell’indennità), ovvero l’emanazione
del decreto di esproprio, una volta
effettuato il deposito dell’indennità, anche
se non condivisa, presso la Cassa depositi e
prestiti. A questa fase, segue quella di “determinazione
definitiva dell’indennità di espropriazione”
(art. 21);
- una fase di “determinazione urgente
dell’indennità di esproprio” (art. 22),
di modo che “quando l’avvio dei lavori
rivesta carattere di urgenza, tale da non
consentire l’applicazione delle disposizioni
dell’art. 20, il decreto di esproprio può
essere emanato ed eseguito in base alla
determinazione urgente della indennità di
espropriazione, senza particolari indagini o
formalità”. In base al comma 2, “il
decreto di esproprio può altresì essere
emanato ed eseguito in base alla
determinazione urgente dell’indennità di
espropriazione senza particolari indagini o
formalità . . . b) allorché il numero dei
destinatari della procedura espropriativa
sia superiore a 50”.
In definitiva, nel disegno originario del
Testo Unico espropriazioni, a fronte di un
procedimento ordinario di determinazione
(dapprima provvisoria., poi definitiva
dell’indennità di espropriazione), quale
presupposto dell’emanazione del decreto di
esproprio, si giustappone un “procedimento
urgente”, che, pur non escludendo la
previa determinazione dell’indennità, si
caratterizza per celerità, consentendosi la
possibilità di emanazione del decreto di
esproprio sulla base della sola “determinazione
urgente” dell’indennità.
La finalità evidente, perseguita dal
legislatore, era quella di evitare che si
potesse conseguire l’occupazione del bene
espropriando senza che intervenisse, in
seguito, l’emanazione del decreto di
esproprio, con le ben note conseguenze in
tema di occupazione (divenuta) sine
titulo.
A questo disegno, il d.lgs. n. 302/2002 ha
aggiunto, con l’art. 22-bis, l’occupazione
di urgenza.
L’emanazione di tale decreto richiede ai
sensi del comma 1, che “l’avvio dei
lavori rivesta carattere di particolare
urgenza”, laddove la determinazione
urgente dell’indennità, di cui all’art. 22,
richiede che “l’avvio dei lavori rivesta
carattere di urgenza” (la differenza è
data dall’aggettivo “particolare”,
premesso al sostantivo “urgenza”).
Inoltre, il comma 2 dell’art. 22-bis prevede
che possa farsi luogo a decreto di
occupazione di urgenza anche nel caso in cui
vi sia stata determinazione urgente
dell’indennità ed il numero dei proprietari
espropriandi sia superiore a 50.
In definitiva, l’art. 22-bis prevede che il
decreto di occupazione di urgenza possa
essere emanato:
- in casi di “particolare urgenza”,
previa determinazione provvisoria
dell’indennità di espropriazione (comma 1);
- in casi in cui è intervenuta la
determinazione urgente dell’indennità e
qualora gli espropriandi siano superiori a
50 (comma 2, lett. b).
Il legislatore ha, dunque, previsto due
distinti subprocedimenti in deroga al
procedimento ordinario (ex art. 20), in
parte sovrapposti, dei quali quello ex art.
22-bis si fonda (non ricorrendo i caso di
cui al comma 2) su una “particolare
urgenza”, da tenere distinta dalla mera
“urgenza” su cui si fonda il
procedimento in deroga, di cui all’art. 22.
Appare, dunque, evidente che il
subprocedimento volto alla emanazione di un
decreto di occupazione di urgenza, ai sensi
dell’art. 22-bis, lungi dal poter essere
considerato come un subprocedimento
ordinario nell’ambito del procedimento
amministrativo, costituisce, invece, un
subprocedimento in deroga, speciale rispetto
allo stesso subprocedimento in deroga di cui
all’art. 22 del Testo Unico.
Da ciò consegue che l’organo emanante il
decreto di occupazione di urgenza è tenuto a
motivare in ordine alle ragioni di
particolare urgenza, relative ai lavori da
effettuarsi, e che sorreggono la
determinazione assunta.
Ciò a maggio ragione laddove si rifletta
sulle possibili conseguenze (in termini di
occupazione sine titulo, anche per
mancata emanazione del decreto di esproprio
entro i termini della dichiarazione di
pubblica utilità) cui l’istituto della
previa occupazione di urgenza può condurre
ed ha condotto, nella vigenza della
precedente disciplina
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3500 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’obbligo
di pubblicazione del piano regolatore
risulta strumentale alla migliore
partecipazione e collaborazione dei
cittadini e di chiunque vi abbia interesse
alla attività di pianificazione del
territorio comunale, anche attraverso, in
particolare, la presentazione delle previste
osservazioni.
Tale pubblicazione, tuttavia, non deve
essere ripetuta laddove il Piano regolatore
riceva modifiche in dipendenza proprio
dell’accoglimento di osservazioni
presentate, o anche per effetto di modifiche
introdotte a seguito di espressa richiesta
rappresentata dalla Regione in sede di
approvazione.
Tale conclusione incontra l'unica eccezione
dell'ipotesi in cui l'accoglimento delle
osservazioni (o comunque la modifica
introdotta) abbia comportato una profonda
deviazione dai criteri posti a base del
piano stesso, nel qual caso occorre una
nuova pubblicazione e la conseguente
raccolta delle nuove osservazioni.
L’obbligo di pubblicazione del piano
regolatore risulta strumentale alla migliore
partecipazione e collaborazione dei
cittadini e di chiunque vi abbia interesse
alla attività di pianificazione del
territorio comunale, anche attraverso, in
particolare, la presentazione delle previste
osservazioni.
Tale pubblicazione, tuttavia, non deve
essere ripetuta laddove il Piano regolatore
riceva modifiche in dipendenza proprio
dell’accoglimento di osservazioni
presentate, o anche per effetto di modifiche
introdotte a seguito di espressa richiesta
rappresentata dalla Regione in sede di
approvazione.
Se ciò non fosse, si perverrebbe al
paradossale risultato di un appesantimento
incongruo, se non ad un effetto
paralizzante, del procedimento
amministrativo, rendendo la partecipazione
non più strumento di collaborazione e
funzionale alla migliore valutazione degli
interessi coinvolti, quanto elemento di
defatigante gestione procedimentale.
Tale conclusione, del tutto ragionevole e
condivisibile, cui è già pervenuta la
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
(sez. IV, 11.10.2007 n. 5357), incontra
l'unica eccezione dell'ipotesi in cui
l'accoglimento delle osservazioni (o
comunque la modifica introdotta) abbia
comportato una profonda deviazione dai
criteri posti a base del piano stesso, nel
qual caso occorre una nuova pubblicazione e
la conseguente raccolta delle nuove
osservazioni
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Cantieri edili di
demolizione - Impianti mobili di macinatura,
vagliatura e deferrizzazione dei materiali
inerti - Autorizzazione - Necessità - Art.
256, c. 1 - lett. a), del D.Lgs. n.
152/2006.
Gli impianti mobili adibiti alla macinatura,
vagliatura e deferrizzazione dei materiali
inerti prodotti da cantieri edili di
demolizione, sono assoggettati al
procedimento autorizzatorio in quanto, non
possono essere considerati impianti che
effettuano una semplice riduzione
volumetrica e separazione di eventuali
frazioni estranee, essendo essi impiegati
per effettuare un'operazione "di
trattamento" il cui principale risultato
è quello di permettere ai residui ferrosi "di
svolgere un ruolo utile" (in linea anche
con la nozione di "recupero" posta
dal D.Lgs. 03.12.2010, n. 205, ove viene
espressamente previsto che l'elenco delle
operazioni di cui all'allegato C del D. L.vo
n. 152/2006 non è per nulla esaustivo).
RIFIUTI - Impianti
mobili di smaltimento e di recupero dei
rifiuti - Autorizzazione - Necessità -
Procedura semplificata - Violazione - Art.
256, c. 1, lett. a), D.Lgs. n. 152/2006 -
Configurabilità - Attività esclusa alla
procedura - Art. 208, c. 15, D. L.vo n.
152/2006.
In tema di rifiuti, l'art. 208, comma 15,
del D.Lgs. n. 152/2006 prevede e disciplina
una procedura semplificata per
l'autorizzazione degli impianti mobili di
smaltimento e di recupero dei rifiuti,
disponendo che i soggetti interessati devono
presentare domanda alla Regione (ove hanno
la sede legale o quella di rappresentanza)
per ottenere l'autorizzazione definitiva
all'uso dell'impianto.
Per lo svolgimento, poi, delle singole "campagne
di attività" sul territorio nazionale, i
soggetti che hanno ottenuto detta
autorizzazione, almeno 60 giorni prima
dell'installazione dell'impianto, devono
comunicare alla Regione nel cui territorio
si trova il sito prescelto, le "specifiche
dettagliate" relative alla campagna di
attività e la Regione può adottare
prescrizioni integrative oppure può vietare
l'attività con provvedimento motivato
qualora lo svolgimento della stessa nello
specifico sito non sia compatibile con la
tutela dell'ambiente o della salute
pubblica.
Sono esclusi dall'osservanza della procedura
anzidetta gli impianti mobili che effettuano
la disidratazione dei fanghi generati da
impianti di depurazione e reimmettono
l'acqua in testa al processo depurativo
presso il quale operano, nonché gli impianti
che effettuano esclusivamente riduzione
volumetrica e separazione delle frazioni
estranee.
Sicché l’assenza della prescritta
autorizzazione configura, conseguentemente,
il fumus dell'ipotizzato reato di cui
all'art. 256, comma i - lett. a), del D.Lgs.
n. 152 del 2006 (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 01.06.2011 n. 21859 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di una veranda
cui consegua un aumento di volumetria deve
essere qualificata, ai sensi dell'art. 3 del
d.P.R. n. 380 del 2001, come
ristrutturazione edilizia in quanto essa
comporta, in conseguenza dell'aumento di
volumetria correlata, la realizzazione di un
organismo diverso dal precedente per
struttura e destinazione.
Anche di recente la giurisprudenza ha
precisato che la realizzazione di una
veranda cui consegua un aumento di
volumetria deve essere qualificata, ai sensi
dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come
ristrutturazione edilizia in quanto essa
comporta, in conseguenza dell'aumento di
volumetria correlata, la realizzazione di un
organismo diverso dal precedente per
struttura e destinazione.
L'intervento in questione -secondo quanto
previsto dall'art. 10 del d.P.R. n. 380 del
2001- deve essere assentito con permesso di
costruire, nella fattispecie non conseguito
dall'interessato, il che comporta la
legittimità della prescrizione demolitoria
irrogata con il provvedimento impugnato
(così TAR Lazio Roma, sez. I, 01.09.2010, n.
32098)
(TAR Molise,
sentenza 01.06.2011 n. 310 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
è vero che l’organo preposto alla tutela del
vincolo paesaggistico non possa indicare
prescrizioni nell’esame della domanda di
condono, presupponendo che in simili
fattispecie, trattandosi di fabbricati già
realizzati abusivamente, la valutazione
dovrebbe avere ad oggetto l’immobile per
come realizzato.
Invero, poiché ai sensi dell’art. 32 della
legge 47/1985 il rilascio della concessione
in sanatoria per opere eseguite in aree
sottoposte a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte
alla tutela vincolo medesimo, deve inferirsi
che l’autorità amministrativa così come ha
il potere di negare il parere di competenza,
ritenendo l’intervento realizzato
incompatibile con l’esigenza di salvaguardia
dell’interesse paesaggistico, al contempo
abbia anche quello di indicare prescrizioni:
si tratta infatti di una applicazione del
generale principio di proporzionalità che
impone di tutelare l’interesse pubblico
primario con il minor sacrificio possibile
per quello privato antagonista; se il
diritto del privato allo sfruttamento
edificatorio del terreno in proprietà può
essere tutelato con una prescrizione
correttiva idonea a renderlo compatibile con
la valenza paesaggistica dell’area, non può
l’amministrazione adottare il più gravoso
provvedimento negativo, di per sé ostativo
alla possibilità di sanare in radice l’opera
abusiva.
Infondato è anche il secondo motivo di
doglianza con cui i ricorrenti censurano la
possibilità per l’organo preposto alla
tutela del vincolo paesaggistico di indicare
prescrizioni nell’esame della domanda di
condono, sul presupposto che in simili
fattispecie, trattandosi di fabbricati già
realizzati abusivamente, la valutazione
dovrebbe avere ad oggetto l’immobile per
come realizzato.
In senso contrario deve invece osservarsi
che poiché ai sensi dell’art. 32 della legge
47/1985 il rilascio della concessione in
sanatoria per opere eseguite in aree
sottoposte a vincolo è subordinato al parere
favorevole delle amministrazioni preposte
alla tutela vincolo medesimo, deve inferirsi
che l’autorità amministrativa così come ha
il potere di negare il parere di competenza,
ritenendo l’intervento realizzato
incompatibile con l’esigenza di salvaguardia
dell’interesse paesaggistico, al contempo
abbia anche quello di indicare prescrizioni:
si tratta infatti di una applicazione del
generale principio di proporzionalità che
impone di tutelare l’interesse pubblico
primario con il minor sacrificio possibile
per quello privato antagonista; se il
diritto del privato allo sfruttamento
edificatorio del terreno in proprietà può
essere tutelato con una prescrizione
correttiva idonea a renderlo compatibile con
la valenza paesaggistica dell’area, non può
l’amministrazione adottare il più gravoso
provvedimento negativo, di per sé ostativo
alla possibilità di sanare in radice l’opera
abusiva.
Né può opporsi la forza del fatto compiuto
per comprimere il potere di valutazione
dell’autorità preposta alla tutela
dell’interesse paesaggistico, poiché la
condizione di chi costruisce senza il
preventivo rilascio del titolo edilizio
abilitativo prescritto dalla legge non è
tale da configurare una situazione di
affidamento meritevole di tutela per
l’ordinamento al punto da limitare il potere
dell’autorità amministrativa di tutela degli
interessi pubblici che dall’attività di
edificazione possono risentire pregiudizio.
Chi costruisce in assenza di concessione
edilizia lo fa a proprio rischio e pericolo
sicché deve necessariamente sottostare alle
conseguenze derivanti dai giudizi
legittimamente espressi dalla autorità
preposta alla tutela del vincolo
allorquando, pur non valutando l’intervento
come assolutamente incompatibile con
l’interesse pubblico primario affidato alla
propria cura, ciò non di meno ritenga
opportuno prescrivere delle modifiche al
fine di operare un bilanciamento ragionevole
tra l’interesse privato alla edificazione e
l’interesse pubblico alla tutela del vincolo
(TAR Molise,
sentenza 01.06.2011 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In un’area vincolata in cui gli immobili si
caratterizzano per la copertura a tetto
l’inserimento di un immobile con copertura a
terrazzo determina una evidente
discontinuità architettonica, talché
necessita dell'autorizzazione paesaggistica
preventiva.
Con un terzo motivo di censura i ricorrenti
lamentano che nel caso di specie non
occorrerebbe l’autorizzazione paesaggistica
in quanto ai sensi dell’art. 32 della legge
47/1985 il parere dell’autorità preposta alla
salvaguardia del vincolo non sarebbe
richiesto “quando si tratti di violazioni
riguardanti l’altezza, i distacchi, la
cubatura o la superficie coperta che non
eccedano il 2 per cento delle misure
prescritte”, fattispecie da loro
ritenuta applicabile al caso di specie.
Il motivo non può essere condiviso poiché
nel caso di specie non viene in rilievo una
difformità di tipo quantitativo, come tale
soggetta ad un margine di tollerabilità,
indicato dal legislatore nel 2 per cento
bensì una differenza di tipo
estetico-qualitativo che, di per sé, si pone
in contrasto con l’istanza di tutela del
valore paesaggistico: in un’area vincolata
in cui gli immobili si caratterizzano per la
copertura a tetto l’inserimento di un
immobile con copertura a terrazzo determina
una evidente discontinuità architettonica
rispetto alla quale il limite di
tollerabilità del 2 per cento non è neppure
astrattamente ipotizzabile
(TAR Molise,
sentenza 01.06.2011 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Conformità urbanistica, se la
P.A. tace vuol dire ''niet''.
Il silenzio fatto formare sull'istanza di
accertamento di conformità urbanistica ai
sensi dell'art. 13, L. n. 47 del 1985 non ha
valore di silenzio-inadempimento, ma di
silenzio-rigetto. Il silenzio fatto formare
sull'istanza di accertamento di conformità
urbanistica ai sensi dell'art. 13, L. n. 47
del 1985 non ha valore di
silenzio-inadempimento, ma di
silenzio-rigetto con la conseguenza che,
all'atto della sua formazione per inutile
decorso del relativo termine, non sussiste
un obbligo di provvedere, dovendosi già
ritenere costituito il provvedimento
negativo tacito da impugnare con onere, in
capo all'interessato, di dimostrare la
compatibilità dell'opera realizzata sine
titulo con la normativa primaria e
secondaria sotto il cui imperio essa ricade.
La disciplina dell'art. 21, D.P.R. n. 380
del 2001, TU dell'edilizia, si coordina con
quella contenuta nell'art. 20, comma 9, il
quale dispone che decorsi i termini per la
conclusione del procedimento di rilascio del
permesso di costruire, senza che
l'amministrazione abbia adottato il relativo
provvedimento, sulla domanda di permesso di
costruire si intende formato il silenzio
rifiuto.
In materia di procedimento per il rilascio
della concessione edilizia, art. 20, T.U. n.
380 del 06.06.2001, ripetendo le previsioni
dell'art. 4, D.L. n. 398 del 05.10.1993,
impone precisi termini per il completamento
dell'istruttoria da parte del dirigente
responsabile del procedimento, per il
rilascio del parere da parte della
commissione edilizia comunale e finalmente
per l'adozione del provvedimento conclusivo.
Il parere favorevole della commissione
edilizia comunale non equivale quindi a
concessione edilizia, ma rappresenta uno
degli elementi istruttori della pratica che
porterà la pubblica amministrazione
all'emanazione del provvedimento conclusivo
di concessione edilizia. Il TAR si è,
quindi, espresso circa la declaratoria di
illegittimità del silenzio rifiuto sulla
domanda di autorizzazione in sanatoria ex
art. 13, L. 28.02.1985, n. 47, presentata al
Comune.
Il Comune, sulla base di una comunicazione
della Regione, che denunciava la presenza di
due tettoie eseguite senza la prescritta
autorizzazione, ingiunse alla proprietà di
demolirle nel termine di trenta giorni.
La proprietà, avvalendosi della facoltà
prevista dall'art. 13, L. 28.02.1985, n. 47,
presentò istanza di autorizzazione in
sanatoria.
Poiché il Sindaco non si è mai pronunciato
su tale domanda, essendo trascorsi i
sessanta giorni stabiliti dal secondo comma
del citato art. 13, L. n. 47 del 1985, essa
deve intendersi respinta.
Il ricorrente si duole del silenzio rifiuto
formatosi per l'inutile decorso del termine
di sessanta giorni indicato dall'art. 13, L.
28.02.1985, n. 47 sull'istanza di
accertamento di conformità, quale prodotta
ai sensi della cennata normativa (commento
tratto da www.ipsoa.it - TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 20.05.2011 n. 494 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il silenzio fatto formare
sull'istanza di accertamento di conformità
urbanistica ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47/1985 non ha valore di
silenzio-inadempimento, ma di
silenzio-rigetto con la conseguenza che,
all'atto della sua formazione per inutile
decorso del relativo termine, non sussiste
un obbligo di provvedere, dovendosi già
ritenere costituito il provvedimento
negativo tacito da impugnare con onere, in
capo all'interessato, di dimostrare la
compatibilità dell'opera realizzata sine
titulo con la normativa primaria e
secondaria sotto il cui imperio essa ricade.
Il ricorrente si duole del silenzio rifiuto
formatosi per l'inutile decorso del termine
di sessanta giorni indicato dall'art. 13
della L. 28.02.1985, n. 47 sull'istanza di
accertamento di conformità, quale prodotta
ai sensi della cennata normativa.
Nella prospettazione della censura
l'Amministrazione sarebbe venuta meno
all'obbligo di legge (art. 13 della L. 47
del 1985 ed artt. 2 e 3 della I. 241 del
1990) di concludere il procedimento con un
provvedimento motivato.
Il ricorso va respinto non essendo fondata
la doglianza che regge l'impugnativa secondo
cui l'amministrazione non poteva sottrarsi
all'obbligo di fornire risposta espressa e
motivata alla richiesta di permesso di
costruire in sanatoria, avanzata ai sensi e
per gli effetti di cui all'art. 36 del T.U.
in materia edilizia n. 380 del 2001.
Va ribadito, in linea con la prevalente
giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
nn. 100 del 2010, 1710 e 598 del 2006), che
il silenzio fatto formare sull'istanza di
accertamento di conformità urbanistica ai
sensi dell'art. 13 della legge n. 47/1985
non ha valore di silenzio-inadempimento, ma
di silenzio-rigetto con la conseguenza che,
all'atto della sua formazione per inutile
decorso del relativo termine, non sussiste
un obbligo di provvedere, dovendosi già
ritenere costituito il provvedimento
negativo tacito da impugnare con onere, in
capo all'interessato, di dimostrare la
compatibilità dell'opera realizzata sine
titulo con la normativa primaria e
secondaria sotto il cui imperio essa ricade
(ex multis, Tar Campania-Napoli,
07.09.2007, n. 7958; sezione VII,
24.06.2008, n. 6118 e 3501 del 07.05.2008,
n. 3501; Tar Liguria, sezione I, 24.06.2007,
n. 1114; Tar Lombardia-Milano, sezione II,
21.03.2006, n. 642; Tar Piemonte-Torino,
sezione I, 08.03.2006, n. 1173; Tar
Sicilia-Catania, sezione I, 17.10.2005, n.
1723) (TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 20.05.2011 n. 494 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edilizia libera dopo il 2010?
Dipende dalle ''barriere'' urbanistiche.
La particolare
disciplina dell’attività edilizia libera,
contemplata dall’articolo 6 del d.P.R.
06.06.2001, n. 380 (c.d. Testo Unico
dell’edilizia), come modificato
dall’articolo 5, comma 2, della L. n.
73/2010, non è applicabile agli interventi
che, pur rientrando nelle categorie
menzionate da tale disposizione, siano in
contrasto con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici.
Prima sentenza successiva all’entrata in
vigore delle modifiche normative introdotte
lo scorso anno in materia edilizia,
segnatamente in tema di attività edilizia
libera.
La Suprema Corte, intervenendo in una
fattispecie nella quale in un’area agricola
erano stati realizzati due piazzali, a
servizio di un’attività commerciale,
concernente il deposito di mezzi meccanici e
la riparazione di veicoli industriali, ha
disatteso la doglianza difensiva secondo cui
si sarebbe trattato di interventi soggetti a
mera denuncia di inizio attività, attesa la
loro natura pertinenziale e, comunque,
tenuto conto delle modifiche normative
introdotte dalla L. 22.05.2010, n. 73, le
opere realizzate sarebbero rientrate
nell’attività edilizia libera (art. 6, comma
1, lett. c), la cui violazione è oggi
soggetta a mera sanzione amministrativa
pecuniaria.
I giudici di legittimità, con dovizia di
argomentazioni e con la consueta lucidità
esegetica, hanno invece escluso la
fondatezza delle argomentazioni difensive,
affermando il principio di diritto secondo
cui la disciplina di favore prevista per
l’attività edilizia libera non è applicabile
agli interventi che, pur rientrando nelle
categorie menzionate da tale disposizione,
siano in contrasto con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici.
Il fatto.
La vicenda processuale esaminata dalla
Cassazione, per quanto desumibile dalla
motivazione della decisione, vedeva imputato
il proprietario di un’area al quale era
stato addebitato di aver realizzato, in area
classificata come agricola ed in assenza di
permesso di costruire, due piazzali
rispettivamente di mq. 1700 e mq. 740, a
servizio di un’attività commerciale dallo
stesso gestita e concernente il deposito di
mezzi meccanici.
In sede di merito, egli veniva riconosciuto
colpevole del reato previsto dall’art. 44,
comma 1, lett. b), del d.P.R. 06.06.2001, n.
380. In particolare, i giudici di merito
escludevano la natura pertinenziale delle
opere realizzate qualificando l’intervento
come di “nuova costruzione” ed
escludevano la sospendibilità del processo
penale ai sensi dell’art. 45 del d.P.R.
citato.
Il ricorso.
Il condannato resisteva alla doppia condanne
inflittagli nel merito, affidando le proprie
doglianze ad alcuni motivi di ricorso. Per
quanto qui di interesse, senza analizzare il
motivo processuale eccepito
dall’interessato, erano sostanzialmente due
le ragioni “sostanziali” poste a base
dell’impugnazione:
a) la già eccepita “pertinenzialità”
delle opere;
b) la sopravvenuta irrilevanza penale
dell’intervento edilizio abusivamente
eseguito, attesa l’applicabilità, nel caso
di specie, del novellato regime
dell’attività edilizia libera, introdotto a
seguito delle modifiche operate con la legge
n. 73/2010.
La decisione.
La Corte ha disatteso del tutto le doglianze
difensive, pervenendo ad affermare il
predetto principio di diritto.
Quanto alla questione della natura
pertinenziale, nulla quaestio. Sul punto,
infatti, gli Ermellini hanno facile gioco ad
escluderla in considerazione della
consistenza e della natura delle opere
eseguite, sicuramente non riconducibili alla
tradizionale nozione di “pertinenza”, come
ormai consolidatasi nella giurisprudenza
della Suprema Corte.
La nozione di pertinenza in sede penale,
infatti, ha caratteristiche sue proprie
diverse da quella contemplata dal codice
civile e si sostanzia in un'opera che pur
essendo preordinata ad una oggettiva
esigenza dell'edificio principale,
funzionalmente ed oggettivamente inserita al
servizio dello stesso, abbia comunque una
propria individualità fisica ed una propria
conformazione strutturale e quindi non sia
parte integrante o costitutiva di altro
fabbricato. Inoltre, la pertinenza deve
essere sfornita di autonomo valore di
mercato, deve essere dotata di un volume
minimo tale da non consentire una sua
destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell'immobile a cui accede (v., tra
le tante, da ultimo: Cass. pen., Sez. 3, n.
20349 del 28/05/2010, imp. C., in Ced Cass.
247108).
In ogni caso, la tipologia dell’abuso
edilizio realizzato era comunque esclusa
dalla nozione di pertinenza che, secondo la
tradizionale giurisprudenza, è applicabile
soltanto con riferimento all'edilizia
residenziale, in quanto le opere devono
essere destinate al servizio di edifici già
esistenti (Cass. pen., Sez. 3, n. 46291 del
30/11/2004, imp. S., in Ced Cass. 230476).
Ben più interessante, invece, la questione
affrontata dalla Corte con riferimento alla
sussumibilità dell’intervento nella
novellata categoria dell’attività edilizia
libera, oggetto di modifica normativa
attuata nel 2010. Com’è noto, infatti, il
legislatore del 2010 è intervenuto sull’art.
6 del T.U. edilizia (Attività edilizia
libera), come sostituito dall'art. 5 della
L. 22.05.2010, n. 73 (recante “Conversione
in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 25.03.2010, n. 40, recante
disposizioni urgenti tributarie e
finanziarie in materia di contrasto alle
frodi fiscali internazionali e nazionali
operate, tra l'altro, nella forma dei
cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di
potenziamento e razionalizzazione della
riscossione tributaria anche in adeguamento
alla normativa comunitaria, di destinazione
dei gettiti recuperati al finanziamento di
un Fondo per incentivi e sostegno della
domanda in particolari settori”).
La norma, in particolare “Fatte salve le
prescrizioni degli strumenti urbanistici
comunali, e comunque nel rispetto delle
altre normative di settore aventi incidenza
sulla disciplina dell’attività edilizia e,
in particolare, delle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienicosanitarie,
di quelle relative all’efficienza energetica
nonché delle disposizioni contenute nel
codice dei beni culturali e del paesaggio,
di cui al decreto legislativo 22.01.2004, n.
42”, autorizza l’esecuzione, senza alcun
titolo abilitativo, di tutta una serie di
interventi, distinguendo tra interventi per
i quali è necessaria una preventiva
comunicazione ed interventi eseguibili in
assenza di qualsivoglia comunicazione.
In questi ultimi vi rientrano:
a) gli interventi di manutenzione ordinaria;
b) gli interventi volti all’eliminazione di
barriere architettoniche che non comportino
la realizzazione di rampe o di ascensori
esterni, ovvero di manufatti che alterino la
sagoma dell’edificio;
c) le opere temporanee per attività di
ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere
geognostico, ad esclusione di attività di
ricerca di idrocarburi, e che siano eseguite
in aree esterne al centro edificato;
d) i movimenti di terra strettamente
pertinenti all’esercizio dell’attività
agricola e le pratiche agro-silvo-pastorali,
compresi gli interventi su impianti
idraulici agrari;
e) le serre mobili stagionali, sprovviste di
strutture in muratura, funzionali allo
svolgimento dell’attività agricola.
Quelli che, invece, pur liberi, necessitano
di “previa comunicazione, anche per via
telematica, dell’inizio dei lavori da parte
dell’interessato all’amministrazione
comunale” sono i seguenti:
a) gli interventi di manutenzione
straordinaria di cui all’articolo 3, comma
1, lettera b), ivi compresa l’apertura di
porte interne o lo spostamento di pareti
interne, sempre che non riguardino le parti
strutturali dell’edificio, non comportino
aumento del numero delle unità immobiliari e
non implichino incremento dei parametri
urbanistici;
b) le opere dirette a soddisfare obiettive
esigenze contingenti e temporanee e ad
essere immediatamente rimosse al cessare
della necessità e, comunque, entro un
termine non superiore a novanta giorni;
c) le opere di pavimentazione e di finitura
di spazi esterni, anche per aree di sosta,
che siano contenute entro l’indice di
permeabilità, ove stabilito dallo strumento
urbanistico comunale, ivi compresa la
realizzazione di intercapedini interamente
interrate e non accessibili, vasche di
raccolta delle acque, locali tombati;
d) i pannelli solari, fotovoltaici, a
servizio degli edifici, da realizzare al di
fuori della zona A) di cui al decreto del
Ministro per i lavori pubblici 02.04.1968,
n. 1444;
e) le aree ludiche senza fini di lucro e gli
elementi di arredo delle aree pertinenziali
degli edifici.
Ove l’interessato non rispetti le
prescrizioni procedurali dettate dalla norma
(commi 3, 4 e 5: in particolare, comunicare
l’inizio dei lavori e/o trasmettere la
dichiarazione di un suo tecnico che asseveri
la conformità dei lavori agli strumenti
urbanistici, attestando la non necessità di
un titolo abilitativo ai sensi della legge
nazionale), andrà soggetto ad una sanzione
amministrativa pecuniaria (prevista dal
comma 7), eventualmente ridotta di due terzi
se la comunicazione è effettuata
spontaneamente quando l’intervento è in
corso di esecuzione.
Trattasi di una disciplina vista con
particolare favore dal legislatore nazionale
che, nell’ottica del rispetto del rapporto
Stato/Regioni (segnatamente dell’art. 117
Cost. che prevede una potestà legislativa
concorrente delle Regioni quanto al governo
del territorio), prevede che le regioni a
statuto ordinario:
a) possono estendere la disciplina di cui al
presente articolo a interventi edilizi
ulteriori rispetto a quelli sopra indicati;
b) possono individuare ulteriori interventi
edilizi, tra quelli appartenenti alla
seconda categoria, per i quali è fatto
obbligo all’interessato di trasmettere la
relazione tecnica di cui sopra;
c) possono stabilire ulteriori contenuti per
la relazione tecnica di cui sopra, nel
rispetto di quelli minimi fissati dalla
stessa norma.
L’art. 5 è chiaramente volto ad ampliare
-mediante sostituzione dell’art. 6 del T.U.
dell’edilizia- le tipologie di interventi
rientranti nell’attività edilizia libera (in
precedenza, tale tipologia includeva la
manutenzione ordinaria, l’eliminazione di
barriere architettoniche e le opere
temporanee per attività di ricerca nel
sottosuolo, dalle quali la legge n. 73/2010
ha escluso le attività di ricerca di
idrocarburi).
Orbene, la nuova elencazione delle attività
“libere”, anzitutto, secondo la Corte
deve intendersi non come tassativa ma
esemplificativa “con la conseguenza che
deve ritenersi richiesto il rispetto di
tutta la normativa di settore, ancorché non
menzionata, che abbia comunque rilevanza
nell’ambito dell’attività edilizia”. Per
tale ragione, dunque, devono essere esclusi
dall’applicazione del regime di favore
introdotto dall’art. 6 novellato tutti gli
interventi eseguiti in contrasto con le
disposizioni precettive degli strumenti
urbanistici comunali ed in violazione delle
altre disposizioni menzionate.
Così interpretata la norma, quindi, non
poteva esservi spazio per la tesi difensiva.
Ed infatti, la realizzazione delle opere
abusive era avvenuta in area classificata
dallo strumento urbanistico come zona
agricola E, ossia in evidente contrasto con
la destinazione urbanistica dell’area
(commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di
Cassazione penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19316
- link a www.lexambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
convalida degli atti amministrativi è
positivamente prevista sia dall’art. 6 l. n.
249/1968, secondo il quale “alla convalida
degli atti viziati da incompetenza può
provvedersi anche in pendenza di gravame in
sede amministrativa e giurisdizionale”, sia
dall’art. 21-nonies, comma 2, l. n.
241/1990, in base al quale “è fatta salva la
possibilità di convalida del provvedimento
annullabile, sussistendone le ragioni di
interesse pubblico ed entro un termine
ragionevole”.
L’art. 21-nonies l. n. 241/1990, nel
richiedere l’esistenza di “ragioni di
interesse pubblico” alla convalida non
esclude, di per sé, la necessità di motivare
in ordine all’adozione di tale
provvedimento. Ma ciò non comporta che
l’organo adottante il provvedimento di
convalida debba ripercorrere, con obbligo di
dettagliata motivazione, tutti gli aspetti
(e gli atti del procedimento) relativi al
provvedimento convalidato, essendo
sufficiente che emergano chiaramente
dall’atto convalidante le ragioni di
interesse pubblico e la volontà del’organo
di assumere tale atto.
Come è noto, la convalida degli atti
amministrativi è positivamente prevista sia
dall’art. 6 l. n. 249/1968, secondo il quale
“alla convalida degli atti viziati da
incompetenza può provvedersi anche in
pendenza di gravame in sede amministrativa e
giurisdizionale”, sia dall’art.
21-nonies, comma 2, l. n. 241/1990, in base
al quale “è fatta salva la possibilità di
convalida del provvedimento annullabile,
sussistendone le ragioni di interesse
pubblico ed entro un termine ragionevole”.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha
avuto modo di osservare che, per effetto
dell’art. 21-nonies sopra citato (introdotto
dalla l. n. 15/2005), appare evidente “l'intendimento
del legislatore di consentire oggi, in via
generale, il mantenimento in vita di
provvedimenti affetti soltanto da vizi di
carattere formale”, come quello di
incompetenza, e che, in tal caso, non si
necessita di particolare, dettagliata
motivazione in ordine all’oggetto del
provvedimento da convalidare e degli atti a
questo antecedenti (Cons. St., sez. IV,
29.05.2009 n. 3371).
Orbene, l’art. 21-nonies l. n. 241/1990
(peraltro non ancora introdotto all’epoca
dei fatti di causa), nel richiedere
l’esistenza di “ragioni di interesse
pubblico” alla convalida non esclude, di
per sé, la necessità di motivare in ordine
all’adozione di tale provvedimento.
Ma ciò, per un verso, non comporta che
l’organo adottante il provvedimento di
convalida debba ripercorrere, con obbligo di
dettagliata motivazione, tutti gli aspetti
(e gli atti del procedimento) relativi al
provvedimento convalidato, essendo
sufficiente che emergano chiaramente
dall’atto convalidante le ragioni di
interesse pubblico e la volontà del’organo
di assumere tale atto; per altro verso (e in
via generale con riferimento all’obbligo di
motivazione degli atti amministrativi, ex
art. 3 l. n. 241/1990), la motivazione
dell’atto e la sua congruità, al di là degli
enunciati a carattere generale, non possono
che essere valutati con riferimento al tipo
di provvedimento da emanare in concreto.
Orbene, nel caso di specie:
- in primo luogo, finalità del provvedimento
di convalida è quella di sanare il vizio di
incompetenza che vizia l’atto annullato;
- in secondo luogo, l’atto da convalidare
consiste in una approvazione di atto di
altra amministrazione, e quindi esclude
valutazioni proprie dell’organo approvante
(non essendo questi il titolare della
potestà pianificatoria);
- da ultimo, l’atto di convalida è stato
assunto da un collegio cd. “virtuale ed
imperfetto”, quale è il consiglio
provinciale, dove l’adozione del
provvedimento consegue al vaglio di un
collegio variamente composto, il che rende
di per sé difficile sostenere l’esistenza di
una mera operazione di “riproduzione” di un
atto affetto da illegittimità per
incompetenza.
Appaiono dunque evidenti, nel caso di
specie, le ragioni che hanno determinato il
Consiglio provinciale di Ancona ad assumere
un atto di convalida della precedente
delibera della Giunta provinciale e
l’infondatezza del primo motivo di appello
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.05.2011 n. 2863 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Il
parere previsto dall’art. 13 l. n. 64/1974,
attese le sue finalità, ben può essere reso
prima dell’adozione definitiva dello
strumento urbanistico da parte dell’organo
competente (e quindi anche dopo la prima
delibera consiliare di adozione).
Anzi, in questo particolare momento
dell’iter procedimentale, l’ufficio preposto
a rendere il detto parere esamina un atto
che non è una mera espressione di un
intendimento espresso dalla sola Giunta
Comunale (se non addirittura neanche
visionato da alcun organo titolare di
indirizzo politico-amministrativo, ma solo
da apparati burocratici
dell’amministrazione), bensì un atto di
pianificazione urbanistica sul quale si è
già positivamente espresso l’organo
(Consiglio comunale) che, nell’ambito del
Comune, è il titolare del potere di
pianificazione urbanistica.
Questo Consiglio di Stato ha già ritenuto
che non costituisce vizio di violazione
dell’art. 13 l. n. 64/1974 l’acquisizione
del parere dell’ufficio del genio civile
intervenuta prima dell’approvazione
definitiva dello strumento urbanistico.
L’art. 13 l. n. 64/1974 (ndr: "Provvedimenti
per le costruzioni con particolari
prescrizioni per le zone sismiche"),
prevede:
- (comma 1) “tutti i comuni nei quali
sono applicabili le norme di cui al titolo
II della presente legge e quelli di cui al
precedente articolo 2, devono richiedere il
parere delle sezioni a competenza statale
del competente ufficio del genio civile
sugli strumenti urbanistici generali e
particolareggiati prima della delibera di
adozione nonché sulle lottizzazioni
convenzionate prima della delibera di
approvazione, e loro varianti ai fini della
verifica della compatibilità delle
rispettive previsioni con le condizioni
geomorfologiche del territorio.”
- (comma 2) “le sezioni a competenza
statale degli uffici del genio civile devono
pronunciarsi entro sessanta giorni dal
ricevimento della richiesta
dell'amministrazione comunale”.
Successivamente, l’art. 20 l. n. 741/1981,
ha previsto, tra l’altro, che “al fine di
vigilare sulle costruzioni per la
prevenzione del rischio sismico in
applicazione delle norme di cui al capo III
della L. 02.02.1974, n. 64, le regioni
possono definire, con legge, modalità di
controllo successivo anche con metodi a
campione; in tal caso, possono prevedere che
l'autorizzazione preventiva di cui
all'articolo 18 della L. 02.02.1974, n. 64,
non sia necessaria per l'inizio dei lavori.
Per l'osservanza delle norme sismiche, resta
ferma la responsabilità del progettista, del
direttore dei lavori, dell'impresa e del
collaudatore.”.
La sentenza appellata ha ritenuto:
- per un verso, che, avendo la Regione
Marche adottato la l. reg. 05.08.1992 n. 34
e, quindi, avendo essa dettato “una
disciplina compiuta in materia urbanistica .
. . si è, dunque, realizzata la condizione
di cui all’art. 20 l. n. 741/1981”, cioè
il superamento dell’obbligo di acquisire il
parere preventivo dell’ufficio del Genio
civile (ovvero, oggi, ufficio regionale ad
esso subentrato);
- per altro verso, che essendo stato
comunque espresso il parere da parte
dell’ufficio competente, sia pure dopo
l’adozione del PRG, ma prima della sua
adozione definitiva, tanto basta a ritenere
rispettato l’art. 13 l. n. 64/1974 (ove
ritenuto vigente).
Questo Consiglio di Stato ritiene che il
parere previsto dall’art. 13 l. n. 64/1974,
attese le sue finalità, ben possa essere
reso prima dell’adozione definitiva dello
strumento urbanistico da parte dell’organo
competente (e quindi anche dopo la prima
delibera consiliare di adozione).
Anzi, in questo particolare momento
dell’iter procedimentale, l’ufficio preposto
a rendere il detto parere esamina un atto
che non è una mera espressione di un
intendimento espresso dalla sola Giunta
Comunale (se non addirittura neanche
visionato da alcun organo titolare di
indirizzo politico-amministrativo, ma solo
da apparati burocratici
dell’amministrazione), bensì un atto di
pianificazione urbanistica sul quale si è
già positivamente espresso l’organo
(Consiglio comunale) che, nell’ambito del
Comune, è il titolare del potere di
pianificazione urbanistica.
D’altra parte, questo Consiglio di Stato ha
già ritenuto (proprio pronunciandosi su una
sentenza del TAR Marche, n. 72/1998), che
non costituisce vizio di violazione
dell’art. 13 l. n. 64/1974 l’acquisizione
del parere dell’ufficio del genio civile
intervenuta prima dell’approvazione
definitiva dello strumento urbanistico
(Cons. St., sez. IV, 27.04.2004 n. 2521)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.05.2011 n. 2863 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: In
sede di adozione del piano regolatore
generale, l’amministrazione comunale non è
tenuta ad una particolareggiata motivazione
in ordine ad ogni singola scelta urbanistica
effettuata con il nuovo strumento di
pianificazione, anche laddove la nuova
scelta si discosti da destinazioni
precedentemente impresse al territorio dal
precedente strumento urbanistico, essendo
sufficiente che emergano nel complesso le
ragioni che sorreggono l’esercizio della
potestà pianificatoria.
In sede di adozione del piano
regolatore generale, l’amministrazione
comunale non è tenuta ad una
particolareggiata motivazione in ordine ad
ogni singola scelta urbanistica effettuata
con il nuovo strumento di pianificazione,
anche laddove la nuova scelta si discosti da
destinazioni precedentemente impresse al
territorio dal precedente strumento
urbanistico, essendo sufficiente che
emergano nel complesso le ragioni che
sorreggono l’esercizio della potestà
pianificatoria
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.05.2011 n. 2863 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Anteriormente
all’entrata in vigore del D.L.vo 22.01.2004
n. 42 l’autorizzazione paesaggistica
costituiva condizione di efficacia e non di
validità della concessione edilizia, non
potendo all’epoca ritenersi precluso il
rilascio del titolo edilizio pur in assenza
di un nulla osta efficace.
Il Collegio, per parte propria, evidenzia
che, in effetti, anteriormente all’entrata
in vigore del D.L.vo 22.01.2004 n. 42
l’autorizzazione paesaggistica costituiva
condizione di efficacia e non di validità
della concessione edilizia, non potendo
all’epoca ritenersi precluso il rilascio del
titolo edilizio pur in assenza di un nulla
osta efficace (cfr. sul punto Cons. Stato,
Sez. VI, 10.02.2006 n. 547 e Sez. V,
14.01.2003 n. 87; cfr., altresì, Cass. Pen.,
sez. III, 01.12.1997 n. 1492); ma tale
enunciazione di principio è intrinsecamente
insostenibile nell’ipotesi di formazione del
titolo per silenzio-assenso, nella quale la
legge stessa condiziona la formazione del
titolo medesimo per mero decorso del tempo
all’imprescindibile sussistenza di tutti gli
altri presupposti parimenti richiesti ex
lege al fine di legittimare l’attività
di trasformazione del territorio.
Pertanto, se l’intervento edilizio si doveva
effettuare in una zona vincolata a’ sensi
dell’allora vigente L. 1497 del 1939, la
domanda di concessione edilizia doveva
essere corredata dal prescritto nullaosta,
costituente parte integrante della domanda
stessa, nonché condizione essenziale per il
consolidamento della fattispecie del
silenzio-assenso disciplinato nell’art. 8
del D.L. 9 del 1982 (cfr. sul punto, ad es.,
Cons. Stato, Sez. V, 24.03.1998 n. 343);
senza sottacere –poi– che secondo altra e
ben più rigida giurisprudenza, la
fattispecie medesima non poteva addirittura
trovare applicazione per la formazione dei
titoli edilizi in aree assoggettate alla
tutela dei beni paesaggistici (cfr. in tal
senso, ad es., Cons. Stato, Sez. VI,
12.04.1996 n. 541)
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2011 n. 2759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
comunicazione del parere favorevole della
Commissione Edilizia non equivale a rilascio
del relativo titolo.
Il comunicare che una concessione “può
essere” rilasciata non equivale, sotto il
profilo sia lessicale che logico, ad una
volizione costitutiva recante direttamente
il rilascio del provvedimento richiesto, ma
prefigura una futura ulteriore (ed
eventuale) volizione di rilascio.
Secondo la
costante giurisprudenza, già dopo l’entrata
in vigore della L. 28.01.1977 n. 10, la
comunicazione del parere favorevole della
Commissione Edilizia non equivale a rilascio
del relativo titolo (cfr. sul punto, ex
plurimis, Cons. Stato, Sez. IV,
12.12.1997 n. 1409 e Sez. V, 29.07.2003 n.
4325); senza sottacere che, come a ragione
rimarcato dalla difesa del Comune, il
comunicare che una concessione “può
essere” rilasciata non equivale, sotto
il profilo sia lessicale che logico, ad una
volizione costitutiva recante direttamente
il rilascio del provvedimento richiesto, ma
prefigura una futura ulteriore (ed
eventuale) volizione di rilascio
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.05.2011 n. 2759 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rimborso delle spese legali
sostenute dal dipendente per giudizi per
responsabilità civile, penale o
amministrativa.
E’ illegittimo, ai sensi dell’art. 18 del
d.l. 25.03.1997 n. 67, convertito dalla l.
23.05.1997 n. 135, il diniego di rimborso
delle spese legali sostenute da un
dipendente pubblico assolto in sede penale,
motivato con riferimento al fatto che "la
condotta concretamente posta in essere dal
dipendente non è riferibile alla tutela di
interessi propri dell’Amministrazione di
appartenenza", nel caso in cui risulti
che il dipendente stesso (nella specie si
trattava del Comandante di una Stazione dei
Carabinieri) sia stato imputato e poi
assolto in sede penale per il reato di falso
nello svolgimento delle attività di ufficio
(nella specie, nell’ambito di una
perquisizione domiciliare), trattandosi di
reato tipico che può essere compiuto
soltanto nello svolgimento dei compiti
istituzionali (1).
---------------
(1) Nella specie al dipendente pubblico
in sede panale era stato contestato di aver
posto in essere, nell’ambito dell’attività
di servizio svolta quale Comandante della
Stazione dei Carabinieri, comportamenti
diversi da quelli poi fatti risultare in
atti pubblici, il che è stato poi smentito
dal giudice penale.
E’ stata ritenuta irrilevante la circostanza
che il dipendente possa essersi determinato
ad eseguire la perquisizione domiciliare al
fine di non incorrere in eventuali sanzioni
disciplinari, come sostenuto nella sentenza
appellata.
V. in argomento da ult. C.G.A., sentenza
19.04.2011 n. 316 (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - C.G.A.R.S,
sentenza 02.05.2011 n.
347 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
varianti a contenuto generale o di ampie
zone e comparti territoriali, devono essere
contestate in giudizio nel termine
decadenziale decorrente dalla data di
pubblicazione, non essendo richiesta la
notificazione agli interessati né il decorso
dell’ulteriore termine di efficacia.
Relativamente all’individuazione dei vincoli
espropriativi, concretamente sottoposti al
termine quinquennale di efficacia e la cui
reiterazione dà pertanto titolo a un
indennizzo, si è affermato un indirizzo
rigoroso e restrittivo, nel senso che
avrebbero carattere non «espropriativo», ma
solo conformativo, e perciò non sarebbero
soggetti a decadenza ed all’obbligo
dell’indennizzo, tutti i vincoli di
inedificabilità imposti dal piano regolatore
(o sue varianti), a qualsivoglia titolo, per
ragioni lato sensu ambientali: il vincolo di
inedificabilità (c.d. di rispetto) a tutela
di una strada esistente; il vincolo di
«verde attrezzato», il vincolo d’inedificabilità
per un parco e per una zona agricola di
pregio, la destinazione a verde privato.
La reiterazione del vincolo in una variante
non comporta modifiche alla natura, alla
funzione e al contenuto dello strumento
urbanistico che resta un atto pianificatorio
a contenuto generale (anche quando contiene
una misura del tipo di quella in questione),
sicché il regime di impugnazione deve
intendersi il medesimo delle delibere
originarie di pianificazione territoriale,
con l’ulteriore corollario che il dies a
quo per il ricorso decorre per tutti gli
interessati (ivi compresi i proprietari di
terreni colpiti dai vincoli reiterati),
dall’ultimo giorno della pubblicazione del
provvedimento con il quale è intervenuta
l’approvazione definitiva dello strumento
urbanistico; pertanto le varianti a
contenuto generale o di ampie zone e
comparti territoriali, devono essere
contestate in giudizio nel termine
decadenziale decorrente dalla data di
pubblicazione, non essendo richiesta la
notificazione agli interessati né il decorso
dell’ulteriore termine di efficacia (c.d.
vacatio che non incide sulla
conoscibilità dell’atto (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 27.07.2007, n. 4198; sez. IV,
28.02.2005, n. 764).
Per completezza si osserva che per quanto
riguarda l’individuazione dei vincoli
espropriativi, concretamente sottoposti al
termine quinquennale di efficacia e la cui
reiterazione dà pertanto titolo a un
indennizzo, si è affermato, in seguito a
Corte cost. 20.05.1999, n. 179, un indirizzo
rigoroso e restrittivo, nel senso che
avrebbero carattere non «espropriativo»,
ma solo conformativo, e perciò non sarebbero
soggetti a decadenza ed all’obbligo
dell’indennizzo, tutti i vincoli di
inedificabilità imposti dal piano regolatore
(o sue varianti), a qualsivoglia titolo, per
ragioni lato sensu ambientali: il
vincolo di inedificabilità (c.d. di
rispetto) a tutela di una strada esistente;
il vincolo di «verde attrezzato», il
vincolo d’inedificabilità per un parco e per
una zona agricola di pregio, la destinazione
a verde privato (cfr. Cons. St., sez. IV,
23.12.2010, n. 9372; sez. VI, 19.03.2008, n.
1201; ad. plen., 24.05.2007, n. 7)
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 28.04.2011 n. 2534 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
di costruire. Irricevibilità di un ricorso
proposto oltre 60 giorni dalla data di
affissione del cartello di inizio lavori.
E’ irricevibile il ricorso con il quale è
stato impugnato un permesso di costruire,
nel caso in cui il ricorso stesso sia stato
notificato dopo il decorso del termine
decadenziale di 60 giorni dalla data di
affissione del cartello di inizio dei
lavori, ubicato in maniera ben visibile a
chiunque ed a meno di un metro dal cancello
di entrata dell’esercizio commerciale del
ricorrente (ha aggiunto la sentenza in
rassegna che il termine d'impugnazione in
ogni caso decorreva dalla data del rilascio
del certificato di destinazione urbanistica
dei suoli oggetto dell’intervento, in
quanto, ragionevolmente, a quella data il
ricorrente aveva la piena conoscenza degli
elaborati progettuali del permesso di
costruire impugnato, i cui estremi erano
indicati nel cartello di inizio lavori).
(Nel senso che la semplice collocazione del
cartello non sia sufficiente a far decorrere
i termini per l’impugnazione di una
concessione edilizia è la prevalente
giurisprudenza. Per riferimenti v. in part.
da ult. Cons. Stato, Sez. V, sentenza
12-07-2010)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it -
TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 28.04.2011 n.
666 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Installazione di impianti
pubblicitari nel territorio comunale.
Valutazione complessiva di compatibilità con
l’igiene pubblica e l’estetica cittadina.
Il regolamento previsto dall’art. 3 del
D.Lgs. 15.11.1993 n. 507 –con il quale il
Comune disciplina le modalità di svolgimento
della pubblicità, la tipologia e la quantità
degli impianti pubblicitari, nonché le
modalità per ottenere l’autorizzazione alla
loro installazione– si riferisce non solo
agli impianti comunali di affissione, ma
anche all’installazione di impianti posti in
essere da privati su aree private, ai quali
si estende la valutazione complessiva di
compatibilità dell’installazione di impianti
pubblicitari nel territorio comunale con
l’igiene pubblica e l’estetica cittadina,
nonché la ponderazione delle relative
implicazioni economiche e delle diverse
possibili modalità di più proficua
realizzazione del pubblico interesse sotteso
a tale disciplina, che sono proprie della
predetta sede regolamentare (Cfr. TAR
Lombardia-Milano, sez. III, 17.04.2002 n.
1490).
E’ legittimo il provvedimento con il quale è
stata rigettata una istanza di
autorizzazione per la posa di un cartello
pubblicitario lungo una strada pubblica,
motivato con riferimento alla necessità di
preservare l’area in cui ricade (nella
specie l’area era attigua ad un parco) da
qualsiasi elemento di disturbo, tenuto conto
peraltro del fatto che il regolamento del
Comune, sull’uso delle aree verdi, prescrive
l’obbligo di munirsi di specifica
autorizzazione per la posa di arredi e/o
qualunque intervento che interessi aree
verdi.
Tale scelta è infatti orientata a precludere
trasformazioni edilizie ed anche alterazioni
minime in una ben individuata (e ridotta)
porzione di territorio, senza introdurre un
generalizzato divieto di collocare cartelli
pubblicitari su ampie estensioni (Cfr. TAR
Lombardia-Brescia, sez. II, 01.12.2009 n.
2391) ed è preordinata alla protezione di
valori pregnanti come il decoro e l’estetica
degli spazi pubblici, presso un’area già
riconosciuta ex lege come
particolarmente sensibile (cfr. vincolo
legge Galasso) (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.04.2011 n.
640 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gara: legittima la clausola che
impone la firma del documento di
riconoscimento.
E’ legittima la
clausola del disciplinare di gara che impone
la firma autografa in originale della copia
del documento di riconoscimento
dell’offerente.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale ribalta l’appellata sentenza
del Tar Liguria che aveva dichiarato
illegittima la clausola del disciplinare di
un’asta immobiliare la quale, a pena di
esclusione, imponeva la sottoscrizione del
concorrente sulla copia del documento,
formalismo ritenuto dal Tar illogico e
sproporzionato. Pertanto, non può essere
invalidata una gara pubblica che contempli,
a pena di esclusione, analoga prescrizione
nella relativa lex specialis.
Il Tar Liguria era stato chiamato a decidere
sull’impugnazione del verbale di
aggiudicazione e del disciplinare di gara,
relativi ad un’asta immobiliare, nella parte
in cui il primo aveva escluso la ricorrente,
senza che fosse stata aperta la busta
contenente l’offerta economica. Una delle
partecipanti si era vista estromettere in
quanto non aveva apposto la propria firma
autografa sulla fotocopia del documento di
identità che aveva prodotto. Il Tar adito in
primo grado annullava l’aggiudicazione
dell’immobile riconoscendo illegittima la
clausola del disciplinare di gara in quanto
imponeva un “inutile formalismo”.
Il ricorrente in appello ha invece
sottolineato la doverosità dell’esclusione
della ricorrente in primo grado, poiché la
lex specialis della gara prevedeva la
sanzione dell’esclusione per l’ipotesi di
omessa sottoscrizione della fotocopia del
documento, rilevando che tale onere non
fosse né illogico né sproporzionato.
Il Consiglio di Stato, riconoscendo che
l’adempimento della sottoscrizione era
previsto “a pena di esclusione”, ha
accolto la doglianza dell’appellante
ritenendo legittima la clausola del
disciplinare che imponeva l’onere della
firma sulla copia del documento. La mancata
illogicità è stata ancorata all’attribuibilità
della domanda di partecipazione al soggetto
offerente, attraverso la comparazione delle
sottoscrizioni presenti sull’istanza e
sull’offerta a quella apposta sul documento.
Infine, l’adempimento non è stato ritenuto
sproporzionato poiché limitato alla semplice
lettura del bando e all’apposizione della
sottoscrizione
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.04.2011 n. 2478 -
link a www.altalex.com). |
URBANISTICA: All’interno
delle convenzioni di urbanizzazione sussiste
la prevalenza del profilo della libera
negoziazione.
Invero, sebbene sia innegabile che la
convenzione di lottizzazione, a causa dei
profili di stampo giuspubblicistico che si
accompagnano allo strumento dichiaratamente
contrattuale, rappresenti un istituto di
complessa ricostruzione, non può negarsi che
in questo si assista all’incontro di volontà
delle parti contraenti nell'esercizio
dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile.
La giurisprudenza si è oramai orientata
nell’affermare, all’interno delle
convenzioni di urbanizzazione, la prevalenza
del profilo della libera negoziazione.
Infatti, si è affermato (Consiglio di Stato,
sez. V, 10.01.2003, n. 33; Consiglio di
Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4015) che,
sebbene sia innegabile che la convenzione di
lottizzazione, a causa dei profili di stampo
giuspubblicistico che si accompagnano allo
strumento dichiaratamente contrattuale,
rappresenti un istituto di complessa
ricostruzione, non può negarsi che in questo
si assista all’incontro di volontà delle
parti contraenti nell'esercizio
dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.04.2011 n. 2040 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quando anche nel corso di un
intervento autorizzato di manutenzione, un
edificio pervenga ad una demolizione (anche
per cause naturali), il titolo
autorizzatorio perde la propria efficacia e,
per il nuovo intervento ricostruttivo,
occorre l’idoneo titolo abilitativo,
all’epoca consistente nella concessione
edilizia.
Quando anche nel corso di un intervento
autorizzato di manutenzione, un edificio
pervenga ad una demolizione (anche per cause
naturali), il titolo autorizzatorio perde la
propria efficacia e, per il nuovo intervento
ricostruttivo, occorre l’idoneo titolo
abilitativo, all’epoca consistente nella
concessione edilizia (Cons. St. Sez. IV,
16.04.2010, n. 2175, 19.02.2007, n. 867).
Pertanto, correttamente l’amministrazione,
accertata l’integrale diversa tipologia
delle opere rispetto all’intervento di
manutenzione autorizzato, ha dato
applicazione all’art. 7 della legge
28.02.1985, n. 47 che prevede , per le opere
eseguite in totale difformità dalla
concessione o in assenza di concessione ,
l’ingiunzione della demolizione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 01.04.2011 n. 2020 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
possibilità di deroga al vincolo
paesaggistico (ex art. 1, comma 2, della
legge n. 431/1985) riguarda soltanto le aree
comprese in previsioni urbanistiche già
approvate alla data di entrata in vigore
della legge e non può essere estesa ai
successivi atti programmatori.
L’art. 1, comma 2, della legge n. 431/1985
stabilisce che “Il vincolo di cui al
precedente comma non si applica alle zone A,
B e -limitatamente alle parti ricomprese nei
piani pluriennali di attuazione- alle altre
zone, come delimitate negli strumenti
urbanistici ai sensi del decreto
ministeriale 02.04.1968, n. 1444, e, nei
comuni sprovvisti di tali strumenti, ai
centri edificati perimetrati ai sensi
dell'art. 18 della legge 22.10.1971, n. 865”.
Secondo la giurisprudenza, la possibilità di
deroga al vincolo paesaggistico riguarda
soltanto le aree comprese in previsioni
urbanistiche già approvate alla data di
entrata in vigore della legge e non può
essere estesa ai successivi atti
programmatori (Consiglio Stato, sez. VI,
04.12.1996, n. 1679; sez. VI, 22.04.2004, n.
2332, secondo cui la disciplina statale
àncora l'esclusione dal vincolo
paesaggistico predisposto per legge alla
delimitazione dei terreni negli strumenti
urbanistici come zone A e B ad una data
determinata, e cioè al 06.09.1985, epoca di
entrata in vigore della l. n. 431 del 1985)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 01.04.2011 n. 2015 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Per
"mobbing" si intende comunemente una
condotta del datore di lavoro o del
superiore gerarchico, sistematica e
protratta nel tempo, tenuta nei confronti
del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che
si risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili che finiscono per
assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l’emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti: a) la molteplicità di
comportamenti di carattere persecutorio,
illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente, che siano stati posti in
essere in modo miratamente sistematico e
prolungato contro il dipendente con intento
vessatorio; b) l’evento lesivo della salute
o della personalità del dipendente; c) il
nesso eziologico tra la condotta del datore
o del superiore gerarchico e il pregiudizio
all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè
dell’intento persecutorio.
Costituisce mobbing l’insieme delle condotte
datoriali protratte nel tempo e con le
caratteristiche della persecuzione
finalizzata all’emarginazione del dipendente
con comportamenti datoriali, materiali o
provvedimentali, indipendentemente
dall’inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di
specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato; sicché, la
sussistenza della lesione, del bene protetto
e delle sue conseguenze deve essere
verificata, procedendosi alla valutazione
complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi, considerando
l’idoneità offensiva della condotta, che può
essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell’azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificatamente
da una connotazione emulativa e pretestuosa.
Tuttavia, determinati comportamenti non
possono essere qualificati come mobbing se è
dimostrato che vi è una ragionevole e
alternativa spiegazione.
Come evidenziato da Cass. civ., Sez. lav.,
17.02.2009, n. 3785 “Per "mobbing" si
intende comunemente una condotta del datore
di lavoro o del superiore gerarchico,
sistematica e protratta nel tempo, tenuta
nei confronti del lavoratore nell’ambiente
di lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono
per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l’emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e
del complesso della sua personalità. Ai fini
della configurabilità della condotta lesiva
del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti: a) la molteplicità di
comportamenti di carattere persecutorio,
illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente, che siano stati posti in
essere in modo miratamente sistematico e
prolungato contro il dipendente con intento
vessatorio; b) l’evento lesivo della salute
o della personalità del dipendente; c) il
nesso eziologico tra la condotta del datore
o del superiore gerarchico e il pregiudizio
all’integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè
dell’intento persecutorio.”.
Rileva inoltre Cons. Stato, Sez. IV,
21.04.2010, n. 2272 che “La ricorrenza di
una condotta mobbizzante va esclusa quante
volte la valutazione complessiva
dell’insieme delle circostanze addotte e
accertate nella loro materialità, pur se
idonea a palesare "singulatim" elementi e
episodi di conflitto sul luogo di lavoro,
non consenta di individuare, secondo un
giudizio di verosimiglianza, il carattere
unitariamente persecutorio e discriminante
nei confronti del singolo del complesso
delle condotte poste in essere sul luogo di
lavoro.”.
Ed ancora secondo Cons. Stato, Sez. IV,
07.04.2010, n. 1991 “La condotta di
mobbing dell’Amministrazione pubblica
datrice di lavoro, consistente in
comportamenti materiali o provvedimentali
contraddistinti da finalità di persecuzione
e di discriminazione, indipendentemente
dalla violazione di specifici obblighi
contrattuali nei confronti di un suo
dipendente, deve da quest’ultimo essere
provata e, a tal fine, valenza decisiva è
assunta dall’accertamento dell’elemento
soggettivo, e cioè dalla prova del disegno
persecutorio.”.
Infine Cons. Stato, Sez. VI, 06.05.2008, n.
2015 ha sottolineato che “Costituisce
mobbing l’insieme delle condotte datoriali
protratte nel tempo e con le caratteristiche
della persecuzione finalizzata
all’emarginazione del dipendente con
comportamenti datoriali, materiali o
provvedimentali, indipendentemente
dall’inadempimento di specifici obblighi
contrattuali o dalla violazione di
specifiche norme attinenti alla tutela del
lavoratore subordinato; sicché, la
sussistenza della lesione, del bene protetto
e delle sue conseguenze deve essere
verificata, procedendosi alla valutazione
complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi, considerando
l’idoneità offensiva della condotta, che può
essere dimostrata, per la sistematicità e
durata dell’azione nel tempo, dalle sue
caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificatamente
da una connotazione emulativa e pretestuosa.
Tuttavia, determinati comportamenti non
possono essere qualificati come mobbing se è
dimostrato che vi è una ragionevole e
alternativa spiegazione.” (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 31.03.2011 n. 528 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Costituisce principio generale
che la motivazione del provvedimento possa
risultare da altro atto dell’Amministrazione
richiamato dalla decisione stessa, purché
tale atto sia comunicato e reso disponibile
insieme alla decisione, cioè al
provvedimento finale che ad esso si
richiama.
Costituisce principio generale, sancito
normativamente dall’art. 3, comma 3, della
L. n. 241 del 1990, che la motivazione del
provvedimento possa risultare da altro atto
dell’Amministrazione richiamato dalla
decisione stessa, purché tale atto sia
comunicato e reso disponibile insieme alla
decisione, cioè al provvedimento finale che
ad esso si richiama (Cons. Stato, VI Sez.,
n. 6724/2008)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.03.2011 n. 1879 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzazione di un parcheggio
interrato, con relativi accessi, e la
copertura con un tetto giardino devono
essere considerati nuovi volumi ai fini
paesaggistici e, come tali, si pongono in
contrasto con quelle disposizioni del PTP
volte ad impedire la realizzazione di nuove
strutture stabili che comunque risultano
rilevanti ai fini paesaggistici.
Non è possibile
sostenere, come fa la ricorrente, che tali
opere (ndr: realizzazione di un parcheggio
pertinenziale interrato per un numero
complessivo di 45 box auto) determinano solo
volumi tecnici, che non si pongono quindi in
contrasto con il PTP.
Il divieto di incremento dei volumi
esistenti, imposto ai fini di tutela del
paesaggio, preclude infatti qualsiasi nuova
edificazione comportante creazione di
volume, senza che sia possibile distinguere
tra volume tecnico ed altro tipo di volume
(cfr., Cons. Stato, IV, n. 102/1997, in cui
proprio in una fattispecie simile alla
presente è stato ritenuto che costituisce
opera valutabile anche come aumento di
volume la realizzazione di un garage
interrato con accesso all’esterno tramite
rampa in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico).
Ogni tipo di volume determina una
alterazione dello stato dei luoghi; proprio
quello che nel caso di specie le norme di
tutela vogliono impedire.
Pertanto, la realizzazione di un parcheggio
interrato, con relativi accessi, e la
copertura con un tetto giardino devono
essere considerati nuovi volumi ai fini
paesaggistici e, come tali, si pongono in
contrasto con quelle disposizioni del PTP
volte ad impedire la realizzazione di nuove
strutture stabili che comunque risultano
rilevanti ai fini paesaggistici (Cfr. dec.
n. 2388/2005 cit.)
Né può ritenersi, come vorrebbe
l’appellante, che l’interesse pubblico
connesso ad un minor carico di traffico
automobilistico faccia prevalere, attraverso
il meccanismo della deroga, la normativa
regolante i parcheggi sulle norme del Piano
territoriale paesaggistico, attese le
prevalenti finalità di tutela,
particolarmente rigorosa, di quest’ultimo.
Come pure deve ritenersi che non fosse
necessario esperire nessuna particolare
istruttoria sull’area de qua, che per
destinazione urbanistica di Piano non era
suscettibile dell’intervento proposto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 28.03.2011 n. 1879 -
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EDILIZIA PRIVATA: L'art.
9, punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m.
10 lineari fra le pareti) risulta
applicabile solo in aree diverse dalla zona
A.
Deve precisarsi come il ricordato art. 9,
punto 2, d.m. n. 1444/1968 (implicante m. 10
lineari fra le pareti) risulti applicabile
solo in aree diverse dalla zona A e, quindi,
in situazioni completamente differenziate da
quella in questione (relativa al semplice
ampliamento di un manufatto già edificato)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.03.2011 n. 1781 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
merito al ritardo del Comune nell'escutere
la fideiussione a garanzia del versamento
degli oo.uu. e, conseguentemente, sugli
effetti circa gli interessi per il mancato
pagamento.
Come affermato da questo Consiglio in caso
consimile (sez. V, 05.02.2003, n. 571), “ove
una società, per il rilascio di una
concessione edilizia per la realizzazione di
un impianto industriale abbia corrisposto la
metà del contributo dovuto per oneri di
urbanizzazione, mentre la parte residua sia
stata rateizzata in due anni e sia stata
consegnata al comune una fideiussione con
espressa rinuncia al "beneficium excussionis"
e l'obbligo del fideiussore di versare
quanto richiesto in termini brevi previo
semplice avviso, sussiste una obbligazione
di garanzia del tutto autonoma rispetto al
rapporto creditore-debitore principale;
pertanto, è sufficiente la semplice
richiesta dal comune al fideiussore per
ottenere il pagamento, con la conseguenza
che l'inerzia del comune va interpretata, in
caso di controversia sul punto
dell'applicabilità dell'art. 3 legge n. 47
del 1985, quale volontà da parte del comune
di rinunziare alla clausola predetta e la
successiva pretesa da parte
dell'amministrazione degli interessi per
ritardato pagamento costituisce violazione
dei doveri di correttezza cui è tenuto il
creditore per rendere meno gravosa la
posizione del debitore nell'adempiere ad
un'obbligazione”
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 02.03.2011 n. 1357 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
possibilità prevista dal legislatore che il
concessionario si obblighi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione deve
essere concordata tra il costruttore e il
Comune mediante una convenzione urbanistica
che disciplini l’esecuzione di tali opere e
le relative garanzie.
La legge, ai fini dello scomputo, parla
indifferentemente di opere di
urbanizzazione, senza, quindi, che possa
farsi distinzione fra quelle relative
all’urbanizzazione primaria e quelle
appartenenti alla categoria delle opere di
urbanizzazione secondaria.
Va, in linea generale, premesso -in
subjecta materia- che il contributo di
urbanizzazione, quale di diritto pubblico
previsto dalla c.d. legge Bucalossi e
connesso, in particolare al rilascio della
concessione edilizia, è posto a carico del
costruttore a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di
urbanizzazione in proporzione all’insieme
dei benefici che la nuova costruzione ne
ritrae (cfr. Cons. Stato Sez. V 21.04.2006
n. 2258).
Ciò osservato, l’art. 11 della legge n. 10
del 27.01.1977 all’art. 1 (comma 1) dopo
aver previsto che “la quota di contributo
di cui al precedente articolo 5 è
corrisposta al Comune all’atto del rilascio
della concessione", stabilisce che “a
scomputo totale o parziale della quota
dovuta, il concessionario può obbligarsi a
realizzare direttamente le opere di
urbanizzazione con le modalità e le garanzie
stabilite dal Comune”.
La possibilità prevista dal legislatore che
il concessionario si obblighi a realizzare
direttamente le opere di urbanizzazione deve
essere concordata tra il costruttore e il
Comune mediante una convenzione urbanistica
che disciplini l’esecuzione di tali opere e
le relative garanzie.
La legge, ai
fini in esame, parla indifferentemente di
opere di urbanizzazione, senza, quindi, che
possa farsi distinzione fra quelle relative
all’urbanizzazione primaria e quelle
appartenenti alla categoria delle opere di
urbanizzazione secondaria, ma se così è, il
Comune non può, allora, sulla scorta di
quanto convenuto con l’accordo pattizio a
suo tempo sottoscritto e approvato
disconoscere il diritto allo scomputo del
costo di opere (ivi comprese quelle di
urbanizzazione secondarie qui in
contestazione, ma in concreto, peraltro non
specificatamente indicate) per le quali è
avvenuta la loro diretta esecuzione e per le
quali alcuna norma prevede che non debbono
essere computate ai fini della
quantificazione del contributo di
urbanizzazione in ipotesi dovuto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2011 n. 1332 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di esenzione dagli oneri contributivi
relativi alla concessione edilizia, l’art.
9, comma 1, lettera f), della legge n.
10/1977 richiede due requisiti che devono
entrambi concorrere per fondare lo speciale
regime dio gratuità della concessione: l’uno
di tipo soggettivo, per effetto del quale le
opere devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente, e l’altro di
carattere oggettivo, per effetto del quale
la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale.
Questa Sezione
non può qui non ribadire i principi peraltro
costantemente affermati dal questo Consesso
(cfr. Sez. V 20.10.2004 n. 6818; Sez. VI
05.06.2007 n. 2981 ) e cioè che in tema di
esenzione dagli oneri contributivi relativi
alla concessione edilizia, l’art. 9, comma
1, lettera f), della legge n. 10/1977
richiede due requisiti che devono entrambi
concorrere per fondare lo speciale regime
dio gratuità della concessione: l’uno di
tipo soggettivo, per effetto del quale le
opere devono essere eseguite da un ente
istituzionalmente competente e l’altro di
carattere oggettivo per effetto del quale la
costruzione deve riguardare opere pubbliche
o di interesse generale.
Ebbene, nella fattispecie difettano entrambe
tali condiciones iuris dal momento
che la Soc. ... non riveste certo lo status
di un soggetto avente natura pubblicistica
(trattasi di un società di diritto
commerciale) ed inoltre l’intervento
realizzato non costituisce espletamento di
un’attività istituzionale o di interesse
pubblico, essendo le opere edilizie in
questione (un complesso
turistico–alberghiero) palesemente
finalizzate ad assecondare le finalità di
lucro proprie di un soggetto di diritto
privato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2011 n. 1332 -
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EDILIZIA PRIVATA: A
prescindere dall’utilizzo dei normali canoni
ermeneutici, riesce veramente difficile
equiparare un complesso di immobili
destinati ad un’attività
turistico-alberghiera ad un’attività
industriale di produzione di beni e servizi.
L’art. 10 della
legge 28.01.1977 n. 10 distingue, ai fini
della determinazione del contributo del
costo di costruzione, gli edifici o gli
impianti destinati ad attività industriale e
artigianale dirette alla trasformazione dei
beni e alla prestazione di servizi, dalle
costruzioni od impianti destinati ad
attività turistiche, commerciali o
direzionali, prevedendo per i primi
manufatti le agevolazioni contributive ed
escludendole per i secondi.
Ora, ad escludere la configurazione di un
complesso alberghiero come un'attività
produttiva è proprio il dettato normativo
sopra indicato che menziona espressamente
gli impianti turistici tra i manufatti per i
quali il legislatore in base ad una scelta
insindacabile ha ritenuto non possa farsi
luogo alla concessione del beneficio de
quo e non v’è dubbio che l’esistenza di
un siffatto dato normativo è di per sé
preclusivo di quale che sia interpretazione
estensiva.
Parte appellante fa leva al riguardo sulla
normativa regionale che valorizza nei sensi
propugnati dalla stessa Società le strutture
preposte allo svolgimento di attività
turistica, ma una siffatta circostanza non
giova a cambiare i termini della questione,
attesa la valenza recessiva della normativa
regionale a fronte della norma statale posta
a salvaguardia di un regime giuridico del
rapporto in questione da intendersi in modo
unitario su tutto il territorio nazionale.
E questo a prescindere dall’utilizzo dei
normali canoni ermeneutici per cui riesce
veramente difficile equiparare un complesso
di immobili destinati ad un’attività
turistico-alberghiera ad un’attività
industriale di produzione di beni e servizi
(cfr., questa Sezione n. 4488 del
12/07/2010)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 02.03.2011 n. 1332 -
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ATTI AMMINISTRATIVI: In
presenza di vizi accertati dell’atto
presupposto, deve distinguersi fra
invalidità ad effetto caducante ed
invalidità ad effetto viziante, ammettendosi
per la prima che l’annullamento dell’atto
presupposto si estenda automaticamente a
quello consequenziale, anche ove
quest’ultimo non venga impugnato, mentre la
seconda renderebbe l’atto conseguenziale
annullabile, purché impugnato nei termini.
Per giurisprudenza consolidata, in presenza
di vizi accertati dell’atto presupposto,
deve distinguersi fra invalidità ad effetto
caducante ed invalidità ad effetto viziante,
ammettendosi per la prima che l’annullamento
dell’atto presupposto si estenda
automaticamente a quello consequenziale,
anche ove quest’ultimo non venga impugnato
(mentre la seconda renderebbe l’atto
conseguenziale annullabile, purché impugnato
nei termini); ai fini della concreta
individuazione della predetta tipologia di
effetti, è pacifico che si debba valutare
l’intensità del rapporto di
consequenzialità, con riconoscimento
dell’effetto caducante ove tale rapporto sia
immediato, diretto e necessario, nel senso
che l’atto successivo si ponga, nell’ambito
della stessa sequenza procedimentale, come
inevitabile conseguenza di quello anteriore,
senza necessità di nuove ed ulteriori
valutazioni di interessi, con particolare
riguardo al coinvolgimento di soggetti terzi
(cfr. in tal senso, fra le tante, Cons.
Stato, V, 25.11.2010, n. 8243; VI,
23.12.2008, n. 6520)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.02.2011 n. 1114 -
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URBANISTICA: I
P.T.P. hanno la specifica funzione di
predeterminare in astratto criteri,
condizioni e modalità per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in zone
già sottoposte a vincolo, con specifiche
funzioni di omogeneizzazione della tutela e
di salvaguardia dei valori
paesistico-ambientali di zone determinate,
senza finalità di generalizzata
programmazione d’uso del territorio.
I piani territoriali paesistici sono
strumenti di disciplina di uso e
valorizzazione dei territori assoggettati a
vincoli paesaggistici, che prevalgono sui
piani regolatori generali e sugli altri
strumenti urbanistici e possono certamente
imporre limitazioni di carattere generale,
ovvero puntuali prescrizioni, con efficacia
immediatamente precettiva a carico dei
proprietari, quando siano ravvisate ragioni
di tutela dei valori paesaggistici, di cui i
piani stessi debbono articolare la
disciplina.
Sussiste la discrezionalità tecnica che
caratterizza gli atti di pianificazione,
anche quali strumenti di progressiva
specificazione dei vincoli paesaggistici, in
conformità alle esigenze di tutela di cui
all’art. 9 della Costituzione, nonché
l’insindacabilità, nel merito, delle scelte
in tale ambito effettuate
dall’Amministrazione.
E' pacifico che
i P.T.P. hanno la specifica funzione di
predeterminare in astratto criteri,
condizioni e modalità per il rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica in zone
già sottoposte a vincolo, con specifiche
funzioni di omogeneizzazione della tutela e
di salvaguardia dei valori
paesistico-ambientali di zone determinate,
senza finalità di generalizzata
programmazione d’uso del territorio (cfr.
anche art. 139 d.lgs. n. 490 del 1999 su
beni specifici soggetti a tutela, nonché
Cons. Stato, VI, 26.06.2002, n. 3512 e
13.10.1993, n. 713).
Sembra appena il caso di ricordare la
discrezionalità tecnica che caratterizza gli
atti di pianificazione, anche quali
strumenti di progressiva specificazione dei
vincoli paesaggistici, in conformità alle
esigenze di tutela di cui all’art. 9 della
Costituzione (Cons. Stato, II, 20.05.1998,
n. 548 e 549; VI, 23.11.2004, n. 7667; Corte
cost. 13.07.1990, n. 327), nonché
l’insindacabilità, nel merito, delle scelte
in tale ambito effettuate
dall’Amministrazione.
I piani territoriali paesistici sono
strumenti di disciplina di uso e
valorizzazione dei territori assoggettati a
vincoli paesaggistici, che –in attuazione
del principio fondamentale dell’art. 9
Cost.- prevalgono sui piani regolatori
generali e sugli altri strumenti
urbanistici, ai sensi dell’art. 150, comma
2, d.lgs. n. 490 del 1999 e possono
certamente imporre limitazioni di carattere
generale, ovvero puntuali prescrizioni, con
efficacia immediatamente precettiva a carico
dei proprietari, quando siano ravvisate
–come nel caso di specie– ragioni di tutela
dei valori paesaggistici, di cui i piani
stessi debbono articolare la disciplina
(cfr. fra le tante Cons. Stato, IV,
26.09.2001, n. 5038; VI, 22.08.2003, n.
4766; II, 20.05.1998, n. 549)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.02.2011 n. 1114 -
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: L'ordinamento
riconosce una posizione qualificata e
differenziata a tutti coloro che si trovino
in una situazione di stabile collegamento
(residenza, possesso o detenzione di
immobili, o altro titolo di qualificata
frequentazione) con la zona interessata
dall’operazione contestata. Ed è parimenti
certo che, in concreto, sono legittimati
all'impugnazione coloro che possono
lamentare una pregiudizievole alterazione
del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio per effetto della realizzazione
dell’intervento controverso.
E' sufficiente rammentare l’insegnamento
giurisprudenziale al quale questo Tribunale
ha da tempo aderito (cfr., in termini,
sentenza 25.03.2009, n. 88), secondo cui, in
materia urbanistica, l'ordinamento riconosce
una posizione qualificata e differenziata a
tutti coloro che si trovino in una
situazione di stabile collegamento
(residenza, possesso o detenzione di
immobili, o altro titolo di qualificata
frequentazione) con la zona interessata
dall’operazione contestata (cfr., C. Stato,
sez. V, 19.09.2008, n. 4528). Ed è parimenti
certo che, in concreto, sono legittimati
all'impugnazione coloro che possono
lamentare una pregiudizievole alterazione
del preesistente assetto urbanistico ed
edilizio per effetto della realizzazione
dell’intervento controverso (cfr., Consiglio
di Stato, sez. IV, 10.04.2008, n. 1548).
Nella specie, la peculiare ubicazione del
compendio immobiliare di proprietà della
società ricorrente, posto immediatamente a
confine con la zona del cui mutamento di
destinazione urbanistica si discute, dà
immediata evidenza sia dell’esistenza della
vicinitas sia del possibile
pregiudizio che potrebbe subire a causa
della trasformazione della confinante area
agricola di pregio in zona a destinazione
residenziale, nella quale sono ovviamente
ammessi interventi di trasformazione del
suolo con l’edificazione di manufatti che
possono avere ricaduta negativa sulla
fruibilità dell’ambiente circostante
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 09.02.2010 n. 46 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Le
scelte urbanistiche circa la disciplina del
territorio possono formare oggetto di
sindacato giurisdizionale nei soli casi di
arbitrarietà, irrazionalità o
irragionevolezza ovvero di palese
travisamento dei fatti che costituiscono i
limiti della discrezionalità amministrativa.
“Le scelte
urbanistiche circa la disciplina del
territorio possono formare oggetto di
sindacato giurisdizionale nei soli casi di
arbitrarietà, irrazionalità o
irragionevolezza ovvero di palese
travisamento dei fatti che costituiscono i
limiti della discrezionalità amministrativa”
(cfr. C. Stato, sez. IV, 18.06.2009, n.
4024)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 09.02.2010 n. 46 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
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