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AGGIORNAMENTO AL 30.06.2011 |
ã |
speciale
DOSSIER competenze progettuali |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto:
richiesta parere sulle competenze degli
Ingegneri in materia di opere
cimiteriali (Consiglio Nazionale degli
Ingegneri,
nota
14.07.2008 n. 770 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
COMPETENZE PROGETTUALI:
MODESTIA DELLA COSTRUZIONE.
Quanto al primo aspetto (modestia della
costruzione) va rilevato che data
l’apparente incertezza letterale della
norma, è stata la giurisprudenza a
stabilirne, in concreto, il significato.
Orbene, la giurisprudenza ha stabilito che
non si può a priori decidere quando una
costruzione sia modesta e quando no, perché
tale criterio è relativo (ossia da stabilire
volta per volta e demandato al giudice di
merito) e non assoluto e fisso.
Vale a dire che occorre, volta per volta,
una indagine di fatto, tesa ad accertare se
una costruzione destinata a civile
abitazione sia da considerarsi modesta o
meno e ciò anche con riferimento al mutare
delle conoscenze costruttive nel tempo
(dunque, mutevoli).
Per far ciò, occorre compiere una
valutazione caso per caso delle difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera concreta comporta e dalla
capacità (cioè dalle cognizioni tecniche)
occorrente per superarle.
Il criterio, dunque, è tecnico-qualitativo e
non quantitativo, come chiarito oramai da moltissimi anni dalle sezioni Unite della
Corte di Cassazione nella sentenza n. 1474
del 13/05/1968: "modeste debbono
considerarsi le costruzioni che non
presentino difficoltà tecniche che, in
quanto di difficile soluzione, esulino dal
livello di conoscenze proprie del
geometra/perito industriale” e dalla
Corte Costituzionale (sentenza 27.04.1993 n.
199): “il criterio da seguire è quello
tecnico–qualitativo fondato sulla
valutazione della struttura dell'edificio e
delle relative modalità costruttive, che non
devono implicare la soluzione di problemi
particolari devoluti esclusivamente ai
professionisti di rango superiore, mentre il
criterio quantitativo e quello economico
possono soccorrere quali elementi
complementari di valutazione, in quanto
indicativi delle caratteristiche costruttive
e delle difficoltà tecniche presenti nella
realizzazione dell'opera”.
In detta indagine, quindi, devono
privilegiarsi gli aspetti tecnici e le
difficoltà che vanno, in concreto,
affrontate; soccorrono, però, anche elementi
quantitativi, tipo l’importo dell'opera
(costo presunto), la cubatura, il numero dei
piani, […] definiti “elementi
complementari di valutazione”
(3).
I tecnici diplomati, dunque, possono
progettare e dirigere lavori improntati a
criteri di semplicità, sia sotto il profilo
strutturale che edilizio.
In proposito, però, la casistica è assai
ampia e non sempre univoca proprio perché
lasciata alla interpretazione
giurisprudenziale, che ha seguito per
individuare i confini delle competenze
professionali dei diversi soggetti il
criterio che le vuole legare ai differenti
percorsi formativi.
---------------
(3)
“Il discrimine della competenza dei geometri
nel campo delle costruzioni civili è dato
dal criterio della "modestia" dell'opera,
così come stabilito dall'art. 16 r.d.
11.02.1929 n. 274, il quale, nel regolare
l'attività professionale dei geometri alla
lett. m), consente loro l'attività di
"progetto, direzione e vigilanza di modeste
costruzioni civili". Tale criterio è da
intendere in senso tecnico-qualitativo e con
riguardo ad una valutazione della struttura
dell'edificio e delle relative modalità
costruttive, che non devono implicare la
soluzione di problemi tecnici particolari,
devoluti esclusivamente alla competenza
professionale degli ingegneri e degli
architetti. Altri criteri, come quello
quantitativo, delle dimensioni e della
complessità, nonché quello economico,
possono soccorrere quali elementi
complementari di valutazione, in quanto
indicativi delle caratteristiche costruttive
e delle difficoltà tecniche presenti nella
realizzazione dell'opera”. Consiglio Stato,
sez. V, 03.10.2002, n. 5208.
Ciò che è
indubbio è che la giurisprudenza esclude che
il criterio possa essere guidato solo dalla
superficie della costruzione o dai suoi
costi, dato che l'una e gli altri non sono
di per sé indici inequivoci di specifiche
difficoltà tecniche (si spiega, così, la
previsione, nella tariffa professionale dei
geometri, di una voce per i compensi per
progettazioni di costruzioni di larga
superficie e di elevati costi) ma non
impedisce affatto che i costi e la
superficie (come la cubatura ed il numero
dei piani) possano essere considerati,
comunque, elementi sintomatici
complementari, ancorché di per se
insufficienti, siccome indicativi di
caratteristiche costruttive dell'opera e di
difficoltà tecniche che l'opera medesima
presenta, per l'apprezzamento del carattere
modesto o meno della costruzione.
Il criterio principe seguito dalla
giurisprudenza per stabilire se una
costruzione sia modesta, consiste, dunque,
nel valutare se il progetto, per i problemi
tecnici che implica, possa, in relazione
alla destinazione dell'opera, comportare un
pericolo per l'incolumità delle persone in
caso di difetto strutturale. Con ciò il
concetto di modesta costruzione finisce in
gran parte col coincidere con i criteri
dettati dalla lettera l) per quanto concerne
le opere in cemento armato, che possono
essere realizzate solo se i calcoli non sono
complessi e non c’è pericolo per la pubblica
incolumità.
In tal senso, si vedano le seguenti massime:
- Il criterio per accertare se una
costruzione sia da considerare modesta -e
rientri quindi nella competenza
professionale dei geometri, ai sensi
dell'art. 16, lett. m), R.D. 11.02.1929 n.
274– consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera comportano e le capacità
occorrenti per superarle; a questo fine
assumono rilievo, oltre alla complessità
della struttura e delle relative modalità
costruttive, anche, in via complementare, il
costo presunto dell'opera, in quanto si
tratta in ogni caso di elementi sintomatici
che valgono ad evidenziare le difficoltà
tecniche che coinvolgono la costruzione
(Nella specie la S.C. ha confermato la
decisione della corte territoriale, negando
la competenza dei geometri, rilevando che
gli impianti di depurazione non rientrano
tra le opere contemplate dalla tariffa
professionale, che l’entità dei lavori –14
miliardi di vecchie lire- esulasse dalle
competenze dei geometri e che la delicatezza
dei problemi tecnici relativi alla
progettazione di un'infrastruttura
reticolare e connessi all'interferenza con
altri impianti pure a rete (illuminazione,
cavi telefonici, ecc.) ed alla sostituzione
e/o recupero dell'impianto preesistente
ponesse serie problemi tecnici) (Corte
di Cassazione, Sez. I civile, sentenza
27.02.2008 n. 5203);
- La competenza professionale dei
geometri in materia di progettazione e
direzione dei lavori di opere edili,
prevista dall'art. 16, r.d. n. 274 del 1929,
riguarda le costruzioni rurali e degli
edifici per uso di industrie agricole, di
limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese piccole costruzioni accessorie in
cemento armato che non richiedono
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non possono comunque
implicare pericolo per la incolumità delle
persone, nonché il progetto, la direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.07.2007 n. 860);
- L'indagine intesa ad accertare se una
costruzione destinata a civile abitazione
sia da considerarsi modesta e rientri,
quindi, nella competenza professionale dei
periti industriali (o dei geometri), non può
prescindere dalla valutazione delle
difficoltà tecniche che la progettazione e
l'esecuzione dell'opera comporta e dalla
capacità (cioè dalle cognizioni tecniche)
occorrente per superarle, criterio che ha
valore fondamentale per l'esatta
interpretazione e l'applicazione dell'art.
16 del regolamento professionale (R.D.
11.02.1929 n. 275, per i periti industriali,
e R.D. 11.02.1929 n. 274, per i geometri),
in detta indagine si terrà conto anche degli
elementi dell'importo dell'opera (costo
presunto), della cubatura e del numero dei
piani (cosiddetti criteri di valore, od
economico, e quantitativo), ma soprattutto
per il loro valore sintomatico, in quanto
valgono a determinare le caratteristiche
costruttive dell'opera e ad illuminare sulle
difficoltà tecniche che l'opera medesima
presenta, al fine di apprezzare se questa
costituisca una costruzione modesta ai sensi
dell'ordinamento professionale, ovvero esuli
dalla capacita tecnica e dalla competenza
dei periti industriali (e dei geometri)
(Corte di Cassazione, Sez. III civile,
sentenza 14.06.2007 n. 13968);
- Nell'affidamento degli incarichi di
progettazione e direzione dei lavori il
discrimine tra la competenza dei geometri e
le attribuzioni riservate agli ingegneri è
costituito dalla modesta entità dei lavori
affidati, essendo preclusa ai geometri la
realizzazione di lavori richiedenti una
visione d'insieme e di carattere
programmatorio complessivo (nel caso
concreto si è ritenuto rientrasse nella
competenza dei geometri l'incarico di
progettazione e direzione lavori di
manutenzione straordinaria e sistemazione di
un'area pubblica a destinazione mercatale)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2007 n. 852);
- In base all'art. 16, R.D. 11.02.1929 n.
274 e dell'art. 54, L. 02.03.1949 n. 144,
non rientra nella competenza dei geometri la
realizzazione di un complesso di opere di
modesta entità o tenuità, bensì che richiede
una visione d'insieme, pone problemi di
carattere programmatorio ed impone la
valutazione complessiva di una serie di
situazioni la cui soluzione, sotto il
profilo tecnico, possa incontrare difficoltà
non facilmente superabili con il solo
bagaglio professionale del geometra (nella
specie, l'incarico di progettazione è di
sicura complessità, perché riguarda
l'adeguamento e la razionalizzazione
dell'acquedotto comunale, in funzione di una
nuova destinazione urbanistica e, quindi,
non è penalizzante della posizione
professionale dei geometri) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza
22.09.2001 n. 4985).
Interessante è
poi notare che nel concetto di modestia, si
deve tener conto dell'evoluzione della
tecnica edilizia nel tempo. Il limite,
dunque, non è assoluto ma flessibile
intrinsecamente correlato all’evoluzione
tecnica e scientifica dell’edilizia.
Pertanto il concetto di "modesta
costruzione civile" è, nel tempo,
inevitabilmente soggetto ad adeguarsi allo
stato della cultura tecnica dei
professionisti ed ai moderni metodi di
costruzione, data la sempre maggior
attenzione alla sicurezza e, quindi, al
ridursi del pericolo per l’incolumità delle
persone. In tal senso si è anche pronunziata
la Corte Costituzionale (sentenza 27.04.1993
n. 199) affermando la ragionevolezza di “ragguagliare
a presupposti "flessibili" la determinazione
di competenze che postulano cognizioni
necessariamente variabili in rapporto ai
progressi tecnico-scientifici che la materia
può subire nel tempo”.
Come già detto
l’espressione “modeste costruzioni civili”
è solo apparentemente generica e
indeterminata.
Perché apparentemente? Innanzitutto perché
la giurisprudenza della Corte
Costituzionale, chiamata a pronunziarsi più
volte sul punto, ha escluso che
l’espressione sia generica.
La Corte Costituzionale infatti ha rimarcato
che tutte le norme impongono al giudice una
normale interpretazione, e che
l’elaborazione giurisprudenziale sul punto è
numerosa e concorde nel ritenere che, per
accertare se una costruzione sia da
considerare "modesta", tale cioè da
rientrare nella competenza professionale dei
geometri/periti, il criterio basilare cui
fare appello é quello tecnico –qualitativo
fondato sulla valutazione della struttura
dell'edificio e delle relative modalità
costruttive.
Generalmente si ritengono “modeste”
quelle costruzioni che non superano i 5000
mc. e fino a due piani (4).
---------------
(4)
Ciò in ossequio all’art. 57 L. 144/1949
(tariffa dei geometri).
Vediamo
comunque alcuni esempi.
- Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza
12.11.1985 n. 390: ha ritenuto non
fosse modesta (e dunque esulare dalla
competenza dei geometri) la progettazione di
edifici abitativi a sei piani con strutture
in cemento armato e volume di 5.000 metri
cubi;
- Corte di Cassazione, penale, sentenza
27.03.1995 n. 5416: ha ritenuto la
competenza dei geometri la di capannone
industriale di circa 8200 m3 di volume, su
tre piani e con struttura in cemento armato;
- TAR Lombardia-Milano, sentenza
30.07.1996 n. 1269: ha ritenuto la
competenza dei geometri per un intervento
che consisteva nel ricomporre il
preesistente volume di due fabbricati, pari
a 255 metri cubi, in un'unica costruzione a
due piani, di cui uno seminterrato;
- Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.01.2001 n.
348: (confermando il TAR
Emilia-Romagna) ha escluso la competenza dei
geometri per la sopraelevazione di tre
piani, per una volumetria complessiva di
1700 metri cubi;
- Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.10.2003 n.
6747: ha escluso la competenza dei
geometri per la realizzazione di una
struttura in cemento armato di tre piani con
fondamenta del tutto nuove;
- TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.12.2003 n.
1784: ha escluso la competenza dei
geometri per opere di ampliamento della
struttura cimiteriale, in virtù del fatto
che era necessario raccordare le nuove opere
con quelle preesistenti;
- TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2007 n. 852: ha ritenuto non complessa (e
quindi di competenza dei geometri)
l'incarico di progettazione e direzione di
lavori di manutenzione straordinaria e
sistemazione di un'area pubblica a
destinazione mercatale.
Per quanto
riguarda la progettazione di strade, la
lett. b del sopraccitato art. 16 R.D.
274/1929, sancisce che i geometri possono
progettare strade qualora ricorra la "tenue
importanza dell'opera".
Anche qui la giurisprudenza segue un
criterio tecnico–qualitativo (natura e
dimensione della strada da costruire), per
stabilire se la strada sia di tenue
importanza.
Pertanto si ritiene esuli dalle competenze
dei tecnici diplomati la progettazione di
strade pubbliche, da intendersi comprese
nella definizione anche le strade sviluppate
all’interno del tessuto urbano che non
possono essere qualificate di tenue
importanza in quanto comportano interventi
di una certa complessità (come la
progettazione di muri di contenimento,
ponti, gallerie) ed essendo destinate al
traffico ordinario (cfr. TAR Puglia Lecce,
sez. II, 10.02.2006, n. 902; TAR Calabria
Catanzaro, sez. I, 12.07.2005, n. 99; TAR
Campania-Salerno 17.11.2004 n. 2016; TAR
Sardegna, 19.04.1995, n. 547).
Un’ultima annotazione per quanto concerne le
competenze delle opere di urbanizzazione
all’interno di lottizzazioni.
In merito la giurisprudenza, quando si è
dovuta pronunziare, ha spesso escluso la
competenza dei tecnici diplomati, rilevando
che la redazione di un piano di
lottizzazione comporta la soluzione di
problemi tecnici non solo in ordine ai
calcoli del cemento armato, ma anche in
relazione alle opere di urbanizzazione
primaria da realizzare, di particolare
complessità, come tali esulanti dal concetto
di modeste costruzioni civili e implicanti
pericolo per la pubblica incolumità.
Ciò, però, non significa a priori escludere
la competenza dei geometri per le
lottizzazioni, anche perché la legge stessa
sulle tariffe per le prestazioni
professionali dei geometri, prevedendo, ai
sensi dell'art. 46 L. 144/1949, in caso di
lottizzazioni, la facoltà di aumentare dal
20 al 100% gli onorari di cui alla lettera a
tab.D5, prevede la loro competenza per le
lottizzazioni, ovviamente però se modeste.
Si veda, in proposito, la recente Cassazione
Civile, sez. II, 14.04.2005, n. 7778 che ha
statuito: “la redazione di un piano di
lottizzazione, in astratto, NON è attività
preclusa ai geometri; ma, in considerazione
delle attività che l'art. 16 del R.D. 274
del 1929 riserva ai geometri e nel rispetto
della ratio della norma, volta ad assicurare
che determinate attività siano svolte da
professionisti che, per la loro capacità
professionale siano in grado di consentire
la costruzione di opere non pericolose per
la pubblica incolumità, ha ritenuto, sulla
base delle risultanze della C.T.U., che la
redazione di un piano di lottizzazione che
comprenda la progettazione di due complessi
residenziali, ciascuno di tre piani fuori
terra, oltre cantine e boxes, opere che
impongono la soluzione di problemi tecnici
non solo in ordine ai calcoli del cemento
armato, ma anche in relazione alle opere di
urbanizzazione primaria da realizzare, non
possa rientrare fra quelle attività che, con
riferimento alla modestia delle opere
consentite per legge al geometra, siano tali
da escludere un pericolo per la pubblica
incolumità e possano, conseguentemente,
essere consentite allo stesso”.
Altre volte, invece, la competenza dei
tecnici diplomati per la redazione di un
piano di lottizzazione è stata esclusa in
radice, con la motivazione che tali opere
richiedono una visione di insieme che impone
problemi di carattere programmatorio che non
possono rientrare nella competenza se non di
persone laureate.
In tal senso, si veda Consiglio di Stato
03.09.2001 n. 4620 “è pacifico che la
redazione di un piano di lottizzazione
costituisce attività che chiaramente
richiede una competenza programmatoria in
tale settore, anche se si limita l'attività
a opere di modesta entità, e nonostante che
la stessa sia posta in attuazione delle
previsioni dello strumento urbanistico
generale.
In effetti, come già affermato da questa
Sezione, la redazione di un tale strumento
concerne indubbiamente la realizzazione di
un complesso di opere che richiede una
visione di insieme e pone problemi di
carattere programmatorio che indubbiamente
postulano valutazioni complessive che non
rientrano nella competenza professionale del
Geometra, così come definita dall'art. 16
del R.D. 11.02.1929 n. 274 - Cons. St., sez.
V, n. 25 del 13.01.1999; n. 3 del
03.01.1992; Cons. St., sez. IV, n. 765 del
09.11.1989” (conformi anche).
La recentissima sentenza TAR Lombardia,
Brescia, 29.10.2008 n. 1466, superando la
dicotomia, sancisce che in generale è
precluso al geometra la redazione di un
piano di lottizzazione, anche se ciò non
significa vietarlo tout court, occorrendo,
sempre, una indagine fattuale volta a
valutare quali siano, in concreto, le
difficoltà di quello specifico piano (nel
caso di specie è stata ritenuta la
competenza dei geometri: “In linea
generale, la redazione di un piano di
lottizzazione (e, in genere, di uno
strumento di programmazione urbanistica)
costituisce attività che richiede una
competenza specifica in tale settore
attraverso una visione di insieme e la
capacità di affrontare e risolvere i
problemi di carattere programmatorio che
postulano valutazioni complessive non
rientranti nella competenza professionale
del geometra, così come definita dall'art.
16 del R.D. n. 274/1929 (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 03.09.2001 n. 4620; Sez. IV,
09.11.1989 n. 765). Nel caso specifico va
tuttavia osservato che il Piano di recupero
in oggetto assume solo la connotazione
formale di un Piano urbanistico attuativo
poiché, nella sostanza, presenta contenuti
esclusivamente edilizi che riguardano la
ristrutturazione (mediante demolizione e
ricostruzione) di un edificio esistente. Non
sono invece coinvolti aspetti pianificatori
tipici della programmazione urbanistica,
come il raccordo tra l'edificazione e le
opere di urbanizzazione primaria e
secondaria, sia esistenti che di progetto.
Si tratta, pertanto, di un Piano di recupero
costituito attraverso valutazioni ed
elaborati tipici di un permesso di costruire
ed avente ad oggetto un'opera di modesta
entità che rientra senz'altro nella
competenza professionale del Geometra”.
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
CEMENTO ARMATO.
La lettera m del succitato art. 16 riguardo
alle competenze dei Geometri in relazione
agli edifici di civile abitazione, non fa
alcun accenno alla possibilità -per tali
professionisti- di progettare e realizzare
anche edifici con strutture in cemento
armato, precisando, come detto, che debba
trattarsi comunque di “costruzioni
modeste” (6).
Con più specifico riferimento alle opere in
conglomerato cementizio semplice od armato,
si deve inoltre ricordare il R.D. 16.11.1939
n. 2229, che escludeva in via assoluta che i
tecnici non laureati fossero competenti per
la realizzazione di tal genere di
costruzioni e stabiliva, in proposito, che «ogni
opera di conglomerato cementizio semplice od
armato, la cui stabilità possa comunque
interessare l'incolumità delle persone, deve
essere costruita in base ad un progetto
esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da
un architetto iscritto nell'albo, nei limiti
delle rispettive attribuzioni […]».
---------------
(6)
L'art. 64, d.P.R. n. 380 del 2001
espressamente stabilisce:
<<1. La realizzazione delle opere di
conglomerato cementizio armato, normale e
precompresso ed a struttura metallica, deve
avvenire in modo tale da assicurare la
perfetta stabilità e sicurezza delle
strutture e da evitare qualsiasi pericolo
per la pubblica incolumità.
2. La costruzione delle opere di cui
all'articolo 53, comma 1, deve avvenire in
base ad un progetto esecutivo redatto da un
tecnico abilitato, iscritto nel relativo
albo, nei limiti delle proprie competenze
stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi
professionali.
3. L'esecuzione delle opere deve aver luogo
sotto la direzione di un tecnico abilitato,
iscritto nel relativo albo, nei limiti delle
proprie competenze stabilite dalle leggi
sugli ordini e collegi professionali.
4. Il progettista ha la responsabilità
diretta della progettazione di tutte le
strutture dell'opera comunque realizzate.
5. Il direttore dei lavori e il costruttore,
ciascuno per la parte di sua competenza,
hanno la responsabilità della rispondenza
dell'opera al progetto, dell'osservanza
delle prescrizioni di esecuzione del
progetto, della qualità dei materiali
impiegati, nonché, per quanto riguarda gli
elementi prefabbricati, della posa in opera
».
A sua volta, Consiglio Stato , sez. V,
01.12.2003, n. 7821, ha statuito: “Per
valutare l'idoneità di un geometra a firmare
il progetto di un'opera edilizia comportante
l'uso del cemento armato, occorre
considerare le specifiche caratteristiche
dell'intervento, potendo ammetterla solo in
caso di opera di modeste dimensioni.
(Conferma TAR Liguria 20.09.1997 n. 333 ).
Successivamente
la L. 05.11.1971 n. 1086 ha ridisciplinato
la materia delle opere in conglomerato
cementizio armato, normale e precompresso ed
a struttura metallica, ma utilizzando una
formulazione ancor più generica, riguardo
alle competenze, rispetto a quella degli
anni venti e trenta.
L’art. 2 infatti, nel ridisciplinare la
progettazione e direzione lavori delle opere
in cemento armato, ha richiamato anche le
figure del Geometra e del Perito edile, pur
precisando per costoro la possibilità di
sottoscrivere i progetti nei limiti delle
rispettive competenze professionali
(formulazione che in effetti non porta
ulteriori chiarimenti) .
Infine, la disposizione del citato art. 2,
L. n. 1086/1971, è stata ripresa
integralmente dal T.U. in materia edilizia
(DPR n. 380/2001) il quale, ai commi 2 e 3
dell'art. 64, ha disciplinato le competenze
professionali proprio con riguardo alle
opere in conglomerato cementizia.
Stante il non sempre ottimale coordinamento
tra le diverse discipline normative sopra
citate e le differenti interpretazioni che
ne sono state date, ne è seguìto, nel corso
degli anni, un notevole contenzioso in
relazione alle attribuzioni professionali
dei tecnici non laureati, con riguardo alle
quali le sentenze della giurisprudenza si
sono dimostrate sempre univoche.
Tralasciando le competenze in materia di
costruzioni rurali, che poco ci riguardano
in questa sede, vi è da dire come la
giurisprudenza amministrativa –e non solo–
abbia finito per dar vita a due diversi
orientamenti.
Diversi orientamenti che comunque:
- o precludono tassativamente la possibilità
per i Geometri di progettare costruzioni in
cemento armato;
- o ne limitano la possibilità nella
progettazione di “costruzioni modeste”.
Secondo l'impostazione più restrittiva, è
stato sostenuto che, in mancanza di ogni
ulteriore specificazione da parte della
lett. m) di cui all'art. 16, RD n. 274 del
1929, la competenza dei geometri, nel campo
degli edifici civili, è limitata alla
realizzazione di edifici di carattere «modesto»,
in nessun modo implicanti l'utilizzo di
strutture in cemento armato, atteso che la
progettazione di tali opere in conglomerato
cementizio è ammessa dalla lettera l)
soltanto per piccole costruzioni accessorie
di edifici rurali ovvero adibiti ad uso di
industrie agricole.
In tal senso, si vedano Trib. Udine,
19.12.2006 n. 1790; Cass. Civ. 26.07.2006 n.
17028; Cass. Civ. sez. II, 15.02.2005 n.
3021 e Cons. Stato 22.05.2006 n. 3006 che ha
statuito: “esula dalla competenza dei
geometri la progettazione di costruzioni
civili con strutture in c.a., trattandosi di
attività che, qualunque ne sia l'importanza,
è riservata solo agli ingegneri ed
architetti iscritti nei relativi albi
professionali”.
Viceversa, secondo l'interpretazione diciamo
così più estensiva –soprattutto nella
giurisprudenza del TAR– non sarebbe precluso
al geometra (e al perito industriale) la
progettazione di opere in cemento armato, ma
limitatamente alle opere civili aventi
comunque «modeste dimensioni», così
da doversi escludere pericolo per
l'incolumità delle persone in caso di
difetto strutturale.
Piuttosto contrastante col dettato della
legge e con la giurisprudenza appare invece
la pratica applicazione di quanto sopra
esposto, nonostante il principio
indiscutibile in base al quale le opere in
cemento armato non debbano implicare
pericolo per la pubblica e privata
incolumità (cfr., fra le recenti, Cass., sez. II, 14.04.2005 n. 7778), in coerenza col
quale il Consiglio di Stato 13.06.2005 n.
3085 ha deliberato che “Anche quando è
ammessa la competenza del geometra per la
progettazione in strutture di cemento
armato, tale competenza è comunque limitata
alla opere di dimensioni minori, sicché per
valutare l'idoneità del geometra a firmare
il progetto di natura edilizia che comporta
l'uso del cemento armato occorre considerare
le specifiche caratteristiche
dell'intervento, al fine di ammetterla solo
se si tratti di opera di modeste dimensioni.
La competenza dei geometri, infatti, è
limitata alle sole costruzioni minori, di
modeste dimensioni, con divieto di progetto
di opere per cui vi sia impiego di cemento
armato, tale da implicare un pregiudizio
alle persone in caso di difetto strutturale,
stante anche l'evidente favore che le varie
norme pongono per la competenza esclusiva
dei tecnici laureati”. (tratto dal
lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
CONCETTO DI NON SCINDIBILITÀ DEL
PROGETTO - CONTROFIRMA DI UN INGEGNERE PER
LA PARTE STRUTTURALE SUL PROGETTO PRESENTATO
DA UN GEOMETRA.
L’invalidamento del progetto, redatto e
presentato da un tecnico diplomato non
competente in materia di cemento armato, non
viene eluso dal fatto che un tecnico
laureato (ingegnere o architetto) abbia
effettuato e firmato i calcoli strutturali e
diretto i relativi lavori delle strutture in
cemento armato.
Ma è noto come invece tale elusione
costituisca una prassi ormai consolidata,
anche per la scarsa vigilanza degli Enti
preposti al rilascio delle autorizzazioni.
A tale proposito si rimanda alla più recente
Sentenza del Consiglio Stato, sez. IV,
05.09.2007, n. 4652 ove si afferma con
estrema chiarezza e senza lasciare adito ad
interpretazioni che non rientrano nella
competenza dei geometri le opere in cemento
armato diverse dalle piccole costruzioni
accessorie, risultando ininfluente che il
calcolo del cemento armato sia stato
affidato ad un ingegnere o ad un architetto.
La medesima Sentenza afferma inoltre che,
allorché i calcoli siano stati fatti
eseguire ad un ingegnere o architetto, ciò
sia chiaro segnale del fatto che l’opera
esuli dalle competenze del geometra in
quanto evidentemente “non modesta”.
Risulta peraltro una copiosa giurisprudenza
finalizzata alla repressione della prassi,
assai diffusa, della “controfirma”
sul progetto e la direzione lavori di una
costruzione con strutture in cemento armato
presentato da un tecnico diplomato (non
abilitato) che, tra l’altro, ‘normalmente’,
ne dirige le opere edili
(7).
Chiara ed inequivocabile, al riguardo, la
recente Sentenza della Cassazione civile
26.07.2006 n. 17028 ove si afferma che: “La
progettazione e la direzione di opera da
parte di un geometra in materia riservata
alla competenza professionale degli
ingegneri o degli architetti sono
illegittime. In particolare, a rendere
illegittimo in tale ambito un progetto
redatto da un geometra non rileva che esso
sia controfirmato o vistato da un ingegnere
ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del
cemento armato e diriga le relative opere,
perché è il professionista competente che
deve essere altresì titolare della
progettazione, trattandosi di incombenze che
devono essere inderogabilmente affidate dal
committente al professionista abilitato
secondo il proprio statuto professionale,
sul quale gravano le relative responsabilità”.
Essa chiaramente nega l’ipotetica
distinguibilità o scindibilità tra il
livello della progettazione per così dire
edilizia e quello, presunto successivo,
della progettazione strutturale.
---------------
(7)
Il principio, però, è assai risalente nel
tempo; si veda Consiglio di Stato 12.11.1985
n. 390: “Ai fini della
legittimità della concessione edilizia per
opere progettate e dirette da un
professionista incompetente non rileva
la circostanza che i calcoli siano stati
effettuati da un ingegnere laureato”.
La
giurisprudenza, salvo rare eccezioni
(8),
ha sancito infatti che le due fasi sono “ontologicamente
una”, non potendosi distinguere fra
progetto edilizio e struttura, né fra
progetto esecutivo, preliminare e
definitivo, perché anche questi ultimi,
riguardando le linee essenziali e generali
dell’opera, presuppongono le operazioni e le
competenze necessarie per la verifica della
sua realizzazione.
In altre parole, la giurisprudenza ha
evidenziato come progetto e struttura siano
un unicum inscindibile, stante
l’impossibilità di realizzare edifici
sicuri, in difetto di una corretta
progettazione architettonica globale; e la
ragione di un tale rigore giurisprudenziale
poggia dichiaratamente sul fatto che le
disposizioni di legge in materia di
competenze professionali nel settore delle
costruzioni sono finalizzate alla pubblica
incolumità, la cui tutela è di
competenza dello Stato.
---------------
(8)
Cons. Stato 04.06.2003 n. 3068, che ha
ammesso la cooperazione fra tecnici.
Principio che
ha, tra le conseguenze collaterali, anche il
fatto di escludere il diritto al compenso
del professionista non abilitato, col
richiamo dell’art. 1418 Codice Civile (che
sancisce la nullità di contratti contrari a
norme di ordine pubblico).
Ed al riguardo, si vedano le seguenti
massime:
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 25.05.2007 n. 12193: “Non è
consentito di enucleare e distinguere, con
riferimento a un progetto generale di una
costruzione da destinare a civile abitazione
redatto da un geometra, privo di competenza
al riguardo, e che abbia assunto la
direzione dei lavori, un'autonoma attività,
per le parti di tali lavori inerenti a opere
in cemento armato, riconducibile a un
ingegnere o a un architetto. La competenza
dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione, anche parziale, di
strutture in cemento armato, mentre è
ammessa la sua competenza in via di
eccezione anche a queste soltanto con
riguardo alle piccole costruzioni accessorie
nell'ambito degli edifici rurali o destinati
alle industrie agricole che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportino pericolo
per le persone.”
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 26.07.2006 n. 17028: “È
nullo il contratto intercorso tra un
geometra e il committente avente a oggetto
la progettazione e la direzione di opere in
materia riservata alla competenza
professionale degli ingegneri o degli
architetti. In una tale eventualità il
professionista non ha titolo ad alcun
compenso, non essendo consentito di
enucleare e distinguere, con riferimento a
un progetto generale di una costruzione da
destinare a civile abitazione redatto da un
geometra privo di competenza al riguardo, e
che abbia assunto anche la direzione dei
lavori, un'autonoma attività, per la parte
di tali lavori inerenti a opere in cemento
armato, riconducibile a un ingegnere o a un
architetto”
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 15.02.2005 n. 3021: “Il
contratto con il quale viene affidata a un
geometra la progettazione di una costruzione
civile in cemento armato è nullo, anche se
il compito, su richiesta dell'incaricato, è
poi svolto da un ingegnere o architetto”.
- Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 05.11.2004 n. 21185: “Con
riferimento alle competenze dei geometri in
materia di progettazione, direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili,
l'art. 16 r.d. 274/1929, nel prevedere che i
geometri non possono redigere progetti di
costruzioni che comportino l'impiego di
conglomerati cementizi, semplici o armati,
in strutture statiche portanti, si riferisce
sia ai progetti di massima che a quelli
esecutivi, mentre nessun riscontro nella
legge ha la categoria del progetto
architettonico.”
Particolarmente
interessante risulta perciò la pronuncia del
TAR Veneto, Venezia, 28.01.2005 n. 381,
riferita, per similitudine,
all’inscindibilità del progetto di Restauro,
laddove la Soprintendenza, nel controllare
il progetto, aveva escluso la competenza
dell’Ingegnere in materia (anche “per la
parte tecnica del restauro”, essendo
essa strettamente connessa a quella
architettonica).
All’eccezione, sollevata dall’Ingegnere, in
base alla quale avrebbe dovuto essere
autorizzato, dovendosi considerare
consolidata una prassi in virtù di
precedenti progetti già all’Ingegnere
autorizzati, Il TAR Veneto nel merito
disponeva invece che “Deve e essere
rilevata l'infondatezza della pretesa del
ricorrente ingegnere a vedersi scomputare
dal complessivo progetto la sola parte
tecnica del progetto e ciò per l'evidente
ragione che il progetto di restauro per il
suo carattere unitario non consente uno
scorporo di tal fatta.
Infine deve essere disattesa la dedotta
contraddittorietà rispetto ai comportamenti
pregressi dell'Amministrazione e ciò perché
a prescindere dai dubbi sulla similitudine
delle fattispecie poste a confronto, qualora
pure la Sovrintendenza abbia in passato
approvato progetti di restauro sui immobili
artistici non per questo deve continuare a
violare la legge”.
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
RESTAURO DI EDIFICI STORICI
VINCOLATI DALLA NORMATIVA STATALE DI TUTELA.
Per quanto concerne il settore del restauro
di edifici di valore storico-artistico, la
legge ne esclude la competenza anche degli
Ingegneri, “fatta eccezione per la parte
tecnica” (art. 52 R.D. 2537/1925).
Il restauro conservativo di un edificio
sottoposto a vincolo ai sensi delle leggi
che tutelano l'antichità e le belle arti è
riservato, infatti, dall'art. 52 del R.D.
23.10.1925, n. 2537, a chi esercita la
professione di Architetto.
Sono, dunque, riservati agli architetti:
- il restauro e ripristino degli edifici
vincolati dalla L. 1089/1939 e successive
(come da appositi elenchi);
- le opere edilizie che presentino carattere
artistico (9).
La giurisprudenza, in materia, è copiosa e
costante nell’affermare che ciò trae origine
“nello specifico corso di laurea che gli
architetti sono tenuti a percorrere e della
conseguente professionalità e sensibilità
artistica ed estetica che acquisiscono”
(cfr. Consiglio di Stato 16.05.2006 n.
2776).
La sentenza Cass. Pen. 14.12.1994, a sua
volta, nell’escludere che un geometra possa
operare nel settore del restauro di edifici,
chiarisce che non può essere ritenuto
intervento “modesto” quello volto al
restauro di bene tutelato ai sensi delle
leggi sull'antichità e le belle arti.
---------------
(9)
La giurisprudenza, in merito, sancisce: “La
competenza esclusiva a realizzare opere su
beni immobili sottoposti a vincolo storico e
artistico ai sensi della l. 01.06.1939 n.
1089 spettante agli architetti non è
limitata ai soli immobili oggetto di
notificazione a norma degli artt. 1-3 l. n.
1089 cit. ma riguarda anche gli immobili che
presentano comunque interesse storico ed
artistico e per questo tutelati "ope legis""
Cons. Stato 23.07.1997 n. 386
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
CONSEGUENZE CIVILI E PENALI
DELL’INOSSERVANZA DELLE COMPETENZE.
Il contratto di progettazione e direzione
lavori da parte di un tecnico non abilitato
per opere che esulano dalle sue competenze
(per esempio il cemento armato progettato da
un geometra/perito) è nullo ex art. 1418
(10),
2229 (11)
e 2231 (12)
Codice civile, per contrarietà a norme
imperative.
In tal senso, si segnala la recente
Cassazione civile, sez. II, 25.07.2007, n.
12193, ed il principio è completamente
affermato (13).
Tale nullità è assoluta e rilevabile anche
d’ufficio dal Giudice in ogni stato e grado
del procedimento, ai sensi dell’art. 1421
C.C., il che significa che è, fra le forme
di invalidità negoziale, ritenuta la più
grave.
Ne consegue –per fare alcuni esempi
concreti– che, allorché al tecnico non
abilitato non sia stato saldato l’onorario,
egli non ha la possibilità di intraprendere
alcuna azione legale in giudizio per
richiedere le proprie spettanze.
Ma anche il committente dei lavori, nel caso
in cui essi presentino difetti e problemi,
non può promuovere azioni contrattuali
contro il tecnico (il committente, infatti,
in quanto partecipe, per effetto del
volontario conferimento dell'incarico, della
violazione di norme di ordine pubblico, non
può dolersi delle conseguenze dannose
derivanti dal compimento di attività
illecite, cui scientemente o quanto meno
incautamente per colpevole ignoranza della
legge, ha dato causa.
Altre conseguenze si rinvengono a carico
dell’impresa appaltatrice, che è per legge
tenuta a rifiutarsi di eseguire opere se i
disegni non sono firmati e la Direzione dei
Lavori non è assunta da professionista
abilitato.
L’art. 4 L. 05.11.1971 n. 1086 infatti
impone l’obbligo a carico delle imprese
appaltatrici di denunciare all'Ufficio del
Genio Civile competente per territorio le
opere in cemento armato corredate dai
calcoli (pena sanzioni penali), prima
dell’inizio dei lavori.
L’appaltatore, in particolare, deve indicare
nella denuncia i nomi ed i recapiti del
committente, del progettista delle strutture
e del direttore dei lavori.
La ratio della norma è quella di
consentire di effettuare i dovuti controlli
al fine di escludere ogni pericolo per la
pubblica e privata incolumità, concetto che,
come abbiamo visto, è un po’ il leit
motiv del riparto di competenze fra
tecnici diplomati e laureati.
---------------
(10)
“Il contratto è nullo quando è contrario a
norme imperative”.
(11)
“La legge determina le professioni
intellettuali per l’esercizio delle quali è
necessaria l’iscrizione in appositi albi o
elenchi”.
(12)
“Quando l’esercizio di una attività
professionale è condizionato all’iscrizione
in un albo o elenco, la prestazione eseguita
da chi non è iscritto non gli dà azione per
il pagamento della retribuzione”.
(13)
Conforme Cass. Civ. 21.12.2006 n. 27441;
Cass. Civ. 15.02.1986 n. 1182: “La redazione
di un progetto eseguita da un geometra in
materia riservata alla competenza
professionale degli ingegneri è illegittima
e a renderla legittima non basta che il
progetto redatto dal geometra sia
controfirmato o vistato da un ingegnere
ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del
cemento armato e diriga le relative opere,
perché è il professionista competente che
deve essere altresì titolare della
progettazione, assumendosi la responsabilità
dei calcoli delle strutture armate. (Nella
specie l'appaltatore aveva chiesto la
dichiarazione di nullità del contratto
avente ad oggetto la costruzione di una
piscina coperta per essere stato redatto il
progetto da un geometra).” In senso conforme
anche Cass. sez. 26.07.2006 n. 17028, Cass.
Civ. 06.03.2007 n. 5136.
Altri problemi
pratici insorgono nei casi di contenzioso,
dal momento che le assicurazioni dei tecnici
prevedono sempre clausole di esonero della
copertura nel caso in cui il professionista
abbia ecceduto i limiti delle sue competenze
professionali.
Dobbiamo, infine, considerare che nel
sistema delle “professioni protette”
lo svolgimento da parte del professionista
di attività che esulino dalle proprie
competenze di legge è assimilato all'ipotesi
di attività svolta da soggetto non iscritto
all'albo professionale, mancando in entrambi
i casi l'abilitazione derivante
dall'iscrizione.
Il che comporta conseguenze penali, ai sensi
dell’art. 348 Codice Penale sull’abusivo
esercizio della professione
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
ABUSIVO ESERCIZIO DI UNA
PROFESSIONE.
L’art. 348 Codice Penale sancisce: “Chiunque
abusivamente esercita una professione, per
la quale è richiesta una speciale
abilitazione dello Stato è punito con la
reclusione fino a sei mesi”.
Il delitto previsto dall'articolo 348 C.P.
può sussistere quando l'agente eserciti
un'attività privo dell'abilitazione
richiesta per la stessa, ovvero, pur in
possesso di un'abilitazione professionale,
compia in concreto atti che esulano
dall'ambito dell'attività legittimamente
esercitabile sulla base dell'abilitazione
posseduta, sconfinando così nel campo dalla
legge riservato ad altro professionista.
La giurisprudenza si è già pronunziata in
merito, ritenendo che risponde del reato di
esercizio abusivo della professione, il
geometra che procede alla progettazione e/o
alla direzione dei lavori di un edificio con
strutture di cemento armato che non sia di
modeste dimensioni anche se il progetto è
controfirmato o vistato da un professionista
abilitato o se i calcoli del cemento armato
sono stati fatti eseguire da un ingegnere
(cfr. Cassazione penale, sez. VI,
10.10.1995, n. 1147; Cassazione penale, sez.
VI, 13.12.1994; Consiglio Stato 31.01.2001
n. 348).
In questi casi, rammentiamo che l'art. 74
Codice di Procedura Penale riconosce facoltà
al soggetto danneggiato dal reato, ai sensi
dell'art. 185 Codice Penale, ad esercitare,
nel processo penale, l'azione civile per il
risarcimento del danno causato.
Va segnalato che, nel caso di progetto
controfirmato da ingegnere/architetto, non
vi è una causa di esclusione del reato, che
permane tale (14).
Gli Ordini Professionali (degli Architetti e
degli Ingegneri) possono dunque agire nel
caso di abusivo esercizio della loro
professione da parte di un tecnico non
laureato in quanto l’interesse protetto
dalla norma non è privato, ma pubblico (cfr.
Pretura Perugia, 14.05.1993).
---------------
(14) Risponde del reato di esercizio
abusivo della professione il geometra che
procede alla progettazione e alla
direzione dei lavori di un edificio con
strutture di cemento armato che non sia di
modeste dimensioni anche se il
progetto è controfirmato o vistato da un
professionista abilitato o se i calcoli del
cemento armato sono stati fatti
eseguire da un ingegnere. Cassazione penale,
sez. VI, 10.10.1995, n. 1147.
Né può considerarsi ammissibile la reiezione
dell’eccezione –che molti tecnici non
laureati propongono– “di aver studiato il
cemento armato”. La Cassazione infatti
ha ritenuto assolutamente irrilevante che
fra i programmi di insegnamento degli
Istituti Tecnici sia ricompreso nelle
materie di studio "il cemento armato",
perché il fatto comunque non abilita
all'esercizio della professione nel settore
specifico (cfr. Cass. Civ. 21.12.2006 n.
27441) (tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
VIGILANZA/VERIFICA DELLE
COMPETENZE PROFESSIONALI DA PARTE DEI
FUNZIONARI DEGLI ENTI PREPOSTI AL RILASCIO
DELLE AUTORIZZAZIONI.
Un altro aspetto importante del problema “competenze
professionali” riguarda il dovere di
vigilanza e di verifica delle stesse da
parte dei Comuni. Nel rilasciare le
autorizzazioni a costruire, infatti, gli
Uffici Comunali sono tenuti a vigilare ed a
verificare le competenze del professionista
richiedente, pena la declaratoria di
illegittimità dell’autorizzazione.
Lo stesso dicasi per le Soprintendenze, nel
caso di progetti di restauro su edifici
vincolati.
Il punto critico è costituito dal fatto,
generalmente, che i Comuni non rispettano
quanto previsto dalla normativa e non
verificano se i professionisti che
sottoscrivono progetti operino entro le
rispettive competenze; e gli Ordini
professionali, pertanto, non ne hanno
conoscenza.
La Giurisprudenza, però, ha già più volte
sancito l’obbligo comunale di verificare se
il progetto presentato rientri o meno nel
campo di attività del professionista che lo
ha sottoscritto; ad esempio:
- Consiglio di Stato, sentenza 12.11.1985
n. 390: “L’amministrazione deve di
volta in volta determinare se il progetto,
per i problemi tecnici che implica, rientri
o meno nella cognizione della categoria dei
geometri”.
- TAR Puglia, sentenza 23.11.1985 n. 498:
“Spetta all’amministrazione comunale
accertare caso per caso se la costruzione
edilizia da eseguire sia di modeste
dimensioni”.
- Consiglio di Stato, sentenza 13.01.1999
n. 25: “Per gli edifici destinati a
civile abitazione, la competenza dei
geometri è limitata alle sole costruzioni di
modeste dimensioni, con divieto di
progettare opere per cui vi sia impiego di
cemento armato, tale da implicare, in
relazione alla destinazione dell'opera, un
pericolo per l'incolumità della persone in
caso di difetto strutturale, stante
l'evidente favore che le varie norme pongono
per la competenza esclusiva dei tecnici
laureati, nonché l'obbligo della p.a., in
sede di rilascio della concessione edilizia,
di motivare congruamente in ordine alla
sufficienza della redazione di un progetto
da parte di un geometra”.
Ed anche per quanto concerne le
Soprintendenze, la giurisprudenza ha
stabilito che esse devono verificare
l’idoneità professionale del progettista:
- Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 21.03.2006 n.
5239: “Se è vero, infatti, che
spetta alla Soprintendenza ai sensi
dell’art. 18 L. 1089/1939 di autorizzare i
progetti delle opere concernenti i beni
sottoposti alla legge stessa, il controllo
del progetto –che mira ad assicurare la
conformità dell’intervento alla salvaguardia
del valore storico artistico del bene– non
può non estendersi anche alla verifica della
idoneità professionale del progettista (come
stabilita dal legislatore)”;
- TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 28.1.2005 n.
381: “La Sovrintendenza per i beni
ambientali ed architettonici -quale
struttura preposta alla tutela dei beni
culturali e storici- ben può, nell'esercizio
della relativa funzione consultiva, rilevare
anche l'incompetenza del professionista che
ha redatto il progetto di restauro e
ripristino di un edificio avente valenza
culturale”;
- Consiglio di Stato, sentenza 23.07.1997
n. 386: “Il controllo sulla paternità
professionale dei progetti di opere da
realizzare su beni immobili sottoposti a
vincolo storico e artistico ai sensi della
l. 01.06.1939 n. 1089 rientra tra le
competenze istituzionali
dell'amministrazione dei beni culturali e
ambientali”.
Se tale
controllo non avviene, gli Ordini
professionali sono comunque legittimati ad
impugnare avanti al TAR le concessioni
edilizie rilasciate a soggetti non abilitati
(15).
La Giurisprudenza, in merito, afferma
costantemente che l’Ordine professionale è
legittimato a ricorrere contro un atto
amministrativo, per vizi attinenti alla
violazione dei limiti posti dalla legge
all'esercizio di una professione
concorrente, poiché, come persona giuridica
pubblica, ha un interesse individuale a
tutelare gli interessi della categoria
globalmente considerata, con l’unico limite
derivante dal divieto di occuparsi di
questioni concernenti i singoli iscritti e
di quelle relative ad attività che non sono
soggette alla disciplina o potestà
dell’Ordine (16).
Per tale genere di ricorsi “ad opponendum”
il termine per l'impugnazione del permesso
di costruire da parte dei terzi, che
assumano di aver subito pregiudizio dalla
costruzione, decorre dalla piena ed
effettiva conoscenza del provvedimento,
intendendosi tale conoscenza come un fatto,
la cui prova rigorosa incombe alla parte che
eccepisce la tardività.
In mancanza di inequivoci elementi
probatori, occorre far riferimento alla data
di ultimazione dei lavori (cioè da quando la
costruzione realizzata rivela in modo certo
ed univoco le caratteristiche dell'opera)
salvo che non emerga la prova di una
conoscenza anticipata che può essere
riferita anche alla data di inizio dei
lavori, allorquando già da tale momento la
nuova costruzione riveli in modo certo ed
univoco le essenziali caratteristiche
dell'opera e l'eventuale non conformità
della stessa al titolo o alla disciplina
urbanistica (17).
La giurisprudenza ha, altresì, statuito che
è legittimo l'annullamento mediante
esercizio del potere di autotutela di una
concessione edilizia in ragione
dell'incompetenza del progettista, da parte
del Comune (cfr. Consiglio Stato
22.05.2006).
---------------
(15)
In tal senso:
- Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 30.01.2002 n.
505: “Un ordine professionale locale
è legittimato al ricorso per la difesa degli
interessi di categoria dei soggetti di cui
ha la rappresentanza istituzionale non solo
quando si tratti di agire a tutela delle
professione stessa o di attribuzioni loro
proprie, ma anche al fine di perseguire
vantaggi strumentali giuridicamente
riferibili alla sfera categoriale”.
- TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 08.04.1982 n. 82: “L’ordine
degli ingegneri è legittimato ad impugnare
la concessione edilizia il cui progetto sia
stato elaborato da un geometra in violazione
dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n.
274, in quanto il ricorso è volto a tutelare
l'interesse della categoria ad impedire
l'abuso di quella professione a suo
discapito”.
- TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.05.2004 n.
1021: “Un ordine professionale locale
è legittimato al ricorso per la difesa degli
interessi di categoria dei soggetti di cui
ha la rappresentanza istituzionale ogni
qualvolta si tratti di agire a tutela della
professione stessa o di attribuzioni proprie
dei professionisti o, ancora, quando bisogna
perseguire vantaggi strumentali
giuridicamente riferibili alla sfera
categoriale; pertanto, sussiste la
legittimazione attiva dell’ordine
provinciale dei Dottori agronomi e Forestali
all'impugnazione del provvedimento della
giunta comunale di affidamento ad un
architetto dell'incarico di elaborare la
variante generale al PRG, il quale,
contemplando espressamente attività di
studio e analisi rientranti nelle competenze
degli appartenenti al citato ordine si
poneva come lesivo delle prerogative dei
predetti professionisti”;
- Consiglio di Stato, sentenza 12.11.1985
n. 390: “Gli ordini professionali sono
persone giuridiche pubbliche e, avendo, tra
l'altro, la finalità di tutelare gli
interessi di categoria, sono legittimati ad
impugnare i provvedimenti della p.a.
ritenuti lesivi di tali interessi”.
(16)
In tal senso TAR Veneto, sentenza
16.04.2003.
(17)
TAR Marche,
sentenza
26.09.2007 n. 1574: “Il termine per
l'impugnazione della concessione edilizia da
parte dei terzi, che assumano di aver subito
pregiudizio dalla costruzione assentita,
decorre dalla piena ed effettiva conoscenza
del provvedimento, intendendosi tale
conoscenza come un fatto, la cui prova
rigorosa incombe alla parte che eccepisce la
tardività. In mancanza di inequivoci
elementi probatori occorre far riferimento
alla data di ultimazione dei lavori, salvo
che non emerga la prova di una conoscenza
anticipata che può essere riferita anche
alla data di inizio dei lavori, allorquando
già da tale momento è possibile verificare
l'entità della modifica dei luoghi”.
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il
riparto delle competenze professionali dei
tecnici dell’edilizia" a cura
dell'Avv. Annalisa Padoa). |
GIURISPRUDENZA |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Il criterio per accertare se una costruzione
sia da considerare modesta -e rientri
quindi nella
competenza professionale dei geometri– consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera comportano e le capacità
occorrenti per superarle; a questo fine
assumono rilievo,
oltre alla complessità della struttura e
delle relative modalità costruttive, anche,
in via
complementare, il costo presunto dell'opera,
in quanto si tratta in ogni caso di elementi
sintomatici che valgono ad evidenziare le
difficoltà tecniche che coinvolgono la
costruzione.
Il criterio per accertare se una costruzione
sia da considerare modesta -e rientri
quindi nella
competenza professionale dei geometri, ai
sensi dell'art. 16, lett. m), R.D. 11.02.1929 n.
274– consiste nel valutare le difficoltà
tecniche che la progettazione e l'esecuzione
dell'opera comportano e le capacità
occorrenti per superarle; a questo fine
assumono rilievo,
oltre alla complessità della struttura e
delle relative modalità costruttive, anche,
in via
complementare, il costo presunto dell'opera,
in quanto si tratta in ogni caso di elementi
sintomatici che valgono ad evidenziare le
difficoltà tecniche che coinvolgono la
costruzione (Nella specie la S.C. ha confermato la
decisione della corte territoriale, negando
la competenza
dei geometri, rilevando che gli impianti di
depurazione non rientrano tra le opere
contemplate
dalla tariffa professionale, che l’entità
dei lavori –14 miliardi di vecchie lire-
esulasse dalle
competenze dei geometri e che la delicatezza
dei problemi tecnici relativi alla
progettazione
di un'infrastruttura reticolare e connessi
all'interferenza con altri impianti pure a
rete
(illuminazione, cavi telefonici, ecc.) ed
alla sostituzione e/o recupero dell'impianto
preesistente ponesse serie problemi tecnici)
(Corte di
Cassazione, Sez. I civile, sentenza 27.02.2008 n. 5203). |
COMPETENZE PROGETTUALI: La
competenza professionale dei geometri in
materia di progettazione e direzione dei
lavori di opere edili riguarda le
costruzioni rurali e degli edifici per uso
di industrie agricole, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese
piccole costruzioni accessorie in cemento
armato che non richiedono particolari
operazioni di calcolo e che per la loro
destinazione non possono comunque implicare
pericolo per la incolumità delle persone,
nonché il progetto, la direzione e vigilanza
di modeste costruzioni civili.
La competenza professionale dei geometri in
materia di progettazione e direzione dei
lavori di
opere edili, prevista dall'art. 16, r.d. n.
274 del 1929, riguarda le costruzioni rurali
e degli
edifici per uso di industrie agricole, di
limitata importanza, di struttura ordinaria,
comprese
piccole costruzioni accessorie in cemento
armato che non richiedono particolari
operazioni di
calcolo e che per la loro destinazione non
possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone, nonché il
progetto, la direzione e vigilanza di
modeste costruzioni
civili (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.07.2007 n. 860 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: L'indagine intesa ad accertare se una
costruzione destinata a civile abitazione
sia da
considerarsi modesta e rientri, quindi,
nella competenza professionale dei periti
industriali (o
dei geometri), non può prescindere dalla
valutazione delle difficoltà tecniche che la
progettazione e l'esecuzione dell'opera
comporta e dalla capacità (cioè dalle
cognizioni
tecniche) occorrente per superarle, criterio
che ha valore fondamentale per l'esatta
interpretazione e l'applicazione dell'art.
16 del regolamento professionale.
L'indagine intesa ad accertare se una
costruzione destinata a civile abitazione
sia da
considerarsi modesta e rientri, quindi,
nella competenza professionale dei periti
industriali (o
dei geometri), non può prescindere dalla
valutazione delle difficoltà tecniche che la
progettazione e l'esecuzione dell'opera
comporta e dalla capacità (cioè dalle
cognizioni
tecniche) occorrente per superarle, criterio
che ha valore fondamentale per l'esatta
interpretazione e l'applicazione dell'art. 16
del regolamento professionale (R.D. 11.02.1929 n. 275, per i periti industriali, e
R.D. 11.02.1929 n 274, per i
geometri).
In detta
indagine si terrà conto anche degli elementi
dell'importo dell'opera (costo presunto),
della
cubatura e del numero dei piani (cosiddetti
criteri di valore, od economico, e
quantitativo), ma
soprattutto per il loro valore sintomatico,
in quanto valgono a determinare le
caratteristiche
costruttive dell'opera e ad illuminare sulle
difficoltà tecniche che l'opera medesima
presenta, al
fine di apprezzare se questa costituisca una
costruzione modesta ai sensi
dell'ordinamento
professionale, ovvero esuli dalla capacita
tecnica e dalla competenza dei periti
industriali (e dei geometri) (Corte di
Cassazione, Sez. III civile, sentenza 14.06.2007 n. 13968). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Il discrimine tra la
competenza dei geometri e le attribuzioni
riservate agli ingegneri è costituito dalla
modesta entità dei lavori affidati, essendo
preclusa ai geometri la realizzazione di
lavori richiedenti una visione d'insieme e
di carattere programmatorio complessivo.
Nell'affidamento degli incarichi di
progettazione e direzione dei lavori il
discrimine tra la
competenza dei geometri e le attribuzioni
riservate agli ingegneri è costituito dalla
modesta
entità dei lavori affidati, essendo preclusa
ai geometri la realizzazione di lavori
richiedenti una
visione d'insieme e di carattere programmatorio complessivo (nel caso
concreto si è
ritenuto rientrasse nella competenza dei
geometri l'incarico di progettazione e
direzione lavori
di manutenzione straordinaria e sistemazione
di un'area pubblica a destinazione mercatale)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2007 n. 852 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
E' esclusa ogni competenza
professionale dell’Architetto nel campo
dell’impiantistica (nello specifico un
Architetto aveva curato il restauro di un
ristorante progettando, oltre alle opere
edilizie, anche l’impianto elettrico e
l’impianto a gas).
... Il Comune di Genova respinge il progetto
impiantistico per incompetenza professionale
dell’Architetto non ritenendolo legittimato
alla progettazione di impianti.
All’opposizione dell’Architetto il TAR della
Liguria, nel respingere il ricorso ha, fra
l’altro, sancito quanto segue:
“Dall’insieme dei riferimenti normativi,
…., emerge un quadro sufficientemente chiaro
in ordine alle differenti nozioni di
edilizia civile, come realizzazione di opere
murarie e di attività che costituiscono
applicazioni della fisica. In quest’ultimo
ambito rientrano le prestazioni basate
sull’utilizzazione dell’energia elettrica,
della termologia, della termodinamica oppure
della meccanica dei corpi dei fluidi o
dell’elettromagnetismo (TAR Lazio sez. III
n. 360/1995).
Ora nel caso … il progetto … riguardava
essenzialmente un impianto elettrico e a gas
relativo ad una unità immobiliare nella
quale viene esercitata una attività
commerciale.
Ne discende, attesa la natura dell’impianto
medesimo, che il relativo progetto non
poteva essere sottoscritto da un architetto,
ma da un professionista: ingegnere o perito
industriale iscritto nell’albo e, quindi, in
possesso delle necessarie cognizioni
tecnico-scientifiche” (TAR Liguria, Sez.
I,
sentenza 02.02.2005
n. 137). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Gli Ordini
professionali sono legittimati a difendere
in sede giurisdizionale gli interessi di
categoria dei soggetti di cui hanno la
rappresentanza istituzionale, non solo
quando si tratti della violazione di norme
poste a tutela della professione stessa, ma
anche ogniqualvolta si tratti di perseguire
comunque il conseguimento di vantaggi, sia
pure di carattere puramente strumentale,
giuridicamente riferibili alla sfera della
categoria.
Il presupposto legittimante è in ogni caso
costituito dalla riferibilità dell’incarico
alle competenze professionali della
categoria rappresentata dall’Ordine che
agisce; in difetto, l’Ordine non ha infatti
alcun interesse ad ottenere l’annullamento
di un incarico che comunque non potrebbe
essere affidato ad un suo iscritto (o almeno
ad un appartenente alla categoria medesima).
In linea di
principio deve convenirsi con la tesi
ricorrente, secondo cui gli Ordini
professionali sono legittimati a difendere
in sede giurisdizionale gli interessi di
categoria dei soggetti di cui hanno la
rappresentanza istituzionale, non solo
quando si tratti della violazione di norme
poste a tutela della professione stessa, ma
anche ogniqualvolta si tratti di perseguire
comunque il conseguimento di vantaggi, sia
pure di carattere puramente strumentale,
giuridicamente riferibili alla sfera della
categoria.
In questa prospettiva, la giurisprudenza ha
ritenuto legittimato un Ordine degli
Architetti a perseguire giudizialmente
l’osservanza di prescrizioni a garanzia
della partecipazione di tutti gli associati
alle procedure selettive per l’affidamento
di incarichi di progettazione, nonostante
fosse stato avvantaggiato un singolo
associato (Cons. St., V, 07.03.2001, n.
1339).
Il presupposto legittimante è in ogni caso
costituito dalla riferibilità dell’incarico
alle competenze professionali della
categoria rappresentata dall’Ordine che
agisce; in difetto, l’Ordine non ha infatti
alcun interesse ad ottenere l’annullamento
di un incarico che comunque non potrebbe
essere affidato ad un suo iscritto (o almeno
ad un appartenente alla categoria medesima)
(TAR Piemonte, Sez.
I,
sentenza
17.02.2004 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
La
progettazione degli impianti di ventilazione
dei sotterranei del cimitero monumentale e
delle opere di risanamento connesse,
classificabili fra le applicazioni della
fisica, in quanto basati sullo studio della
dinamica dei fluidi, e non fra le opere
edilizie, formano oggetto della esclusiva
competenza professionale degli ingegneri.
L’incarico
conferito dal provvedimento impugnato
riguardava la progettazione degli impianti
di ventilazione dei sotterranei del cimitero
monumentale e delle opere di risanamento
connesse.
Ora, l’oggetto e i limiti delle professioni
di ingegnere e di architetto sono regolati
dal Capo IV del R.D. 23.10.1925, n. 2537, il
cui art. 51 stabilisce che sono di spettanza
della professione di ingegnere il progetto,
la condotta e la stima di una serie di
lavori, fra i quali quelli relativi «in
generale alle applicazioni della fisica».
Il successivo art. 52 individua nelle «opere
di edilizia civile» (nonché nei relativi
rilievi geometrici e operazioni di estimo)
il campo di attività degli architetti.
La giurisprudenza ha chiarito al riguardo
che, anche ammettendo in astratto che il
termine «edilizia civile» sia
riferibile non soltanto alla realizzazione
di edifici, secondo il suo più comune
significato, ma anche ad altri generi di
opere ed impianti, tale interpretazione
risulta, in concreto testualmente
incompatibile con la norma transitoria
contenuta nel successivo art. 54, ultimo
comma, del medesimo decreto, che, nel
prevedere un ampliamento della competenza
professionale di coloro i quali avevano
conseguito entro una certa data il diploma
di «architetto civile», previsto
dagli ordinamenti universitari dell’epoca,
autorizzava gli interessati a svolgere anche
mansioni indicate nel precedente art. 51
-proprie, come si è visto, della professione
di ingegnere- «ad eccezione però di
quanto riguarda le applicazioni industriali
e della fisica, nonché i lavori relativi
alle vie, ai mezzi di comunicazione o di
trasporto e alle opere idrauliche».
Questa disposizione dimostra, al di là del
suo carattere meramente eccezionale e
transitorio, che, secondo il sistema di
ripartizione delle competenze professionali
delineato dal R.D. 23.10.1925, n. 2537, la
nozione di «edilizia civile» non può
essere estensivamente interpretata, dovendo
da essa escludersi i lavori e le opere nella
medesima disposizione menzionati, fra i
quali le «applicazioni della fisica».
Ne consegue che gli impianti di
ventilazione, che nel caso in esame
costituiscono l’oggetto centrale
dell’incarico, classificabili fra le
applicazioni della fisica, in quanto basati
sullo studio della dinamica dei fluidi, e
non fra le opere edilizie, formano oggetto
della esclusiva competenza professionale
degli ingegneri.
Né può sostenersi che i limiti delle
competenze professionali degli ingegneri e
degli architetti, come delineati dal R.D.
23.10.1925, n. 2537, dovrebbero ritenersi
superati dalla evoluzione successivamente
intervenuta nei rispettivi corsi di studi
universitari, che consentirebbe
un'interpretazione estensiva delle
disposizioni che disciplinano la competenza
professionale degli architetti
(TAR Piemonte, Sez.
I,
sentenza
17.02.2004 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Il discrimine della competenza dei geometri
nel campo delle costruzioni civili è dato
dal criterio della
"modestia" dell'opera, così come stabilito
dall'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274,
il quale, nel regolare l'attività
professionale dei geometri alla lett. m),
consente loro l'attività di "progetto,
direzione e vigilanza di modeste
costruzioni civili".
Tale criterio è da
intendere in senso tecnico-qualitativo e
con riguardo ad una valutazione
della struttura dell'edificio e delle
relative modalità costruttive, che non
devono implicare la soluzione di
problemi tecnici particolari, devoluti
esclusivamente alla competenza professionale
degli ingegneri e degli
architetti.
Altri criteri, come quello
quantitativo, delle dimensioni e della
complessità, nonché quello economico,
possono soccorrere quali elementi
complementari di valutazione, in quanto
indicativi delle caratteristiche
costruttive e delle difficoltà tecniche
presenti nella realizzazione dell'opera.
Può ritenersi
ormai acquisito in giurisprudenza che, in
mancanza di ogni ulteriore specificazione da
parte del citato art. 16, lett. m), R.D. n.
274 del 1929, il discrimine della competenza
dei geometri nel campo delle costruzioni
civili è dato dalla “modestia”
dell’opera.
Criterio questo da intendere in senso
tecnico-qualitativo e con riguardo ad una
valutazione della struttura dell’edificio e
delle relative modalità costruttive, che non
devono implicare la soluzione di problemi
tecnici particolari, devoluti esclusivamente
alla competenza professionale degli
ingegneri e degli architetti. Altri criteri,
come quello quantitativo, delle dimensioni e
della complessità, nonché quello economico
possono soccorrere quali elementi
complementari di valutazione, in quanto
indicativi delle caratteristiche costruttive
e delle difficoltà tecniche presenti nella
realizzazione dell’opera (cfr. Corte Cost.
27.04.1993 n. 199).
Per valutare l’idoneità del geometra a
firmare il progetto di un’opera di edilizia
civile, occorre, quindi, considerare le
concrete caratteristiche dell’intervento. A
tal fine, peraltro, non possono essere
prefissati criteri rigidi e fissi, ma è
necessario considerare tutte le
particolarità della concreta vicenda, anche
in rapporto all’evoluzione
tecnico-scientifica ed economica che nel
settore edilizio può verificarsi nel tempo
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31.01.2001 n.
348).
Nel caso di specie, come opportunamente
evidenziato dal Tribunale e come si evince
dalla relazione tecnica e dal certificato di
collaudo in atti, l’opera progettata è
costituita da un insieme di sette capannoni
ad un piano, destinati a magazzino o
deposito, la cui struttura in cemento armato
è stata progettata e calcolata da un
ingegnere, da realizzare a completamento di
un piano di lottizzazione. Si tratta di
costruzioni modulari, che, assunta da
professionista idoneo la responsabilità
delle strutture portanti, non presentano
particolari problemi tecnici e, delle quali,
nel caso che ci occupa, il geometra ha
curato in pratica la mera esecuzione secondo
la previsione del piano attuativo, insieme
alle opere complementari, come i parcheggi a
servizio.
Alla stregua dei canoni sopra enunciati e
considerate le concrete caratteristiche
dell’intervento, si ritiene che ricorrono
nella specie gli estremi della competenza
professionale del geometra (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 03.10.2002 n. 5208 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetto
- Competenza professionale - Opere di
edilizia civile di rilevante carattere
artistico - Competenza esclusiva ex art. 52
R.D. 25/2537 - Valutazione caso per caso
dell’Autorità competente.
La norma dell’art. 52, 2° comma, del R.D.
23.10.1925 n. 2537 la quale prevede la
competenza esclusiva dell’architetto per le
opere di edilizia civile di rilevante
carattere artistico, implica che l’autorità
a cui è devoluta l’approvazione del progetto
effettui una valutazione del requisito
«rilevante », caso per caso, riferita sia
all’edificio oggetto dell’intervento e sia
all’intervento in sé.
Il Sindaco del Comune di Cavacurta
rilasciava concessione edilizia per il
restauro del complesso edilizio denominato «Convento
dei Padri Serviti».
Detta concessione veniva impugnata
dall’Ordine degli architetti, in base al
rilievo che trattandosi di immobile di
rilevante carattere artistico, ancorché non
soggetto al vincolo di cui alla L. n. 1089
del 1939, il progetto doveva essere
sottoscritto da un architetto e non, come
invece avvenuto, da un ingegnere.
Il TAR adito con la sentenza in epigrafe
accoglieva il ricorso, in base al rilievo
che qualunque intervento anche minimo su
edificio esistente, che abbia rilevanza
artistica, deve essere progettato
dall’architetto e non dall’ingegnere.
Hanno proposto appello l’ingegnere
firmatario del progetto e l’Ordine degli
ingegneri della provincia di Milano.
Osservano che in base alla legge
professionale, sono di competenza della
professione di architetto il restauro e
ripristino degli edifici soggetti al vincolo
di cui alla L. n. 1089 del 1939, mentre per
gli edifici non soggetti al vincolo sono di
competenza dell’architetto solo le opere di
edilizia civile che presentano rilevante
carattere artistico. Nella specie, gli
interventi di edilizia civile, relativi ad
immobile non vincolato, non presentavano
rilevante carattere artistico, e non
necessitavano pertanto di progetto firmato
da architetto.
L’appello è fondato.
La questione di diritto oggetto del presente
giudizio verte sulla corretta
interpretazione dell’art. 52, R.D.
23.10.1925 n. 2537, relativamente al riparto
di competenze tra architetti e ingegneri in
ordine alle opere soggette a vincolo
storico-artistico o comunque di carattere
artistico.
Dispone, in particolare, l’art. 52, R.D. n.
2537 del 1925, che sono di competenza della
professione di architetto, da un lato «le
opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico» e
dall’altro lato «il restauro ed il
ripristino degli edifici contemplati dalla
legge 20.06.1899 n. 364 (ora L. n. 1089 del
1939)».
Se è chiaro che quando si tratta di immobili
soggetti a vincolo ai sensi della L. n. 1089
del 1939, il restauro e il ripristino sono
di spettanza della professione di
architetto, meno chiara è la previsione che
attribuisce all’architetto «le opere di
edilizia civile che presentano rilevante
carattere artistico».
La norma si riferisce, chiaramente, agli
immobili non soggetti a vincolo. L’assenza
di un vincolo formale, impone una
valutazione caso per caso non sul semplice
carattere artistico, bensì sul «rilevante»
carattere artistico.
Tale valutazione deve essere compiuta
dall’autorità che approva il progetto
dell’opera.
Trattasi di valutazione di merito,
sindacabile solo in caso di manifesta
illogicità o travisamento.
Quanto alla espressione «opere di
edilizia civile» la stessa va riferita
sia alle nuove opere, sia agli interventi
(ristrutturazione, manutenzione) su opere
già esistenti.
Il rilevante carattere artistico va riferito
non solo agli edifici cui accede
l’intervento, ma anche all’intervento in sé,
in quanto la norma parla non già di «interventi
su beni di rilevante carattere artistico»,
bensì di opere di edilizia civile, in sé
aventi rilevante carattere artistico.
Sicché, il rilevante carattere artistico va
di volta in volta valutato dall’autorità
competente ad approvare il progetto, con
riferimento alle opere da effettuare.
Tale interpretazione, oltre che conforme al
dato letterale della norma, è conforme alla
logica della stessa, che intende
differenziare gli immobili soggetti a
vincolo storico-artistico da quelli non
formalmente vincolati.
Per questi ultimi, non esistendo alcun
vincolo, si impone una valutazione rigorosa
sul carattere artistico dell’intervento,
onde evitare una non necessaria riserva di
competenza a favore di una categoria
professionale (gli architetti) e in danno di
un’altra (gli ingegneri).
Nel caso di specie, si tratta di interventi
di manutenzione e adeguamento su un immobile
non soggetto a vincolo ai sensi della L. n.
1089 del 1939, e ciò nonostante ritenuto di
valore artistico dagli strumenti urbanistici
comunali.
Occorreva dunque valutare se gli interventi
progettati fossero, a loro volta, di
rilevante carattere artistico, onde
stabilire se il progetto fosse di competenza
di architetto o ingegnere. Tale valutazione
competeva al Comune competente al rilascio
della concessione edilizia
(tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 30.04.2002 n. 2303 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetto
- Competenza professionale - Opere marittime
- Incarico di coordinatore per la sicurezza
del cantiere – Esclusione.
Per un’opera marittima è legittima
l’esclusione degli architetti dalla
selezione per l’affidamento dell’incarico di
coordinatore della progettazione o di
coordinatore della esecuzione lavori, che
sono soggetti chiamati ad operare nel
settore della sicurezza dei cantieri per
lavori edili o di ingegneria civile «in
relazione alle specifiche competenze
connesse al titolo di studio», come dispone
l’art. 23 del D.Lgs. 19.11.1999 n. 528.
Il D.L.vo 14.08.1996 n. 494 concernente
attuazione della direttiva 92/57/C.E.E. ha
prescritto misure per la tutela della salute
e per la sicurezza dei lavoratori nei
cantieri temporanei o mobili definendo
all’art. 10 i requisiti professionali del
coordinatore per la progettazione e del
coordinatore per l’esecuzione, figura
quest’ultima che con la gara in questione si
intende affidare a professionista estraneo
all’Amministrazione.
La norma citata, al comma 1, individua tre
fasce di figure professionali che possono
acquisire la funzione del coordinatore per
l’esecuzione, graduando le stesse in ragione
dei diversi livelli di studio, dal diploma
di laurea ai diplomi universitari e infine
ai diplomi tecnici in genere disponendo al
comma 2 che i soggetti di cui al comma 1
devono essere in possesso di attestato di
frequenza a specifico corso in materia di
sicurezza.
È chiaro che, non avendo il corso, attesa la
sua brevità (120 ore), una funzione
sostitutiva dei singoli corsi di studio
delle diverse figure professionali, resta il
principio che la partecipazione ai medesimi
corsi integra le conoscenze dei soggetti
nell’ambito delle specifiche abilitazioni ad
operare nei diversi settori della tecnica.
Il citato D.L.vo n. 494 del 1996 non ha
quindi introdotto modifiche alle varie
competenze professionali, ma si è limitato
ad individuare una vasta gamma di
professionalità che, ciascuna nel proprio
settore di competenza, sono suscettibili di
svolgere le funzioni specifiche connesse
alla sicurezza previa partecipazione a corsi
per l’acquisizione di conoscenze sulle
specifiche attività.
Non appare superfluo rilevare che le
attività connesse alla sicurezza non possono
essere efficacemente svolte se non si
possiede una approfondita conoscenza delle
problematiche connesse alla tipologia di
opera da realizzare, alle tecnologie
costruttive della stessa, agli specifici e
spesso complessi mezzi d’opera utilizzati.
Il delicato aspetto della sicurezza dei
cantieri, per l’alto prezzo che viene pagato
con gli infortuni sul lavoro, impone
l’applicazione di criteri rigidi di
selezione degli operatori, secondo il
possesso di elevata e specifica
professionalità.
Detta esigenza è stata avvertita dal
Legislatore il quale -con il D.L.vo
19.11.1999 n. 528, modificativo ed
integrativo del D.L.vo n. 494 del 1996– ha
ritenuto opportuno precisare esplicitamente
(art. 23) che i lavori edili o di ingegneria
civile al coordinamento dei quali sono
abilitati i soggetti di cui all’art. 10,
comma 1, del D.L.vo n. 494 del 1996 sono
individuati, con uno o più decreti
interministeriali, «in relazione alle
specifiche competenze connesse al titolo di
studio».
Il citato D.L.vo è entrato in vigore il
18.04.2000 (art. 26) e, ancorché non siano
stati ancora emanati i suddetti decreti
interministeriali, la disposizione che
l’abilitazione ad operare nel settore della
sicurezza sia riferita alle specifiche
competenze connesse al titolo di studio deve
intendersi pienamente operante.
Nel caso specifico non sussistono dubbi che
le opere marittime esulino dalle competenze
professionali degli architetti e pertanto
legittimamente il bando ha limitato la
partecipazione ai soli ingegneri
(tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di
Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2002 n.
1208). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetto
- Competenza professionale - Progettazione
di impianto comunale di illuminazione
pubblica - Ammissibilità.
In una gara indetta per l’affidamento di
progettazione di un impianto comunale di
illuminazione pubblica -che è da considerare
opera di edilizia civile- è illegittima la
clausola del bando che esclude gli
architetti dalla partecipazione alla gara.
Atteso che, prima facie, pur non
potendosi addivenire, sulla base della
normativa vigente, ad una sostanziale
equiparazione del titolo di laurea in
architettura, con quello di ingegneria (più
spiccatamente caratterizzato quest’ultimo in
senso tecnico-scientifico), deve accedersi
ad una interpretazione della nozione di
edilizia civile sufficientemente estesa e
ritenersi pertanto che non si limiti l’opera
di progettazione dell’illuminazione viaria
pubblica in ambito comunale ad un fenomeno
di mera applicazione di energia elettrica,
potendo essa invece costituire un’efficace
mezzo di valorizzazione dei singoli
fabbricati e del complessivo patrimonio
edilizio comunale (tratto da BLT n. 2/2002 -
Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza
caut. 08.01.2002 n. 20). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
In base all'art. 16, R.D. 11.02.1929
n. 274 e dell'art. 54, L. 02.03.1949 n.
144, non
rientra nella competenza dei geometri la
realizzazione di un complesso di opere di
modesta
entità o tenuità, bensì che richiede una
visione d'insieme, pone problemi di
carattere programmatorio ed impone la valutazione
complessiva di una serie di situazioni la
cui
soluzione, sotto il profilo tecnico, possa
incontrare difficoltà non facilmente
superabili con il
solo bagaglio professionale del geometra
(nella specie, l'incarico di progettazione è
di sicura
complessità, perché riguarda l'adeguamento e
la razionalizzazione dell'acquedotto
comunale,
in funzione di una nuova destinazione
urbanistica e, quindi, non è penalizzante
della posizione
professionale dei geometri).
L'articolo 16
del regio decreto 11.02.1929, n. 2174, nel
definire "l'oggetto ed i limiti
dell'esercizio professionale di geometra",
attribuisce alla competenza del medesimo,
per quel che concerne la fattispecie,
(lettera l) "progetto, direzione,
sorveglianza e liquidazione di costruzioni
rurali e di edifici per uso d'industrie
agricole, di limitata importanza, di
struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato,
che non richiedono particolari operazioni di
calcolo e per la loro destinazione non
possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone; nonché di piccole
opere inerenti alle aziende agrarie, come
strade vicinali senza rilevanti opere
d'arte, lavori d'irrigazione e di bonifica,
provvista d'acqua per le stesse aziende e
riparto della spesa per opere consorziali
relative, esclusa, comunque, la redazione di
progetti generali di bonifica idraulica ed
agraria e relativa direzione".
Contrariamente a quanto argomentato
dall’appellante, i limiti posti dalla norma,
nella parte in cui circoscrive la competenza
dei geometri ad opere strutturalmente
semplici, non sono stati modificati
dall'articolo 57 della legge 02.03.1949, n.
144, che contiene una classificazione delle
prestazioni professionali del geometra in
funzione dell'applicazione degli onorari
professionali e che definisce le costruzioni
in termini più generali. Infatti
dall'analisi comparativa delle due norme
emerge come “il criterio di delimitazione
del campo operativo del geometra, costituito
dalla modestia o tenuità dell'opera dev'essere
integrato con quello che preclude al
geometra la realizzazione di un complesso di
opere che richiede una visione di insieme,
pone problemi di carattere programmatorio,
ed impone una valutazione complessiva di una
serie di situazioni la cui soluzione, sotto
il profilo tecnico, può incontrare
difficoltà non facilmente superabili con la
competenza professionale del geometra.”
(Consiglio Stato sez. V 03.01.1992 n. 3).
Nel caso di specie, è pacifico che incarichi
di progettazione si riferivano ad interventi
di sicura complessità, trattandosi
dell'adeguamento e razionalizzazione
dell'acquedotto comunale, in funzione di una
nuova destinazione urbanistica (insediamenti
produttivi), e del recupero e riuso del
centro storico richiedente per sua natura
una visione di insieme di problemi la cui
soluzione involge questioni di notevole
spessore tecnico (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza
22.09.2001 n. 4985 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetto
- Competenza professionale - Progettazione
di opere stradali, idrauliche e igieniche -
Esclusione - Limiti.
Dall'interpretazione letterale, sistematica
e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del
R.D. 1925/2537 - che riservano alla
competenza comune di architetti e ingegneri
le sole opere di edilizia civile (delle
quali però quelle con carattere artistici
restano di competenza esclusiva degli
architetti) mentre attribuiscono alla
competenza generale degli ingegneri tutte le
altre - discende la regola secondo cui la
progettazione delle opere viarie, idrauliche
ed igieniche (in cui sono compresi i
cimiteri) che non siano strettamente
connesse con i singoli fabbricati è di
esclusiva pertinenza degli ingegneri.
È pacifico
nella giurisprudenza di questo Consiglio che
la progettazione delle opere viarie,
idrauliche ed igieniche, che non siano
strettamente connesse con i singoli
fabbricati, sia di pertinenza degli
ingegneri (cfr. sez. V, 06.04.1998, n. 416;
sez. IV, 19.02.1990 n. 92; sez. III
11.12.1984, n. 1538).
Tale regola discende dall'interpretazione
letterale, sistematica e teleologica degli
artt. 51, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925 n.
2537 (Approvazione del regolamento per le
professioni d'ingegnere e di architetto) che
riservano alla competenza comune di
architetti ed ingegneri le sole opere di
edilizia civile; mentre attribuiscono alla
competenza generale degli ingegneri quelle
concernenti: le costruzioni stradali, le
opere igienico sanitarie (depuratori,
acquedotti, fognatura e simili), gli
impianti elettrici, le opere idrauliche, le
operazioni di estimo, l'estrazione di
materiali, le opere industriali; ferma
rimanendo per i soli architetti, la
competenza in ordine alla progettazione
delle opere civili che presentino rilevanti
caratteri artistici e monumentali (art. 52,
2° comma, cit., che conserva però alla
concorrente competenza degli ingegneri,
secondo la regola generale, la parte tecnica
degli interventi costruttivi de quibus).
Resta da stabilire se la progettazione di
opere cimiteriali integri o meno la nozione
di opera igienico-sanitaria.
Al quesito va data senz'altro risposta
positiva, giusta le convergenti indicazioni
provenienti dal complesso della normativa di
settore.
In ordine cronologico sovviene la
disposizione sancita dall'art. 17, R.D.
06.10.1912, n. 1306 (Regolamento provvisorio
per l'esecuzione della legge 25.06.1911, n.
586, sulle agevolezze ai comuni per la
provvista di acqua potabile, per i mutui per
le opere di igiene e per la costruzione e la
sistemazione di ospedali comunali e
consorziali) nella parte in cui,
espressamente, annovera i cimiteri fra le
opere riguardanti la pubblica igiene.
Nello stesso senso, il testo unico delle
leggi in materia sanitaria —R.D. 27.07.1934,
n. 1265, art. 337— prevede che ciascun
Comune debba avere almeno un cimitero a
sistema di inumazione, conformemente alle
norme del regolamento di polizia mortuaria
(cfr. l'art. 49, D.P.R. 10.09.1990 n. 285
—regolamento di polizia mortuaria— che
ribadisce tale obbligo), e ne affida la
sorveglianza all'autorità sanitaria per
evidenti ragioni di tutela degli interessi
igienico sanitari della popolazione.
Per le medesime esigenze, l’art. 338 del
testo unico su menzionato, introduce un
regime particolare disciplinante le zone di
rispetto dei cimiteri (cfr. C.d.S.
28.02.1996, n. 3031/1995, in ordine agli
scopi di tutela igienico-sanitaria della
disciplina dettata dall'art. 338 cit.; per
Cons. giust. amm. 29.10.1990 n. 365, la
prescrizione delle distanze delle aree
cimiteriali per la realizzazione di edifici
di qualsiasi natura risponde alla doppia
finalità di salvaguardare esigenze igieniche
e di assicurare adeguato decoro ai luoghi
destinati alla sepoltura)
(tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di
Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2000
n. 2938). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Impianti affini
o connessi con opere edili - Impianti di
illuminazione pubblica - Vi rientrano.
Rientra nell’attribuzione professionale
dell'architetto, la progettazione di tutti
gli impianti affini o connessi con i
progetti di opere di edilizia civile -qual'è
un impianto di illuminazione elettrica-
perché egli ha la stessa competenza
dell'ingegnere, avendo l'art. 52 R.D.
23.10.1925 n. 2537 totalmente equiparato le
due professioni per le materie ivi previste.
Con il primo motivo il ricorrente (Comune di
G.) ... assume che ai sensi degli artt. 51 e
52 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 (approvazione
del regolamento per le professioni
d'ingegnere e di architetto) la
progettazione di un impianto di
illuminazione non può essere ricompresa fra
le attività consentite all'architetto con la
conseguenza che una sua prestazione al
riguardo sarebbe «contra legem» e
dunque insuscettibile di compenso.
La censura è infondata per un duplice ordine
di argomentazioni.
Anzitutto deve rilevarsi l'insussistenza
nella normativa ora citata di un divieto di
tal genere visto che, mentre l'art. 51 del
R.D. sopra menzionato contempla quale
oggetto di competenza esclusiva della
professione di ingegnere alcune attività tra
le quali non è prevista la progettazione di
impianti di illuminazione, l'art. 52, 1°
comma del medesimo R.D. prescrive che «formano
oggetto tanto della professione di ingegnere
quanto di quella di architetto le opere di
edilizia civile, nonché i rilievi geometrici
e le operazioni di stima ad esse relative».
Orbene se, come il ricorrente assume,
sussiste una competenza professionale
dell'ingegnere per i progetti di impianti di
illuminazione elettrica, evidentemente con
riferimento al citato art. 52, 1° comma,
ritenendo tali progetti affini o comunque
connessi a quelli relativi alle opere di
edilizia civile, alle stesse conclusioni
deve giungersi per l'architetto, attesa la
completa equiparazione che l'articolo
suddetto prevede tra le due professioni per
le materie ivi indicate.
Non può quindi affermarsi, con riferimento
al progetto di un impianto di illuminazione
pubblica, l'esistenza di una competenza
della figura professionale dell'ingegnere
intesa con «principale ed indispensabile»
e correlativamente attribuire all'architetto
una funzione «sussidiaria e di
complemento» ... in assenza di una
normativa che disciplini differentemente per
tale materia la competenza delle due
suddette professioni.
Alla luce di tali considerazioni pertanto si
ritiene di aderire all'orientamento già
espresso da questa Corte secondo il quale la
progettazione di un impianto di
illuminazione pubblica sul territorio
comunale rientra tra le attribuzioni
professionali degli ingegneri e degli
architetti (Cass. 05.11.1992 n. 11994).
Deve qui aggiungersi, per altro verso, che
l'accoglimento della domanda di indebito
arricchimento proposta in via sussidiaria
dal AA rende comunque superata la questione
proposta con il primo motivo: invero, posto
che la pretesa incapacità di AA, quale
architetto a progettare l'impianto di
illuminazione pubblica in questione
comporterebbe la nullità del relativo
rapporto contrattuale intercorso con il
Comune di G.; occorre richiamare
l’orientamento consolidato di questa Corte
secondo cui l’azione generale di indebito
arricchimento non è esclusa dall'esperimento
con esito negativo di altra azione tipica,
qualora la relativa domanda sia stata
respinta per carenza «ab origine»,
del titolo posto a suo fondamento (vedi, tra
le più recenti, Cass. 12.06.1995 n. 6613;
Cass. 25.09.1998 n. 9584)
(tratto da BLT n. 2/2002 - Corte di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza
29.03.2000 n. 3814). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Ingegneri
e architetti - Rispettive competenze ex
artt. 51, 52 e 54 R.D. 1925/2537.
L’art. 51 R.D. 1925/2537 prevede una
competenza di carattere generale degli
ingegneri e l’art. 52 delimita la competenza
professionale degli architetti alle sole
«opere di edilizia civile»; pertanto i
lavori relativi alla rete idrica comunale,
che non rientrano nell’«edilizia civile» ma
bensì nell’ingegneria idraulica, sono
riservati alla professione di ingegnere. Ciò
è confermato dal successivo art. 54.
È opportuno partire dall’esame delle censure
concernenti la denunciata discriminazione
degli architetti che più strettamente
riguardano la sfera degli interessi tutelati
dall’Ordine ricorrente, quale ente
esponenziale della categoria professionale
rappresentata.
Le doglianze sono infondate. Il capo IV del
regolamento per le professioni d’ingegnere e
di architetto, approvato con regio-decreto
n. 2537 del 1925, disciplina l’oggetto ed i
limiti delle competenze spettanti due figure
professionali.
Al riguardo, non è invero riscontrabile una
completa equiparazione tra tali categorie di
professionisti.
L’art. 51, concernente la professione di
ingegnere, prevede una competenza di
carattere generale comprendente interventi
di vario tipo, relativi alla progettazione,
conduzione e stima relativi alle «costruzioni
di ogni specie» ed all’impiantistica
civile ed industriale, alle infrastrutture
ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di
comunicazione, riconoscendo in senso lato
una abilitazione comprendente ogni forma di
applicazione delle tecniche relative alla
fisica, alla rilevazione geometrica ed alle
operazioni di estimo.
L’art. 52 delimita, invece, la competenza
professionale degli architetti alle solo
«opere di edilizia civile», che rientrano
pure nelle competenze degli ingegneri,
eccetto per quanto riguarda la parte non «tecnica»
degli interventi su edifici di rilevante
interesse artistico.
Orbene non vi è dubbio che nella nozione di
«edilizia civile» siano da
comprendere tutte le opere anche connesse ed
accessorie, purché ovviamente si tratti di
pertinenze al servizio di singoli fabbricati
o complessi edilizi.
Sennonché, nella specie la delibera
impugnata riguarda incarichi relativi
all’ammodernamento ed all’ampliamento della
rete idrica comunale. In proposito, tali
lavori, concernenti gli impianti della rete
urbana di condotta e distribuzione
dell’acqua, non sono riconducibili
all’ambito dell’«edilizia civile», ma
piuttosto rientrano nell’ingegneria
idraulica che ai sensi dell’art. 51 del
citato regolamento, forma bensì oggetto
riservato alla professione di ingegnere.
Ciò risulta confermato dal successivo art.
54 che, pur estendendo, in via eccezionale,
la competenza ordinaria degli architetti
diplomati entro una certa data, fa esplicita
eccezione per una serie di applicazioni, di
carattere più marcatamente
tecnico-scientifico, tra le quali appunto le
«opere idrauliche» (cfr. Cons. St. sez. IV,
19.02.1990, n. 92).
In definitiva è, quindi, da escludere che
gli incarichi in questione possano essere
conferiti ad architetti
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR
Campania-Napoli, Sez. I, sentenza
14.08.1998 n. 2751). |
COMPETENZE PROGETTUALI: 1.
Ingegneri - Costruzioni di ogni specie -
Competenza esclusiva - Competenza congiunta
con quella degli architetti per le «opere di
edilizia civile».
2. Architetti - Corso di studio per la
laurea - Dissimile da quello degli
ingegneri.
1. La dizione dell’art. 51 del R.D.
1925/2537 è onnicomprensiva di ogni
competenza costruttiva e di applicazione
delle scienze fisiche, esclusiva degli
ingegneri; mentre il successivo art. 52
rimette soltanto le «opere di edilizia
civile» alla competenza anche degli
architetti, non esclusiva ma congiunta con
quella degli ingegneri, come confermato
dall’art. 54.
2. Considerato che i contenuti di una
professione possono desumersi anche dalle
particolari conoscenze tecniche attestate
dal titolo di studio, proprio l’analisi dei
rispettivi corsi di studio di ingegneri ed
architetti vale a respingere la
prospettazione di questi ultimi secondo la
quale il loro corso di studi non sarebbe
dissimile ormai da quello degli ingegneri.
La questione di fondo sottoposta al Collegio
è quella di stabilire le competenze
professionali ai fini della corretta
applicazione della legge 05.03.1990 n. 46,
dettante norme per la sicurezza degli
impianti.
Per quanto concerne ingegneri e architetti
soccorre il R.D. 23.10.1925 n. 2537,
tutt’ora vigente, il cui capo IV individua
l’oggetto e i limiti delle rispettive
professioni. In particolare l’art. 51
stabilisce che spettano all’ingegnere il
progetto, la condotta e la stima dei lavori
relativi, tra l’altro, alle costruzioni di
ogni specie, alle macchine ed agli impianti
industriali, nonché, in generale, alle
applicazioni della fisica.
Alla luce di tale dizione onnicomprensiva di
ogni competenza costruttiva e di
applicazione delle scienze fisiche, non è
contestabile che rientrino appieno nelle
capacità professionali e nelle attribuzioni
degli ingegneri la progettazione e la
verifica degli impianti di cui alla legge n.
46, caratterizzati, come già detto,
dall’impiego di elevate conoscenze nel campo
delle scienze fisiche, il ricorso alle quali
è indispensabile per la soluzione dei
complessi problemi che comportano le
tipologie dei manufatti in questione.
Conoscenze che debbono possedere quel
carattere di specificità ed approfondimento
reso necessario anche dalla pericolosità
delle opere da realizzare e verificare.
Tanto non può dirsi per gli architetti, alla
cui competenza non esclusiva ma congiunta
con quella degli ingegneri il successivo
art. 52 rimette soltanto le «opere di
edilizia civile». Al riguardo gli architetti
invocano una lettura estensiva della norma,
facendovi ricomprendere, sulla scorta di un
insegnamento giurisprudenziale, anche tutti
gli impianti asserviti direttamente al
singolo fabbricato [Cons. St., sez. III,
par. 11.12.1984 n. 1538; sez. IV, 19.02.1990
n. 92; TAR Molise 23.05.1990 n. 147: TAR
Lazio, sez. II, 16.12.1991 n. 1920; TAR
Lazio, sez. I, 23.06.1992 n. 927; TAR Valle
d’Aosta, 17.12.1993 n. 147].
Ritiene il Collegio che una tale
interpretazione giurisprudenziale, riferita
in effetti a casi di opere non strumentali
al singolo edificio ma all’abitato nel suo
complesso, quali parcheggi, impianti di
illuminazione esterna, viabilità, fognature,
vada adattata al caso di specie ed alla
lettura della sopravvenuta legge n. 46, per
la quale viene in rilievo non più il
rapporto di strumentalità dell’impianto
rispetto all’edificio, quanto piuttosto la
sua specificità individuale ai ricordati
fini di tutela della sicurezza di persona e
cose perseguiti dalla legge in questione. Ed
infatti, come sopra evidenziato, essa impone
per la quasi totalità delle opere ivi
contemplate una progettazione distinta ed
autonoma rispetto a quella dell’edificio
effettuata dai professionisti nell’ambito
delle rispettive competenze, le quali vanno
individuate con riferimento alla natura
dell’intervento richiesto.
Al riguardo soccorrono considerazioni
identiche a quelle svolte dalla ricordata
giurisprudenza, i cui principi sono ben
adattabili al caso di specie. È stato
infatti evidenziato in linea generale come
dalla nozione di edilizia civile vanno
escluse attività che comunque rientrano nel
citato art. 51, per costituire «applicazioni
della fisica» in quanto basate
sull’utilizzazione dell’energia elettrica
[TAR Lazio, sez. II, 30.07.1990 n. 1424],
ovvero della termologia, della
termodinamica, della meccanica dei corpi e
dei fluidi, della fisica delle onde,
dell’elettromagnetismo etc., cioè del
complesso dei fenomeni -suscettibili di
analisi sempre più sofisticate in relazione,
allo stato di progressione della ricerca
pura ed applicata- che costituiscono
l’oggetto della fisica teorica, sperimentale
e tecnica.
D’altra parte non va sottaciuta la
circostanza che la legge n. 46 non si
riferisce solo agli impianti degli edifici
civili, ma anche a quelli elettrici
asserviti a tutti i tipi di immobili per i
quali, dunque, la nozione allargata di «edilizia
civile» invocata dagli architetti non
può essere sostenuta ai fini che
interessano, atteso che la legge, come si
evince anche da tale ultimo dato letterale,
ha considerato l’impiantistica come oggetto
ormai autonomo e distinto dall’opera muraria
nel suo complesso.
L’interpretazione ristretta che deve darsi
alla nozione di «edilizia civile»
alla luce della recente legge n. 46 del 1990
era peraltro già insita nello stesso R.D.
del 1925, il cui art. 54 nel prevedere, con
disposizione transitoria, un ampliamento
della competenza professionale di coloro che
avessero anteriormente conseguito il titolo
di «architetto civile» previsto dagli
ordinamenti universitari dell’epoca,
autorizzava gli interessati a svolgere anche
le mansioni di cui al precedente art. 51
-proprie dell’ingegnere- con esclusione,
però, delle applicazioni industriali e della
fisica, nonché i lavori relativi alle vie,
ai mezzi di comunicazione e di trasporto ed
alle opere idrauliche, che restavano
comunque riservate agli ingegneri, a riprova
di una loro specificità professionale, che
non poteva in alcun modo confonderli,
neppure in via transitoria, con gli
architetti.
Né può soccorrere a sostegno delle tesi
degli architetti la norma dell’art. 52 del
citato R.D. n. 2537, che affida loro
-congiuntamente agli ingegneri- la parte
tecnica degli immobili di interesse storico
ed artistico di cui alla legge n. 1089 del
1939 [cfr. TAR Emilia Romagna, sez. II,
24.01.1992 n. 24]. La norma, che affida agli
architetti in via esclusiva soltanto la
parte relativa al restauro, al ripristino ed
in genere all’edilizia di tali manufatti,
rappresenta un’eccezione -giustificata dalla
particolare natura del bene richiedente
anzitutto una sensibilità storica, estetica
ed urbanistica, prima che tecnica ai
professionisti chiamati ad intervenirvi-
alla esclusività professionale degli
ingegneri in materia tecnica, come tale non
suscettibile di interpretazione estensiva.
Neppure può aderirsi all’altra
prospettazione degli architetti, secondo la
quale il loro corso di studi non sarebbe
dissimile ormai da quello degli ingegneri.
Se è vero che i contenuti di una professione
possono desumersi anche dalle particolari
conoscenze tecniche attestate dal titolo di
studio [Cass., sez. un., 23.07.1993 n.
8239], proprio l’analisi dei rispettivi
corsi di studi di ingegneri ed architetti
vale a scalzare le pretese di questi ultimi:
basti solo pensare che i primi sostengono
ben due distinti esami di fisica (I e II),
un esame di fisica tecnica ed uno di chimica
generale ed inorganica.
Per quanto riguarda, poi, lo studio delle
materie attinenti agli impianti in
questione, è stato già ampiamente chiarito
che l’insegnamento di fisica tecnica ed
impianti, obbligatorio secondo l'ordinamento
degli studi della facoltà d’ingegneria, di
cui al DPR n. 995 del 1969, fino al momento
della proposizione dei ricorsi risulta
essere stato mantenuto, peraltro come
meramente opzionale, nell’ambito della
scelta di una tra le cinque discipline
comprese nell’area impiantistica, soltanto
per uno dei quattro indirizzi (quello
tecnologico) previsti dal DPR n. 806 del
1982, mentre è obbligatorio per tutti gli
indirizzi del corso di laurea in ingegneria,
che comprendono altresì una serie di materie
specifiche per l’attività impiantistica in
oggetto [TAR Lazio, sez. II, 30.07.1990 n.
14717].
A scalzare la sostanziale diversità delle
due professioni sia sotto il profilo
ordinamentale che sotto quello accademico
non può nemmeno invocarsi, come fanno gli
architetti, il D.M. 25.03.1985, relativo
all’iscrizione dei professionisti negli
elenchi del Min. dell’interno ai fini della
prevenzione incendi, di cui alla legge n.
818 del 1984. In particolare non basta il
richiamo all’art. 1 di tale regolamento, che
per rilascio delle certificazioni di cui
alla citata legge si riferisce
indifferenziatamente agli albi degli
architetti, chimici, ingegneri, geometri,
periti industriali; infatti il successivo
art. 2 dello stesso decreto -che gli
interessati hanno omesso di ricordare-
dispone che l’autorizzazione al rilascio
delle certificazioni opera «nell’ambito
delle rispettive competenze professionali
stabilite dalle leggi e dai regolamenti»:
con il che si torna al R.D. del 1925 ed agli
ordinamenti didattici sopra ricordati.
Semmai, c’è piuttosto da ricordare che, ad
esempio, la legge 30.12.1991 n. 428, in
materia di professionisti abilitati
all’omologazione e verifica di apparecchi,
macchine, impianti e attrezzature -tra cui
sono ricompresi taluni tipi di impianti
identici a quelli contemplati dalla legge n.
46 (ascensori e montacarichi)- affida tali
operazioni esclusivamente ad ingegneri e
periti industriali, con esclusione chiara
degli architetti (artt. 1 primo comma e 2).
Non può valere a mutare o innovare il quadro
normativo sopra delineato il richiamo al D.
L.vo 27.01.1992 n. 129, attuativo della
direttiva CEE nel campo degli studi di
architettura.
Anzitutto non risulta se e in che misura il
D. L.vo in parola sia stato recepito dai
singoli statuti universitari, secondo i
principi di autonomia didattica e
scientifica sanciti dall’art. 6 della legge
09.05.1989 n. 168. In secondo luogo, e
principalmente il decreto in parola impone
soltanto una «conoscenza adeguata»
dei problemi fisici e tecnologici al fine di
rendere gli edifici internamente
confortevoli e proteggerli dai fattori
climatici. La legge, cioè, finalizza le
conoscenze, tecniche e scientifiche
dell’architetto a quella a che -pur in
presenza dell’esplosione tecnologica
dell'architettura contemporanea- rimane la
funzione peculiare della progettazione
architettonica anche secondo le varie
correnti di pensiero espresse dai grandi
maestri italiani, olandesi, tedeschi,
americani, giapponesi, etc.: che è pur
sempre e prevalentemente quella di
organizzare lo spazio-ambiente secondo
concezioni e nozioni prevalentemente
estetico-umanistiche e
psico-socio-ambientali, rispetto alle quali
le ulteriori specifiche competenze tecniche
richieste agli architetti per la soluzione
dei molteplici problemi connessi ai fenomeni
dell’edificazione e dell’urbanizzazione
rimangono marginali in confronto con il
corso di laurea in ingegneria, o addirittura
estranee, pur nella loro complessiva
connessione funzionale, che però attiene al
campo dell’interdisciplinarietà degli
interventi (basti pensare alle conoscenze
attinenti la geologia).
Una riprova di ciò può cogliersi nel recente
corso di studi di architettura del
politecnico di Milano per l’anno 1994-1995,
versato in atti nel ricorso 4039/1992, e
peraltro relativo ad epoca successiva
rispetto all’adozione dell’atto impugnato;
ivi risulta un solo insegnamento
fondamentale propedeutico di «fisica
tecnica ed impianti», contro i ben tre
insegnamenti di fisica generale e tecnica
del corso di laurea in ingegneria come sopra
ricordato.
Anche il richiamo alla legge sulle tariffe
professionali del 1949 è improprio, atteso
che essa, come meglio si vedrà in seguito,
non è idonea a modificare le competenze
fissate dalla legge professionale innanzi
considerata.
Alla luce delle esposte considerazioni, deve
pertanto ritenersi perfettamente legittima
la scelta, operata con il decreto del
febbraio 1993, di tornare alla limitazione
ai soli ingegneri e periti industriali già
disposta con l’originario decreto, con la
conseguente abrogazione del decreto
dell’agosto, che in virtù di un improprio,
inconferente ed erroneo parere del CUN,
aveva inserito anche architetti e fisici,
questi ultimi neppure dotati di un proprio
albo professionale come inequivocabilmente
richiesto dalla legge n. 46.
Ancora è da respingere il profilo di eccesso
di potere per contraddittorietà con la
circolare del 05.03.1993 con la quale lo
stesso Ministero ha ritenuto gli architetti
idonei all’accertamento dei requisiti
tecnico professionali delle imprese
installatrici. Essendo diverse la materia e
la funzione del decreto e della circolare,
quest’ultima attinente non già alla
competenza operativa ma alla sola competenza
professionale ad effettuare un mero
riscontro formale tra requisiti
concretamente posseduti dai soggetti
aspiranti e quelli tassativamente richiesti
dagli artt. 3, 4 e 5 della legge e dall’art.
2 del regolamento, nessuna contraddittorietà
può rinvenirsi tra i due provvedimenti.
Un discorso a parte merita il ricorso n.
4177 proposto dall’ordine degli ingegneri
della Provincia di Roma contro il «provvedimento»
del Rettore dell'Università La Sapienza di
Roma del 31.07.1992, avente un oggetto solo
in parte coincidente con quella dei D.M.
sopra ricordati.
Infatti, tale provvedimento, qualificato in
ricorso come «decisione», costituisce
una risposta esplicativa a quanto segnalato
dalla nota dello stesso ordine del
29.01.1992 in merito a presunte situazioni
di irregolarità nell’affidamento di
incarichi professionali. Tale risposta è
senz’altro di contenuto ambiguo perché
mentre da un lato si dà un’interpretazione
estensiva al R.D. n. 2537/1925 (con richiami
del tutto impropri ed errati a «numerose
pronunce di TAR e del Cons. di Stato»
che avrebbero affermato l’equipollenza dei
due diplomi di laurea in architettura ed
ingegneria), come sopra contestata dal
Collegio con le argomentazioni cui si
rimanda, per altro verso si precisa che sono
gli ingegneri capo dei cinque uffici tecnici
dell’Ateneo a designare i vari direttori dei
lavori e a controllarne l’operato. Viene
altresì precisato che «in futuro saranno
prese tutte le misure necessarie a garantire
il rispetto delle sfere di competenza di
ciascun ordine professionale».
Ora, se è pur vero che la risposta in
questione contiene palesi errori
interpretativi e di presupposto in materia
di riparto di competenze, non appare men
vero che tali errori sono contenuti in una
mera partecipazione di un’opinione rivolta
esclusivamente a un soggetto privato («si
deve ritenere») priva perciò di ogni
contenuto volitivo e determinativo, come
invece sarebbe stato se essa fosse stata
formalizzata in un ordine di servizio o in
una circolare emanata nei confronti degli
organismi tecnici, ai quali, invece, viene
rimessa ogni decisione finale sulla scelta
dei professionisti competenti, da effettuare
nel rispetto dei principi dell’ordinamento,
come sopra esplicitati.
L’atto rettorale non è perciò idoneo a
produrre nessuna lesione concreta e diretta
dell’interesse della categoria, il cui
ricorso non appare assistito dal prescritto
interesse
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lazio-Roma,
Sez. III-ter, sentenza 14.02.1995 n. 360). |
COMPETENZE PROGETTUALI: 1.
Ricorso al TAR, collettivo (di ingegnere e
Ordine di appartenenza) - Ammissibilità -
Condizioni.
2. Ingegneri - Lavori relativi alle vie -
Competenza esclusiva.
1. Condizioni per l’ammissibilità del
ricorso cd. collettivo sono la mancanza di
un conflitto di interessi fra i ricorrenti,
l’identicità dei provvedimenti impugnati, il
comune interesse a ricorrere e l’identicità
almeno in parte dei motivi del ricorso.
2. I lavori relativi alle vie, ai sensi
degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925
n. 2537 sono di competenza esclusiva degli
ingegneri.
Si assume, in primo luogo, che il ricorso
collettivo proposto dall’Ing. AA e
dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia
di Potenza non sarebbe ammissibile perché
ciascuno dei ricorrenti è rappresentato e
difeso nel presente giudizio da un proprio
difensore in forza di due distinti mandati «ad
litem» conferiti a margine dello stesso
atto.
L’assunto non può essere condiviso.
Per l’ammissibilità del ricorso e del
collettivo (ovvero rivolto da più soggetti
contro, il medesimo atto) è sufficiente e
necessario, oltre alla mancanza di un
conflitto di interessi, tra i ricorrenti,
che siano identici i provvedimenti
impugnati, che sia comune l’interesse a
ricorrere e che siano almeno in parte
identici i motivi di ricorso (cfr. tra le
tante, Cons. Stato - Sez. VI - 24.02.1994 n.
214, in Cons. stato 1994, I, 256; TAR
Toscana - I sez. - 18.06.1993 n. 484, in TAR
1993, I, 3185).
Sicché non assume alcuna rilevanza, ai fini
della ammissibilità del ricorso in esame, la
circostanza che ciascuno dei ricorrenti
abbia conferito mandato «ad litem» ad
un proprio difensore atteso, peraltro, che
le posizioni soggettive di ciascuno dei due
ricorrenti stessi rispetto all’atto
impugnato non si comunicano all’altro in
quanto il rimborso collettivo si risolve
nell’espressione di una pluralità di azioni
contestualmente proposte in un unico atto.
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 51 del R.D. 23.10.1925 n. 2537
stabilisce che «sono di spettanza della
professione di ingegnere il progetto, la
condotta e la stima di una serie di lavori,
fra i quali quelli relativi alle vie».
Il successivo art. 52 individua nelle «opere
di edilizia civile» (nonché nei relativi
rilievi geometrici e operazioni di estimo)
il campo di attività degli architetti.
Ciò premesso, rileva il Collegio che, anche
a voler ammettere, secondo la linea
interpretativa sostenuta dai resistenti,
che, in astratto, il termine «edilizia
civile» sia riferibile non soltanto alla
realizzazione di edifici, secondo il suo più
comune significato, ma anche ad altri generi
di opere ed impianti, tale interpretazione
risulta, in concreto, testualmente
incompatibile con la norma transitoria
contenuta nel successivo art. 54, ultimo
comma, del medesimo decreto, che, nel
prevedere un ampliamento della competenza
professionale di coloro i quali avevano
conseguito entro una certa data il diploma
di «architetto civile», previsto
dagli ordinamenti universitari dell’epoca,
autorizzava gli interessati a svolgere anche
mansioni indicate nel precedente art. 51
-proprie, come si è visto, della professione
di ingegnere- «ad eccezione però di
quanto riguarda le applicazioni industriali
e della fisica, nonché i lavori relativi
alle vie, ai mezzi di comunicazione e di
trasporto e alle opere idrauliche».
Questa disposizione dimostra, al di là del
suo carattere meramente eccezionale e
transitorio, che, secondo il sistema di
ripartizione delle competenze professionali
delineato dal R.D. n. 2537 del 1925, la
nozione di «edilizia civile» non può
essere estensivamente interpretata, dovendo
da essa escludersi i lavori e le opere nella
medesima disposizione menzionati, fra i
quali «i lavori relativi alle vie». Ed
infatti essa non avrebbe senso se nel
concetto di opere «di edilizia civile»
di cui all’art. 52 si dovessero intendere
compresi anche i lavori relativi alle vie,
ai mezzi di comunicazione e di trasporto e
alle opere idrauliche.
Ne consegue che i progetti dei lavori
relativi alle vie, ivi compresi quelli
oggetto del contestato incarico
professionale (concernenti -secondo quanto
certificato dall’ufficio tecnico del Comune
di Fardella- il disfacimento ed il
rifacimento di tratti di pavimentazione
lungo la Via Italia e C. so V. Emanuele, la
realizzazione di una palificata con
susseguente cordolo di collegamento a
sostegno delle scarpate in frana delle
predette strade, la realizzazione di un
drenaggio a profondità di mt. 4 per
l’allontanamento delle acque di falda
presenti nella zona), formano oggetto
dall’esclusiva competenza professionale
degli ingegneri (cfr. in termini, TAR Lazio
- II Sez. - 16.12.1991 n. 1920 in TAR 1992,
I, 71).
Né appare conferente il richiamo, operato
dalla difesa del resistente Comune, alla
riconosciuta competenza degli architetti in
ordine alla redazione degli strumenti
urbanistici primari ed «attuativi»
(piani regolatori e piani
particolareggiati), essendo evidente -come
già chiarito da questo Tribunale
amministrativo con decisione n. 390 del
1985- che altro é, anche a livello di
pianificazione urbanistica, l’inserimento di
opere di urbanizzazione nel più ampio
contesto di una progettazione di carattere
stricto sensu urbanistico, altro é
progettare lavori relativi ad opere viarie
non collegati in alcun modo con attività di
progettazione urbanistica.
Del pari non può aderirsi alla tesi,
sviluppata sia dal resistente Comune che dal
controinteressato Arch. BB, secondo la quale
i limiti delle competenze professionali
degli ingegneri e degli architetti, come
delineati dal R.D. del 1925, dovrebbero
ritenersi superati dalla evoluzione
successivamente intervenuta nei rispettivi
corsi di studio universitari, che
consentirebbe un’interpretazione estensiva
delle disposizioni che disciplinano la
competenza professionale degli architetti.
Non può, infatti, dubitarsi che il corso di
laurea in ingegneria abbia sempre avuto e
tuttora conservi nei confronti di quello in
architettura, una più spiccata
caratterizzazione in senso
tecnico-scientifico. Infatti, nel corso di
laurea in architettura, per quanto in questa
sede interessa, la disciplina «costruzioni
stradarie e ferroviarie» non ha il
rilievo e l’autonomia ad essa attribuita
nell’ambito del corso di laurea in
ingegneria ove costituisce materia di
insegnamento fondamentale per la sezione
ingegneria civile.
Deve, quindi, escludersi che l’evoluzione
degli studi per il conseguimento della
laurea in architettura, pur avendo
comportato un ampliamento del bagaglio delle
conoscenze tecniche degli architetti,
rispetto alla situazione esistente al
momento dell’emanazione del decreto del
1925, abbia comportato una sostanziale
equiparazione dei due titoli di laurea, ai
fini che qui interessano, ove non si tratti,
come affermato da un ormai consolidato
orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le
tante, Cons. Stato, sez. IV 19.02.1990 n. 92
in Cons. Stato 1992, I, 166; Cons. Stato,
Sez. III parere, 11.12.1984 n. 1538 in Cons.
Stato 1986, I, 1433) di opere ed impianti
posti al servizio di singoli fabbricati e,
perciò, riconducibili alla nozione di
edilizia civile.
Alla stregua delle svolte argomentazioni, il
ricorso va accolto
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Basilicata,
sentenza 03.10.1994 n. 257). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Ingegneri
e architetti - Competenza professionale -
Art. 10 R.D. 1920 n. 1285 - Progetti per
piccole derivazioni di acqua - Stesura e
sottoscrizione - Limitazione ai soli
ingegneri - Esclusione.
In base all’interpretazione
sistematico-evolutiva della disciplina delle
competenze professionali degli ingegneri e
degli architetti ed agli effetti previsti
dall’art. 10 R.D. 14.08.1920 n. 1285, che
menziona solo i primi fra i professionisti
abilitati alla stesura e sottoscrizione di
progetti per piccole derivazioni di acqua,
la menzione stessa deve ritenersi utilizzata
dal legislatore nella sua originaria ed
ampia accezione, comprensiva di entrambe le
categorie professionali.
Il ricorrente Comune sostiene che il giudice
a quo -nel ritenere consentiti la
presentazione all’Ufficio del Genio civile e
l’esame da parte di esso di un progetto «per
piccola derivazione di lieve entità» ex
art. 10 del R.D. 14.08.1920 n. 1285, firmato
da un architetto ... anziché da un
ingegnere- sarebbe incorso nella violazione
e falsa applicazione dell’art. 2229 C.c. e
dell’art. 52 del R.D. 23.10.1925 n. 2637,
dato che a tenore di quest’ultima norma
l’architetto non risulta abilitato a
progettare opere idrauliche e dato altresì
che non sarebbe invocabile, rispetto
all’architetto, la previsione di cui al
citato art. 10 del R.D. n. 1285 del 1920
laddove sono abilitati alla firma dei
documenti tecnici relativi alle «piccole
derivazioni» professionisti dotati di
una diversa specializzazione tecnica, quali
i geometri ed i periti agronomi (oltre agli
ingegneri).
Questa censura è priva di fondamento ...
Occorre tenere presente che all’epoca della
emanazione del R.D. n. 1285 del 1920 -di
approvazione del regolamento per le
derivazioni ed utilizzazioni di acque
pubbliche- modificato dal R.D. n. 1412 del
1922, le competenze degli ingegneri e degli
architetti erano sostanzialmente
indifferenziate e disciplinate
unitariamente, tanto che con la legge
24.06.1923 n. 1395, istitutiva di un ordine
professionale unico degli ingegneri e degli
architetti, si prevedeva che le pubbliche
amministrazioni affidassero gli incarichi
agli iscritti in quell’albo quando dovessero
avvalersi dell’opera di ingegnere o
architetti (art. 4); e veniva rinviata
all’emanazione di un successivo regolamento
la normativa relativa alla determinazione
dell’oggetto e dei limiti delle due
professioni (art. 7); a parte la prevista
istituzione, di albi speciali per i periti
agrimensori (geometri) e per altre categorie
di periti tecnici.
Soltanto con il regolamento approvato con
R.D. 23.10.1925 n. 2537 gli ambiti delle
rispettive competenze professionali furono
delineati -per quanto in questa sede
interessa- nel senso di riconoscere che sono
di spettanza esclusiva della professione di
ingegnere le progettazioni di impianti
industriali e di spettanza esclusiva della
professione degli architetti le opere di
edilizia civile di rilevante carattere
artistico. Tuttavia sia nel disegno del R.D.
ora citato sia nella legislazione successiva
è residuata la previsione di vaste aree di
competenza promiscua, in senso oggettivo,
oltre che di competenza indifferenziata, in
senso soggettivo, per coloro che avessero
conseguito un diploma di laurea
d’ingegnere-architetto.
In siffatta situazione è opinione
comunemente ricevuta che, in linea di
principio, le competenze riconosciute alle
due professioni sono promiscue stante
l’equiparazione tra le due categorie (cfr.
la legge n. 143 del 1949 sulle tariffe
professionali), e che solo in linea
d’eccezione sussistono attribuzioni
riservate all’uno od all’altra professione
quando una tale privativa risulti
espressamente regolata dalla legge (cfr., ad
es. l’art. 1 del R.D. 16.11.1939 n. 2229),
di modo che dalla riserva all’una
professione derivi la preclusione allo
svolgimento delle stesse attività da parte
degli appartenenti all’altra professione. Ma
ove si adotti il suindicato metro della
riserva legislativa alla competenza
esclusiva dell’ingegnere (non architetto)
per la elaborazione di studi e progetti in
determinati specifici campi -richiedenti di
norma una più specializzata e raffinata
preparazione teorico-scientifica- chiaro
risulta che la suindicata privativa è
rimasta esclusa in materia di elaborazione
dei documenti tecnici delle piccole
derivazioni secondo la previsione di cui
all’art. 10 del R.D. 1285 del 1920.
Ed infatti la portata precettiva di tale
norma -del tutto specifica per l’oggetto
della attività tecnica considerata e per la
sua sfera d’azione, limitata al rapporto tra
soggetto richiedente la derivazione di lieve
entità e l’ufficio del Genio civile preposto
all’esame della domanda- ne denunzia
chiaramente il carattere di precetto di
ius singulare, non assorbito né derogato
dalla ben più generale previsione normativa
di cui all’art. 51 del R.D. n. 2537 del 1925
laddove si accenna genericamente alla
progettazione di impianti industriali.
Ne consegue che, in base alla
interpretazione sistematico-evolutiva della
disciplina delle competenze professionali ed
agli effetti previsti dall’art. 10 del R.D.
n. 1285 del 1920 la indicazione ivi
contenuta del progettista come «ingegnere»
deve tuttora ritenersi essere stata
utilizzata dal legislatore nella sua
originaria ampia accezione omnicomprensiva
delle categorie degli ingegneri e degli
architetti. La estensione -nella stessa
norma prevista- della abilitazione alla
progettazione de qua anche agli appartenenti
ad altre categorie professionali quali i
geometri ed i periti agronomi smentisce, del
resto ed ulteriormente, la esistenza di una
riserva di competenza in favore dei soli
ingegneri (non architetti), anche se
-contrariamente a quanto opinato dal
tribunale superiore- non costituisce dato di
per sé risolutivo per una affermazione a
fortiori della competenza, in materia, degli
architetti.
Competenza che, in definitiva, non si fonda
su di una più qualificata preparazione
tecnica degli appartenenti a tale
professione rispetto a quella dei geometri e
dei periti agronomi, quanto piuttosto trova
radice in quella primigenia ordinaria
unitarietà di disciplina e promiscuità di
attribuzioni professionali, tra ingegneri ed
architetti, alla quale l’art. 10 in esame,
nella sua portata di norma speciale, si è
sicuramente ispirato
(tratto da BLT n. 2/2002 - Corte di
Cassazione, S.U. civili, sentenza
26.07.1993 n. 8348). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Geometri
- Competenza professionale - Progettazione
di impianto di illuminazione pubblica -
Esclusione.
In difetto di previsione
normativa e di specifica preparazione,
professionale, va esclusa la competenza del
geometra in materia di progettazione ed
esecuzione dell’impianto di illuminazione a
mezzo dell’energia elettrica sul territorio
del comune.
Il Comune di Pisoniano, con la prima censura
deduce che, erroneamente la corte di appello
non aveva considerato che l’opera prestata
dal geometra L. non era riconducibile, alle
attività consentitegli dalle norme vigenti
ed in particolare, dalla legge 143/1949 la
quale riserva esclusivamente agli ingegneri
ed agli architetti la progettazione di
impianti per la trasmissione e la
distribuzione di energia elettrica; nella
specie il geometra L. non avrebbe potuto,
pertanto, progettare l’impianto
dell’illuminazione pubblica del comune,
donde la nullità assoluta del contratto dal
quale la pretesa del tecnico aveva preso le
mosse.
La censura è fondata.
Sennonché la corte di appello per accertare
se l’attività de qua fosse oppur non
consentita ai geometri, ha preso in esame la
legge 24.06.1923 n. 1395 ed il relativo
regolamento (ndr, R.D. 23.10.1925 n. 2537),
che riguardano non i geometri ma gli
ingegneri e gli architetti deducendone poi
immotivatamente che dette norme non
attribuivano la citata attività alla
competenza esclusiva degli ingegneri e degli
architetti; la stessa corte non si è
avveduta che, non essendo i geometri
menzionati nelle norme riguardanti altre
categorie professionisti, le norme stesse
erano state inconferentemente invocate dalla
parte; ed ha poi omesso del tutto di
prendere in esame il R.D. 11.02.1929 n. 274,
che riguarda specificamente l’esercizio
della professione di geometra ed in
particolare, l’art. 16, il quale
analiticamente regola l’oggetto ed i limiti
della professione: laddove proprio sulla
base di quest’ultima norma, la quale
consente al geometra soltanto le attività di
cui alle lettere da «a» a «q»
(operazioni topografiche di rilevamento,
misurazioni e determinazioni di confini,
operazioni catastali e di estimo;
tracciamento di strade poderali od ordinarie
di limitata importanza; misura e divisione
di fondi rustici e di aree urbane e di
modeste costruzioni civili; stima di aree e
di fondi rustici e di modeste costruzioni
civili; funzioni meramente contabili ed
amministrative nelle piccole e medie aziende
agrarie; curatele di aziende agrarie non
importanti; progettazione di costruzioni
rurali e di piccole costruzioni in cemento
armato e di, modesti edifici civili;
mansioni di perito comunale in comuni con
popolazione inferiori a diecimila abitanti)
la corte di appello avrebbe dovuto negare e
non affermare, in difetto di previsione
normativa e di specifica preparazione,
professionale, la competenza del geometra in
materia di progettazione ed esecuzione
dell’impianto di illuminazione a mezzo
dell’energia elettrica sul territorio del
comune; conseguentemente per la nullità del
relativo contratto, il compenso richiesto
dal geometra L. non poteva essergli
riconosciuto
(tratto da BLT n. 2/2002 - Corte di
Cassazione, Sez. II civile, sentenza
05.11.1992 n. 11994). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Non vi rientra
la progettazione e direzione lavori di opere
fognarie e opere viarie.
Nelle opere di «edilizia civile» non possono
rientrare, a norma degli artt. 52 e 54 R.D.
1925/2537, le opere fognarie e le opere
viarie che restano perciò escluse dalla
competenza degli architetti.
È costante giurisprudenza (Cons. Stato, IV,
19.02.1990 n. 92; III, 11.12.1984 n. 1538;
TAR Lazio, II, 30.07.1990 n. 1477; TAR
Molise, 23.05.1990 n. 147) e costante
orientamento dell’Amministrazione (parere
Consiglio Superiore LL.PP. 16.12.1983 n.
228) che deve escludersi che le opere
fognarie e le opere viarie rientrino,
nell’ambito della competenza professionale
dell’architetto.
Ed invero l’art. 52 del R.D. 23.10.1925 n.
2537, recante la disciplina della
professione degli ingegneri e degli
architetti, riserva agli architetti le sole
«opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro
e il ripristino degli edifici contemplati
dalla legge ... per l’antichità e le belle
arti»; ed attribuisce alla competenza
sia degli ingegneri che degli architetti le
«opere di edilizia civile».
Il successivo art. 54, ultimo comma, nel
prevedere un ampliamento della competenza
professionale ordinaria di cui all’art. 52,
dispone che coloro che abbiano conseguito
-nel 1924-1925- il diploma di architetto
civile sono autorizzati a svolgere le
mansioni indicate all’art. 51 (competenze
della professione degli ingegneri) ad
eccezione di quanto riguarda le applicazioni
industriali e della fisica nonché i lavori
relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione
e di trasporto e delle opere idrauliche.
Da tale ultima disposizione si evince che
nella logica della disciplina professionale
le opere stradali ed idrauliche non
rientrano nel concetto di «opere di
edilizia civile» (priva di senso
sarebbe, altrimenti, la citata eccezione) e,
non rientrando neppure nella speciale
competenza ad esaurimento prevista per gli
architetti diplomati nel 1924- 1925, non
possono -a fortiori- rientrare nella
competenza degli architetti diplomatisi,
dopo tale periodo
(tratto da BLT n. 2/2002 - CGARS,
sentenza 28.07.1992 n. 217). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Strade -
Esclusione - Limiti.
Nelle «opere di edilizia civile» di cui
all’art. 52 del R.D. 1925/2537 -che sono di
competenza sia dell’ingegnere che
dell’architetto- non rientrano le strade, a
meno che si tratti di opere funzionalmente
collegate ad un edificio in modo diretto e
immediato.
La questione di diritto posta all’attenzione
del Collegio verte essenzialmente sulla
legittimità delle disposizioni (artt. 51, 52
e 54) del R.D. 23.10.1925 n. 2537 recante il
regolamento per le professioni di ingegnere
e architetto che determinano l’ambito delle
attività professionali, degli architetti e
segnatamente se spetti a questi
professionisti la progettazione di «vie»
da realizzare con opere e costruzioni anche
complesse che non presentino un carattere
meramente strumentale e di connessione con
singoli fabbricati.
Le censure poste in via autonoma contro il
parere dei Comitato tecnico Amministrativo
Regionale di Palermo (n . 1229 del
07.08.1984) acquisito agli atti di causa in
esito agli adempimenti istruttori disposti
con sentenza n. 1492/1985 di questa Sezione
sono, infatti, prive di pregio: risulta che
l'esame, del Comitato avente ad oggetto il
progetto della strada intercomunale S.
Agata-Acquedolci affidato all’attuale
ricorrente è stato accurato ed approfondito
e tra i vari rilievi mossi dall’organo
consultivo spicca, appunto, quello contenuto
nel secondo capoverso del dispositivo
secondo cui «data la particolare natura
delle opere d’arte (viadotto e
sottopassaggio) da realizzare nella strada
in esame anche per la funzione che riveste
di arteria intercomunale» il progetto di
cui trattasi doveva essere firmato quale
collaboratore per la parte strutturale da un
ingegnere. Sia il cennato parere che la
successiva determinazione sindacale (del
25.08.1984 e del 04.12.1984) con cui veniva
comunicata al ricorrente la pronuncia
dell’organo consultivo si fondano sulla
questione principale sollevata nel presente
giudizio: la incompetenza di un architetto a
sottoscrivere il progetto di cui trattasi.
Ritiene il Collegio che al quesito posto con
l’atto introduttivo del giudizio si debba
dare una risposta negativa. Sul punto si è
pronunciato il Consiglio di Stato sia in
sede consultiva che giurisdizionale (Sez.
III n. 1538 dell’11.12.1984 e Sez. IV n. 92
del 19.02.1990) affermando che non possono
ricomprendersi fra le competenze
dell’architetto l’esecuzione di strade e di
opere igieniche che non siano «strettamente
connesse con singoli fabbricati». La
dizione «opere di edilizia civile»
contenuta nell’art. 52 del R.D. 23.10.1925
n. 2537 che segna appunto la competenza dei
professionisti, in parola è stata
interpretata correttamente ad avviso del
Collegio - nel senso che solo le opere
edilizie funzionalmente collegate ad un
edificio in modo diretto ed immediato
possono essere progettate ed eseguite sotto
la direzione di un architetto.
Almeno due argomenti testuali sono univoci,
per sostenere tale interpretazione:
a) l’art. 51, 1° c., riserva espressamente
agli ingegneri «i lavori relativi alle
vie di deflusso e comunicazione nonché le
costruzioni di ogni specie» (con
riguardo al caso di specie non vi è dubbio
che anche una strada intercomunale rientra
in tale dizione e che il sottopassaggio ed
il viadotto anziché «opere di edilizia
civile», sono agevolmente riconducibili
alla nozione di «costruzioni di ogni
specie»).
b) l’art. 54 u.c. prevede una disciplina
particolare ampliativa del ricordato art.
52, per coloro che, ad una certa data,
avessero conseguito il diploma di architetto
civile. Ebbene questa disposizione nel
consentire la progettazione delle opere di
spettanza degli ingegneri espressamente
esclude le «applicazioni industriali, i
lavori relativi alle vie, ai mezzi di
comunicazione e trasporto e alle opere
idrauliche».
Con ciò è chiaro, ad avviso del Collegio,
che nella dizione «opere di edilizia
civile» di cui all’art. 52 del citato
regolamento, rientranti nella competenza
professionale degli architetti sono escluse
le strade.
Da quanto precede emerge la necessità per il
ricorrente di rimuovere l’assetto normativo
qui delineato. Da ciò quindi, scaturiscono
le censure di illegittimità rivolte contro
le norme regolamentari qui sopra riportate
che si risolvono essenzialmente nell’eccesso
di potere per illogicità e contraddittorietà
in quanto da un lato il corso di laurea di
architettura sarebbe non meno completo di
quelli di ingegneria ed, inoltre, da altra
angolazione, le modifiche intervenute nel
corso degli anni all’ordinamento degli studi
della facoltà di architettura renderebbero
necessario un adeguamento della disciplina e
delle competenze professionali degli
architetti che, con riguardo ad esempio al
settore della urbanistica, nessuno contesta.
Sarebbe, poi, illogico, che un ingegnere con
specializzazione in un settore diverso possa
progettare le opere di cui trattasi inibite,
invece, agli architetti.
L’assunto della difesa del ricorrente non
può essere condiviso.
Ed invero:
a) il piano di studi delle due facoltà
mantiene diversità di rilievo tali, da
giustificare una diversa disciplina degli
esami di abilitazione all’esercizio della
professione;
b) in questa disciplina è chiara
l’intenzione del legislatore di privilegiare
per gli ingegneri l’aspetto della
progettazione di opere complesse aventi ad
oggetto prevalentemente ma non
esclusivamente il settore prescelto (tra gli
undici in cui può articolarsi l’esame).
L’esame consta infatti di una prova scritta
o grafica consistente nello svolgimento di
un progetto specifico per il ramo di
ingegneria prescelto.
Sennonché l’indicazione del ramo che il
candidato deve effettuare nella domanda di
ammissione ha la funzione di segnalare la
prevalenza dell’interesse e non la
esclusività dello stesso in quanto la prova
può estendersi ad altri rami tra gli undici
individuati (cfr. D.M. 09.09.1957, art. 27,
I, II e III c.).
L’esame per l’abilitazione all’esercizio
della professione di architetto consta di
una prova grafica consistente nella
predisposizione di un ordinativo per
l’appalto di opere di costruzione di una
membratura architettonica implicante una
struttura ed un rivestimento di superficie
con il che è evidente la limitazione
dell’impegno ad una progettazione di minore
complessità per quanto concerne gli aspetti
costruttivi non interdisciplinare.
Rispetto a questa, previsione non ha poi
rilievo la circostanza che sia consentito
agli architetti progettare sistemazioni
urbanistiche o strumenti urbanistici
generali o attuativi. In effetti l’attività
direttamente finalizzata alla realizzazione
delle opere più complesse che in concreto
realizzano le previsioni urbanistiche
riservato agli ingegneri è con evidenza, ben
diversa dalla previsione di assetto del
territorio affidata ad una progettualità
essenzialmente ideativa sia pure di estrema
importanza che non è inibita agli
architetti.
Sono così confutate le censure avanzate
nell’atto introduttivo del ricorso contro le
norme regolamentari del R.D. 23.10.1925 n.
2437 ed inoltre anche il nucleo di base
delle argomentazioni che avevano indotto la
sezione di Latina di questo Tribunale con
sentenza n. 116 del 1984, annullata dal
Consiglio di Stato con la citata sentenza
della IV Sezione del 19.02.1990 n. 92 che
però non ha svolto considerazioni sul punto,
a sostenere la competenza professionale
degli architetti a realizzare opere di
costruzione più complesse e significative di
quanto prevede l’art. 52 del R.D. n. 2537
del 1925.
Per la Sezione di Latina, infatti, una volta
riconosciuta, pacificamente, agli architetti
la possibilità di progettare interventi
urbanistici non vi era alcun motivo ostativo
per riconoscere agli stessi professionisti
la facoltà di progettare e realizzare le
singole opere
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lazio-Roma,
sentenza 23.06.1992 n. 927). |
COMPETENZE PROGETTUALI: 1.
Ingegneri - Impianti di pubblica
illuminazione - Competenza esclusiva.
2. Ingegneri e architetti - Equiparazione
dei rispettivi titoli di laurea - Esclusione
- Limiti.
1. La nozione di «edilizia civile» di cui
all’art. 52 del R.D. 1925/2537 non può
essere interpretata estensivamente; pertanto
gli impianti di illuminazione pubblica,
classificabili fra le applicazioni della
fisica in quanto basati sulla utilizzazione
dell’energia elettrica e non fra le opere
edilizie, sono di esclusiva competenza degli
ingegneri.
2. L’evoluzione degli studi per il
conseguimento della laurea in architettura,
pur avendo determinato un ampliamento del
bagaglio delle conoscenze tecniche degli
architetti rispetto alla situazione
esistente al momento dell’emanazione del
decreto del 1925, non ha comportato una
sostanziale equiparazione dei due titoli di
laurea, ove non si tratti di opere e
impianti posti a diretto servizio di singoli
fabbricati e perciò riconducibili alla
nozione di edilizia civile.
Con l’unico motivo l’Ordine degli Ingegneri
della Provincia di Frosinone deduce la
illegittimità della impugnata delibera del
Comune di Piedimonte San Germano, con cui
sono stati approvati il progetto generale e
il progetto esecutivo del primo stralcio
dell’impianto di pubblica illuminazione,
redatti dall’architetto AA, sul presupposto
che la progettazione di tale tipo di
impianti rientrerebbe nella esclusiva
competenza professionale degli ingegneri.
La tesi dell’Ordine ricorrente si basa sugli
artt. 31, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925 n.
2537, che disciplinano l’esercizio delle
professioni di ingegnere e di architetto,
secondo una lettura che tiene conto del
diverso tipo di formazione delle due
categorie professionali, anche alla luce
delle modifiche successivamente intervenute
nell’ordinamento dei rispettivi corsi di
laurea.
Il ricorso è fondato.
L’art. 51 del citato R.D. n. 2537 del 1925
stabilisce che «sono di spettanza della
professione di ingegnere il progetto, la
condotta e la stima» di una serie di lavori,
fra i quali quelli relativi «in generale
alle applicazioni della fisica».
Il successivo art. 52 individua nelle «opere
di edilizia civile» (nonché nei relativi
rilievi geometrici e operazioni di estimo)
il campo di attività degli architetti.
Ciò premesso, la questione sulla quale vi è
contrasto fra le parti attiene alla
possibilità di qualificare un impianto di
pubblica illuminazione come opera di
edilizia civile, rientrante, in quanto tale,
nella competenza professionale degli
architetti.
Rileva il Collegio che analogo problema è
stato affrontato e risolto in senso negativo
dal Consiglio di Stato con il parere della
III Sezione n. 1538 in data 11.12.1984 e con
la recentissima decisione della IV Sezione
n. 92 del 19.02.1990, relativamente alle
opere igieniche e alle strade urbane. Le
argomentazioni che giustificano tale
orientamento giurisprudenziale, di carattere
testuale e logico-sistematico, appaiono
pienamente condivisibili e applicabili anche
alle opere che vengono in rilievo in questa
sede.
Invero, anche a voler ammettere, secondo la
linea interpretativa sostenuta dai
resistenti, che, in astratto, il termine «edilizia
civile» sia riferibile non soltanto alla
realizzazione di edifici, secondo il più
comune significato, ma anche ad altri generi
di opere ed impianti, tale interpretazione
risulta, in concreto testualmente
incompatibile con la norma transitoria
contenuta nel successivo art. 54, ultimo
comma, del medesimo decreto, che, nel
prevedere un ampliamento la competenza
professionale di coloro i quali avevano
conseguito entro una certa data il diploma
di «architetto civile», previsto
dagli ordinamenti universitari dell’epoca,
autorizzava gli interessati a svolgere anche
le mansioni indicate nel precedente art. 51
-proprie, come si è visto, della professione
di ingegnere- «ad eccezione però di
quanto riguarda le applicazioni industriali
e della fisica, nonché i lavori relativi
alle vie, ai mezzi di comunicazione e di
trasporto e alle opere idrauliche. Questa
disposizione dimostra, al di là del suo
carattere meramente eccezionale e
transitorio, che, secondo il sistema di
ripartizione delle competenze professionali
delineato dal R.D. del 1925, la nozione di
«edilizia civile» non può essere
estensivamente interpretata, dovendo da essa
escludersi i lavori e le opere nella
medesima disposizione menzionati, fra i
quali le «applicazioni della fisica».
Ne consegue che gli impianti di pubblica
illuminazione, classificabili fra le
applicazioni della fisica, in quanto basati
sulla utilizzazione dell’energia elettrica,
e non fra le opere edilizie, formano oggetto
della esclusiva competenza professionale
degli ingegneri.
Non é, al riguardo, condivisibile l’assunto
dell’Amministrazione comunale che l’opera
professionale nella specie fornita dal
progettista avrebbe un rilievo puramente
urbanistico, essendo intesa unicamente a
stabilire la posizione dei punti di luce,
per cui rientrerebbe nell’ambito della
competenza degli architetti. Risulta,
infatti, dalla delibera impugnata che
l’attività dell’arch. Antonelli non si è
limitata a tale particolare compito ma ha
eseguito tutti gli aspetti, strutturali,
funzionari ed economici, della
progettazione, generale ed esecutiva del
primo stralcio, comprendente lavori,
rispettivamente, per circa L. 1.179.000.000
e per circa L. 431.000.000.
Né può aderirsi alla tesi dell’Ordine degli
architetti, secondo la quale i limiti delle
competenze professionali degli ingegneri e
degli architetti, come delineati dal R.D.
del 1925, dovrebbero ritenersi superati
dalla evoluzione successivamente intervenuta
nei rispettivi corsi di studi universitari,
che avrebbe determinato un ampliamento delle
competenze degli architetti.
Non può, infatti, dubitarsi che il corso di
laurea in ingegneria, abbia sempre avuto e
tuttora conservi, nei confronti di quello in
architettura, una più spiccata
caratterizzazione in senso
tecnico-scientifico.
Per quanto riguarda, in particolare, lo
studio delle materie attinenti agli Impianti
in questione, deve osservarsi che
l’insegnamento di «fisica tecnica ed
Impianti», obbligatorio secondo
l’ordinamento degli studi della facoltà di
architettura di cui al D.P.R. 31.10.1969 n.
995, è stato mantenuto, peraltro come
meramente opzionale nell’ambito della scelta
di una fra le cinque discipline comprese
nell’area impiantistica, soltanto per uno
dei quattro indirizzi (quello tecnologico)
previsti dal più recente ordinamento,
introdotto con il D.P.R. 09.09.1982 n. 806,
mentre è obbligatorio per tutti gli
indirizzi previsti nel corso di laurea in
ingegneria, che comprendono altresì un
insegnamento biennale di «fisica» e
tino di «elettronica», oltre a quelli
di «misure elettriche» e «impianti
elettrici» propri della specializzazione
in ingegneria elettrotecnica (D.P.R.
31.01.1960 n. 53).
Deve, quindi, escludersi che l’evoluzione
degli studi per il conseguimento della
laurea in architettura, pur avendo
determinato un ampliamento del bagaglio
delle conoscenze tecniche degli architetti,
rispetto alla situazione esistente al
momento dell’emanazione del decreto del
1925, abbia comportato una sostanziale
equiparazione dei due titoli di laurea, ai
fini che qui interessano, ove non si tratti,
come affermato dal Consiglio di Stato nel
cit. parere n. 1538 del 1984, di opere e
impianti posti a diretto servizio di singoli
fabbricati e, perciò, riconducibili alla
nazione di edilizia civile.
Per le esposte ragioni il ricorso deve
essere accolto, con il conseguente
annullamento della delibera impugnata
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lazio-Roma,
Sez. II, sentenza 30.07.1990 n. 1477). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Opere
idrauliche a servizio di un centro abitato -
Esclusione.
L’art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537, ai sensi
del quale le opere di edilizia civile
rientrano nella competenza sia
dell’ingegnere che dell’architetto, non può
essere interpretato tanto estensivamente
sino ad includere nelle competenze
dell’architetto, oltre gli impianti igienici
asserviti ad un determinato fabbricato,
anche opere idrauliche, quali acquedotti,
fognature ed impianti di depurazione, poste
a servizio dell’abitato in genere e
riservate dalla legge all’ingegnere.
Nei confronti degli Ordini professionali,
che sono enti pubblici a formazione
esclusiva ed appartenenza necessaria,
esponenziali del relativo gruppo
professionale, la giurisprudenza ha sempre
ammesso la legittimazione attiva in ordine
all’impugnativa di atti amministrativi che
incidono negativamente non solo e non tanto
sugli interessi del singolo componente, ma
su quelli, omogenei, della categoria
unitariamente considerata; interessi, cioè,
non individuali ma neppure diffusi, bensì
qualificati come collettivi perché
appartenenti ad un gruppo di persone ben
determinato, organizzato e riconosciuto
dall’ordinamento (Cfr. da ultimo Cons.
Stato, IV Sez., 15.04.1986 n. 265 e VI Sez.,
14.07.1987 n. 468).
Pertanto nel caso in esame va affermata la
legittimazione dell’Ordine provinciale degli
architetti di Campobasso, il quale, mediante
l’impugnativa di un provvedimento con cui si
nega la competenza della categoria
rappresentata in relazione ad un certo tipo
di opere, ha inteso appunto tutelare gli
interessi collettivi della medesima
categoria.
Tuttavia il ricorso è infondato nel merito.
Il R.D. 23.10.1925 n. 2537 di disciplina
delle professioni di ingegnere, architetto e
geometra, dispone all’art. 51 che spettano
all’ingegnere la progettazione, la
conduzione e la stima dei lavori relativi,
tra l’altro, alle «vie ed ai mezzi di
trasporto, di deflusso e di comunicazione»,
mentre ai sensi dell’art. 52 le «opere di
edilizia civile» competono sia
all’ingegnere che all’architetto.
Nella specie, è stata negata la competenza
dell’architetto a dirigere i lavori
concernenti la rete idrica e fognante
comunale, sulla scorta del parere 11.12.1984
n. 1538, reso dalla Sezione terza del
Consiglio di Stato.
Con tale parere è stato affermato che nella
espressione «opere di edilizia civile»,
spettanti anche agli architetti, possono
ricomprendersi le opere igieniche
consistenti in acquedotti, fognature ed
impianti di depurazione, e la direzione dei
relativi lavori, ma a condizione che le
opere stesse siano strettamente connesse con
singoli fabbricati, restando invece escluse
quelle poste a servizio dell’abitato in
genere.
Ciò in quanto le disposizioni su riportate
non possono essere interpretate tanto
estensivamente fino a ricomprendervi
siffatte opere, ostandovi il dato testuale
ricavabile dal successivo art. 54, ultimo
comma, che, nel prevedere un ampliamento
delle competenze degli architetti civili che
abbiano conseguito il diploma ai sensi della
precedente normativa entro il 21.12.1925,
stabilisce che i medesimi sono autorizzati a
compiere le attività di ingegnere
specificate dall’art. 51 ad eccezione, tra
l’altro, delle «opere idrauliche».
Per vero, in giurisprudenza è stato
affermato che, in base ad una
interpretazione sistematica ed evolutiva
delle norme su esaminate, alla luce
dell’attuale ordinamento dei rispettivi
studi universitari e della tendenziale
equiparazione delle relative attività, gli
architetti possono occuparsi di opere di
urbanizzazione, ivi compresi gli impianti di
depurazione delle acque reflue di un abitato
(Cfr. TAR Sardegna, 30.09.1986 n. 410).
Il Collegio ritiene di non poter seguire
quest’ultima tesi, stante la perdurante
vigenza della disciplina professionale in
parola ed in assenza di modificazioni del
testo originario, e di dover invece aderire
all’orientamento espresso nel parere
riportato, peraltro non senza condividerne
anche il giudizio di inadeguatezza della
medesima disciplina in rapporto alle
evoluzioni della tecnica ed agli sviluppi
delle due professioni.
D’altra parte, la giurisprudenza più recente
ha assunto analogo orientamento limitativo
in ordine alle opere di cui trattasi,
richiedendone l’inerenza ad un determinato
fabbricato (Cfr. TRGA Trentino Alto Adige,
Trento, 03.10.1988 n. 348).
In base alle considerazioni svolte, non può
farsi a meno di concludere per il rigetto
del ricorso in esame, atteso che l’atto
impugnato concerne, come detto, lavori
relativi alla rete idrica e fognante
comunale e, dunque, opere idrauliche
generali
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Molise,
sentenza 23.05.1990 n. 147). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Non vi rientra
la progettazione e direzione lavori di opere
viarie e igieniche.
La competenza per le opere di cui all’art.
51 R.D. 1925/2537 è esclusiva degli
ingegneri mentre, ai sensi dell’art. 52, 1°
comma, dello stesso R.D., le opere di
edilizia civile sono di spettanza comune ad
ingegneri ed architetti (ma quelle di
carattere artistico sono di competenza
esclusiva degli architetti, come dispone
l’art. 52, 2° comma).
In base a tale conclusione, confermata
dall’art. 54 dello stesso R.D., sono di
competenza esclusiva degli ingegneri la
progettazione e direzione lavori di opere
viarie ed igieniche che non siano
strettamente connesse con singoli
fabbricati.
Giudica il Collegio, conformemente a quanto
ritenuto con il parere della III Sezione del
Consiglio di Stato n. 1538, in data
11.12.1984, che, secondo la normativa
vigente, non possono ricomprendersi fra le
competenze dell’architetto, anche
l’esecuzione di strade e di opere igieniche,
le quali non siano strettamente connesse con
singoli fabbricati.
In proposito deve essere sottolineato che
nessuna delle opere in relazione alle quali
agli appellati architetti erano stati
affidati gli incarichi di direttore dei
lavori e di ingegnere capo, di cui alle
delibere originariamente impugnate, potevano
considerarsi opere di rilievo modesto,
assimilabili ad opere strettamente connesse
con un singolo fabbricato (un’opera
consisteva nei lavori di costruzione di un
tronco fognario per un importo previsto nel
1981 di L. 200.000.000, le altre nella
realizzazione di una rete fognaria e di
parte della rete viaria di Anagni).
Per quanto riguarda le disposizioni degli
ordinamenti professionali degli ingegneri e
degli architetti, l’art. 51 R.D. 23 ottobre
1925 n. 2537 individua la competenza degli
ingegneri nella progettazione e conduzione
dei lavori relativi all’estrazione ed alla
trasformazione dei materiali occorrenti per
le costruzioni e le industrie; dei lavori
relativi alle vie e ai mezzi di trasporto di
deflusso e di comunicazione, alle
costruzioni di ogni specie, alle macchine ed
agli impianti industriali, nonché in
generale alle applicazioni della fisica,
rilievi geometrici e operazioni di estimo.
L’art. 52 del richiamato decreto, al primo
comma, dispone che sono di spettanza comune
a ingegneri e architetti le opere di
edilizia civile, mentre, al secondo comma,
prevede che le opere di edilizia civile, che
presentano rilevante carattere artistico e
di restauro e il ripristino degli edifici di
interesse storico-artistico formano
esclusivo oggetto soltanto della professione
di architetto.
Secondo tali disposizioni, quindi, deve
escludersi che le opere fognarie e le opere
viarie rientrino nell’ambito delle
competenze e degli architetti.
Tale conclusione è confermata dal disposto
dell’art. 54, ultimo comma, dello stesso
decreto, il quale, nel prevedere un
ampliamento della competenza ordinaria degli
architetti, indicata dall’art. 52, dispone
che coloro che abbiano conseguito il diploma
di architetto civile entro il 31.12.1924,
ovvero entro il 31.12.1924, sono autorizzati
a svolgere le mansioni indicate nell’art. 51
(competenze della professione di ingegneri),
ad eccezione di quanto riguarda le
applicazioni industriali e della fisica,
nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi
di comunicazione e di trasporto e alle opere
idrauliche.
Tale disposizione non avrebbe senso se nel
concetto di opere di edilizia civile di cui
all’art. 52 si dovessero intendere compresi
anche i lavori relativi alle vie, ai mezzi
di comunicazione di trasporto e alle opere
idrauliche.
La riportata conclusione non è contraddetta
dalla disposizione di cui all’art. 54,
secondo comma, che prevede un ampliamento
della competenza ordinaria degli architetti
-fino a ricomprendere tutta la materia di
spettanza degli ingegneri, eccettuate le
applicazioni industriali- per coloro che
abbiano conseguito il diploma di laurea di
ingegnere-architetto presso gli istituti di
istruzione superiore indicati nell’art. 1
della L. 24.06.1923 n. 1395 entro il
31.12.1925, secondo le norme di cui all’art.
6 R.D. 31.12.1923 n. 2909.
Infatti tutte le disposizioni di cui al
richiamato art. 54 si caratterizzano per la
loro dichiarata eccezionalità, in quanto
hanno per destinatari soltanto alcune
categorie di ingegneri e architetti, i quali
hanno conseguito particolari diplomi,
specificamente indicati entro un determinato
termine.
La disposizione di cui all’art. 54, secondo
comma, riportata, non può essere utilizzata
quale parametro di riferimento per una
estensione delle competenze degli
architetti, determinata dalla evoluzione del
corso di studi per conseguire la laurea in
architettura.
Infatti, indipendentemente dalla natura
eccezionale della disposizione di cui
all’art. 54, secondo comma, non vi è
assimilazione per quanto riguarda gli studi
rilevanti ai fini delle opere in questione
fra i due corsi di laurea; infatti, nel
corso di laurea in architettura «costruzioni
stradarie e ferroviarie», «costruzioni
idrauliche», «impianti speciali
idraulici», non hanno il rilievo e
l’autonomia che invece sono loro attribuiti
nell’ambito del corso di laurea in
ingegneria (la prima è materia di
insegnamento fondamentale per la sezione
ingegneria civile; le altre due
costituiscono materia della sottosezione
idraulica della sezione ingegneria civile).
Le argomentazioni di natura letterale,
logica e sistematica, sulle quali è fondata
la conclusione raggiunta, esimono il
Collegio da un esame analitico degli altri
rilievi logici svolti dall’Ordine degli
architetti di Frosinone, esame, che
imporrebbe una pronuncia incidentale sulle
competenze dei geometri e sulle competenze
in materia di pianificazione urbanistica
degli architetti, questioni che sono
estranee al presente giudizio
(tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di
Stato, Sez. IV, sentenza 19.02.1990 n. 92). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Acquedotti
rurali - Esclusione.
Sono di competenza esclusiva dell’ingegnere
le opere di cui all’art. 51 R.D. 1925/2537
mentre le opere di edilizia civile sono di
competenza sia dell’ingegnere che
dell’architetto (La progettazione di
acquedotti rurali, in quanto opere
idrauliche, esula dalla competenza degli
architetti).
Ai sensi dell’art. 54 del R.D. n. 2537 del
1925 -normativa tuttora vigente nonostante
l’introduzione delle disposizioni
sull’ordinamento didattico universitario di
cui al R.D. 30.09.1938 n. 1652- le
progettazioni di acquedotti rurali, in
quanto opere idrauliche, esulano dall’ambito
della competenza professionale degli
architetti.
... omissis ...
Il collegio ritiene che -contrariamente
all’assunto di parte ricorrente- le
disposizioni degli artt. 51-54 R.D.
23.10.1925 n. 2537, statuenti limitazioni
all’esercizio della professione di
architetto, non siano affatto superate con
l’introduzione delle norme sull’ordinamento
didattico universitario (R.D. 30.09.1938 n.
1652) ma che ad esse, in quanto normativa
vigente, occorra fare puntuale riferimento
ai fini della decisione della controversia
di cui è causa.
In particolare l’art. 51 provvede
all’individuazione, con elencazioni
esemplificative, delle opere di competenza
della professione di ingegnere, mentre il
successivo art. 52 sancisce invece al primo
comma una competenza concorrente delle
professioni di ingegnere e di architetto in
ordine alle «opere di edilizia civile»
nonché i rilievi geometrici e le operazioni
di estimo ad esse relative ed, al successivo
secondo comma una competenza esclusiva
(salvo che per la parte tecnica) per la
professione di architetto in ordine alle
opere di edilizia civile che presentano
rilevante carattere artistico ed il restauro
e il ripristino degli edifici soggetti alla
disciplina vincolistica a tutela delle case
d’interesse artistico e storico.
Il successivo art. 54, ultimo comma nel
prevedere, in via transitoria un ampliamento
delle competenze degli architetti che
abbiano conseguito il relativo diploma entro
il 31.12.1925, l’autorizza a compiere le
mansioni indicate nell’art. 51 (cioè quelle
di spettanza degli ingegneri), «ad
eccezione però di quanto riguarda le
applicazioni industriali e della fisica,
nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi
di comunicazione e di trasporto e alle opere
idrauliche».
A maggior ragione tali opere precluse anche
agli architetti in possesso degli specifici
requisiti sanciti dall’art. 54, ultimo
comma, R.D. 2537 del 1925 non possono
rientrare nella competenza degli architetti
-come l’odierno ricorrente- non in possesso
dei suddetti requisiti, ai quali è altresì
precluso lo svolgimento delle mansioni
indicate nell’art. 51, riservate alla
competenza degli ingegneri.
Tra le attività, oggetto di espressa
esclusione ai sensi del detto art. 54, sono
-tra l’altro- incluse le «opere
idrauliche».
Il Collegio ritiene che gli incarichi per la
progettazione dei due acquedotti rurali di
cui alle delibere annullate con le impugnate
ordinanze del CO.RE.CO. rientrino
nell’ambito di tale categoria di opere e che
pertanto non possono essere svolti da un
architetto, in quanto esulanti dall’ambito
della sua competenza professionale.
Infatti, pur non potendo rientrare in senso
stretto nell’ambito delle opere idrauliche
di cui al R.D. 25.07.1904 n. 523, risulta
più logico ricondurre la progettazione di un
acquedotto, sia pure di modeste dimensioni,
nell’ambito di tale tipo di opere, dato che
l’entità nell’opera non è certo elemento
idoneo a modificarne la natura sostanziale,
anziché -con una palese forzatura- ritenere
che la progettazione di un piccolo
acquedotto (nel caso di specie trattasi di
due acquedotti rurali della lunghezza di 800
metri e di 500 metri, destinati a soddisfare
le esigenze di due alpeggi montani) possa
considerarsi un’opera di edilizia civile al
fine di riconoscere la competenza di un
architetto in ordine alla sua progettazione.
Lo stesso Consiglio di Stato, pronunciandosi
in sede consultiva (parere 11.12.1984 n.
1538) ha escluso la competenza degli
architetti in ordine agli acquedotti.
Nello stesso senso si è espressa la
giurisprudenza, secondo cui «Nemmeno
esatto appare il richiamo -quand’anche
volesse attribuirvisi valore ermeneutico-
agli studi condotti dagli architetti nel
relativo corso di laurea, in quanto -come
rilevasi anche dal parere dell’Adunanza
generale del Consiglio superiore dei lavori
pubblici 16.12.1983 n. 62- il corso di
laurea per architetti non contiene alcuni
insegnamenti più strettamente ingegneristici
quali Idraulica e Costruzioni idrauliche e
inoltre -può aggiungersi, con specifico
riferimento alle opere in questione- gli
stessi studi non sono diretti
all’apprendimento di nozioni, quali quelle
attinenti alle variazioni e agli andamenti
climatici, che presentano particolare
importanza nella progettazione di reti
idriche e fognarie».
Lo stesso orientamento è stato ribadito
dalla dottrina che ha rilevato: «In
particolare i piani di studio per il
conseguimento della laurea in ingegneria
prevedono la costruzione di strade e
l’idraulica come corsi obbligatori sul piano
nazionale a norma del D.P.R. 26.05.1975 n.
513 mentre la disciplina specifica inerente
agli acquedotti e le fognature costituisce
corso obbligatorio sul piano di quasi tutte
le facoltà delle vane Università.
L’insegnamento di tali specifiche discipline
esula dal corso di studi previsto per il
conseguimento della laurea in architettura e
non può farsi rientrare nella materia
igiene-idraulica che comprende solo elementi
di carattere generale in materia di opere
igieniche.
Pertanto consegue che la progettazione delle
reti stradali, delle opere di fognatura e
relativi impianti di depurazione e degli
acquedotti, ad eccezione dei lavori di
allacciamento, prolungamento e ampliamento,
esula dalla competenza professionale degli
architetti.
Si è dell’avviso che, fondamentalmente,
tanto la progettazione quanto la direzione
lavori delle opere igieniche (acquedotti,
fognature, impianti idraulici, di
depurazione ecc.) esulano dalla competenza
degli architetti non solo per le
considerazioni suesposte ma anche perché gli
architetti mancano di adeguate cognizioni in
materia di geologia e l’espressione opere di
edilizia civile di cui all’art. 52 citato
non può comprendere quelle relative agli
impianti tecnologici».
Il Collegio ritiene che tali considerazioni
siano tanto più pertinenti nel caso di
specie in cui si tratta non
dell’allacciamento ad un acquedotto
preesistente, ma della progettazione di due
nuovi acquedotti
(tratto da BLT n. 2/2002 - TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza
13.03.1989 n. 201). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Architetti
- Competenza professionale - Edilizia civile
- Nozione.
Nell’espressione «edilizia civile» di cui
all’art. 52, 1° comma, R.D. 1925/2537 non è
compresa la progettazione né la direzione
dei lavori delle opere igieniche
(acquedotti, fognature, impianti di
depurazione, ecc.), che sono di competenza
esclusiva degli ingegneri; tale conclusione
poggia sull'interpretazione non estensiva
degli artt. 51 e 52 R.D. 1925/2537
confermata dall’art. 54, U.C..
Rientrano, però,
nella competenza degli architetti tutte le
opere poste a diretto servizio dei singoli
fabbricati, restando invece escluse quelle
poste a servizio dell’abitato in genere.
Il Ministero di grazia e giustizia,
acquisiti i pareri antitetici del Consiglio
nazionale degli architetti e del Consiglio
nazionale degli ingegneri, nonché il parere
nettamente contrario ad una interpretazione
estensiva delle norme relative alle
competenze professionali degli architetti
(art. 52 primo e secondo comma, R.D.
23.10.1925 n. 2537) espresso dal Consiglio
superiore dei lavori pubblici nell’adunanza
del 16.12.1983, chiede al Consiglio di Stato
di pronunciarsi in ordine
all’interpretazione dell’art. 52, primo
comma, del R.D. n. 2537 del 1925, ove si
stabilisce che «formano oggetto tanto
della professione di ingegnere quanto di
quella di architetto le opere di edilizia
civile, nonché i rilievi geometrici e le
operazioni di estimo ad essa relative».
In particolare, in seguito a specifica
richiesta di parere formulata dalla Regione
Molise, chiede se nell’espressione «edilizia
civile» possano essere ricomprese le
opere igieniche (acquedotti, fognature,
impianti di depurazione, ecc.) e la
direzione dei relativi lavori.
Ritiene la Sezione che al quesito, così come
proposto dalla Regione Molise, debba darsi,
allo stato della legislazione, risposta
negativa.
Tale conclusione poggia non tanto sulle
considerazioni svolte dal Consiglio
superiore dei lavori pubblici in ordine al
significato dell’espressione «edilizia
civile», che alla Sezione non sembrano
definire con sicurezza l’ambito della norma,
quanto sul dato testuale, ricavabile
dall’art. 54, ultimo comma, del R.D. n. 2537
del 1925, che non lascia alcuno spazio ad
interpretazioni estensive.
Quest’ultima disposizione, nel prevedere un
ampliamento della competenza professionale
degli architetti civili che abbiano
conseguito il diploma entro il 31.12.1924,
ovvero entro il 31.12.1923, ai sensi del
R.D. 31.12.1923 n. 1909, stabilisce
espressamente che essi sono autorizzati a
svolgere le mansioni indicate nell’art. 51
(di spettanza della professione di
ingegnere), ad eccezione «di quanto
riguarda le applicazioni industriali e della
fisica, nonché i lavori relativi alle vie,
ai mezzi di comunicazione e di trasporto
alle opere idrauliche».
Ne discende con tutta evidenza, che tali
opere, escluse anche dall’eccezione a favore
di architetti in possesso di specifici
requisiti, non sono di per sé ricomprese
nella generale competenza degli architetti,
ma sono riservate dalla legge agli
ingegneri.
In ordine al quesito proposto dalla Regione
Molise non si può, pertanto, giungere a
conclusione diversa da quella secondo cui
esulano dal campo professionale
dell’architetto le opere igieniche
consistenti in acquedotti, fognature e
relativi impianti di depurazione.
Ciò detto, la Sezione ritiene però di
doversi dare carico di altre perplessità,
emergenti dalla richiesta di parere, così
come formulata dal Ministero di grazia e
giustizia.
Oltre al problema degli impianti igienici
generali, posti cioè a servizio di un centro
abitato, di un insediamento di grandi
dimensioni, il Ministero sembra preoccuparsi
anche delle opere strettamente connesse con
i singoli fabbricati, per le quali esprime
il parere che rientrino nella competenza
degli architetti progettisti.
La Sezione ritiene di poter condividere tale
impostazione, nel senso che rientrano nella
competenza degli architetti tutte le opere
poste a diretto servizio dei singoli
fabbricati, restando escluse, invece, quelle
poste a servizio dell’abitato in genere.
Non si può far a meno di notare, comunque
-siccome già sottolineato dalla Regione
Molise, dagli Ordini professionali e dal
Consiglio superiore dei lavori pubblici- che
la ripartizione delle competenze
professionali tra ingegneri e architetti, in
quanto immaginata e disegnata dal
legislatore nel 1925, non è più consona alle
evoluzioni della tecnica e agli sviluppi
delle due professioni in questione, onde si
appalesa urgente la necessità
dell’aggiornamento delle norme che regolano
tutta l’attività professionale tecnica
(tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di
Stato, Sez. III, parere 11.12.1984 n.
1538). |
AGGIORNAMENTO AL 27.06.2011 |
ã |
UTILITA' |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Decreto Sviluppo, il Senato darà
ora il via definitivo al D.L. 70/2011 con le
modifiche apportate dalla Camera (n. 2791 AS).
Approda al Senato per il voto definitivo,
probabilmente senza modifiche (non c’è più
il tempo), il Decreto Sviluppo.
Il disegno di legge di conversione,
trasmesso ieri dalla Camera (era il
4357 AC), ha preso il numero
2791 AS.
Di seguito:
1-
Il testo coordinato del D.L. 70/2011, dopo
le modifiche apportate dalla Camera dei
Deputati col voto di fiducia del 21.06.2011
(link a www.leggioggi.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Guida alla realizzazione dei solai e
relativa valutazione dei rischi.
Il Coordinamento delle attività di
prevenzione in edilizia della Provincia di
Venezia ha pubblicato le Linee Guida per la
valutazione del rischio di caduta dall’alto
nelle operazioni di montaggio dei solai.
Il documento costituisce una guida per
progettisti, coordinatori per la sicurezza,
datori di lavoro e tecnici per la corretta
esecuzione dei lavori e relativa valutazione
dei rischi, con richiami alle normative
vigenti.
La guida ha lo scopo di: ... (link a
www.acca.it). |
QUESITI &
PARERI |
APPALTI:
Procedura negoziata.
Domanda.
In
che termini opera la procedura negoziata?
Risposta.
L'art. 56 del D.Lgs. 12-04-2006, n. 163,
rubricato "Procedura negoziata previa
pubblicazione di un bando di gara",
stabilisce al comma 1, lettera a), che le
stazioni appaltanti possono aggiudicare i
contratti pubblici mediante procedura
negoziata, previa pubblicazione di un bando
di gara, "quando, in esito
all'esperimento di una procedura aperta o
ristretta o di un dialogo competitivo, tutte
le offerte presentate sono irregolari o
inammissibili, in ordine a quanto disposto
dal presente codice in relazione ai
requisiti degli offerenti e delle offerte",
aggiungendo, per un verso, che "nella
procedura negoziata non possono essere
modificate in modo sostanziale le condizioni
iniziali del contratto" e, per altro
verso, che "le stazioni appaltanti
possono omettere la pubblicazione del bando
di gara se invitano alla procedura negoziata
tutti i concorrenti in possesso dei
requisiti di cui agli articoli da 34 a 45
che, nella procedura precedente, hanno
presentato offerte rispondenti ai requisiti
formali della procedura medesima".
Tale norma in esame ribadisce la regola
generale secondo cui l'aggiudicazione di un
contratto pubblico deve avvenire attraverso
l'espletamento delle procedure ristrette
aperte e di quelle ristrette, ai sensi degli
artt. 54 e 55 del D.Lgs. 12-04-2006, n. 163,
ponendosi rispetto a tale regola generale
come deroga, atteso che, secondo quanto
stabilito dall'art. 3, comma 40, del citato
D.Lgs., le procedure negoziate sono
caratterizzate dal fatto che le stazioni
appaltanti consultano direttamente gli
operatori economici da loro prescelti e
negoziano con uno o più di essi le
condizioni dell'appalto (art. 3, comma 40).
Esse costituiscono quindi lo strumento,
espressamente previsto dal Legislatore, per
assicurare nel campo dei contratti pubblici
l'attuazione dei principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento fissati
dall'art. 97, attraverso il contemperamento
degli opposti principi di libera
concorrenza, parità di trattamento, non
discriminazione, trasparenza,
proporzionalità e pubblicità, posti a
garanzia della più ampia partecipazione
possibile degli operatori economici, con
quelli di economicità, efficacia e
tempestività propri dell'azione
amministrativa (così come indicati dall'art.
2, comma 1, del Codice dei Contratti
Pubblici), allorquando sia rimasta senza
esito una precedente procedura aperta o
ristretta o un dialogo competitivo per la
irregolarità o la inammissibilità delle
offerte presentate.
Pur dovendo ammettersi l'esistenza di un
evidente collegamento tra la procedura
aperta o ristretta o il dialogo competitivo,
infruttuosi, e la successiva procedura
negoziata, nel senso tra l'altro che il
ricorso a quest'ultima postula proprio
l'effettivo infruttuoso svolgimento di una
delle prime, occorre tuttavia precisare che
le due procedure sono e restano
assolutamente autonome e distinte tra di
loro, come si desume agevolmente dal fatto
che esse siano disciplinate da separati
bandi, di tal che per effetto di detto
collegamento non si configura una
fattispecie unitaria a formazione
progressiva (21.06.2011 - tratto da
www.ipsoa.it). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'applicazione dell'art. 9, comma
2-bis, del D.L. 78/2010 secondo la
Ragioneria Generale dello Stato
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 21.06.2011). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI - VARI:
A. Marco,
La vessatorietà delle clausole nel contratto
di assicurazione. Cenni normativi e
giurisprudenziali (link a
www.diritto.it). |
LAVORI PUBBLICI: C’era
una volta…… la separazione tra progettazione
ed esecuzione dei lavori pubblici -
L’evoluzione normativa dell’istituto
dell’appalto di progettazione ed esecuzione (aprile
2011 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
segnalazione certificata di inizio attività (marzo
2011 - tratto da www.centrostudicni.it). |
VARI: L’accesso
alle professioni di geometra, perito
industriale e perito agrario a seguito della
pubblicazione del D.P.R. 15.03.2010, n. 88,
recante il Regolamento per il riordino degli
istituti tecnici (marzo 2011
- tratto da www.centrostudicni.it). |
PUBBLICO IMPIEGO - VARI: La
libera prestazione di servizi in regime
occasionale e l’attività professionale in
regime di stabilimento a seguito del D.Lgs.
26.03.2010, n. 59 “Attuazione della
direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi
nel mercato interno”
(luglio 2010 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Guida alla professione di ingegnere - La
valutazione di impatto ambientale (VIA) e la
valutazione ambientale strategica (VAS) -
Volume VI (febbraio 2007 -
tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Guida alla professione di ingegnere - Le
norme in materia di edilizia - Volume V
(febbraio 2007 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Guida alla professione di ingegnere - Le
tariffe professionali e la loro applicazione
- Volume IV (febbraio 2007
- tratto da www.centrostudicni.it). |
URBANISTICA:
Guida alla professione di ingegnere -
Urbanistica e pianificazione territoriale -
Volume II:
-
1^ parte;
-
2^
parte (febbraio 2007 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO: Valutazione facoltativa negli enti.
L'istituzione degli organismi indipendenti
non è un obbligo. Dopo il dietrofront della Civit anche per la
Corte conti la legge Brunetta non è cogente
sul punto.
Organismi indipendenti di valutazione solo
facoltativi per gli enti locali. Dopo che
anche la Civit ha modificato il suo iniziale
avviso, secondo il quale anche comuni e
province avevano l'obbligo di istituire gli
Oiv, è la Corte dei conti a chiarire
definitivamente che l'articolo 14 del dlgs
150/2009 non è operante per gli enti locali.
Il
parere 30.05.2011 n. 325 della
Sezione regionale di controllo della Corte
dei Conti per la
Lombardia chiude definitivamente la
questione.
La magistratura contabile evidenzia come ai
sensi dell'articolo 16 della
riforma-Brunetta, risulti di immediata e
diretta applicazione all'ordinamento locale
solo l'articolo 11, commi 1 e 3; sono,
invece, disposizioni di principio alle quali
gli ordinamenti di comuni e province debbono
essere adeguati, quelle contenute negli
articoli 3, 4, 5, comma 2, 7, 9 e 15, comma
1.
Il parere osserva, dunque, che il dlgs
150/2009 non prevede alcun obbligo a carico
degli enti locali di applicare, nemmeno per
via di principio, l'articolo 14, che
disciplina appunto gli Oiv.
Del resto, si deve aggiungere che l'articolo
14 della riforma-Brunetta ai sensi del suo
comma 2, «sostituisce i servizi di controllo
interno, comunque denominati, di cui al
decreto legislativo 30.07.1999, n. 286»:
il dlgs 286/1999 ha sempre trovato
applicazione in via esclusiva nelle sole
amministrazioni statali e mai presso gli
enti locali. Non si capisce, dunque, sulla
base di quali fondamenti sia emersa la
teoria secondo la quale l'articolo 14 del
dlgs 150/2009 avrebbe potuto obbligare gli
enti locali ad istituire gli Oiv.
La conclusione cui giunge la sezione
Lombardia è, allora, inevitabile:
«costituisce, pertanto, una facoltà e non un
obbligo per gli enti comunali l'adeguamento
del proprio ordinamento alla previsione
contenuta nell'art. 14 del dlgs 150/2009».
Simmetricamente, allora, gli enti locali
possono del tutto legittimamente continuare
ad avvalersi dei nuclei di valutazione
precedentemente istituiti e nella
composizione fissata dai regolamenti
interni, per effettuare le operazioni di
programmazione e valutazione dell'attività
gestionale.
Secondo la sezione Lombardia, comunque,
laddove gli enti locali nella loro autonomia
decidano di applicare l'articolo 14 del dlgs
150/2009 istituendo l'Oiv, in questo caso
dovranno attenersi strettamente ai principi
ivi enunciati. In particolare,
non potranno
nominare quali componenti dell'Oiv soggetti
legati all'organo di indirizzo
politico-amministativo, come i segretari
comunali e i direttori generali e le nomine
dei componenti devono essere conferite “senza
nuovi o maggiori oneri” per la finanza
dell’ente comunale.
Il parere della sezione, dunque, insiste,
come la Civit, nel considerare il segretario
comunale come soggetto non neutro e
indipendente. Una conclusione oggettivamente
strana: se la si porta alle sue estreme
conseguenze, allora i segretari non
potrebbero mai risultare destinatari di
funzioni gestionali e, comunque, di tutte
quelle competenze che si basano
sull'applicazione del principio di
separazione tra competenze degli organi di
governo e quelle degli organi gestionali
(articolo ItaliaOggi
del 24.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Comune di Montopoli in Val d'Arno (PI) -
Richiesta di parere con cui
l’ente chiede se sia legittima la
destinazione al pagamento di spese correnti
delle economie derivanti dalla
rinegoziazione di una serie di mutui con
rideterminazione in aumento della rispettiva
scadenza, che generano una minore spesa per
rimborso prestiti, o se diversamente
sussista l’obbligo del Comune di impiegare
le risorse esclusivamente per investimenti.
---------------
Nel valutare l'opportunità di una
operazione di rinegoziazione di mutuo,
occorre considerare anche il rischio che si
assume con l'indebitamento dell'ente.
Sussiste la necessità che ogni operazione di
rinegoziazione risponda ad un principio di
convenienza economica, di talché il
vantaggio da considerare, ai fini della
scelta in merito all’opportunità di
effettuare una rinegoziazione, non può
essere solo quello meramente finanziario
dato dalla differenza fra l’attualizzazione
dei flussi dei pagamenti della passività
originaria e quelli della nuova passività,
ma deve consistere in una valutazione
finanziaria ed economica della complessiva
situazione dell’ente, non solo in relazione
ai dati finanziari attualizzati
dell’operazione, ma anche ai rischi che
l’ente locale assume con la nuova operazione
di indebitamento, nonché all’eventuale
allungamento del periodo del debito che
vincola l’attività futura
dell’Amministrazione, il che porta ad
evidenziare che la diminuzione delle rate di
ammortamento, non può essere considerato un
“risparmio” in conseguenza del quale
procedere automaticamente ad incrementare la
spesa corrente (Lombardia deliberazione n.
1027 dell'01.12.2010, Liguria deliberazione
n. 77 del 17.09.2008), ma va altresì
valutata la conseguenza principale di una
rinegoziazione: l’indebitamento vincola i
bilanci futuri dell’ente, oltre alle
possibili ed eventuali elusioni del precetto
costituzionale di cui all’art. 119 della
Costituzione che possano nascondersi in
un’operazione del tipo di cui trattasi.
L’operazione di rinegoziazione prospettata
dall’ente non comporta alcuna riduzione del
debito in questione: difatti se da un lato
nell’immediato provoca minori oneri,
dall’altro prolunga il periodo di
ammortamento del prestito, ponendo di fatto
a carico delle generazioni future oneri per
opere in conto capitale che potrebbero aver
già esaurito il beneficio derivante dagli
interventi d’investimento realizzati.
Proprio in riferimento all’utilizzazione
delle entrate correnti liberate dalla
rinegoziazione dei mutui con la cassa
depositi e prestiti, l’Osservatorio sulla
Finanza e contabilità degli enti locali ebbe
a suo tempo a precisare che “esiste un
orientamento generale di leggi di settore
tendenti a contenere, per finalità di
politica economica generale, l’aumento delle
spese correnti dello Stato e di tutti gli
altri enti pubblici. Nell’equilibrio
economico finanziario complessivo degli enti
locali l’operazione di rinegoziazione espone
l’ente locale ad un debito prolungato nel
tempo che ha come risultato pratico la
liberazione di risorse in una parte del
periodo di ammortamento del debito
originario” (parere approvato nella
seduta del 06.11.2003).
Ne consegue, in definitiva, che, anche al di
là della prescrizione normativa, l’eventuale
incremento della spesa corrente finanziato
con le economie derivanti dalla
rinegoziazione del debito, costituirebbe un
comportamento non avveduto da parte degli
amministratori, oltre che una soluzione
concreta economicamente poco conveniente sul
piano generale, con la conseguente
opportunità che le economie derivanti dalla
rinegoziazione del debito siano destinate a
spesa in conto capitale (Corte dei Conti,
Sez. controllo Toscana,
parere 06.04.2011 n.
27). |
NEWS |
ENTI LOCALI:
Sindaci contro alleanze
obbligatorie. I comuni chiedono di stoppare
il Dpcm sulle gestioni associate.
Fermare il Dpcm sulle gestioni associate
obbligatorie per i comuni fino a 5mila
abitanti, e riaprire una discussione con i
diretti interessati sulle modalità per
attuare l'obbligo previsto dalla manovra
estiva 2010.
E' la relazione dei sindaci al decreto che
vorrebbe avviare associazioni "progressive"
tra i piccoli Comuni, traducendo in pratica
l'obbligo di unire le forze per gestire le
funzioni fondamentali introdotto dal Dl
78/2010. ...
(articolo
Il Sole 24 Ore
del 24.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fondi decentrati, conta il 2010.
Le risorse per il 2011-2013 non devono
superare il tetto. I chiarimenti del Mef. Il tetto al trattamento
individuale non comprende il salario
accessorio.
I fondi per le risorse decentrate del
2011/2012 e 2013 non devono superare quello
del 2010 nel loro complesso e nella parte
stabile; il taglio deve essere effettuato
per le riduzioni rispetto all'anno 2010. Il
tetto al trattamento economico individuale
non comprende il salario accessorio legato
alle prestazioni svolte; la spesa per il
personale cessato su cui calcolare il tetto
per le nuove assunzioni comprende anche la
riduzione del fondo; i buoni pasto non
possono in questo triennio aumentare di
importo e le amministrazioni che hanno
corrisposto compensi finanziati con
l'incremento del fondo consentito agli enti
virtuosi dopo il mese di maggio dello scorso
anno devono recuperare tali somme.
Sono queste, oltre a quelle sulle
progressioni economiche e di carriera di cui
all'articolo pubblicato su ItaliaOggi di
venerdì 17 giugno, le principali indicazioni
che si ricavano dalla
circolare
15.04.2011 n. 12 del ministro
dell'economia e delle finanze «Applicazione dell'articolo 9 dl
31.05.2010 n. 78, convertito con
modificazioni, nella legge 30.07.2010 n.
122, recante misure urgenti in materia di
stabilizzazione finanziaria e di
competitività economica».
Gli enti locali, come le regioni e le
aziende del servizio sanitario nazionale,
non risultano tra le destinatarie della
circolare. Ma, questo è un dato meramente
formale, in quanto le disposizioni
commentate si applicano a tutte le
amministrazioni inserite nel conto economico
consolidato della p.a. come individuate
dall'Istat, ai sensi dell'articolo 1, comma
3, legge n. 196/2009, ambito in cui sono
inclusi comuni, province, altri enti locali,
regioni ed enti del servizio sanitario
nazionale.
Il comma 2-bis dell'articolo 9 del dl n.
78/2010 stabilisce che il fondo per la
contrattazione decentrata degli anni 2011,
2012 e 2013 non dovrà superare quello
dell'anno 2010. Tale disposizione si
riferisce anche al fondo per contrattazione
decentrata dei dirigenti. Non viene fornito
dalla circolare alcun chiarimento sulla
estensione di questo tetto anche al fondo
per il lavoro straordinario del personale.
Per il ministero di via XX Settembre occorre
riferirsi ai fondi costituiti sulla base
«della normativa contrattuale vigente»; in
caso di superamento del «valore del fondo
determinato per l'anno 2010, esso va
ricondotto a tale importo».
La circolare,
modificando l'impostazione data da alcune
sezioni regionali di controllo della Corte
dei conti, dice espressamente che «le
singole voci retributive variabili possono
incrementarsi o diminuire». Tale possibilità
non vale per la parte stabile: la circolare
richiama espressamente il tetto non
valicabile dell'anno 2010. Ricordiamo che la
circolare della Ragioneria generale dello
stato n. 40/2010 aveva espressamente
chiarito che le risorse del fondo «non
potranno in ogni caso prevedere incrementi
derivanti da disponibilità finanziarie a
qualsiasi titolo determinate, ivi compresa
la Ria del personale cessato».
È da
considerare preclusa la possibilità di
disporre aumenti ex articolo 15, commi 2 e 5
(per quest'ultimo sia per la parte variabile
che per quella stabile) rispetto a quanto
stanziato allo stesso titolo nell'anno 2010.
La circolare non dice nulla sulle voci che
sono alimentate da risorse previste da
specifiche disposizioni di legge, né sulla
corresponsione dei compensi Istat per il
censimento.
La riduzione del fondo va operata in caso di
diminuzione del numero dei dipendenti in
servizio nell'anno 2010. La circolare
suggerisce di fare ricorso alla media
aritmetica tra il personale in servizio al
1° gennaio e quello in servizio al 31
dicembre, sia del 2010 che dell'anno che con
esso si deve confrontare. Il taglio deve
essere effettuato in proporzione alla
incidenza media di un dipendente sul fondo
stesso, quindi prescindendo da quanto in
effettivo godimento ed escludendo «le
risorse derivanti da incarichi aggiuntivi e
dai servizi resi dal personale in conto
terzi».
Da sottolineare infine che, con una tesi
assai discutibile, si sostiene che le
progressioni economiche disposte nel
triennio 2011/2013 produrranno effetti
economici solamente dal 2014 e fino ad
allora le risorse sono rese indisponibili,
cioè devono essere incamerate dal bilancio
(articolo ItaliaOggi
del 24.06.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Sull'accesso dei consiglieri al
protocollo decide il regolamento.
I consiglieri comunali possono richiedere la
trasmissione, con cadenza mensile fino a
scadenza del relativo mandato, di copia
dell'intero registro di protocollo generale
in entrata e in uscita dell'ente?
L'esercizio del diritto di accesso è
previsto dall'articolo 43, comma 2, del dlgs
267/2000, definito dal Consiglio di stato
(sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo
pubblico funzionalizzato», finalizzato al
controllo politico-amministrativo sull'ente
nell'interesse della collettività e, come
tale, diverso dal diritto di accesso, di cui
agli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990,
riconosciuto ai soggetti interessati allo
scopo di predisporre la tutela di posizioni
soggettive lese.
In merito al rilascio periodico del
riepilogo del protocollo generale dell'ente,
comprensivo della posta in arrivo e in
uscita, la giurisprudenza, con orientamento
costante, ha ritenuto non conforme a legge
il diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e
di quello riservato del sindaco (cfr.
Tar Campania, Salerno, n. 26/2005),
precisando (Tar Lombardia, Brescia, n.
362/2005) che: «Le norme disciplinanti
l'accesso dei consiglieri comunali non
pongono limiti quantitativi agli atti cui si
chieda di accedere, né presuppongono che, di
tali atti, i richiedenti conoscano già il
contenuto, sia pure approssimativamente, ben
potendo l'intervento connesso al mandato
ravvisarsi opportuno anche a seguito
dell'acquisita conoscenza di atti
precedentemente del tutto ignorati». Inoltre
ha affermato (Tar Sardegna, n. 29/2007) che
è consentito prendere visione del protocollo
generale senza alcuna esclusione di oggetti
e notizie riservate e di materie coperte da
segreto, posto che i consiglieri comunali
sono comunque tenuti al segreto ai sensi
dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Infine ha
specificato che al registro di protocollo
generale dell'amministrazione locale è
riconosciuta la piena riconducibilità alle
categorie di documenti suscettibili di
accesso, in quanto idoneo a fornire notizie
e informazioni utili all'espletamento del
mandato dei consiglieri comunali non essendo
ammissibile imporre loro l'onere di
specificare in anticipo l'oggetto degli atti
che intendono visionare, trattandosi di
informazioni di cui gli stessi possono
disporre solo in conseguenza dell'accesso
(Tar Lombardia, Brescia, n. 163/2004; Tar
Emilia Romagna Sez. Parma, n. 28/2006; Tar
Calabria - Cz - n. 1749/2007).
Tuttavia, il Tar Sardegna (sentenza n.
32/2008) ha puntualizzato che il diritto di
accesso si concretizza nel prendere visione
dei soli oggetti del protocollo generale che
rientrano nella sfera di interesse del
consigliere richiedente e che sono utili per
l'espletamento del suo mandato ed ha
evidenziato che «ben appare giustificato il
diniego opposto dall'amministrazione» nel
caso in cui si sia «in presenza di continue
richieste di accesso di portata tale da
determinare notevoli difficoltà
organizzative» per l'ente.
Anche il Tar
Puglia (sent. n. 115/2011) ha affermato che
«gli unici limiti all'esercizio del diritto
di accesso dei consiglieri comunali si
rinvengono, per un verso, nel fatto che esso
debba avvenire in modo da comportare il
minor aggravio possibile per gli uffici
comunali e, per altro verso, che non debba
sostanziarsi in richieste assolutamente
generiche, fermo restando che la sussistenza
di tali caratteri debba essere attentamente
vagliata in concreto al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili
limitazioni al diritto stesso».
Anche la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi ha richiamato il
consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, sez. V. n.
929/2007) secondo cui il diritto del
consigliere di accesso agli atti «non può
subire compressioni per pretese esigenze di
natura burocratica dell'ente con l'unico
limite di poter esaudire la richiesta,
qualora sia di una certa gravosità, secondo
i tempi necessari per non determinare
interruzione delle altre attività di tipo
corrente», limite della proporzionalità e
ragionevolezza delle richieste,
contemperando, quindi, il diritto di accesso
con l'esigenza di non intralciare lo
svolgimento dell'attività amministrativa ed
il regolare funzionamento degli uffici
comunali, comportando ad essi il minor
aggravio possibile, sia dal punto di vista
organizzativo che economico (Corte dei
conti, sez. Liguria n. 1/2004).
In tal senso, sulla base del principio di
economicità che incombe sia sugli uffici
tenuti a provvedere, sia sui soggetti che
chiedono prestazioni amministrative (parere
del 12.12.2002) ha riconosciuto «la
possibilità per il consigliere di avere
accesso diretto al sistema informatico
interno, anche contabile, dell'ente
attraverso l'uso della password di servizio
proprio al fine di evitare che le continue
richieste di accesso si trasformino in un
aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale» (cfr.
parere 29.11.2009). Anche la giurisprudenza
ha ritenuto legittime norme regolamentari
contenenti accorgimenti finalizzati a
ridurre i costi.
In merito, il Consiglio di stato (sez. V,
sent. n. 6742/2007) ha condiviso l'avviso
del ministero dell'interno in merito alla
possibile riproduzione di planimetrie su
cd-rom, qualora il consigliere chieda
l'estrazione di copie di atti la cui
fotoriproduzione comporti costi elevati.
Pertanto, è fatto salvo il diritto del
consigliere di accedere ai registri di
protocollo finalizzato all'individuazione
degli atti che potrebbero interessare per
l'espletamento del proprio mandato. L'ente
locale, nell'ambito della propria autonomia,
può dotarsi di una specifica normativa
regolamentare per disciplinare le modalità
di esercizio del diritto al fine di renderle
compatibili con il regolare svolgimento
dell'attività degli uffici.
In tal senso, l'istanza di accesso ad atti
non ancora formati, che impegnino
l'amministrazione anche per il futuro,
potrebbe concretizzare una fattispecie
vietata qualora il regolamento comunale,
nello specificare le modalità e le forme di
esercizio di tali diritti in attuazione
delle norme statali e statutarie, escludesse
dall'accesso e dal rilascio di copie «le
richieste generiche che non permettono
l'individuazione del provvedimento o le
richieste generalizzate relative ad intere
pratiche o a categorie di provvedimenti»
(articolo ItaliaOggi
del 24.06.2011). |
VARI: Le
disposizioni a favore dei conducenti più corretti. Bonus sulla patente.
Il 1° luglio due punti in regalo.
Scatta il 1° luglio l'abbuono di due punti
sulla patente di guida dei conducenti già in
possesso di almeno venti punti, che negli
ultimi due anni non hanno violato norme che
prevedono decurtazioni.
È questo l'effetto
della disposizione contenuta nell'art.
126-bis, comma 5, del codice della strada.
L'istituto della patente a punti è entrato
in vigore il 1° luglio 2003 e nel corso
degli anni ha subito importanti
aggiustamenti, con l'estensione anche ad
altri titoli che abilitano alla guida dei
veicoli, ovvero la carta di qualificazione
del conducente, il Cap tipo KB-KD e il
certificato di idoneità alla guida di
ciclomotori. Ma alcuni meccanismi
fondamentali si sono conservati in questi
primi otto anni e fra questi c'è appunto la
regola della ricarica automatica di due
punti ogni due anni.
Dunque, dal 1° luglio 2011 i conducenti
ancora indenni da decurtazioni dalla data
del 1° luglio 2003 aumenteranno il plafond a
ventotto punti, mentre chi è al disotto
della dotazione iniziale di venti punti
ritornerà automaticamente a tale punteggio
se parimenti nell'ultimo biennio non ha
subito decurtazioni. Da sottolineare che,
per effetto della riforma stradale prevista
dalle legge n. 120 del 29.07.2010, dal
prossimo 13 agosto scatterà anche il primo
abbuono di un punto per i neopatentati che
nel primo anno non hanno commesso violazioni
da cui deriva la diminuzione di punteggio
sulla licenza di guida.
Attendono in parte la piena attuazione le
altre disposizioni introdotte dalla riforma
stradale dello scorso anno, ovvero l'obbligo
di sostenere la prova d'esame al termine del
corso per recuperare i punti, la possibilità
di acquisire punti frequentando un corso di
guida sicurezza avanzata e l'obbligo di
sottoporsi a un nuovo esame di idoneità
tecnica non solo per chi subisce
l'azzeramento dei punti, ma anche per chi,
dal momento della notifica della prima
violazione che ha provocato la perdita di
almeno cinque punti, commetta, nei
successivi dodici mesi, altre due violazioni
non contestuali, ciascuna delle quali
comporti la decurtazione di almeno cinque
punti.
Per conoscere in tempo reale la dotazione
attuale di punti occorre registrarsi sul
sito
www.portaledellautomobilista.it oppure
si può telefonare al numero 848782782, al
costo di una telefonata urbana, e digitare i
dati di nascita e della patente seguendo le
istruzioni della guida vocale
(articolo ItaliaOggi
del 24.06.2011). |
ENTI LOCALI: Negli
enti locali alleanze graduali. Al via
dall'01.01.2012 la gestione associata per
almeno due funzioni essenziali. Per i
municipi gestione associata in tre tappe. All'esame
della conferenza unificata il Dpcm sulla
razionalizzazione per i piccoli comuni.
IL PARADOSSO - Il
limite minimo di abitanti legato al
municipio minore permette di costruire anche
mini-aggregazioni con pochissimi residenti.
Almeno due «funzioni fondamentali» associate
dal i gennaio prossimo, quattro dal gennaio
2013 e tutte e sei dal 2014.
È il calendario delle gestioni associate
obbligatorie previste per i Comuni fino a
5mila abitanti dalla manovra salva-deficit
dell'anno scorso (articolo 14, comma 28, del
Dl 78/2010). Il tema, dopo aver alimentato
accese discussioni estive nei quasi 5.700
Comuni (il 70% del totale) interessati
dall'obbligo di unirsi, era poi finito in
sordina per la mancanza del decreto
attuativo.
Ora il Dpcm rispunta, è nell'ordine del
giorno della Conferenza unificata in
programma oggi (sempre che le tensioni fra
Governo e Regioni non facciano slittare
tutto il sistema delle conferenze alla
prossima settimana), e soprattutto prevede
per gli enti locali un calendario stringente
e più di un rebus applicativo.
Le «funzioni fondamentali» da
associare, nell'eterna mancanza del Codice
delle autonomie, sono le sei elencate dalla
legge delega sul federalismo fiscale (sono
le stesse oggetto dei questionari sui
fabbisogni standard, e sono individuate
dall'articolo 21, comma 3, della legge
42/2009): amministrazione generale, polizia
locale, istruzione pubblica, viabilità e
trasporti, territorio e ambiente (tranne
l'edilizia residenziale pubblica) e settore
sociale.
L'obiettivo dichiarato di "razionalizzare"
le piccole amministrazioni creando
aggregazioni di almeno 5mila abitanti, prima
di tutto, sembra allontanarsi da subito,
perché lo stesso decreto attuativo contiene
in sé il meccanismo per aggirarlo. Le
aggregazioni, infatti, secondo la bozza
dovranno raggiungere un livello demografico
pari almeno al quadruplo degli abitanti del
Comune più piccolo fra quelli associati.
Tradotto in pratica: se il Comune di
Morterone (35 abitanti), si associa con i
...
(articolo Il Sole 24
Ore
del 23.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: SISTRI,
proposta nuova proroga all'01.06.2012.
Nel maxi-emendamento al D.L. sviluppo su cui
il Governo ha richiesto ed ottenuto la
fiducia nella serata del 21.06.2011 ce'
anche una proposta di proroga dell'avvio
della piena operatività del SISTRI per le
sole microimprese (produttori di rifiuti
pericolosi che hanno fino a 10 dipendenti)
ad una data non antecedente all'01.06.2012.
Il testo e' ora passato all'esame del
Senato.
La nuova proroga in materia
di Sistri.
Come è noto, l’art. 12 del D.M. 07.12.2009 e
s.m.i. ha previsto un periodo transitorio “a
doppio binario” degli adempimenti
ambientali che consentisse, relativamente ad
una prima fase di applicazione del SISTRI,
la convivenza sia del sistema cartaceo sia
del nuovo sistema informatico. La data di
conclusione di tale fase transitoria è stata
più volte prorogata e di recente il D.M.
26.05.2011 ha individuato, in luogo di
un’unica data, delle differenti scadenze per
la definitiva entrata in vigore del nuovo
sistema, a seconda delle categorie degli
operatori.
Da più parti si continuava a chiedere una
proroga più lunga del SISTRI, di una anno
almeno, per tutte le categorie di aziende e
tali istanze sono confluite nel DDL di “Conversione
in legge del decreto-legge 13.05.2011, n.
70, concernente Semestre Europeo - Prime
disposizioni urgenti per l'economia” (A.C.
4357), il c.d. “decreto sviluppo” sul
quale il Governo ha incassato la sua
quarantaquattresima fiducia con 317 sì, 293
no e 2 astensioni.
Più precisamente, l’approvazione, senza
subemendamenti e articoli aggiuntivi, ha
avuto ad oggetto l’emendamento
Dis. 1.1, interamente sostitutivo
dell’articolo unico del ddl di conversione
del D.L “sviluppo”, nel quale figura
l’unica proposta emendativa relativa al
SISTRI “sopravvissuta” all’esame
delle Commissioni parlamentari la quale
prevede una nuova proroga del pieno avvio
del nuovo Sistema per la sola categoria
delle microimprese.
La proroga del sistri per
le microimprese.
La proposta emendativa sul SISTRI contenuta
nel maxiemendamento è stata presentata
dall’On. Maurizio Fugatti (Lega) e dall’On.
Giuseppe Marinello (Pdl). Il testo, in
realtà, è la riformulazione di un precedente
emendamento che prevedeva una proroga del
SISTRI per tutte le aziende, che non era
passato così come non è passata la proposta
di modifica sui termini di pagamento che è
stata giudicata inammissibile.
In particolare, la proposta (già emendamento
6.147) aggiunge al comma 2 dell’art. 6 del
D.L. n. 70/2011 –per quanto qui ci
interessa– la nuova lettera f-octies) la
quale modifica esclusivamente il termine
previsto dall'art. 12, comma 5 del D.M.
26.05.2011 riferito ai soli produttori di
rifiuti pericolosi che hanno fino a 10
dipendenti.
Orbene, si prevede che il termine del
02.01.2012 previsto per l’avvio del SISTRI
per i produttori di rifiuti [ex art. 3,
comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano
fino a 10 dipendenti sia prorogato ad una
data non antecedente all'01.06.2012, nuovo
termine “da individuare entro sessanta
giorni dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto,
nei modi di cui all'articolo 28, comma 2,
del regolamento di cui al decreto del
Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio e del mare 18.02.201 1, n. 52”.
La ratio è quella di venire incontro
alle esigenze dei piccoli operatori
produttori di rifiuti pericolosi che secondo
i relatori dell’emendamento hanno
incontrato, rispetto agli altri operatori,
maggiori difficoltà di adeguamento tecnico
ed organizzativo al SISTRI.
Personalmente, rammentiamo che la recente
proroga “a tappe” concessa col D.M.
26.05.2011 è stata la conseguenza dei
numerosi malfunzionamenti che sono stati
riscontrati nel Sistri, in particolare,
grazie all’iniziativa del c.d. “click-day”,
e non delle difficoltà organizzative
incontrate dagli operatori, che a dispetto
delle dichiarazioni ufficiali del Ministero
si stanno dando da fare per adeguarsi al
SISTRI, tra l’altro anche provvedendo in
molti casi ad aderirvi previo versamento dei
contributi all’uopo richiesti (contributi
versati già nel 2010 per un Sistema che di
fatto non è ancora operativo). Se, dunque,
il problema maggiore sono i malfunzionamenti
del SISTRI, essi sono tali sia per i piccoli
che per i grandi operatori e di conseguenza,
sinceramente, di una proroga di questo
genere stentiamo a comprendere la reale
utilità.
Ad ogni modo, come detto, il provvedimento è
ora stato trasmesso al Senato e c’è tempo
sino al prossimo 12.07.2012 per la sua
definitiva approvazione (23.06.2011 -
commento tratto da www.ipsoa.it). |
GIURISPRUDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI: I
pareri legali sottratti all'accesso sono
quelli che attengono alle tesi difensive,
relative ad un procedimento giurisdizionale
(cioè quando i pareri legali vengono redatti
dopo che è già iniziata una controversia
giurisdizionale) o ad una fase
precontenziosa e/o ad una lite potenziale
che definiscono e/o delineano la relativa
strategia difensiva e/o la futura condotta
processuale più conveniente per
l'Amministrazione, da assumere nella
controversia giurisdizionale già instaurata
o nella futura, eventuale e probabile lite
giudiziaria, che il soggetto leso attiverà.
Devono viceversa ritenersi accessibili i
pareri legali che, anche per l'effetto di un
richiamo esplicito nel provvedimento finale,
rappresentano un passaggio procedimentale
istruttorio di un procedimento
amministrativo in corso e, una volta
acquisiti dall'Amministrazione, vengono ad
innestarsi nell'iter procedimentale,
assumendo la configurazione di atti
endoprocedimentali e perciò costituiscono
uno degli elementi che condizionano la
scelta dell'Amministrazione.
Ritiene la Sezione che della disposizione
(art. 13, comma 5, lettera “c”, del d.lgs.
n. 163/2006) debba essere data
un’interpretazione restrittiva perché
relativa a norma eccezionale, in quanto
derogatoria rispetto alle ordinarie regole
in materia di accesso, e quindi è da
intendere come riferibile alla sola fase di
stipulazione dei contratti pubblici di cui
all’art. 12 del d. lgs. n. 163/2006 e non a
tutta quella anteriore.
Detto art. 13, comma 5, lettera “c”, del
d.lgs. n. 163/2006 non è quindi applicabile
al caso di specie, in cui l’accesso è
finalizzato alla predisposizione di difese
nel giudizio relativo alla impugnazione dei
provvedimenti n. 88 del 2010 (di
annullamento in autotutela della
aggiudicazione dell’appalto alla appellante)
e n. 95 del 2010 (di sostituzione del punto
1 di detto provvedimento), relativi alla
fase di scelta del contraente,
In secondo luogo il Collegio ritiene che la
norma sopra indicata non sia applicabile
comunque alla domanda di accesso per cui è
causa, atteso che il principio della
riservatezza della consulenza legale si
manifesta anche nelle ipotesi in cui la
richiesta del parere interviene in una fase
intermedia, successiva alla definizione del
rapporto amministrativo all'esito del
procedimento, ma precedente l'instaurazione
di un giudizio o l'avvio dell'eventuale
procedimento precontenzioso, purché il
ricorso alla consulenza legale persegua lo
scopo -che non coincide con quello sotteso
alla richiesta del parere legale de quo-
di consentire all'Amministrazione di
articolare le proprie strategie difensive,
in ordine ad un lite che, pur non essendo
ancora in atto, può considerarsi quanto meno
potenziale.
Poiché detta regola risponde al principio di
salvaguardia della strategia processuale
della parte che non è tenuta a rivelare ad
alcun soggetto e, tanto meno, al proprio
contraddittore, attuale o potenziale gli
argomenti in base ai quali intende confutare
le pretese avversarie, deve invero ritenersi
che i pareri legali sottratti all'accesso
siano quelli che attengono alle tesi
difensive, relative ad un procedimento
giurisdizionale (cioè quando i pareri legali
vengono redatti dopo che è già iniziata una
controversia giurisdizionale) o ad una fase
precontenziosa e/o ad una lite potenziale
che definiscono e/o delineano la relativa
strategia difensiva e/o la futura condotta
processuale più conveniente per
l'Amministrazione, da assumere nella
controversia giurisdizionale già instaurata
o nella futura, eventuale e probabile lite
giudiziaria, che il soggetto leso attiverà.
Devono viceversa ritenersi accessibili i
pareri legali che, anche per l'effetto di un
richiamo esplicito nel provvedimento finale,
rappresentano un passaggio procedimentale
istruttorio di un procedimento
amministrativo in corso e, una volta
acquisiti dall'Amministrazione, vengono ad
innestarsi nell'iter procedimentale,
assumendo la configurazione di atti
endoprocedimentali e perciò costituiscono
uno degli elementi che condizionano la
scelta dell'Amministrazione (Consiglio
Stato, Sezione VI, 30.09.2010, n. 7237)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 23.06.2011 n. 3812 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: In
merito alla necessità di una compiuta
verbalizzazione delle cautele da osservare
ai fini della conservazione dei plichi
contenenti le offerte, la commissione deve
adottare le cautele idonee a garantire la
segretezza degli atti di gara e a prevenire
rischi di manomissioni, indicando nel
verbale tali cautele e dando atto a verbale
della integrità dei plichi.
Dal verbale deve risultare il nominativo di
colui cui siano materialmente consegnati i
plichi, che ne assume le conseguenti
responsabilità, ovvero –con chiarezza e
univocità– deve risultare l’ufficio cui sono
consegnati e all’interno del quale essi
vanno conservati (con individuazione
immediata del suo responsabile).
L'integrità dei plichi contenenti le offerte
delle imprese partecipanti è, al contempo,
la condizione di segretezza delle stesse e
la garanzia del pieno dispiegarsi del
principio della par condicio di tutti i
concorrenti, per l’effettivo rispetto dei
principi enunciati dall'art. 97 Cost., di
buon andamento e di imparzialità cui deve
conformarsi l'azione amministrativa.
La verbalizzazione è legittima se, oltre a
indicare le cautele adottate, indica, sotto
la responsabilità dei verbalizzanti, che le
cautele sono state efficaci in quanto i
plichi sono integri.
La Sezione -sulla questione relativa alla
necessità di una compiuta verbalizzazione
delle cautele da osservare ai fini della
conservazione dei plichi contenenti le
offerte- ritiene di aderire all’indirizzo
secondo cui la commissione deve adottare le
cautele idonee a garantire la segretezza
degli atti di gara e a prevenire rischi di
manomissioni, indicando nel verbale tali
cautele e dando atto a verbale della
integrità dei plichi (Cons. Stato, sez. V,
12.12.2009 n. 7804; Cons. Stato, sez. V,
03.02.2000 n. 661).
Più nel dettaglio, dal verbale deve
risultare il nominativo di colui cui siano
materialmente consegnati i plichi, che ne
assume le conseguenti responsabilità, ovvero
–con chiarezza e univocità– deve risultare
l’ufficio cui sono consegnati e all’interno
del quale essi vanno conservati (con
individuazione immediata del suo
responsabile): in qualsiasi momento, ogni
autorità giurisdizionale o amministrativa (a
seconda dei casi e delle relative funzioni,
anche di vigilanza) dalla lettura dei
verbali di consegna deve poter agevolmente
accertare quali siano stati i passaggi dei
plichi, ove essi siano stati collocati nel
corso del tempo, chi abbia posto mano su di
essi e ogni altra circostanza attinente alla
loro integrità e conservazione.
Si tratta di una regola che, pur in mancanza
di apposita previsione da parte del
legislatore, è agevolmente desumibile da
basilari criteri di legalità e trasparenza,
nonché dalla stessa ratio che
sorregge e giustifica il ricorso alla gara
pubblica per l'individuazione del contraente
cui assegnare l'appalto: non v’è dubbio,
infatti, che l'integrità dei plichi
contenenti le offerte delle imprese
partecipanti è al contempo la condizione di
segretezza delle stesse e la garanzia del
pieno dispiegarsi del principio della par
condicio di tutti i concorrenti, per
l’effettivo rispetto dei principi enunciati
dall'art. 97 Cost., di buon andamento e di
imparzialità cui deve conformarsi l'azione
amministrativa (Cons. Stato, sez. V,
20.03.2008, n. 1219; Cons. Stato, sez. V,
28.03.2008, n. 1296; Cons. Stato, sez. V,
06.03.2006, n. 1068, Cons. Stato, sez. IV,
18.03.2002, n. 1612).
Poiché le cautele sono idonee solo se
assicurano la conservazione dei plichi in
luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e
con individuazione di un soggetto o ufficio
responsabile dell’inaccessibilità del luogo
a terzi, anche se non occorrono ‘formule
sacramentali’, la verbalizzazione è
legittima se, oltre a indicare le cautele
adottate, indica, sotto la responsabilità
dei verbalizzanti, che le cautele sono state
efficaci in quanto i plichi sono integri
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 23.06.2011 n. 3803 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Autovelox, segnalazione
necessaria anche se c’è l’agente
accertatore.
L’autovelox, infatti, va
sempre segnalato in anticipo. Anche se si
tratta di un rilevamento non automatico ma
fatto direttamente dagli agenti della
stradale con un dispositivo tele laser.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez.
II civile, con la
sentenza 22.06.2011 n. 13727.
Per i giudici di Piazza Cavour, infatti, <<l’obbligo
della preventiva segnalazione
dell’apparecchio di rilevamento della
velocità previsto, in un primo momento […]
per i soli dispositivi di controllo remoto
senza la presenza diretta dell’operatore di
polizia>> è stato <<successivamente
esteso (con il Dl 117/2007, ndr) a tutti i
tipi e modalità di controllo effettuato con
apparecchi fissi o mobili installati sulla
sede stradale, nei quali, perciò, si
ricomprendono ora anche gli apparecchi tele
laser gestiti direttamente e nelle
disponibilità degli organi di polizia>>.
Attenzione alle date, però, perché
l’estensione anche alle postazioni gestite
dagli agenti è entrata in vigore soltanto
dal 04.08.2007 (commento tratto da
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: TELEFONIA/
Una sentenza del Consiglio di stato.
Mega-antenna ko.
Autorizzazione data. E ritirata.
Il Comune dice il sospirato “sì”
all'installazione della stazione radio base
per la telefonia cellulare. Ma poi si
accorge che l'impianto è in contrasto con le
norme urbanistiche e annulla
l'autorizzazione in via di autotutela. E in
seguito, dopo una lunga controversia
giudiziaria, decreta la demolizione della
mega-antenna, vale a dire la sorte che tocca
(o dovrebbe toccare) a tutte le strutture
abusive.
Possibile? Sì, l'amministrazione ne ha
facoltà.
È quanto emerge dalla
sentenza 22.06.2011 n. 3783 della
IV sezione del Consiglio di Stato.
Zero tituli.
Accolto il ricorso di un Comune veneto.
Sbaglia il Tar, sia pure nell'ambito di
un'intricata vicenda: l'unificazione
procedimentale e il conseguente assorbimento
dei profili edilizi nell'unico titolo
autoritativo ex articolo 87 del codice delle
comunicazioni non possono comunque
comportare la variazione della natura
giuridica del medesimo titolo edilizio
assorbito. Né possono implicare
assolutamente il venir meno dei poteri di
governo del territorio da parte del Comune.
In base alla legge 36/2001, infatti, gli
enti locali possono adottare misure «programmatorie
integrative» per localizzare gli
impianti, in modo tale da minimizzare
l'esposizione dei cittadini residenti ai
campi elettromagnetici.
Gli obiettivi sono disciplinare al meglio
l'utilizzo del territorio e combattere
l'elettrosmog. L'amministrazione, tuttavia,
non si può spingere fino a impedire -o a
rendere eccessivamente onerosa- la
possibilità di installare le stazioni radio
base di telefonia sul territorio comunale.
Il titolo abilitativo per la realizzazione
della mega-antenna si costituisce in forza
di una Dia oppure di un silenzio-assenso,
nel senso che le istanze e denunce di inizio
di attività si intendono accolte se, entro
novanta giorni dalla relativa domanda, non
sia stato comunicato un provvedimento di
diniego in conformità ai principi di cui
alla legge 241/1990.
Via alle ruspe.
L'impianto, nel caso di specie, è stato
installato in base ad un'autorizzazione
annullata in autotutela in quanto
contrastante con la programmazione comunale:
risulta dunque privo di un titolo giuridico
valido.
L'amministrazione preposta alla vigilanza,
quindi, deve adottare i poteri sanzionatori
e ripristinatori di cui al testo unico
dell'edilizia (Dpr 380/2001), proprio perché
in casi come questo manca del tutto la
verifica dei profili di conformità
urbanistica
(articolo ItaliaOggi
del 25.06.2011). |
APPALTI:
Sul carattere non interdittivo
dell'informativa antimafia c.d. "atipica".
La c.d. informativa "atipica",
diversamente dalla quella tipica, non ha
natura di per sé interdittiva, ma consente
l'attivazione degli ordinari strumenti di
discrezionalità nel valutare l'avvio od il
prosieguo dei rapporti contrattuali, alla
luce dell'idoneità morale del concorrente di
assumere la posizione di contraente con la
P.A. Pertanto, essa non necessita di un
grado di dimostrazione probatoria analogo a
quello richiesto per dimostrare
l'appartenenza di un soggetto ad
associazioni malavitose, e si basa su
elementi, anche indiziari, ottenuti con
l'ausilio di particolari indagini che
possono risalire anche ad eventi datati.
L'informativa atipica consente alla stazione
appaltante, che non ha il potere né l'onere
di verificare la portata ed i presupposti
dell'informativa antimafia, di adottare un
provvedimento di diniego di stipula del
contratto o di prosecuzione del rapporto,
che risulterà sufficientemente motivato
anche per relationem, essendole
riservato un margine ristretto di
valutazione discrezionale; diversamente, il
dovere di ampia motivazione sussiste solo
nel caso in cui si opti per la prosecuzione
del rapporto per necessità della
prestazione, non altrimenti assicurabile
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 21.06.2011 n. 518 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
La partecipazione di un RTI alla
procedura indetta per l'affidamento di
appalti pubblici è subordinata alla
condizione che, la mandataria e le altre
imprese associate, siano in possesso dei
requisiti di qualificazione per la
rispettiva quota.
In base a quanto disposto dall'art. 37, c.
13, d.lg. n. 163 del 2006, deve ritenersi
sussistente un principio di "stretta
consequenzialità" fra quota di
partecipazione della singola impresa al
raggruppamento temporaneo, percentuale di
esecuzione dei lavori in appalto e
qualificazione dell'impresa.
Pertanto, la partecipazione alla procedura
indetta per l'affidamento della
realizzazione di opere pubbliche delle
associazioni temporanee è comunque
subordinata alla condizione che la
mandataria e le altre imprese associate
siano in possesso dei requisiti di
qualificazione per la rispettiva quota
percentuale. Proprio al fine di impedire la
verificazione di situazioni distorsive degli
ordinati assetti concorrenziali, si palesa,
infatti, imprescindibile l'esigenza di non
trasformare la riunione di imprese in uno
strumento elusivo delle regole impositive di
un livello minimo di capacità per la
partecipazione agli appalti.
Conseguentemente, nel caso di specie,
l'impresa doveva essere esclusa dalla gara
in quanto sprovvista della qualificazione
necessaria richiesta per la partecipazione,
a norma degli artt. 37 e dell'art. 40 del
d.lgs. n. 163/2006 (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza 20.06.2011 n. 3698 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente da una procedura d'appalto
per mancata sottoscrizione da parte del
legale rappresentante della dichiarazione
relativa agli specifici requisiti di
partecipazione.
E' legittimo il provvedimento di esclusione
da una gara, adottato da una stazione
appaltante nei confronti di una ditta che
abbia reso la dichiarazione relativa al
possesso dei requisiti di partecipazione,
priva della sottoscrizione del legale
rappresentante.
L'avviso pubblico indetto dalla stazione
appaltante, nel prevedere, tra i requisiti
richiesti per la partecipazione alla
procedura, un determinato fatturato e la
realizzazione, nel triennio precedente, di
almeno due servizi analoghi, dispone che il
possesso dei requisiti prescritti sia
attestato, a pena di esclusione, mediante
autocertificazione resa ai sensi del D.P.R.
n. 445/2000 dal legale rappresentante
dell'impresa; le autocertificazioni di cui
al predetto decreto necessitano, per la loro
giuridica esistenza ed efficacia, della
sottoscrizione del soggetto dichiarante, che
costituisce fondamentale elemento della
fattispecie normativa diretta a comprovare
l'imprescindibile nesso di imputabilità
soggettiva della dichiarazione ad una
determinata persona fisica, per cui l'avviso
pubblico ed il conseguente provvedimento di
esclusione si palesano immuni da vizi.
Peraltro, a nulla rileva la considerazione
secondo cui ci si troverebbe in una fase
embrionale della gara, giacché questo non
esonera gli aspiranti dalla richiesta
dimostrazione dei requisiti posseduti (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 20.06.2011 n. 3261 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione: anche il
proprietario non responsabile patisce la
confisca del bene.
L'articolo 31 del D.P.R. 380 del 2001
impone, a differenza di ciò che avveniva con
la precedente normativa, la notifica del
provvedimento sanzionatorio oltre che al
responsabile dell’abuso anche al
proprietario, a carico del quale sussiste
una presunzione di responsabilità per gli
abusi edilizi accertati.
Per giurisprudenza costante, la sanzione
dell'acquisizione gratuita al patrimonio
comunale “si riferisce esclusivamente al
responsabile dell’abuso e non può quindi
operare nella sfera giuridica di altri
soggetti e, in particolare, nei confronti
del proprietario dell’area quando risulti,
in modo inequivocabile, la sua completa
estraneità al compimento dell’opera abusiva”
(TAR Campania Napoli, sez. II, 26.52004, n.
8998). Pur destinatario dell’ordinanza di
demolizione, non può infatti essere
qualificato "responsabile dell’abuso"
ai sensi dell’art. 31, comma 3, il
proprietario che, non avendo la
disponibilità del bene, sia rimasto estraneo
alla perpetrazione dell’illecito, tant’è che
a questi è rimesso di sottrarsi alla
presunzione di responsabilità dimostrando la
propria estraneità rispetto all’abuso
commesso da altri (Cons. St., IV,
03.02.1996, n. 95; C. Cost., 15.07.1991, n.
345; TAR Liguria, I, 05.03.1999, n. 110),
fermo restando l'onere di segnalare
tempestivamente all’Amministrazione
l’esistenza degli interventi abusivi e
fornire alla stessa gli elementi utili
all’identificazione dei responsabili dei
predetti illeciti (TAR Piemonte, Torino,
25.03.2011, n. 278).
Peraltro, l'estraneità del proprietario (o
del titolare del diritto reale) agli abusi
edilizi commessi sulla cosa locata e
affittata dal conduttore, locatario o
affittuario non implica l'illegittimità
dell'ordinanza di demolizione o di riduzione
in pristino dello stato dei luoghi, emessa
nei confronti del responsabile dell'abuso, "ma
la sola insuscettività del provvedimento
repressivo e sanzionatorio a costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime
sulla quale insiste il bene" (TAR Lazio
Latina, sez. I, 01.09.2008, n. 1026).
Invocando il fatto che "l’inottemperanza
integra, infatti, un illecito diverso ed
autonomo dalla commissione dell'abuso
edilizio, del quale può rendersi
responsabile anche il proprietario, qualora
risulti che abbia acquistato o riacquisito
la disponibilità del bene e non si sia
attivato per dare esecuzione all'ordine di
demolizione, o qualora emerga che, pur
essendo in grado di dare esecuzione
all'ingiunzione, non vi abbia comunque
provveduto", il TAR Veneto ha tracciato
una nuova linea applicativa dell'articolo 31
del T.U. dell'Edilizia, più rigida della
precedente, affermando che il proprietario
va esente da responsabilità non in ogni caso
di abuso edilizio compiuto da terzi, "ma
nella sola ipotesi in cui il proprietario
non abbia la possibilità di ottemperare
direttamente all'ordine di demolizione, per
essere il bene nella disponibilità esclusiva
dell'autore dell'abuso", poiché diversamente
"si consentirebbe a chiunque di eludere la
sanzione alienando il bene".
L'affermazione stupisce, perché la sanzione
della demolizione non é elusa dalla diversa
titolarità, essendo in ogni caso rimesso
all'A.C. di eseguirla in danno del
proprietario, ossia con spese a suo carico.
E' vero che con la sentenza n. 345 del 1991
la Corte costituzionale ha statuito che
l'acquisizione gratuita non costituisce
sanzione accessoria alla demolizione, volta
a colpire l'esecutore delle opere abusive,
ma si configura quale sanzione autonoma che
consegue all'inottemperanza all'ingiunzione
di demolizione, ma attribuire al
proprietario non responsabile l'esito più
pesante immaginato dal legislatore per
effetto dell'inottemperanza (ossia la
confisca), non pare rispettoso del principio
di proporzionalità, cui neppure le sanzioni
edilizie sfuggono (commento tratto da
http://studiospallino.blogspot.com/ - TAR
Veneto, Sez. II,
sentenza 17.06.2011 n. 1059 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un'ATI concorrente da una gara per
mancata produzione dei certificati relativi
alla regolare esecuzione di analoghi servizi
nel precedente triennio.
L'art. 42, c. 1, lett. a), del d.lgs. n.
163/2006 prevede che, nell'ipotesi in cui si
verta in materia di servizi e forniture
prestati, come nel caso di specie, a favore
di amministrazioni od enti pubblici, la
capacità tecnica può essere dimostrata
unicamente mediante certificati rilasciati e
vistati dalle stesse amministrazioni, non
ammettendosi alcun documento sostitutivo.
Ne consegue che, è legittimo il
provvedimento di esclusione da una gara
adottato da una stazione appaltante nei
confronti di un'ATI, che abbia omesso di
presentare i certificati relativi alla
corretta esecuzione di analoghi servizi nel
precedente triennio e che abbia, peraltro,
prodotto fatture in alternativa alle
suddette certificazioni. Peraltro il potere
della stazione appaltante di richiedere una
integrazione documentale ai sensi dell'art.
46 d.lgs. n. 163/2006 è ammesso unicamente
al fine di fornire chiarimenti con
riferimento a documenti già presentati,
ovvero allo scopo di completare la
documentazione esibita, non già per
sopperire alla totale mancanza di un
documento che andava depositato entro un
termine perentorio a pena di esclusione.
Né può affermarsi che le fatture abbiano
identico valore della certificazione di
regolare esecuzione richiesta dal
disciplinare di gara, al fine della
dimostrazione della capacità tecnica. Appare
pertanto arbitraria la scelta di depositare,
in alternativa, le fatture in quanto dalla
stessa considerate atti equipollenti (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 17.06.2011 n. 920 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
URBANISTICA:
Perché un programma o piano
urbanistico debba essere assoggettato a VAS
non conta l’effettiva e significativa
incisione del bene ambiente ma solo la
possibilità di tali vulnera.
Col ricorso in esame una Onlus e due
cittadini hanno impugnato le delibere con le
quali un Comune piemontese ha approvato le
controdeduzioni alle osservazioni formulate
riguardo all’adozione di un piano
particolareggiato di edilizia privata e ha
adottato il progetto definitivo del medesimo
recante contestuale variante al PRGC.
Secondo i ricorrenti la natura strutturale
della variante avrebbe imposto la sua
sottoposizione alla procedura di valutazione
ambientale strategica (VAS), adempimento
imposto dalla D.G.R. n. 12-8931 del
09.06.2008, che dispone che la VAS “deve
essere effettuata obbligatoriamente” in
caso di varianti strutturali. Nello stesso
senso dispone anche l’art. 6, comma 1, del
Codice dell’ambiente di cui al d.lgs. n.
152/2006 a termini del quale “la
valutazione ambientale strategica riguarda i
piani e i programmi che possono avere
impatti significativi sull’ambiente e sul
patrimonio culturale”. Ambedue tali
norme sarebbero state infrante poiché la
Regione Piemonte, ha escluso la necessità di
detta procedura di verifica, pur avendo
evidenziato forti aspetti di criticità del
progetto in causa rispetto al patrimonio
ambientale. La determinazione citata sarebbe
pertanto contraddittoria.
Questa censura, ad avviso dei giudici del
Tribunale amministrativo di Torino va
disattesa poiché la norma di cui all’art. 6,
comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 è da
ascrivere al novero delle norme
precauzionali, ispirate al principio di
precauzione che nella materia ambientale ha
ottenuto sanzione di diritto positivo ad
opera del recepimento, da parte del d.lgs.
n. 152/2006, delle varie direttive
comunitarie che lo avevano elevato al rango
di principio fondamentale nella materia
dell’ambiente.
Il principio di precauzione traduce in
sostanza quello che a partire dal Protocollo
di Kyoto gli Stati contemporanei vogliono
sia l’atteggiamento delle Amministrazioni
pubbliche preposte alla tutela dell’ambiente
nei confronti di questo patrimonio
dell’umanità e si sostanzia in un insieme di
regole e prescrizioni, di carattere
sostanziale ma anche procedurale, intese a
scoraggiare comportamenti anche solo
potenzialmente idonei ad arrecare vulnera
all’ambiente e al paesaggio. Non richiede la
norma, a parere dei giudici sabaudi,
un’idoneità in atto ma solo in potenza,
della singola iniziativa urbanistica,
inserita in un contesto di pianificazione o
programmazione, ad incidere il bene
ambiente.
Invero, la lettera della legge si esprime
significativamente nei termini di “possono”
avere impatti significativi sull’ambiente.
Il tutto, intuitivamente, sempre che gli
impatti che l’iniziativa urbanistica può
avere sul bene ambiente e sul patrimonio
culturale siano “significativi”, ché,
altrimenti, qualunque attività edificatoria
connessa all’adozione di varianti
strutturali al PRG, siccome un qualche
impatto sull’ambiente indubbiamente
possiede, dovrebbe, irragionevolmente ed in
violazione del principio di proporzionalità
comunitaria, essere sottoposta a valutazione
ambientale strategica.
Va rammentato, proseguono i giudici
piemontesi, che è la stessa direttiva
27.06.2001, n. 42 CE, cui si è data
attuazione con il D.Lgs. n. 152/2006 a
stabilire che i piani urbanistici che
determinano l’interessamento di piccole aree
a livello locale o modifiche minori ai piani
stessi, siano assoggettate a valutazione
ambientale strategica soltanto in
conseguenza dei possibili effetti ancora “significativi
sull’ambiente” (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 17.06.2011 n. 657 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICA:
Votazione dello strumento
urbanistico - Consiglieri in posizione di
conflitto di interessi - Approvazione per
parti separate - Legittimità - Votazione
finale dello strumento nella sua interezza.
Con riguardo agli effetti dell’obbligo di
astensione in sede di votazione dello
strumento urbanistico dei consiglieri in
posizione di conflitto di interessi ai sensi
dell’art. 78, d.lgs. nr. 267 del 2000, deve
ritenersi legittima -al fine di evitare
difficoltà insormontabili nei Comuni di
medie e piccole dimensioni- un’approvazione
dello strumento urbanistico per parti
separate, con l’astensione per ciascuna di
esse di coloro che in concreto vi abbiano
interesse, purché a ciò segua una votazione
finale dello strumento nella sua interezza;
in tale ipotesi a quest’ultima votazione non
si applicano le cause di astensione, dal
momento che sui punti specifici oggetto del
conflitto di interesse si è già votato senza
la partecipazione dell’amministratore in
conflitto (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
22.06.2004, nr. 4429) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 16.06.2011 n. 3663 -
link a www.dirittoambiente.it). |
URBANISTICA:
Pianificazione attuativa -
Quantificazione della capacità edificatoria
- Discrezionalità dell’amministrazione.
La quantificazione della capacità
edificatoria da assegnare alle singole aree
in sede di pianificazione attuativa rientra
nella discrezionalità che, anche in tale
sede, connota la potestà pianificatoria, non
essendo ricavabile da alcuna disposizione o
principio un obbligo di riconoscere uno actu
l’intera volumetria edificabile prevista in
astratto dallo strumento urbanistico
generale (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2011 n. 3663 -
link a www.dirittoambiente.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La legittimazione processuale
delle associazioni di tutela ambientale è
circoscritta alle sole associazioni
riconosciute ai sensi dell’art. 13 della
legge 08.07.1986 n. 349.
Va richiamato l’orientamento della Sezione
recentemente ribadito, secondo cui la
speciale legittimazione processuale
conferita dall’art. 18 della legge
08.07.1986, nr. 349, alle associazioni di
tutela ambientale è da intendersi
rigorosamente circoscritta alle sole
associazioni riconosciute ai sensi dell’art.
13 della medesima legge, dovendo escludersi
la perdurante validità della possibilità –un
tempo riconosciuta dalla giurisprudenza– di
attribuire una legittimazione de facto a
qualsiasi soggetto collettivo il quale
dimostrasse di possedere determinati
requisiti in termini di radicamento sul
territorio: ciò in quanto, una volta che è
intervenuto il legislatore a colmare il
deficit di tutela dei richiamati interessi “diffusi”,
la legittimazione discende direttamente
dalla legge in capo ai soggetti rientranti
nella previsione ex art. 13, e non può
essere estesa anche a soggetti estranei ad
essa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011,
nr. 1876)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2011 n. 3662 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
La sopravvenuta carenza di
interesse all’impugnazione può conseguire a
qualsiasi mutamento della situazione di
fatto, oltre che di quella di diritto,
purché idoneo a rendere certa e definitiva
la privazione di qualsiasi utilità, anche
indiretta o strumentale, in capo
all’originario ricorrente per effetto di un
ipotetico accoglimento della sua domanda.
Va innanzi
tutto richiamato il consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui la
sopravvenuta carenza di interesse
all’impugnazione può conseguire a qualsiasi
mutamento della situazione di fatto, oltre
che di quella di diritto, purché idoneo a
rendere certa e definitiva la privazione di
qualsiasi utilità, anche indiretta o
strumentale, in capo all’originario
ricorrente per effetto di un ipotetico
accoglimento della sua domanda (cfr. ex
plurimis Cons. Stato, sez. V,
10.09.2010, nr. 6549; id., 13.07.2010, nr.
4540; id., 11.05.2010, nr. 2833).
Ne discende che, ai fini del verificarsi
della situazione sopra richiamata, non è
indispensabile che il provvedimento
originariamente impugnato sia sostituito da
un nuovo provvedimento definitivo, bastando
che sia comunque certo il definitivo
superamento della sua possibile efficacia,
in modo da determinare la suindicata
privazione di utilità dell’impugnazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2011 n. 3662 -
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APPALTI:
Alcuni elementi dell'informativa
antimafia non valsi ad accertare la
sussistenza di un reato possono essere
suscettibili di diversa valutazione in sede
amministrativa.
I termini della discrezionalità attribuita
all’Amministrazione in ordine al rilascio di
informative antimafie sono stati precisati
da orientamento, invero pacifico, di questa
Sezione, del quale è espressione, ad
esempio, la decisione 14.04.2009, n. 2276,
con la quale è stato affermato che
l'informativa antimafia, emessa ai sensi
dell'art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R.
252/1998, prescinde completamente da ogni
provvedimento penale a carico degli
appartenenti all'impresa (sia pure di
carattere preventivo o anche assolutorio), e
si giustifica considerando il pericolo
dell'infiltrazione mafiosa, che non deve
essere immaginifico né immaginario, ma
neppure provato, purché sia fondato su
elementi presuntivi e indiziari, la cui
valutazione è rimessa alla lata
discrezionalità del prefetto, sindacabile in
sede di legittimità sotto il profilo della
illogicità, incoerenza o inattendibilità.
Pur se non è accettabile, in presenza di
elementi indiziari evanescenti, che venga
enfatizzato il rischio di infiltrazione
mafiosa al fine di emettere una informativa
antimafia, non è altrettanto accettabile che
lo stesso rischio venga sottovalutato
perché, in sede penale, non sono stati
accertati elementi sufficienti per affermare
la responsabilità penale.
Pertanto, l'informativa antimafia non
risponde a finalità di accertamento di
responsabilità, ma ha carattere
accentuatamente preventivo-cautelare, con la
conseguenza che elementi, che, in sede
penale, non sono valsi ad accertare la
sussistenza di un reato, possono ben essere
suscettibili di diversa valutazione in sede
amministrativa, al fine di fondare un
giudizio di possibilità che l'attività
considerata possa subire condizionamenti da
soggetti legati alla criminalità
organizzata.
Deve dunque concludersi nel senso che il
prefetto, nel rendere le informazioni
antimafia richieste ai sensi dell'art. 10,
comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252 del 1998,
non deve basarsi necessariamente su
specifici elementi, ma deve effettuare la
propria valutazione sulla scorta di uno
specifico quadro indiziario, ove assumono
rilievo preponderante i fattori induttivi
della non manifesta infondatezza che i
comportamenti e le scelte dell'imprenditore
possano rappresentare un veicolo di
infiltrazione delle organizzazioni criminali
negli appalti delle pubbliche
amministrazioni, per cui il sindacato del
giudice amministrativo non può impingere nel
merito, restando, di conseguenza,
circoscritto a verificare sotto il profilo
della logicità, il significato attribuito
agli elementi di fatto e l'iter seguito per
pervenire a certe conclusioni, anche perché
le informative prefettizie in questione
costituiscono esplicazione di lata
discrezionalità, non suscettibile di
sindacato di merito in assenza di elementi
atti a evidenziare profili di deficienza
motivazionale, di illogicità e di
travisamento (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3647 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Lo Stato determina, con criteri
unitari, i limiti di esposizione, i lavori
di attenzione e gli obiettivi di qualità
delle infrastrutture di reti di
telecomunicazione.
Con la legge 01.08.2002, n. 166, in
esecuzione delle direttive 2002/19/CE,
2002/20/CE, 2002/21/CE e 2002/22/CE, del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
07.03.2002, la disciplina della copertura
del sistema di comunicazioni mediante
telefonia mobile è stata accentrata presso
lo Stato, che ha posto la disciplina
specifica con il d.lgs. 01.08.2003, n. 259,
emanato in attuazione della delega contenuta
nell’art. 41 della predetta legge n. 166.
In questo quadro, la scelta di inserire le
infrastrutture di reti di telecomunicazione
fra le opere di urbanizzazione primaria
esprime un principio fondamentale della
legislazione urbanistica, come tale di
competenza dello Stato (Cons. Stato, VI,
27.12.2010, n. 9404).
Di conseguenza, il potere a contenuto
pianificatorio dei comuni di fissare, ai
sensi dell'art. 8, u.c., della citata l. n.
36 del 2001, criteri localizzativi per
assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici non si può mai
tradurre nel potere di sospendere la
formazione dei titoli abilitativi formati o
in corso di formazione ai sensi degli artt.
86 e 87 Codice delle comunicazioni
elettroniche. La citata potestà dei Comuni
deve tradursi in regole ragionevoli,
motivate e certe, poste a presidio di
interessi di rilievo pubblico, ma non può
tradursi in un generalizzato divieto di
installazione in zone urbanistiche
identificate.
Tale previsione verrebbe infatti a
costituire un'inammissibile misura di
carattere generale, sostanzialmente
cautelativa rispetto alle emissioni
derivanti dagli impianti di telefonia
mobile, in contrasto con l'art. 4, l. n. 36
del 2001, che riserva alla competenza dello
Stato la determinazione, con criteri
unitari, dei limiti di esposizione, dei
lavori di attenzione e degli obiettivi di
qualità, in base a parametri da applicarsi
su tutto il territorio dello Stato (Cons.
Stato, VI, 27.12.2010, n. 9414) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3646 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sul diritto di riscatto degli
impianti di pubblica illuminazione da parte
del comune nel caso di scadenza del
precedente rapporto di concessione.
Non è possibile procedere contestualmente
all'esercizio del riscatto e alla indizione
di una gara.
L'art. 24 del r.d. 15.10.1925 n. 2578,
secondo cui il potere di riscatto deve
essere esercitato con il preavviso di un
anno, trova applicazione per le concessioni
di servizi già affidati ai privati che
vengono a risolversi prima della naturale
scadenza contrattuale. Nel caso di specie,
l'originaria concessione trentennale degli
impianti di pubblica illuminazione, affidata
all'appellante senza gara, era scaduta al
momento dell'esercizio del riscatto e non
poteva considerarsi tacitamente prorogata in
base ad una apposita clausola della
convenzione, in quanto prima della scadenza
era entrato in vigore l'art. 6 della l.
24.12.1993 n. 537, che ha introdotto il
divieto di rinnovo tacito dei contratti
delle pubbliche amministrazioni per la
fornitura di beni e servizi, con la
previsione -inserita in sede di successive
modifiche- della nullità dei contratti
stipulati in violazione del predetto
divieto. Pertanto, a seguito dell'entrata in
vigore della citata disposizione non possono
sopravvivere le clausole di rinnovo tacito
di contratti o convenzioni, potendo al
massimo porsi la questione della possibilità
di procedere -in base a clausole espresse-
al rinnovo con provvedimento esplicito.
L'esercizio del riscatto non è in alcun modo
subordinato al previo raggiungimento di un
accordo tra le parti sullo stato di
consistenza o sulla quantificazione
dell'indennizzo, dovendosi altrimenti
giungere alla irragionevole conclusione che
la parte privata avrebbe la possibilità di
impedire in fatto il riscatto non
accordandosi con l'amministrazione.
Il riscatto e l'effettiva consegna degli
impianti non può che precedere il successivo
affidamento del servizio essendo
tecnicamente difficile, se non impossibile,
immaginare l'indizione di una gara
contestualmente al provvedimento di
riscatto, senza avere certezze sui tempi di
esecuzione del provvedimento, sulla
consistenza dei beni e, quindi, su elementi
in base ai quali vanno redatti gli atti
della gara (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.06.2011 n. 3607 -
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APPALTI SERVIZI:
In capo agli enti locali permane
la facoltà di riscattare la proprietà degli
impianti di illuminazione pubblica.
La pronuncia in commento si conforma a
quella del Tar per la Lombardia, sezione di
Brescia, che aveva respinto in primo grado
un ricorso contro gli atti con cui un comune
aveva esercitato il riscatto degli impianti
di pubblica illuminazione, in precedenza
gestiti dalla società ricorrente.
L’oggetto del giudizio era costituito dalla
contestazione da parte di quest’ultima,
titolare del servizio di gestione degli
impianti di illuminazione pubblica situati
nel comune appellato, degli atti con cui lo
stesso comune aveva deciso di esercitare il
riscatto degli impianti ai sensi del R.D. n.
2578/1925 e del d.P.R. n. 902/1986. Il
giudice di primo grado ha ritenuto vigente
la normativa in materia di riscatto degli
impianti di cui al R.D. 15.10.1925 n. 1568
ed al d.P.R.. n. 902/1986 mentre la società
contestava tali statuizioni e sosteneva che
la citata normativa avente ad oggetto
l’esercizio del riscatto sarebbe stata
implicitamente abrogata.
Sul punto i giudici del consiglio di Stato
rilevano che, come correttamente rilevato
dal Tar, la facoltà di riscatto non è stata
abrogata dalla normativa sopravvenuta, ma è
tuttora riconosciuta dall’ordinamento al
fine di garantire al Comune la possibilità
di individuare, attraverso una gara
pubblica, il soggetto migliore cui affidare
la gestione del servizio mediante
concessione.
La finalità del riscatto non è, quindi,
unicamente quella di consentire ai comuni
l’assunzione diretta dei servizi, ma anche,
e oggi soprattutto se non esclusivamente,
quella di garantire la disponibilità degli
impianti in modo da individuare la migliore
modalità di gestione attraverso l’indizione
di una pubblica gara, specie per affidamenti
disposti oltre trenta anni fa senza alcuna
procedura di evidenza pubblica.
In sede cautelare, gli stessi giudici
avevano già rilevato che la normativa in
materia di riscatto degli impianti di cui al
R.D. 15.10.1925, n. 1568 ed al D.L. n.
902/1986 non risulta implicitamente abrogata
per effetto della sopravvenuta disciplina
poi recepita dal T.U. n. 267/2000 nella
misura in cui mira all’assicurazione, in
capo agli enti locali, della proprietà degli
impianti costituente presupposto
indefettibile per l’indizione della
procedura per l’affidamento del servizio
pubblico ovvero per la relativa assunzione
in house, (Consiglio di Stato, V, ord.
12.12.2008 n. 6639, in cui è stato affermato
anche che la giurisprudenza in senso
contrario riguardante il diverso settore del
gas, non è analogicamente estensibile alla
fattispecie qui in esame).
Segnalano, inoltre, i giudici d’appello che
pur se riguardante il diverso settore del
gas, anche la giurisprudenza costituzionale
conferma che il riscatto è uno strumento
finalizzato alla riorganizzazione del
servizio in vista di un assetto più
confacente alle esigenze della collettività
(Corte Cost., 14.05.2008 n. 132).
In definitiva, deve ritenersi che permane,
in capo agli enti locali, la facoltà di
riscattare la proprietà degli impianti di
illuminazione pubblica ai sensi della citata
normativa (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 14.06.2011 n. 3606 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sussiste l'obbligo, in capo alla
cessionaria di un ramo d'azienda, di
presentare le dichiarazioni di cui all'art.
38 del d.lgs. n. 163/2006, anche in
relazione agli amministratori dell'impresa
cedente cessati dalla carica.
Sussiste l'obbligo in capo alla cessionaria
di un ramo d'azienda, di presentare le
dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs.
n. 163/2006, anche in relazione agli
amministratori dell'impresa cedente cessati
dalla carica, in quanto, se da un lato
appare evidente la ratio dell'art.
38, lett. c), volta a premiare attività
imprenditoriali rispettose della legalità,
d'altra parte, risulta ipotesi probabile
l'elusione dei divieti di partecipazione
alle pubbliche gare, perseguita mediante
mirate operazioni di scorporo portate a
termine, con l'accordo di assetti
proprietari compiacenti, al fine di
consentire nell'ambito della compagine
societaria cessionaria, la partecipazione
alle gare pubbliche da parte di complessi
aziendali che, diversamente, sarebbero
rimasti nella disponibilità di imprese
cedenti che non erano in possesso dei
requisiti di moralità prescritti dal
summenzionato art. 38 (Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 13.06.2011 n. 3580 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Progettazioni, largo all'in house. Il
Tar Toscana dice sì agli affidamenti.
È legittimo l'affidamento di attività di
progettazione da parte di un ente locale ad
una società in house, anche se costituita
per lo svolgimento di servizi pubblici
locali; la società in house, costituita
dall'ente locale, deve essere considerata
stazione appaltante e deve affidare
eventuali incarichi a terzi seguendo le
procedure del Codice e del regolamento.
E' quanto afferma il TAR Toscana, Sez. I,
con la
sentenza
13.06.2011 n. 1041, sul ricorso
presentato da un Ordine provinciale che
aveva eccepito la presunta illegittimità di
un affidamento di progettazione ad una
società in house di un ente locale,
costituita per la gestione di servizi
pubblici locali.
Il Tar in primo luogo chiarisce che l'art.
90 del Codice dei contratti pubblici ammette
che le amministrazioni pubbliche possano
svolgere progettazione di opere pubbliche
mediante affidamento ad una società in house
della stazione appaltante che viene a
configurarsi come un proprio ufficio
tecnico. Tutto ciò presuppone, però, che
sulla società medesima il comune eserciti un
controllo penetrante (il cosiddetto «controllo
analogo»), il quale esclude che la
società in house essa possa operare
autonomamente. Inoltre, il fatto che
l'ufficio tecnico della società operi
unicamente a favore dell'affidante e sotto
il suo diretto controllo, porta ad escludere
che nella fattispecie si sia realizzato un
affidamento esterno da parte della stazione
appaltante, violando il Codice dei contratti
pubblici.
Da ciò deriva che tale società deve essere
ricompresa nel concetto di stazione
appaltante «poiché quest'ultima non si
configura quale soggetto esterno
all'amministrazione medesima ma,
analogamente ai suoi uffici interni, ne
rappresenta una parte integrante, sia pure
giuridicamente separata». Pertanto se la
società in house dovesse successivamente
affidare a terzi incarichi di progettazione
sarà comunque tenuta ad applicare le norme
del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre il Tar chiarisce che è del tutto
irrilevante che la società in house
sia stata costituita dal comune per lo
svolgimento di servizi pubblici locali nei
quali non sono comprese le attività di
progettazione delle opere pubbliche, né la
direzione lavori né il collaudo dette
stesse: «la normativa sui servizi
pubblici locali non esclude che la società
la quale gestisca un servizio pubblico
locale possa svolgere anche altre attività»,
fra cui anche la progettazione
(articolo ItaliaOggi
del 23.06.2011). |
APPALTI:
Il recapito dell’offerta è a
rischio dell’impresa. Il principio di
massima partecipazione alle gare pubbliche
deve essere contemperato con quello relativo
alla par condicio dei partecipanti, che
richiede il rispetto delle disposizioni
stabilite dalla legge di gara a pena di
esclusione.
Per cui, è legittima l'esclusione
dell'offerta pervenuta alle ore 12,06
(anziché le ore 12,00) all'ufficio
protocollo comunale.
E’ noto il principio per cui il recapito
dell’offerta è a rischio dell’impresa (Tar
Latina, 11.07.2005 n. 588). Nella
fattispecie, il disciplinare chiariva che
l’offerta doveva giungere all’Ufficio
Protocollo del Comune entro le ore 12. La
ricorrente non è in grado di fornire alcuna
prova che il plico sia giunto presso
l’Ufficio entro le ore 12, in quanto la
firma sulla ricevuta di consegna non
appartiene ad alcun impiegato del Comune,
come certificato dal Comune stesso e non
contestato efficacemente dalla ricorrente.
A questo punto, poco importa se sia corretta
o meno la ricostruzione resa del Comune
medesimo, la quale sostiene come il plico
sia stato lasciato sul tavolo di un
impiegato ipovedente (comunque già dopo le
12) e immediatamente consegnato, alle 12.06,
all’Ufficio Protocollo, senza che alcuna
firma fosse posta sulla ricevuta di
consegna.
La circostanza che la firma apposta sulla
ricevuta non solo non appartenga ad un
impiegato addetto al ricevimento dei plichi,
ma addirittura ad alcun impiegato del
Comune, rende le affermazioni della
ricorrente sull’orario di ricevimento del
plico prive di qualsiasi prova e rende
superflua l’istanza di disconoscimento della
firma depositata dal Comune. Ciò, in
particolare, considerando che il
disciplinare stabilisce come il plico
dovesse essere recapitato, a pena di
esclusione, presso l’Ufficio Protocollo del
Comune all’ora indicata.
Conseguentemente:
- il disciplinare è chiaro nello stabilire
che il plico dovesse essere consegnato a un
ufficio determinato, a pena di esclusione.
- non vi è, in ogni caso, alcuna prova che
un altro ufficio del Comune abbia preso in
carico il plico in precedenza, dato che il
cognome sulla ricevuta del corriere non
appartiene ad alcun impiegato del Comune e
la ricorrente non è stata in grado di
contestare tale circostanza.
- la circostanza che l’offerta sia giunta
all’Ufficio Protocollo alle 12.06 e non
prima è indicata chiaramente negli impugnati
provvedimenti che non vengono contestati
efficacemente dalla ricorrente, che si è
assunta il rischio della consegna tramite
corriere nell’ultimo giorno utile previsto
dal disciplinare. L’unica cosa provata è che
alle 11.56 un tale Zanoti ha firmato, in
luogo imprecisato la ricevuta di consegna.
Tale attestazione non è sufficiente a
superare le chiare previsioni dell’art. 8
del disciplinare di gara.
Le censure contro i provvedimenti impugnati
debbono quindi essere respinte, considerato
che la ricorrente non è in grado di provare
la consegna tempestiva della offerta (della
quale si era assunta il rischio) e che il
principio di massima partecipazione alle
gare pubbliche deve essere contemperato con
quello relativo alla par condicio dei
partecipanti, che richiede il rispetto delle
disposizioni stabilite dalla legge di gara a
pena di esclusione (CdS sez. V 13.01.2005 n.
82)
(TAR Marche,
sentenza 13.06.2011 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Non va esclusa dalla gara
l'impresa il cui legale rappresentante non
ha presentato, in uno all'offerta economica,
copia del documento di identità, qualora il
disciplinare di gara abbia operato una
chiara diversificazione tra le due
sottoscrizioni (quella relativa alla domanda
di partecipazione e quella relativa
all'offerta economica), imponendo la
produzione della copia del documento di
identità del sottoscrittore solo per la
domanda di partecipazione, senza richiederla
anche per l'offerta economica.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio,
pur chiarendo che è del tutto legittima la
clausola della legge di gara che imponga
l’allegazione della copia fotostatica di un
documento di identità all’offerta, ha
chiarito come non vada esclusa dalla gara
l'impresa il cui legale rappresentante non
ha presentato, in uno all'offerta economica,
copia del documento di identità, qualora il
disciplinare di gara abbia operato una
chiara diversificazione tra le due
sottoscrizioni (quella relativa alla domanda
di partecipazione e quella relativa
all'offerta economica), imponendo la
produzione della copia del documento di
identità del sottoscrittore solo per la
domanda di partecipazione, senza richiederla
anche per l'offerta economica (Tar Sicilia
Palermo 10.03.2010 n. 2648)
(TAR Marche,
sentenza 13.06.2011 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
L'indennità di vigilanza prevista
dall'art. 34, comma 1, lettera a), del
d.p.r. n. 268/1987 non spetta ai tecnici
comunali che esplicano attività di vigilanza
in materia edilizia o urbanistica, poiché la
detta indennità non costituisce un
emolumento accessorio allo stipendio dei
dipendenti degli enti locali, ma il
trattamento riservato solo a formali
qualifiche funzionali di inquadramento,
aventi ad oggetto la specifica prestazione
lavorativa; ne consegue che essa, pertanto,
spetta solo al personale compreso nell'area
di vigilanza, in possesso dei requisiti di
cui agli articoli 5 e 10, l. 07.03.1986 n.
65 e, quindi, al personale che presta
servizio di polizia municipale nel corpo dei
vigili urbani.
La giurisprudenza amministrativa (Tar
Calabria Catanzaro, 24.05.200 n. 600, Tar
Liguria 14.09.2001 n. 626, Tar Basilicata
16.12.2008 n. 953 e 13.06.2002 n. 471) ha
stabilito che l'indennità di vigilanza
prevista dall'art. 34, comma 1, lettera a),
del d.p.r. n. 268/1987 non spetta ai tecnici
comunali che esplicano attività di vigilanza
in materia edilizia o urbanistica, poiché la
detta indennità non costituisce un
emolumento accessorio allo stipendio dei
dipendenti degli enti locali, ma il
trattamento riservato solo a formali
qualifiche funzionali di inquadramento,
aventi ad oggetto la specifica prestazione
lavorativa; ne consegue che essa, pertanto,
spetta solo al personale compreso nell'area
di vigilanza, in possesso dei requisiti di
cui agli articoli 5 e 10, l. 07.03.1986 n.
65 e quindi al personale che presta servizio
di polizia municipale nel corpo dei vigili
urbani.
Da ciò discende che figure tipiche di tale
area sono solo gli appartenenti al corpo dei
vigili urbani e al personale ispettivo, ma
non certamente i tecnici comunali addetti
all’edilizia e all’urbanistica, i quali
rientrano nella diversa area tecnica e
tecnico progettuale, essendo connotato
fondamentale e caratterizzante di dette
figure lo svolgimento di mansioni di
carattere tecnico.
Neppure potrebbero assumere rilevanza
eventuali mansioni svolte di fatto dai
dipendenti, atteso che l'individuazione dei
destinatari dell'indennità di vigilanza è
definita dalla norma citata in modo chiaro e
univoco (appartenenti all'area di vigilanza
e della polizia urbana), con la conseguenza
che si deve escludere che si tratti di un
emolumento accessorio o che abbiano
rilevanza le funzioni di fatto svolte (cfr.
la giurisprudenza citata)
(TAR Marche,
sentenza 13.06.2011 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La natura vincolata dell'atto di
recupero di somme erroneamente corrisposte
dall'Amministrazione esclude che la mancata
comunicazione di avvio del procedimento
integri un motivo di illegittimità.
La ripetizione di somme erogate in eccedenza
si configura come atto dovuto alla luce
dell'art. 2033 c.c., salvo il limite della
prescrizione e della rateazione, onde non
incidere per condizioni di onerosità sulle
esigenze di vita del dipendente interessato,
e non richiede una puntale motivazione sulle
ragioni di interesse pubblico del recupero
Con riguardo alle dedotte censure relative
alla mancata comunicazione di avvio del
procedimento e al difetto di motivazione,
anche esse sono infondate. Infatti:
a) la natura vincolata dell'atto di recupero
di somme erroneamente corrisposte
dall'Amministrazione esclude che la mancata
comunicazione di avvio del procedimento
integri un motivo di illegittimità (CdS sez.
VI, 17.06.2009 n. 3950).
b) la ripetizione di somme erogate in
eccedenza si configura come atto dovuto alla
luce dell'art. 2033 c.c., salvo il limite
della prescrizione e della rateazione (qui
pacificamente rispettato), onde non incidere
per condizioni di onerosità sulle esigenze
di vita del dipendente interessato, e non
richiede una puntale motivazione sulle
ragioni di interesse pubblico del recupero (Cds
sez. VI, 24.11.2010 n. 8215)
(TAR Marche,
sentenza 13.06.2011 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Inammissibile l’istanza di
accesso per un controllo generalizzato su
come ha operato la pubblica
amministrazione.
“Ritiene la Sezione che nel caso di
specie il diniego dell’amministrazione è
conforme al disposto dell'art. 24, comma, 1
lett. c), della l. n. 241 del 1990.
Va stigmatizzato che la richiesta di accesso
di cui è causa risulta caratterizzata da una
formulazione assolutamente generica, con una
connotazione chiaramente politico-sindacale,
ossia riguardante, non specifici atti o
provvedimenti esistenti o comunque di facile
individuazione, bensì la intera
documentazione di un'attività svoltasi
attraverso un imprecisato numero di atti e
che comunque importerebbe un'opera di
ricerca, catalogazione, sistemazione che non
rientra nei doveri posti all'amministrazione
dalla normativa di cui al capo V l. n. 241
del 1990, oltre che un generalizzato
controllo su un ramo dell'amministrazione.
Si aggiunga poi che l’art. 24 della legge
241 del 1990 alla lettera c) esclude il
diritto di accesso “nei confronti
dell'attività della pubblica amministrazione
diretta all'emanazione di atti normativi,
amministrativi generali, di pianificazione e
di programmazione, per i quali restano ferme
le particolari norme che ne regolano la
formazione”.
Sotto altro profilo la istanza della
appellante è palesemente finalizzata ad un
controllo preordinato all’operato delle
pubbliche amministrazioni, in sostanza ad un
controllo ispettivo che la giurisprudenza di
questo Consiglio di Stato ha da tempo
ritenuto inammissibile. Si aggiunga infine
che l’istituto dell’accesso non può essere
utilizzato allo scopo di promuovere la
costituzione di nuovi documenti con le
informazioni richieste od ottenere
informazioni sullo stato di un procedimento.
La ricorrente nella sua istanza ha omesso di
indicare alcun documento amministrativo nei
cui confronti esercitare l’accesso ma ha
chiesto di conoscere e verificare il
processo di formazione delle tariffe che,
contrariamente a quanto ritenuto, non
risulta in alcun atto diverso dalle tariffe
stesse come approvate con apposite delibere
pubblicate. Pertanto quello che a ben vedere
la ricorrente chiede, non è la ostensione di
documenti, ma di porre in essere una
attività di elaborazione ad hoc di
dati del tutto inammissibile (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3457 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Albergo o attrezzature
industriali? Dipende dalla ricettività.
Non vi può essere alcuna
equiparazione tra attrezzatura di interesse
generale ed attrezzatura al supporto
dell'industria atteso che la struttura
avente caratteristiche di albergo o comunque
di ricettività rientra in un autonoma
categoria, quella, appunto alberghiera,
destinata ad attività turistica ed
interessante un settore economico ben
specifico, sì da non potersi equiparare con
gli impianti di tipo industriale.
Allorquando un provvedimento amministrativo
è fondato su una pluralità di autonomi
motivi, la legittimità di uno solo di essi è
sufficiente a sorreggerlo, cosicché
l'eventuale illegittimità di uno solo o più
degli altri motivi non basta a determinare
l'illegittimità del medesimo provvedimento.
Non vi può essere alcuna equiparazione tra
attrezzatura di interesse generale ed
attrezzatura al supporto dell'industria
atteso che la struttura avente
caratteristiche di albergo o comunque di
ricettività rientra in un autonoma
categoria, quella, appunto alberghiera,
destinata ad attività turistica ed
interessante un settore economico ben
specifico, sì da non potersi equiparare con
gli impianti di tipo industriale.
Nel caso in esame il complesso
polifunzionale oggetto del progettato
intervento consiste in modo prevalente in
una struttura alberghiera e/o ricettiva, del
genere di quelle che per previsione di Piano
non possono essere ospitate nell'area de
qua, destinata ad altri tipi di strutture,
quelle, appunto, costituenti attrezzature al
servizio di impianti produttivi.
Invero, come evincibile dalla documentazione
tecnica inerente la pratica, ben quattro
piani su sette sono costituiti da camere con
bagno, di talché appare esatta la
qualificazione di struttura alberghiera
formulata dall'Amministrazione che, in
quanto tale, può essere realizzata in aree
inserite in apposita differente zona.
Il potere esercitato in tema di rilascio di
titoli abilitativi dello jus aedificandi
comporta unicamente un'attività di verifica
della conformità urbanistico-edilizia delle
richieste avanzate dai privati.
Nella fattispecie all'esame ciò è
puntualmente riscontrabile, atteso che
l'Amministrazione si è determinata in
maniera negativa, una volta appurata in sede
di attività istruttoria, con l'acquisizione
dei relativi accertamenti e pareri, la non
conformità delle realizzande opere edilizie
con la normativa urbanistica vigente.
Tale valutazione era ed è condizione
sufficiente a sorreggere il diniego del
richiesto permesso di costruire senza che
l'Amministrazione abbia l'onere di fornire
ulteriori spiegazioni rispetto alle ragioni
compiutamente esposte nei provvedimenti
impugnati (commento tratto da www.ipsoa.it -
Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.06.2011 n. 3382 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Offerte anomale, no alla
congruità de relato.
Nel caso in esame, dopo
una lunga analisi, i giudici amministrativi
affermano che i sospetti di anomalia sono
avallati dalla mancata indicazione dei costi
per la formazione retribuita al personale e
per i 25 operatori "jolly" utilizzati; per i
primi, in particolare, il Tribunale si
richiama alla relazione dell'esperto
incaricato dall'amministrazione. Fuorviante
è il richiamo della ricorrente all'offerta
economica e ai costi del precedente appalto
(alla stessa aggiudicato) poiché da un lato
il Comune ha correttamente rilevato la
maturazione di scatti di anzianità e
l'incidenza (allora non prevista) del costo
del pasto.
E' certamente di rilevante interesse la
recente
sentenza 13.05.2011 n. 693 del
TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sulla
ratio del procedimento di verifica della
congruità dell'offerta anomale.
La vicenda nasce a seguito di un ricorso
presentato da una ditta partecipante ad una
procedura aperta indetta da un ente locale
lombardo per l'aggiudicazione del servizio
di assistenza e di integrazione scolastica
degli alunni disabili nelle scuole e nei
centri estivi per il periodo
01/09/2010-31/08/2014. Il sistema di
aggiudicazione previsto era quello
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
mentre l'importo contrattuale stimato era di
quasi € 8.000,00.
Dopo l'aggiudicazione provvisoria disposta a
favore della ricorrente (una Associazione
Temporanea di Impresa) , con nota
dell'agosto 2010 la stazione appaltante
attivava la procedura di verifica
dell'anomalia. L'ATI aggiudicataria esibiva
il prospetto di scomposizione del prezzo
offerto, che dava conto di un costo
sostenuto per il personale suddiviso per
categoria.
Erano, altresì, indicati i costi per la
sicurezza e la formazione, gli altri costi e
i costi generali. Dopo un nutrito scambio di
corrispondenza e un incontro in
contraddittorio, l'amministrazione adottava
l'atto impugnato, che si fonda
sull'inverosimiglianza dell'utilizzo di
contratti a tempo determinato per un
rapporto di durata quadriennale e sul
mancato riscontro economico.
Cenni sulle offerta
anomale.
Una delle patologie piuttosto frequenti nel
sistema degli appalti di opere pubbliche
consiste nell'anomalia delle offerte. Il
criterio di aggiudicazione al prezzo più
basso, dovuto in particolare modo
all'eccessiva rigidità e all'assenza di
discrezionalità in capo all'amministrazione
presenta in molti casi il rischio
dell'anomalia dell'offerta.
Tale situazione si verifica sovente in
seguito al fatto che la ditta cerca ad ogni
costo di aggiudicarsi l'appalto arrivando
spesso, a formulare offerte, che in maniera
piuttosto evidente, non coprono neppure i
costi. E' definita quindi offerta anomala "quell'offerta
che, pur soddisfacendo l'esigenza di
aggiudicare l'appalto al prezzo più basso
possibile, tuttavia, proprio a causa
dell'eccessivo ribasso non è in grado di
assicurare da parte del soggetto
aggiudicatario il corretto e integrale
soddisfacimento delle prestazioni
contrattuali prefissate, con conseguenti
danni all'interesse pubblico alla migliore e
più celere esecuzione dell'appalto".
Questo fenomeno trova le sue radici
soprattutto nella carenza normativa
contenuta nella legge quadro dei lavori
pubblici (legge 11.02.1994, n. 109), vuoto
normativo che in parte il legislatore ha
tentato di colmare con la legge di
conversione n. 216 del 02.06.1995, del
decreto legge n. 101/1995, meglio conosciuta
come Merloni-bis. Il nuovo codice sugli
appalti, di cui al D.Lgs. 163/2006 e s.m.i.
con riferimento al problema delle offerte
anomale interviene cercando di definirne i
criteri di individuazione.
In particolare l'articolo 87 del nuovo testo
sugli appalti individua, a titolo
esemplificativo, le possibili
giustificazioni, al riguardo, che possono
essere:
- l'economia del procedimento di
costruzione, del processo di fabbricazione,
del metodo di prestazione del servizio;
- le soluzioni tecniche adottate;
- le eccessivi condizioni di favore che la
società offerente dispone per eseguire i
lavori, per fornire i prodotti o per
prestare i servizi;
- l'originalità del progetto, dei lavori,
dei servizi offerti;
- il rispetto delle norme vigenti in tema di
sicurezza e condizioni di lavoro;
- l'eventualità che l'offerente ottenga un
aiuto di Stato;
- il costo del lavoro.
Inoltre proprio con riferimento a
quest'ultimo punto il nuovo codice dispone
che non sono ammesse, sempre con riferimento
alle offerte anomale, giustificazioni in
relazione a trattamenti salariali minimi.
La norma contenuta nell'articolo 87,
relativo ai criteri di verifica dell'offerta
anormalmente bassa, non appare chiara per
quanto attiene, i costi della sicurezza e i
minimi salariali. Su questi due aspetti il
legislatore avrebbe dovuto fare uno sforzo
maggiore per portare chiarezza su un tema
così scottante, come quello del rispetto in
tema di sicurezza e condizioni di lavoro e i
minimi salariali, e la relativa relazione
con i criteri di verifica delle offerte
anomale. In pratica sarebbe stato più
opportuno indicare, per esempio, anche con
delle percentuali o dei rapporti ,
l'incidenza che questi due elementi
potrebbero avere con le offerte anomale.
La sentenza dei giudici
amministrativi.
I giudici amministrativi del TAR Lombardo
sostengono che la verifica di anomalia
dell'offerta costituisce un sub-procedimento
formalmente distinto (ancorché collegato)
rispetto al procedimento di evidenza
pubblica di individuazione della proposta
migliore, e si esprime in un'indagine di
contenuto tecnico-economico secondo una
precisa ratio di fondo che è quella
di evitare l'aggiudicazione a prezzi tali da
non garantire la qualità del lavoro,
fornitura o servizio oggetto di affidamento.
La giurisprudenza prevalente ha
ripetutamente osservato che il giudizio di
verifica della congruità di un'offerta
anomala ha natura globale e sintetica sulla
serietà o meno dell'offerta nel suo insieme
e costituisce espressione di un potere
tecnico-discrezionale dell'amministrazione
di per sé insindacabile in sede di
legittimità, salva l'ipotesi in cui le
valutazioni siano manifestamente illogiche o
fondate su insufficiente motivazione o
affette da errori di fatto.
I giudici amministrativi affermano che nella
specifica materia delle offerte anomale si è
peraltro affermato un indirizzo
giurisprudenziale che, dalle originarie e
consolidate posizioni di chiusura ad
un'indagine penetrante sullo svolgimento del
sub-procedimento di verifica, con
contestuale affermazione
dell'insindacabilità di quest'ultimo, salvi
i casi di manifesta illogicità o di
travisamento dei fatti, è progressivamente
giunto ad ammettere il controllo della
correttezza del criterio valutativo adottato
e del relativo procedimento applicativo,
oltre che l'esame della coerenza e
dell'uniformità del parametro prescelto.
Nel caso in esame, dopo una lunga analisi, i
giudici amministrativi affermano che i
sospetti di anomalia sono avallati dalla
mancata indicazione dei costi per la
formazione retribuita al personale e per i
25 operatori "jolly" utilizzati; per
i primi, in particolare, il Tribunale si
richiama alla relazione dell'esperto
incaricato dall'amministrazione. Fuorviante
è il richiamo della ricorrente all'offerta
economica e ai costi del precedente appalto
(alla stessa aggiudicato) poiché da un lato
il Comune ha correttamente rilevato la
maturazione di scatti di anzianità e
l'incidenza (allora non prevista) del costo
del pasto.
In ogni caso non è assolutamente possibile
sostenere la validità di un piano economico
finanziario mediante il richiamo ad un
precedente rapporto che non ha costituito
oggetto di contestazione.
In conclusione il ricorso è infondato e deve
essere respinto per le numerose spie
strutturali di inaffidabilità riscontrate
nell'offerta, senza che assuma rilevanza
l'omessa valutazione del documento
sull'assenteismo e senza necessità di
disporre una CTU (commento tratto da
www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Assenze dalle sedute del
Consiglio comunale giustificate con
riferimento alla sussistenza di contrasti
politici interni al gruppo di maggioranza.
E’ illegittima la delibera con la quale è
stata dichiarata la decadenza dalla carica
di un consigliere comunale che si è
assentato per alcune sedute consecutive, nel
caso in cui l’amministratore interessato
abbia tempestivamente presentato le proprie
giustificazioni, riferite alla sussistenza
di contrasti politici interni al gruppo di
maggioranza ed alla volontà di evitare
imbarazzi con il voto contrario su alcune
proposte di deliberazione; in tal caso,
infatti, deve escludersi che il consigliere
abbia mostrato disinteresse alle attività
politico-amministrative del consiglio
comunale, mentre emerge chiaramente un clima
turbolento nei rapporti interni alla
maggioranza consiliare, che può essere
ritenuto idoneo a giustificare l’assenza
dell’amministratore (commento tratto da
www.regione.piemonte.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 28.04.2011 n. 638 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Istanza di condono edilizio.
Presupposti per la formazione del
silenzio-assenso. Decorrenza del termine di
trentasei mesi per il conguaglio
dell'oblazione.
Il silenzio-assenso di cui all’art. 35 della
legge n. 47 del 1985 sulle domande di
sanatoria degli abusi edilizi richiede per
la sua formazione, quale presupposto
essenziale, oltre al completo pagamento
delle somme dovute a titolo di oblazione,
che siano stati integralmente assolti
dall'interessato gli oneri di documentazione
(che si risolvono evidentemente nella
sussistenza del requisito sostanziale),
relativi al tempo di ultimazione dei lavori,
all'ubicazione, alla consistenza delle opere
e ad ogni altro elemento rilevante affinché
possano essere utilmente esercitati i poteri
di verifica dell'Amministrazione comunale,
differenziandosi il tacito accoglimento
della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l'aspetto formale (Cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, n. 4174 del 2010; in
applicazione del principio nella specie è
stato rilevato che, mancando il nulla osta
dell’Ente proprietario della sede dell’ex
strada ferrata sulla quale insisteva in
parte il manufatto abusivo, il
silenzio-assenso non poteva essersi formato,
difettando la domanda di sanatoria di un
presupposto funzionale).
Ai sensi dell'art. 8 della legge n. 1034 del
1971 e dell'art. 28 t.u. n. 1054 del 1924
(ora art. 8 c.p.a.) il giudice
amministrativo può solo accertare, in via
incidentale, la sussistenza o meno di un
diritto soggettivo, ai limitati fini della
soluzione della vertenza ad esso demandata
in via principale, dovendosi limitare a
svolgere accertamenti ed eventuali
valutazioni critiche sulle situazioni
giuridiche quali appaiono dai fatti e dagli
atti che l'ordinamento appresta per dare
concretezza alle situazioni stesse, e,
quindi, per quanto riguarda le proprietà
immobiliari e i diritti reali immobiliari,
attenendosi alle risultanze dei contratti
scritti, dei libri e registri immobiliari e
delle sentenze che accertano o costituiscono
diritti immobiliari, senza poter accertare
fatti od atti modificativi di tali
situazioni giuridiche (Cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, n. 736 del 2003. In applicazione
del principio nella specie è stato ritenuto
che, in difetto di sentenza civile che abbia
accertato l’usucapione allegata dal
ricorrente, il giudice amministrativo non
può pronunciarsi, in via incidentale, sulla
proprietà dell'immobile).
Il termine di trentasei mesi, stabilito
dall’art. 35, comma 18°, della legge n. 47
del 1985, per il conguaglio dell'oblazione,
ovvero per il rimborso eventualmente
spettante, non decorre prima che la relativa
obbligazione possa ritenersi definitivamente
accertata in tutti i suoi elementi, e ciò
richiede, necessariamente, che la domanda di
condono sia completa di tutta la
documentazione necessaria anche ai fini
della formazione del silenzio-assenso.
Infatti, la decorrenza del termine di
prescrizione presuppone (tanto in favore
della P.A. per l'eventuale conguaglio,
quanto in favore del privato per l'eventuale
rimborso) che la pratica di sanatoria
edilizia sia definita in tutti i suoi
aspetti e sia per l'effetto precisamente
determinabile, alla stregua dei parametri
stabiliti dalla legge, il "quantum"
dell'obbligazione gravante sul privato (1).
---------------
(1) Cfr. C.G.A., n. 199 del 2002. Nella
motivazione della sentenza in rassegna si
ammette lealmente che un orientamento meno
recente della giurisprudenza amministrativa
riteneva che il termine di prescrizione
delle somme dovute in tema di condono
edilizio per conguaglio dell'oblazione
decorresse dalla data di presentazione
dell'istanza di concessione in sanatoria (ex
plurimis IV sez. n. 495 del 1999).
Successivamente, l’indirizzo
giurisprudenziale prevalente si è discostato
da tali conclusioni, evidenziando che
l'omessa presentazione della documentazione
prescritta per la domanda di condono
impedisce il decorso sia del termine di 24
mesi per la formazione del silenzio-assenso
sia di quello di 36 mesi per la prescrizione
di eventuali crediti a rimborso o a
conguaglio della oblazione versata
(commento tratto da www.regione.piemonte.it
- CGARS,
sentenza 28.04.2011 n. 320 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla mancata presentazione di una
delle dichiarazioni prescritte, circa
l'insussistenza di sentenze di condanna per
reati gravi che incidono sulla moralità
professionale, l’impresa partecipante non
può rimediare con la successiva
integrazione.
L’esigenza di ordinato svolgimento della
gara e di opportuna trasparenza richiedono
di anticipare al momento della presentazione
dell’offerta la dichiarazione del possesso
dei prescritti requisiti.
Circa il possesso dei requisiti di moralità
professionale, l’art. 38, comma 1, del
codice dei contratti è chiaro: “sono
esclusi dalla partecipazione alle procedure
di affidamento…” i soggetti nei cui
confronti sono state emesse sentenze di
condanna per reati gravi che incidono sulla
moralità professionale e che nelle società a
responsabilità limitata e per azioni
ricoprono la carica di amministratore con
poteri di rappresentanza o di direttore
tecnico; inoltre al comma 2 l’articolo
suddetto precisa che il concorrente attesta
il possesso dei requisiti mediante
dichiarazione sostitutiva resa con le
modalità stabilite dal DPR 28.12.2000, n.
445.
Pertanto, il tenore testuale della
disposizione (che dispone l’esclusione dalla
partecipazione alla gara per le imprese che
non presentano dichiarazione sostitutiva
delle apposite certificazioni), nonché la
lettura sistematica e teleologica della
medesima, non consentono di ritenere che
alla mancata presentazione di una delle
dichiarazioni prescritte l’impresa
partecipante possa rimediare con la
successiva integrazione, come avvenuto nel
caso di specie.
Con specifico
riguardo alle ipotesi (come nel caso di
specie) in cui in concreto il soggetto (che
non ha presentato la dichiarazione di
assenza di cause ostative) risulti
effettivamente in possesso dei prescritti
requisiti di moralità, la Sezione è
consapevole che la giurisprudenza di questo
Consiglio (come rappresentato anche negli
scritti difensivi delle parti in causa) ha
espresso di recente due antitetici
orientamenti: uno, che dando rilievo al
soddisfacimento effettivo dell’interesse
pubblico sotteso alla disposizione in esame
ha ritenuto integrabile in corso di gara le
dichiarazioni di assenza di cause ostative
alla partecipazione, purché il soggetto (che
le aveva omesse) di fatto possedesse i
requisiti di moralità (vedi CdS, V, n.
829/2009 e n. 1077/2010 e n. 7957/2010) e
l’altro che (per assicurare la necessaria
verifica sull’affidabilità dei soggetti
partecipanti) ha, invece, escluso del tutto
la integrabilità delle dichiarazioni in
corso di gara, dando preminente rilievo alla
interpretazione testuale e sistematica delle
disposizioni relative anche alla verifica
della veridicità delle dichiarazioni
sostitutive, verifica che viene effettuata,
oltre che per l’aggiudicazione
obbligatoriamente, con procedimento a
campione per gli altri partecipanti (vedi
CdS, V, n. 3742/2009, nonché n. 6114/2009).
Valutate con ponderazione entrambe le
interpretazioni in ordine al contenuto
concreto da dare agli oneri imposti dal
citato art. 38 alle imprese partecipanti
alle gare, questa Sezione ritiene che, pure
a fronte della positività della tesi
sostanzialistica, tuttavia l’esigenza di
ordinato svolgimento della gara e di
opportuna trasparenza richiedono di
anticipare al momento della presentazione
dell’offerta la dichiarazione del possesso
dei prescritti requisiti; d’altra parte la
stessa lettera della disposizione (art. 38,
comma 2 citato) non fa riferimento a
presentazione di tale dichiarazione nel
corso della gara per l’ipotesi di mancanza
di cause ostative; ove fosse, invece,
possibile ammettere l’offerta, pur in
assenza della corrispondente dichiarazione,
non sarebbe allora sufficiente la regola
(art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006) della
verifica dei requisiti limitata soltanto ad
un campione del 10% delle offerte
presentate: è, infatti, evidente che in tal
caso per la maggioranza delle imprese
partecipanti mancherebbe qualsiasi elemento
conoscitivo circa l’effettiva situazione nei
confronti degli obblighi prescritti dal
primo comma dell’art. 38 citato e quindi in
caso di mancanza dei requisiti, le imprese
eluderebbero anche la irrogazione delle
corrispondenti sanzioni con evidente
violazione, sotto tale profilo, della regola
della par condicio
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 03.03.2011 n. 1371 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Trasporto rifiuti -
Titoli abilitativi - Art 46, comma 1, L. n.
298/1974 - Iscrizione all’Albo nazionale dei
gestori ambientali - Art. 212 d.lgs. n.
152/2006 - Fattispecie - Prevalenza
dell’iscrizione sul titolo abilitativo
generale.
In materia di trasporto dei rifiuti,
disciplinato da una normativa speciale di
settore e per il quale è richiesta
l’apposita iscrizione all’Albo nazionale dei
gestori ambientali, la distinzione tra il
trasporto in conto proprio e quello per
conto terzi non rileva giacché l'iscrizione
all’albo di cui all’art. 212 del D. L.vo n.
152/2006 supera ed assorbe le autorizzazioni
di cui alla legge n. 298/1974 (GIUDICE DI
PACE di Avellino,
sentenza 17.12.2010 n. 3029 -
link a www.dirittoambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
fascia di rispetto cimiteriale pone un
vincolo di inedificabilità assoluta,
finalizzato alla “tutela di molteplici
interessi pubblici, tra cui quelli correlati
ad esigenze di natura igienico-sanitaria ed
alla salvaguardia della peculiare sacralità
che connota i luoghi destinati a cimitero,
rispetto ai quali sono di per sé
incompatibili tutte le tipologie di
insediamenti abitativi".
L’art. 338, primo comma, del R.D. n. 1265
del 1934 (Testo unico delle leggi
sanitarie), applicabile alla presente
fattispecie nella versione vigente
ratione temporis (ossia prima della
modifica del 2002), stabilisce che, con
riferimento alle costruzioni vicine ai
cimiteri, “é vietato di costruire intorno
agli stessi nuovi edifici e ampliare quelli
preesistenti entro il raggio di duecento
metri”.
Tale norma pone un vincolo di
inedificabilità assoluta, finalizzato alla “tutela
di molteplici interessi pubblici, tra cui
quelli correlati ad esigenze di natura
igienico-sanitaria ed alla salvaguardia
della peculiare sacralità che connota i
luoghi destinati a cimitero, rispetto ai
quali sono di per sé incompatibili tutte le
tipologie di insediamenti abitativi"
(Consiglio di Stato, V, 08.09.2008, n. 4256;
TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2010, n.
962).
Appare altresì pacifico che una tale
disposizione si applichi in via diretta e
senza necessità di intermediazione da parte
delle fonti normative locali, ed anzi anche
in contrasto con le stesse (cfr. Consiglio
di Stato, IV, 27.10.2009, n. 6547)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
divieto di costruzione di opere ad una
determinata distanza dagli argini dei corsi
d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f),
t.u. 25.07.1904, n. 523, è inderogabile (…).
In tema di tutela dei corpi idrici
superficiali, l’art. 133 r.d. n. 368 del
1904, che impone una fascia di rispetto
lungo i canali, comprende il divieto di
qualunque costruzione, allo scopo di
consentire le normali operazioni di
ripulitura e di manutenzione, e di impedire
le esondazioni delle acque.
Tale previsione è ampia e generale (…) e non
consente neppure di dare rilievo alla
conformazione del corpo superficiario, e
cioè al fatto che esso si presenti con
argini o sponde, atteso che, per il rispetto
della fascia considerata, è vietata
qualsiasi costruzione e persino qualunque
deposito di terre o di altre materie, a
distanza di metri dieci dal corso d’acqua.
“Il divieto
di costruzione di opere ad una determinata
distanza dagli argini dei corsi d’acqua,
previsto dall’art. 96, lett. f), t.u.
25.07.1904, n. 523, è inderogabile (…).
In tema di tutela dei corpi idrici
superficiali, l’art. 133 r.d. n. 368 del
1904, che impone una fascia di rispetto
lungo i canali, comprende il divieto di
qualunque costruzione, allo scopo di
consentire le normali operazioni di
ripulitura e di manutenzione, e di impedire
le esondazioni delle acque.
Tale previsione è ampia e generale (…) e non
consente neppure di dare rilievo alla
conformazione del corpo superficiario, e
cioè al fatto che esso si presenti con
argini o sponde, atteso che, per il rispetto
della fascia considerata, è vietata
qualsiasi costruzione e persino qualunque
deposito di terre o di altre materie, a
distanza di metri dieci dal corso d’acqua”
(Consiglio di Stato, IV, 23.07.2009, n.
4663) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia hanno carattere strettamente
vincolato, onde l’omessa comunicazione di
avviso di avvio del procedimento
sanzionatorio non risulta rilevante (…), in
quanto in presenza dell’abuso contestato
l’esito del procedimento non avrebbe potuto
essere diverso.
In adesione alla costante giurisprudenza,
deve essere evidenziato come “i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia hanno carattere strettamente
vincolato, onde l’omessa comunicazione di
avviso di avvio del procedimento
sanzionatorio non risulta rilevante (…), in
quanto in presenza dell’abuso contestato
l’esito del procedimento non avrebbe potuto
essere diverso” (TAR Toscana, Firenze,
III, 11.06.2010, n. 1829).
Ciò anche in ossequio al disposto di cui
all’art. 21-octies della legge n. 241 del
1990, laddove si stabilisce che “non è
annullabile il provvedimento adottato in
violazione di norme sul procedimento o sulla
forma degli atti qualora, per la natura
vincolata del provvedimento, sia palese che
il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Trattandosi di norma processuale, la stessa
è applicabile anche ai procedimenti in corso
o già definiti alla data di entrata in
vigore della legge n. 15 del 2005, avendo il
legislatore inteso in tal modo far “prevalere
gli aspetti sostanziali su quelli formali
nelle ipotesi in cui le garanzie
procedimentali non produrrebbero comunque
alcun vantaggio a causa della mancanza di un
potere concreto di scelta da parte
dell’amministrazione” (Consiglio di
Stato, V, 02.02.2010, n. 431)
(TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di impianti per la telefonia mobile.
In materia di telefonia mobile (articoli 86,
87 e 88 del d.lgs. n. 259/2003), la
giurisprudenza amministrativa ha statuito
che:
- ferma l’osservanza dei limiti di
esposizione ai campi elettromagnetici, dei
valori di attenzione e degli obiettivi di
qualità fissati dallo Stato a livello
nazionale, la normativa è volta a
semplificare ed a rendere celere e certo il
procedimento per la realizzazione degli
impianti (ex multis: Cons. Stato,
Sez. VI, 28.02.2006, n. 889);
- a questo fine sono dirette, in
particolare, la subordinazione della
realizzazione degli impianti al solo
procedimento di autorizzazione degli Enti
locali, su istanza o denuncia di inizio di
attività da parte del richiedente, ai sensi
dell’art. 87, che pone una normativa
speciale esaustiva dell’esame di diversi
profili implicati, incluso quello della
compatibilità edilizio-urbanistica
dell’intervento, non occorrendo perciò il
permesso di costruire di cui agli articoli 3
e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 (ex
multis: Cons. Stato, Sez. VI:
17.12.2009, n. 8214; 17.10.2008, 5044;
05.08.2005, n. 4159), e l’assimilazione
delle infrastrutture in questione, ad ogni
effetto, ad opere di urbanizzazione primaria
(art. 86, comma 3), per cui in assenza di
esplicite e chiare disposizioni di segno
contrario la realizzazione dell’impianto è
compatibile con qualsiasi destinazione
urbanistica (ex multis: C.G.A.R.S.,
11.05.2009, n. 395; Cons. Stato, Sez. VI,
11.10.2007, n. 5342);
- in questo quadro il potere regolamentare
attribuito ai comuni dall’art. 8, comma 6,
della legge n. 36 del 2001, per il quale
essi “possono adottare un regolamento per
assicurare il corretto insediamento
urbanistico e territoriale degli impianti e
minimizzare l'esposizione della popolazione
ai campi elettromagnetici”, è
espressione della loro autonoma e
fondamentale competenza alla disciplina
dell’uso del territorio “purché,
ovviamente, criteri localizzativi e standard
urbanistici rispettino le esigenze della
pianificazione nazionale degli impianti e
non siano, nel merito, tali da impedire od
ostacolare ingiustificatamente
l’insediamento degli stessi (cfr. Corte
costituzionale 07.10.2003, n. 307 e, in
senso conforme, la successiva sentenza
07.11.2003, n. 331)” (Cons. Stato, Sez.
VI, 26.07.2005, n. 4000; idem Sez. VI,
17.10.2008, n. 5044);
- con la conseguenza che la subordinazione
dell’insediamento degli impianti, da parte
del Comune, al perfezionamento a tempo
indeterminato di uno strumento
pianificatorio produce un ostacolo
ingiustificato alla loro realizzazione, in
contrasto con la finalità generale della
normativa in materia che, come visto, è
diretta alla definizione certa e celere del
procedimento autorizzatorio avviato su
istanza o con denuncia di inizio di
attività, e altresì in contrasto con la
finalità specifica del potere regolamentare
dei comuni stessi, che è quella di
disciplinare positivamente l’uso del
territorio ma non di pervenire di fatto ad
impedire, con il generico rinvio
all’esercizio di tale potere, le condizioni
per l’attività di telefonia mobile, poiché
con ciò verrebbero superati lo scopo e i
limiti della potestà conferita
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 25.05.2010 n. 3282 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Allorché
l'area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari
proprietari, la volumetria disponibile ai
sensi della normativa urbanistica
nell'intera area permane invariata, con la
duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui
sia stata già realizzata sul fondo
originario una costruzione, i proprietari
dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione soltanto la
volumetria che residua tenuto conto
dell'originaria costruzione e in proporzione
della rispettiva quota di acquisto.
Ai fini della quantificazione della
volumetria residua disponibile di un lotto
parzialmente edificato occorra considerare
tutte le costruzioni che insistono
sull'area. Tra tali costruzioni vanno dunque
inserite anche quelle abusive, purché
oggetto di una domanda di condono e dunque,
almeno fino alla definizione di tale domanda
in senso negativo, non sanzionabili con la
demolizione: anche tali manufatti concorrono
a determinare una saturazione dell’area, né
sembra ragionevole escludere dalla
volumetria assentibile quella già sfruttata,
sia pure per mezzo di opere abusive
successivamente condonate.
E' pacifico in giurisprudenza che “Allorché
l'area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari
proprietari, la volumetria disponibile ai
sensi della normativa urbanistica
nell'intera area permane invariata, con la
duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui
sia stata già realizzata sul fondo
originario una costruzione, i proprietari
dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione soltanto la
volumetria che residua tenuto conto
dell'originaria costruzione e in proporzione
della rispettiva quota di acquisto” (CdS,
IV, 4647/2008; nello stesso senso anche Tar
Sicilia, Catania, I, 1251/2010).
È altresì pacifico che ai fini della
quantificazione della volumetria residua
disponibile di un lotto parzialmente
edificato occorra considerare tutte le
costruzioni che insistono sull'area. Tra
tali costruzioni vanno dunque inserite anche
quelle abusive, purché oggetto di una
domanda di condono e dunque, almeno fino
alla definizione di tale domanda in senso
negativo, non sanzionabili con la
demolizione: anche tali manufatti concorrono
a determinare una saturazione dell’area, né
sembra ragionevole escludere dalla
volumetria assentibile quella già sfruttata,
sia pure per mezzo di opere abusive
successivamente condonate
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 19.05.2010 n. 7042 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di una Multisala
cinematografica può essere ricondotta alla
tipologia degli standard urbanistici di cui
alla lettera b) dell’art. 3 del DM
02.04.1968 (attrezzature di interesse
comune) e, questi invero, in quanto tali,
sono per definizione correlati all’interesse
territoriale del Comune, compendiando in sé
funzioni culturali e ricreative.
La realizzazione di una Multisala
cinematografica può essere ricondotta alla
tipologia degli standard urbanistici di cui
alla lettera b) dell’art. 3 del DM
02.04.1968 (attrezzature di interesse
comune) e, questi invero, in quanto tali,
sono per definizione correlati all’interesse
territoriale del Comune, compendiando in sé
funzioni culturali e ricreative (l’art. 1
della legge n. 1213/1965 sulla
cinematografia, del resto, ben evidenzia il
valore artistico, culturale e di
comunicazione sociale del cinema).
Orbene, gli spazi dedicati in una Multisala
cinematografica ad attività commerciale per
la ristorazione , la ricreazione e la
vendita di prodotti, servono ad offrire un
servizio ulteriore, rispetto a quello
principale, sicché il venir meno di questa,
oltre a privare il territorio dello
specifico standard (in caso di non
funzionamento e per mancato esercizio),
perverrebbe al risultato di far scadere il
Multisala a semplice “centro commerciale”,
con la conseguenza che un siffatto mutamento
nelle destinazioni d’uso ammesse è
essenziale e rilevante ai fini urbanistici,
implicando tale trasformazione il passaggio
della struttura dal settore dei servizi e
del tempo libero a quello strettamente
commerciale
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2010 n. 3129 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
vincolo cimiteriale rileva come vincolo di
inedificabilità assoluta, in quanto le
finalità perseguite dall’art. 338 del R.D.
n. 1265/1934 sono di superiore interesse
pubblicistico e rivolte a garantire il
decoro di un luogo di culto e ad assicurare
una cintura sanitaria attorno a luoghi per
loro natura insalubri.
Con la prima censura la deducente osserva
che il vincolo cimiteriale non costituisce
vincolo di inedificabilità assoluta;
aggiunge che a seguito delle modifiche
introdotte con l’art. 28, comma 1, lettera
b, della legge n. 166/2002, il suddetto
vincolo non preclude la costruzione di nuovi
edifici e la realizzazione di ampliamenti
nella zona sottoposta a vincolo.
Il motivo non può essere condiviso.
L’art. 338 del R.D. n. 1265/1934, nel testo
novellato dall’art. 28 della legge n.
166/2002, ammette l’ampliamento solo nella
percentuale massima del dieci per cento.
Gli ampliamenti di maggiore portata sono
incompatibili col vincolo cimiteriale, il
quale rileva come vincolo di inedificabilità
assoluta, in quanto le finalità perseguite
dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 sono di
superiore interesse pubblicistico e rivolte
a garantire il decoro di un luogo di culto e
ad assicurare una cintura sanitaria attorno
a luoghi per loro natura insalubri (Tar
Campania, Napoli, IV, 29/11/2007, n. 15615).
Tale conclusione trova conferma nel primo
comma del citato art. 338, che prevede il
divieto di costruire entro il raggio di 200
metri dal perimetro dell’impianto
cimiteriale, e nell’art. 33 della legge n.
47/1985, che esclude la possibilità della
sanatoria edilizia laddove il vincolo sia
imposto prima dell’esecuzione delle opere da
parte del privato.
Risulta infatti che le opere in questione
sono state ultimate nel 1983 (documento n. 3
depositato in giudizio dal Comune
resistente), mentre l’ampliamento del
cimitero del Pino è stato compiuto nel
periodo 1979-1981, per cui non è invocabile
nemmeno la deroga di cui all’art. 57, comma
4, del D.P.R. n. 285/1990, la quale non ha
la funzione di ridurre la distanza minima
indicata dal citato art. 338, ma di
consentire l’ampliamento del cimitero con
riferimento agli edifici preesistenti (Cons.
Stato, V, 23/08/2000, n. 4574).
---------------
Con la seconda censura la ricorrente afferma
che gli interventi realizzati non
costituiscono nuova edificazione, ma
ampliamento del preesistente edificio o
modifiche che si risolvono nell’introduzione
di elementi accessori o pertinenziali,
ammessi nella zona di vincolo cimiteriale e
tali da ricondurre la fattispecie all’art.32
della legge n. 47/1985.
Il rilievo è infondato.
La descrizione delle opere di cui alla
relazione tecnica relativa all’istanza di
condono edilizio indica vari interventi di
trasformazione e incremento della superficie
abitabile, costituiti dalla sopraelevazione
di un piano, dalla creazione di locali
abitativi, dalla costruzione di un locale ad
uso rurale e dalla realizzazione di una
loggia e di un terrazzo.
Non si tratta né di meri ampliamenti
rispettosi del limite del dieci per cento
previsto dall’art. 338 del R.D. n.
1265/1934, né della realizzazione di
pertinenze o elementi accessori, ma della
radicale trasformazione dell’edificio
preesistente, reso diverso dalla struttura
originaria per volume, sagoma, superficie e
connesso carico urbanistico; rileva quindi
nell’insieme un’edificazione contraddistinta
da ampliamento notevole di superficie,
precluso dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934
(Tar Campania, Napoli, IV, 29/11/2007, n.
15615).
---------------
Con il terzo motivo l’istante lamenta la
mancata acquisizione del parere
dell’Autorità preposta alla tutela del
vincolo (ovvero dell’Azienda sanitaria
locale) e della commissione edilizia.
Il rilievo non può essere accolto.
Il caso in esame non rientra nell’ambito di
applicazione dell’art. 32 della legge n.
47/1985, ma, trattandosi di intervento
successivo alla costruzione del cimitero,
nell’ambito di applicazione dell’art. 33
della legge stessa, con la conseguenza che
l’esistenza del vincolo è di per sé
preclusiva dell’opera oggetto della domanda
di condono.
Per la stessa ragione non occorre nemmeno il
parere della commissione edilizia,
trattandosi di vincolo di inedificabilità
assoluta, rispetto ai cui effetti rileva un
mero accertamento tecnico della distanza
intercorrente tra il cimitero e il
fabbricato risultante dagli interventi di
trasformazione, e non una valutazione avente
margini di discrezionalità (Tar Toscana, III,
12/02/2003, n. 277; idem, II, 06/02/2006, n.
260)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 15.03.2010 n. 660 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
motivazione dello strumento urbanistico può
ben essere di tipo generico, desumibile
dalla relazione accompagnatoria, laddove è
richiesta una puntuale motivazione
unicamente per prescrizioni che interessino
una singola area ovvero che si discostino da
quanto stabilito per zone contermini di
analoghe caratteristiche.
Le scelte urbanistiche di carattere generale
costituiscono apprezzamenti di merito e,
pertanto, sono sottratte al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto, da illogicità ovvero
irragionevolezza e, di conseguenza, non
necessitano neppure di apposita motivazione,
oltre quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico-discrezionale,
seguiti nell'impostazione del piano stesso,
essendo sufficiente l'espresso riferimento
alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione del piano
regolatore.
La variante di un piano regolatore che
conferisce nuova destinazione ad aree che
risultano già urbanisticamente classificate
necessita di apposita motivazione solo
quando le classificazioni preesistenti siano
assistite da specifiche aspettative, in capo
ai rispettivi titolari, fondate su atti di
contenuto concreto, come quelle derivanti da
un piano di lottizzazione approvato, da un
giudicato di annullamento di un diniego di
concessione edilizia o dalla reiterazione di
un vincolo scaduto; i medesimi principi
possono estendersi al caso di un iter
concessorio già iniziato, che ingenera
nell'istante un particolare affidamento e si
traduce nell'obbligo di motivare
espressamente sulle ragioni di opportunità e
convenienza che inducono a porre nel nulla
il procedimento avviato con l'istanza di
concessione.
Gli strumenti urbanistici risultano
espressamente esentati dal generale obbligo
di motivazione previsto per tutti gli atti
amministrativi dall’articolo 3 della legge
241 del 1990; ne consegue che la motivazione
dello strumento urbanistico può ben essere
di tipo generico, desumibile dalla relazione
accompagnatoria, laddove è richiesta una
puntuale motivazione unicamente per
prescrizioni che interessino una singola
area ovvero che si discostino da quanto
stabilito per zone contermini di analoghe
caratteristiche.
Le scelte urbanistiche di carattere generale
costituiscono apprezzamenti di merito e,
pertanto, sono sottratte al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto, da illogicità ovvero
irragionevolezza e, di conseguenza, non
necessitano neppure di apposita motivazione,
oltre quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico-discrezionale,
seguiti nell'impostazione del piano stesso,
essendo sufficiente l'espresso riferimento
alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione del piano
regolatore (Consiglio di Stato, sez. IV,
11.10.2007, n. 5357).
Le uniche eccezioni individuate dalla
giurisprudenza riguardano la necessità di
una motivazione specifica -espressione, a
sua volta, di un’adeguata istruttoria- in
alcune ipotesi particolari: come quella di
una variante puntuale che incide in senso
sfavorevole su una singola proprietà; quella
di una variante, anche generale, che
comporta la reiterazione di un vincolo
decaduto, oppure travolge le previsioni di
un piano di lottizzazione già debitamente
approvato e convenzionato, tutte vicende
peraltro connotate da una identica
caratteristica, e cioè di essere strumenti
urbanistici che incidono in modo immediato e
diretto su proprietà immobiliari ben
individuate, limitandone in modo
significativo le possibilità di utilizzo e
comprimendone il valore di mercato (TAR
Umbria Perugia, 03.07.2008, n. 329).
In un caso specifico, si è precisato che il
rilascio della concessione edilizia, anche
se non è ex sé circostanza idonea ad
impedire all'ente locale, nell'esercizio del
potere discrezionale di cui dispone in
materia di pianificazione del territorio, di
attribuire in sede di variante al piano
regolatore generale una diversa destinazione
urbanistica all'area interessata
dall'intervento edificatorio già assentito,
tuttavia impone allo stesso ente un onere di
motivazione congrua ed articolata in ordine
alla nuova scelta effettuata, atteso che la
posizione qualificata di cui è titolare il
soggetto al quale era stato rilasciato il
permesso di costruire ha determinato in lui
un giusto affidamento, che richiede una
particolare considerazione (TAR Molise
Campobasso, sez. I, 21.11.2007, n. 819).
In altri termini, la variante di un piano
regolatore che conferisce nuova destinazione
ad aree che risultano già urbanisticamente
classificate necessita di apposita
motivazione solo quando le classificazioni
preesistenti siano assistite da specifiche
aspettative, in capo ai rispettivi titolari,
fondate su atti di contenuto concreto, come
quelle derivanti da un piano di
lottizzazione approvato, da un giudicato di
annullamento di un diniego di concessione
edilizia o dalla reiterazione di un vincolo
scaduto; i medesimi principi possono
estendersi al caso di un iter concessorio
già iniziato, che ingenera nell'istante un
particolare affidamento e si traduce
nell'obbligo di motivare espressamente sulle
ragioni di opportunità e convenienza che
inducono a porre nel nulla il procedimento
avviato con l'istanza di concessione (TAR
Umbria Perugia, 03.07.2008, n. 329; TAR
Toscana, sez. I, 19.09.2007, n. 2725)
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 12.01.2009 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’obbligo
di predisporre cautele a tutela
dell’integrità delle buste concernenti le
offerte delle imprese partecipanti, in
mancanza di apposita previsione da parte del
legislatore, discende necessariamente dalla
stessa ratio che sorregge e giustifica il
ricorso alla gara pubblica per
l’individuazione del contraente nei
contratti delle pubblica amministrazione, in
quanto l’integrità dei plichi contenenti le
offerte delle imprese partecipanti
all’incanto è uno degli elementi sintomatici
della segretezza delle offerte e della par
condicio di tutti i concorrenti, assicurando
il rispetto dei principi -consacrati
dall’art. 97 della Costituzione- di buon
andamento ed imparzialità cui deve
uniformarsi l’azione amministrativa.
In concreto, delle misure cautelari adottate
deve essere data menzione nel verbale di
gara, proprio al fine di assicurare
l’effettivo ed ordinato svolgimento del
prosieguo delle operazioni.
Gli atti relativi alle offerte presentate
dalle singole imprese devono essere
adeguatamente conservati in modo da
garantire l’inalterabilità del loro
contenuto, considerato che, “a tal fine non
è sufficiente l’affermazione che gli atti
sono stati conservati in luogo sicuro,
accessibile solo ai membri della Commissione
ma è invece necessario che, ultimate le
operazioni di gara, la Commissione precisi
le modalità di conservazione delle offerte e
dei documenti ad esse allegati e specifichi
se le buste contenenti le une e gli altri
sono state adeguatamente richiusi”.
Il Collegio -pur essendo consapevole
dell’orientamento giurisprudenziale che
considera irrilevante la doglianza con cui
si lamenta, in una gara d’appalto pubblico,
l’inadeguata custodia delle buste contenenti
un’offerta presentata, quando non sia
proposto alcun elemento atto a far ritenere
che possa essersi verificata la sottrazione
o la sostituzione dei plichi o un qualche
altro fatto rilevante ai fini della
regolarità della procedura di gara a causa
di tale asserito difetto di custodia (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 20.09.2001, n. 4973)-
ritiene più rispondente all’esigenza di
tutela della segretezza delle offerte, in
una procedura concorsuale ad evidenza
pubblica, il diverso indirizzo della
giurisprudenza amministrativa secondo cui “l’obbligo
di predisporre cautele a tutela
dell’integrità delle buste concernenti le
offerte delle imprese partecipanti, in
mancanza di apposita previsione da parte del
legislatore, discende necessariamente dalla
stessa ratio che sorregge e giustifica il
ricorso alla gara pubblica per
l’individuazione del contraente nei
contratti delle pubblica amministrazione, in
quanto l’integrità dei plichi contenenti le
offerte delle imprese partecipanti
all’incanto è uno degli elementi sintomatici
della segretezza delle offerte e della par
condicio di tutti i concorrenti, assicurando
il rispetto dei principi -consacrati
dall’art. 97 della Costituzione- di buon
andamento ed imparzialità cui deve
uniformarsi l’azione amministrativa.”
(cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. V,
06.03.2006, n. 1068).
E non può, del resto, revocarsi in dubbio
che “in concreto, delle misure cautelari
adottate deve essere data menzione nel
verbale di gara, proprio al fine di
assicurare l’effettivo ed ordinato
svolgimento del prosieguo delle operazioni.”
(cfr. C.S., V, n. 1068/2006, cit.).
“Né vale ad escludere la illegittimità
del comportamento tenuto
dall’amministrazione la considerazione che
non si sarebbe concretamente verificata
alcuna manomissione dei plichi contenenti le
buste, atteso che la tutela giuridica
dell’interesse pubblico al corretto
svolgimento delle gare pubbliche, secondo i
principi di cui all’art. 97 della
Costituzione, deve essere assicurata in
astratto e preventivamente e non può essere
considerata soddisfatta sulla base della
mera situazione di fatto del mancato
verificarsi di eventi dannosi” (cfr.
C.S., V, n. 1068/2006, cit. e giurisprudenza
ivi richiamata: C.S., IV, n. 1612/2002).
Gli atti
relativi alle offerte presentate dalle
singole imprese devono essere adeguatamente
conservati in modo da garantire
l’inalterabilità del loro contenuto,
considerato che, “a tal fine non è
sufficiente l’affermazione che gli atti sono
stati conservati in luogo sicuro,
accessibile solo ai membri della Commissione
ma è invece necessario che, ultimate le
operazioni di gara, la Commissione precisi
le modalità di conservazione delle offerte e
dei documenti ad esse allegati e specifichi
se le buste contenenti le une e gli altri
sono state adeguatamente richiusi”.
In ogni caso, all’atto del riesame, l’organo
competente “deve dare conto in modo
esauriente e dettagliato delle effettive
condizioni di conservazione delle singole
offerte e specificare se le buste risultano
adeguatamente richiuse oppure aperte.”
(cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.02.2000, n.
661) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 20.03.2008 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Sulla
partecipazione delle società miste comunali alle gare di
appalto di servizi pubblici indette da altri enti.
La giurisprudenza amministrativa nell'esame della questione
relativa alla partecipazione delle società miste comunali
alle gare di appalto di servizi pubblici indette da altri
enti, si è attestata sul principio in base al quale tali
società, pur legittimate in via di principio a svolgere la
propria attività anche al fuori del territorio del Comune
dal quale sono state costituite, in quanto munite dal
legislatore di capacità imprenditoriale, sono pur sempre
tenute, per il vincolo genetico funzionale che le lega
all'ente di origine, a perseguire finalità di promozione
dello sviluppo della comunità locale di emanazione. Il
vincolo funzionale che la norma istitutiva ha implicitamente
imposto alle imprese miste va confrontato con l'impegno
extraterritoriale richiesto in concreto e inibisce tale
attività quando diventino rilevanti le risorse e i mezzi
eventualmente distolti dalla attività riferibile alla
collettività di riferimento senza apprezzabili utilità per
queste ultime.
Si tratta, in definitiva, di verificare che l'impegno da
assumere non comporti una distrazione di mezzi e risorse
tali da arrecare pregiudizio alla predetta collettività, in
sostanza la necessità di una concreta verifica intesa ad
accertare se l'impegno extraterritoriale eventualmente non
distolga, e in caso positivo in che rilevanza, risorse e
mezzi, senza apprezzabili ritorni di utilità (anch'essi da
valutarsi in relazione all'impegno profuso e agli eventuali
rischi finanziari) per la collettività di riferimento. Tale
verifica non può che ritenersi rimessa alle commissioni
giudicatrici delle gare quando a queste chiedano di
partecipare società miste.
La capacità, in termini di mezzi tecnici e finanziari, della
società mista ad assumere, in aggiunta a quelle derivanti
dal servizio svolto per l'ente di riferimento, anche il
servizio oggetto della specifica gara alla quale chiede di
partecipare, attiene alla legittimazione della società a
partecipare alla gara ed assume quindi la valenza di un
requisito soggettivo che, in quanto tale, deve essere
assoggettato a verifica come avviene per altri requisiti
soggettivi. La prova di tale requisito soggettivo, secondo i
principi stessi della partecipazione alle gare, incombe
sull'aspirante (C.G.A.R.S., Sez. giurisdizionale,
sentenza 21.03.2007 n. 197
- link a www.dirittodeiservizipubblici). |
APPALTI SERVIZI: Sull'illegittimità
della previsione in un bando per l'appalto di servizi di
progettazione, della prestazione in sede di gara di una
cauzione provvisoria e di una cauzione definitiva, oltre
alla polizza di responsabilità civile professionale.
E' illegittima la previsione contenuta in un bando di gara
relativo ad un appalto-servizio indetto da una regione,
avente ad oggetto il servizio di progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva, nella parte in cui prescrive, ai
fini dell'ammissione, oltre alla presentazione di una
polizza di responsabilità civile e professionale, anche il
versamento di una cauzione provvisoria pari al 2% della base
d'asta e di una cauzione definitiva del 10% dell'importo
contrattuale, in quanto il comma 5 del art. 30 della l.
11.02.1994, n. 109 prescrive l'obbligo in capo al
progettista unicamente della presentazione di una polizza
assicurativa di responsabilità civile professionale per i
rischi derivanti dallo svolgimento della propria attività.
Il sistema delle garanzie previsto dalla legge non è
suscettibile, invero, di interpretazioni estensive e,
d'altro canto, l'attività amministrativa deve essere
incentrata sul principio di non aggravamento del
procedimento; in tal senso, la richiesta della cauzione nei
confronti del progettista si risolverebbe in un ulteriore
onere economico a carico del progettista medesimo, la cui
eventuale responsabilità, invece, si concretizza in un
momento successivo a quello della partecipazione alla gara e
riguarda specificamente il risultato ancora da compiersi, la
progettazione, nel caso in cui si evidenzino degli errori
e/o omissioni nella redazione dei progetti.
La richiesta delle due tipologie di cauzioni, provvisoria e
definitiva, in aggiunta alla polizza di cui all'art. 30,
comma 5, della legge quadro, determinerebbe, pertanto, un
aggravamento degli oneri di accesso alla gara di appalto a
carico del progettista del tutto ingiustificato (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 13.03.2007 n. 1231
- link a www.dirittodesiervizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI: Su
alcune questioni relative all'affidamento di un servizio
pubblico a mezzo trattativa privata.
In base ai principio di libera concorrenza, di legalità e di
buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa,
l'impresa operante in un settore economico è legittimata ad
impugnare il provvedimento con cui l'amministrazione
disponga la stipula di un contratto a trattativa privata
riferito allo stesso settore e non abbia posto in essere la
scelta del contraente con le debite procedure ad evidenza
pubblica
Un comune non può motivare l'affidamento di un servizio
pubblico a mezzo trattativa privata, facendo riferimento
alle pretese ragioni di urgenza gravanti sull'ente pubblico
all'indomani della scadenza del contratto col precedente
gestore: la scadenza del precedente rapporto, infatti, è un
dato ben noto all'Amministrazione, che avrebbe potuto (e
dovuto) attivarsi per tempo ai fini dell'individuazione del
successivo gestore del servizio (soprattutto nel caso in cui
si tratti di un servizio di routine, caratterizzato dalla
continuatività e non occasionalità).
La giurisprudenza individua l'elemento distintivo tra
concessioni di servizi pubblici ed appalti di pubblici
servizi nell'eventuale incidenza dell'onere economico a
carico dell'ente pubblico appaltante o concedente. Più in
particolare: è elemento tipico dell'appalto di servizi
pubblici l'obbligo per la stazione appaltante di
corrispondere al gestore del servizio una utilità economica,
quale corrispettivo per la fornitura del servizio all'ente
stesso o alla comunità da esso rappresentata (per esempio,
appalto del servizio di pulizia degli uffici comunali;
appalto del servizio pubblico di scuolabus per gli alunni
delle scuole elementari). Viceversa, nella concessione di
servizio pubblico il concessionario ritrae il proprio
guadagno direttamente dal pagamento di una tariffa posta a
carico degli utenti del servizio stesso (per esempio,
servizio di trasporto urbano affidato a soggetti terzi che
gestiscono "a proprio rischio"). In breve, con
l'appalto di servizio l'ente pubblico si procura una utilità
diretta e ne paga il relativo costo; con la concessione,
invece, esso trasla su soggetti terzi (piuttosto che
fornirlo in prima persona) la gestione di un servizio,
destinato a favore di una platea più o meno ampia di utenti,
e consente al gestore di ricavarne un utile attraverso la
percezione del corrispettivo pagato dai fruitori.
Anche l'affidamento in concessione di un pubblico servizio
non sfugge all'applicazione dei principi comunitari in tema
di pubblicità della gara, concorrenzialità e non
discriminazione, previsti per la materia degli appalti
pubblici, pena la creazione di una "zona franca" che
-sotto l'ombra di un diverso nomen iuris- consenta
agli enti pubblici di eludere le disposizioni comunitarie in
un settore in cui sussistono le medesime esigenze (Tar
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 12.03.2007 n. 461
- link a www.dirittodeiservizipubblici). |
APPALTI: Sull'illegittimità
di una informativa antimafia basata sul fatto che il coniuge
del titolare dell'impresa è imparentato con esponenti della
camorra.
La misura interdittiva conseguente ad una informativia
antimafia di cui all'art. 4 D.Lgs. n. 490/1994, con la quale
si esclude dal mercato dei pubblici appalti l'imprenditore
che sia sospettato di legami o condizionamenti mafiosi, ha
lo scopo di mantenere un atteggiamento intransigente contro
rischi di infiltrazione mafiosa per contrastare un eventuale
utilizzo distorto delle risorse pubbliche. Secondo
l'indirizzo della giurisprudenza, la informativa non deve
dimostrare l'intervenuta infiltrazione, essendo sufficiente
dimostrare la sussistenza di elementi dai quali sia
deducibile il tentativo di ingerenza.
Tuttavia, la stessa giurisprudenza ha più volte ribadito
come il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che
fanno capo, da un lato, alla presunzione di innocenza di cui
all'art. 27 Cost. ed alla libertà d'impresa
costituzionalmente garantita e, dall'altro, alla efficace
repressione della criminalità organizzata, comporta che
l'interpretazione della normativa in esame debba essere
improntata a necessaria cautela. In definitiva l'esigenza di
contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel modo
più efficace, e dunque anche nel caso in cui sussistano
anche semplici elementi indiziari, non esclude che la
determinazione prefettizia (pur se espressione di un ampia
discrezionalità) possa essere assoggettata al sindacato
giurisdizionale sotto il profilo della sua logicità e
dell'accertamento dei fatti rilevanti.
Ciò posto, deve ritenersi che nella fattispecie in esame non
sia idonea a sorreggere l'impugnato provvedimento
prefettizio la sussistenza di legami di parentela con
esponenti di clan camorristici. La circostanza infatti che
il titolare della impresa sia imparentato (tramite la
moglie) con esponenti della camorra non può essere di per sé
prova sufficiente di infiltrazione mafiosa nella gestione
dell'impresa ove a tale dato anagrafico non si accompagni
una acclarata frequentazione e comunanza di interessi con
tali ambienti, di cui non v'è traccia nel provvedimento
impugnato (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.03.2007 n. 1056
- link a www.dirittodesiervizipubblici.it). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato rimette alla Corte di Giustizia
delle Comunità europee la questione se il riconoscimento in
capo alle imprese costituite in ATI ad impugnare in via
autonoma l'aggiudicazione contrasti con le direttive
comunitarie.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee deve risolvere
la questione se l'art. 1 della direttiva del Consiglio
21.12.1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni
legislative, regolamentari e amministrative relative
all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di
lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio
18.06.1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, debba
essere interpretato nel senso che osta a che, secondo il
diritto nazionale, il ricorso contro una decisione di
aggiudicazione di un appalto possa essere proposto a titolo
individuale da uno solo dei membri di un'associazione
temporanea priva di personalità giuridica, che ha
partecipato in quanto tale ad una procedura d'aggiudicazione
di un appalto pubblico e non si è vista attribuire il detto
appalto (cfr. CdS, sez. V, 14/11/2006, n. 6677) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 06.03.2007 n. 1042
- link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: 1.
Per la proposizione di una impugnativa contro clausole del
bando che precludono la partecipazione, non è necessaria la
domanda di partecipazione alla gara.
2. Sull'illegittimità di una clausola contenuta in un bando
di gara che prescrive che non sono ammesse a partecipare
alla procedura le ATI.
1. Non è necessaria la domanda di partecipazione alla
gara quale condizione per la proposizione di una impugnativa
avverso clausole del bando tali da precludere in maniera
assoluta e certa la partecipazione alla gara del soggetto
aspirante, poiché detta domanda si risolverebbe in un mero
adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di
estromissione, e perciò privo di un'effettiva utilità
pratica.
2. La "ratio" dell'istituto del raggruppamento
temporaneo di imprese non è soltanto quella di consentire la
partecipazione alle gare pubbliche di imprese che,
singolarmente considerate, non potrebbero essere ammesse
perché carenti dei requisiti economici, tecnici ed
organizzativi indispensabili per la partecipazione, ma anche
quella ulteriore di poter utilizzare un'opzione operativa di
sinergia strategica tra soggetti già capaci di concorrere
singolarmente.
Pertanto, è illegittima la prescrizione contenuta nel bando
della gara ufficiosa (appalto concorso) indetta da un
comune, secondo cui sono ammesse alla partecipazione singole
società in possesso delle prescrizioni indicate e non sono
ammesse a partecipare le A.T.I. (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 06.03.2007 n. 800
- link a www.dirittodesiervizipubblici.it). |
EDILIZIA
PRIVATA: Possibile
condonare gli immobili all’asta. Il termine per la sanatoria
decorre dalla comunicazione della vendita.
Chi acquista un immobile sottoposto a pignoramento può
chiedere il condono non appena venga a conoscenza dell’abuso
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 03.03.2007 n. 1366
- link a www.cittadinolex.kataweb.it). |
EDILIZIA
PRIVATA:
Riesame del nulla osta paesaggistico - Tutela
paesistico/ambientale e di vincolo della zona - Esercizio
dei poteri di riscontro della legittimità - Limiti -
Iniziativa istruttoria abnorme - Illegittimità - Sanatoria
“ex post” - Compatibilità urbanistica ed edilizia dei lavori
- Fattispecie.
In materia di riesame del nulla osta paesaggistico, non è
legittima la richiesta da parte della Soprintendenza di
conoscere, a mezzo di dichiarazione per atto notorio, di un
dato temporale che, costituisce elemento del tutto
ininfluente agli effetti dell’esercizio dei poteri di
riscontro della legittimità del nulla osta sindacale in
raffronto alle disposizioni di tutela paesistico/ambientale
e di vincolo della zona. (Nella specie, è stata richiesta
la data in cui è stato consumato l’abuso edilizio, pretesa,
che assume esclusivo rilievo ai fini del controllo sulla
compatibilità urbanistica ed edilizia dei lavori -in base
alla successione nel tempo delle disposizioni che consentono
la sanatoria “ex post”- riservato all’esclusiva competenza
dell’Autorità comunale. Si versa, quindi, a fronte di
un’iniziativa istruttoria che non trae serio fondamento in
effettive carenze della documentazione annessa al nulla osta
paesistico, tali da precludere il controllo di legittimità
entro il termine di legge che non può, quindi, considerarsi
interrotto per l’esercizio dell’attività istruttoria).
Riesame di legittimità del nulla osta paesistico -
Termini di sessanta giorni - Computo - Acquisizioni
istruttorie - Procedimento di controllo interorganico.
Ai fini del decorso del termine di sessanta giorni per il
riesame di legittimità del nulla osta paesistico rilasciato
dall’Amministrazione delegata, è necessario che esso
pervenga corredato dagli elementi documentali utili al
controllo.
Detto indirizzo trova, conforto nella lettera dell’ art. 82
del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 -come integrato dall’art. 1
della legge 08.08.1985, n. 431, e poi riprodotto all’art.
151, comma quarto, del d.lgs. 29.10.1999, n. 490- ove è
stabilito che “le regioni danno immediata comunicazione
al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali delle
autorizzazioni rilasciate e trasmettono contestualmente la
relativa documentazione”.
La possibilità di disporre acquisizioni istruttorie e del
resto evenienza procedimentale peculiare ad ogni
procedimento di controllo interorganico e si collega
all’esigenza che il controllo medesimo avvenga secondo
criteri di serietà e di piena cognizione di ogni elemento
rilevante ai fin del giudizio di legittimità dell’atto.
Riesame di legittimità del nulla osta paesistico -
Atto autorizzatorio - Carenze di elementi documentali utili
all’esercizio del potere di verifica della legittimità -
Acquisizioni documentazione integrativa - Effetto
interruttivo del termine - Vigore “ex novo” del termine.
In tema di riesame di legittimità del nulla osta paesistico
l’Amministrazione delegata, in presenza di eventuali carenze
di elementi documentali utili all’esercizio del potere di
verifica della legittimità dell’atto autorizzatorio possono
disporre acquisizioni e dare ingresso all’attività c.d.
istruttoria con effetto interruttivo del termine assegnato
per il controllo in base al noto principio “contra non
valentem non agit prescriptio”.
Una volta pervenuta alla Soprintendenza la documentazione
integrativa indispensabile per il riscontro di legittimità
prenderà vigore “ex novo” il termine perentorio per
il riesame di secondo grado.
Riesame del nulla osta paesaggistico - Richieste di
integrazioni istruttorie - Presupposti - Effettiva
necessità.
In materia di riesame del nulla osta paesaggistico, le
richieste istruttorie devono, fondarsi su un’effettiva
insufficienza del supporto documentale necessario al riesame
di legittimità del nulla osta regionale.
Esse devono essere finalizzate all’acquisizione di elementi
documentali afferenti al titolo autorizzatorio, così da
consentire una corretta, completa ed attenta valutazione
della tipologia dell’intervento assentito, in raffronto alla
disciplina di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali
della zona e della stessa conformazione dei luoghi oggetto
di modifica (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.03.2007 n. 1019
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APPALTI:
Sull'obbligo per
le ATI, costituite o costituende, di dichiarare sempre e
comunque le relative quote di partecipazione prima
dell'aggiudicazione.
La legge impone alle a.t.i., costituite o costituende, di
dichiarare le quote di partecipazione sempre e comunque
prima dell'aggiudicazione. Le fonti del principio si
rinvengono nell'art. 13, c. 5-bis, della l. n. 109 del 1994,
laddove dispone che: "E' vietata qualsiasi modificazione
alla composizione delle associazioni temporanee e dei
consorzi di cui all'art. 10, c. 1, lettere d) ed e),
rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede
di offerta". Ed inoltre nell'art. 93, c. 4, del d.P.R.
n. 554 del 1999, laddove dispone che: "Le imprese riunite
in associazione temporanea devono eseguire i lavori nella
percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento".
La prima norma testé richiamata, introdotta dall'art. 9
della l. n. 415 del 1998, dopo la caduta del divieto
originariamente previsto di costituire associazioni
temporanee e consorzi concomitanti o successivi
all'aggiudicazione di gara, non prevede espressamente il
momento in cui la partecipante è tenuta a dichiarare
l'importo dei lavori del raggruppamento in relazione alle
singole compartecipazioni, ossia se sin dall'ammissione alla
gara o successivamente all'aggiudicazione.
Tuttavia lascia deporre a favore della necessità della
dichiarazione (e del possesso dei requisiti) sin
dall'ammissione alla gara il fatto che il legislatore, nel
ridisciplinare l'art. 13 richiamato, non abbia modificato il
primo comma, laddove subordina la partecipazione alla
procedura concorsuale delle associazioni temporanee alla
condizione che la mandataria e le altre imprese del
raggruppamento siano già in possesso dei requisiti di
qualificazione per la rispettiva quota percentuale, con ciò
evidentemente riaffermando la necessità della previa
indicazione delle quote di partecipazione. Infatti aver
conservato tale norma anche nell'attuale sistema, dove è
possibile costituire raggruppamenti, significa che il
legislatore ha ritenuto necessaria la preventiva verifica
dei requisiti in relazione alle singole quote di
partecipazione anche nel nuovo regime (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 01.03.2007 n. 1001 - link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
Sull'illegittimità di una disposizione regolamentare
che impone ai consiglieri comunali di motivare le richieste
di accesso agli atti del comune.
Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti del
comune assume un connotato tutto particolare, in quanto
finalizzato "al pieno ed effettivo svolgimento delle
funzioni assegnate al consiglio comunale".
Ne consegue che sul consigliere comunale, pertanto, non
grava, né può gravare, alcun onere di motivare le proprie
richieste d'informazione, né gli uffici comunali hanno
titolo a richiederle ed conoscerle ancorché l'esercizio del
diritto in questione si diriga verso atti e documenti
relativi a procedimenti ormai conclusi o risalenti ad epoche
remote. Diversamente opinando, infatti, la struttura
burocratica comunale, da oggetto del controllo riservato al
consiglio, si ergerebbe paradossalmente ad "arbitro",
per di più, senza alcuna investitura democratica, delle
forme di esercizio della potestà pubbliche proprie
dell'organo deputato all'individuazione ed al miglior
perseguimento dei fini della collettività civica.
L'esistenza e l'"attualità" dell'interesse che
sostanzia la speciale actio ad exhibendum devono
quindi ritenersi presunte juris et de jure dalla
legge, in ragione della natura politica e dei fini generali
connessi allo svolgimento del mandato affidato dai cittadini
elettori ai componenti del consiglio comunale.
Pertanto, è illegittima una disposizione del regolamento
comunale che imponga ai consiglieri comunali di motivare le
richieste di accesso agli atti del comune (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 22.02.2007 n. 929
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CONSIGLIERI
COMUNALI - URBANISTICA:
Piano di recupero - Delibera consiliare di
approvazione - Impugnazione da parte del consigliere
comunale - Limiti.
E’ da escludere la legittimazione dei consiglieri comunali
ad impugnare in sede giurisdizionale le delibere dell’organo
di appartenenza per tutto quanto non inerisca alla denuncia
di vizi che si sostanzino nella lesione del diritto
all’ufficio (ad esempio irritualità della convocazione
dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, difetto di
costituzione del collegio); pertanto, i vizi che investono
la deliberazione nei contenuti sostanziali sono sottratti
all’azione giurisdizionale dei componenti del collegio,
essendo a ciò legittimati solo i soggetti destinatari
dell’atto (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12.03.2004, n. 640 e
TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 28.06.2004, n. 2300)
(fattispecie in materia di impugnazione della delibera
consiliare di approvazione di un piano di recupero di
iniziativa pubblica, adottata con il voto contrario del
ricorrente) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.02.2007 n. 466
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EDILIZIA
PRIVATA: INQUINAMENTO
ELETTROMAGNETICO - Regolamenti comunali - Criteri di
localizzazione non preclusivi dell’installazione -
Legittimità.
Non si pongono in contrasto con l’art. 8 della L. n. 36/2001
le norme regolamentari comunali che introducano vincoli
all’installazione di stazioni radio base secondo un criterio
di localizzazione non preclusivo dell’installazione stessa,
segnatamente ove i vincoli, che non abbiano natura
indeterminata e assolutamente discrezionale, non siano tali
da pregiudicare l’interesse protetto dalla legislazione
nazionale alla realizzazione di reti di telecomunicazione
(nella specie, il regolamento comunale non consentiva
l’installazione di apparati su edifici scolastici, sanitari,
assistenziali, sportivi, vincolati ai sensi della normativa
vigente, classificati di interesse storico architettonico,
monumentale, di pregio storico, culturale e testimoniale o
nel perimetro di 100 metri dagli stessi) (TAR
Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 16.02.2007 n. 303
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EDILIZIA
PRIVATA:
Tutela degli interessi paesistici - Interventi edilizi
in zona vincolata - Assenza del titolo abilitativo - Condono
- Esclusione - Art. 32 D.L. n. 269/2003.
Ai sensi dell'art. 32 del D.L. n. 269/2003, non sono
suscettibili di sanatoria, le nuove costruzioni realizzate,
in assenza del titolo abilitativo edilizio, in area
assoggettata a vincolo imposto a tutela degli interessi
paesistici (in tal senso, Cass., Sez. III, 05.04.2005, n.
12577, Ricci; Cass., 01.10.2004, n. 38694. Canu ed altro;
Cass., 24.09.2004, n. 37865, Musio).
Tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e
paesistici - Interventi edilizi di minore rilevanza
(restauro, risanamento conservativo e manutenzione
straordinaria) - Sanatoria - Nulla osta - Necessità.
Nelle aree sottoposte a vincolo di cui all'art. 32 lett. a)
del comma 26 della legge n. 47/1985 e s.m. (trattasi anche
dei vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali
a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e
paesistici) è possibile ottenere la sanatoria soltanto per
gli interventi edilizi di minore rilevanza (corrispondenti
alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6
dell'allegato 1: restauro, risanamento conservativo e
manutenzione straordinaria), previo parere favorevole da
parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
Tutela del patrimonio storico artistico o tutela della
salute - Titolo abilitativo edilizio in sanatoria -
Acquisizione dei pareri - Necessità - T.U. n. 380/2001 - D.
Lgs. n 152/2006 - D.Lgs. n. 42/2004.
Ai fini dell'acquisizione dei pareri "si applica quanto
previsto dall'art. 20, comma 6, del D.P.R. n. 380/2001"
ed "il motivato dissenso espresso da un’amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico -
territoriale, ivi inclusa la Soprintendenza competente, alla
tutela del patrimonio storico artistico o alla tutela della
salute preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio
in sanatoria" (comma 4).
Zone paesaggisticamente vincolate - Modificazione
dell'assetto del territorio - Artt. 143, 5° c., lett. b, e
149, D.Lgs. n. 42/2004.
Nelle zone paesaggisticamente vincolate è inibita -in
assenza dell'autorizzazione già prevista dall'art. 7 della
legge n. 1497 dei 1939, le cui procedure di rilascio sono
state innovate dalla legge n. 431/1985 e sono attualmente
disciplinate dall'art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004- ogni
modificazione dell'assetto del territorio, attuata
attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi,
con le deroghe eventualmente individuate dal piano
paesaggistico, ex art. 143, 5° comma - lett. b, del D Lgs.
n. 42/2004, nonché ad eccezione degli interventi previsti
dal successivo art. 149 e consistenti (tra l'altro) nella
manutenzione, ordinaria e straordinaria, e nel
consolidamento statico o restauro conservativo, purché non
alterino Io stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli
edifici.
Intervento edilizio mediante D.I.A. (restauro,
risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) su
immobili sottoposti a tutela storico-artistica o
paesaggistico-ambientale - Interventi - Nulla osta -
Necessità - Art. 22, 6° c., T.U.E. n. 380/2001 - D.Lgs. n
152/2006 - D.Lgs. n. 42/2004.
In materia urbanistica, qualora un qualsiasi intervento
edilizio da realizzarsi mediante D.I.A. (quali la
manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento
conservativo) riguardi immobili sottoposti a tutela
storico-artistica o paesaggistico-ambientale [ai sensi del
D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del
paesaggio); della legge n. 394/1991 (Legge-quadro sulle aree
protette); della legge n. 183/1989 (Norme per il riassetto
organizzativo e funzionale della difesa del suolo) e del
D.Lgs. n 152/2006 (Norme in materia ambientale)]
l'effettuazione delle stesso e subordinata al preventivo
rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle
relative previsioni normative (art. 22, 6° comma, del TU. n.
380/2001).
Costruzioni in zone sismiche - Vincoli in genere -
C.d. "zone di rispetto - Art. 32 L. n 47/1985 e s.m..
Con elencazione avente carattere meramente esemplificativo
può ricordarsi che l'art. 32 legge n 47/1985 e s.m. inerisce
-oltre che ai vincoli paesistici ed ambientali- ai vincoli
storici, artistici, architettonici ed archeologici; ai
vincoli idrogeologici; ai vincoli previsti per i parchi e le
aree naturali protette; ai vincoli derivanti dall'esistenza
di usi civici; ai vincoli derivanti dalle c.d. "zone di
rispetto" del demanio stradale, ferroviario ed
aeroportuale, dei cimiteri; alle prescrizioni imposte per le
costruzioni da eseguirsi in zone sismiche; ovvero ad altre
limitazioni poste dal D.M. 01.04.1968, n. 1404. (D.L.vo n.
380/2001 Testo Unico edilizia; D.Lgs. n 152/2006 Norme in
materia ambientale; D.Lgs. n. 42/2004 Codice dei beni
culturali e del paesaggio; L. n. 394/1991 Legge-quadro sulle
aree protette).
Aree assoggettate a vincolo paesaggistico-ambientale -
Interventi di manutenzione straordinaria, restauro e
risanamento conservativo - Rilascio del parere o
dell'autorizzazione - Necessità.
L'effettuazione di interventi di manutenzione straordinaria,
restauro e risanamento conservativo, da realizzarsi in aree
assoggettate a vincolo paesaggistico-ambientale, sono
subordinati al preventivo rilascio del parere o
dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni
normative (si pensi, ad esempio, al notevole impatto che può
avere sul paesaggio già il solo rifacimento totale
dell'intonacatura e del rivestimento esterno di un edificio
qualora ne alteri il precedente aspetto esteriore).
Tuttavia, per l'acquisizione dell'autorizzazione
paesaggistica la conferenza di servizi non è
imprescindibilmente obbligatoria.
Condono edilizio - Nuova formulazione normativa -
Comportamento omissivo - Valenza di silenzio-rifiuto -
Silenzio-assenso - Esclusione - T.U. n. 380/2001 - D.Lgs. n
152/2006 - D.Lgs. n. 42/2004.
La normativa statale sul condono edilizio, per la sua natura
straordinaria ed eccezionale, è di stretta interpretazione.
Infatti, con la nuova formulazione normativa viene ripudiato
l'istituto del silenzio-assenso ed al comportamento omissivo
protrattosi oltre 180 giorni dalla richiesta di parere si
attribuisce valenza di silenzio-rifiuto tutti i tipi di
vincoli.
Opere abusive insanabili - L. n. 47/1985 e s.m..
Ai sensi degli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n.
47, le opere abusive non sono suscettibili di sanatoria,
qualora: siano state realizzate su immobili soggetti a
vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a
tutela degli interessi idrogeologici e delle falde
acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei
parchi e delle aree protette nazionali, regionali e
provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di
dette opere, in assenza o in difformità del titolo
abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche
e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;''.
Ordine di demolizione - Funzione - Sanatoria ed
estinzione dei reati edilizi - Poteri del Giudice.
In materia di sanatoria ed estinzione dei reati edilizi,
sussiste in capo al giudice penale la competenza
istituzionale per compiere l'accertamento di conformità alle
norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti
urbanistici.
Di conseguenza, risulta legittima la subordinazione della
sospensione condizionale della pena alla demolizione
dell'opera abusiva [Cass. Sez. III, 17.04.2003, n. 18304,
Guido; Sez.III, 07.04.2000, n, 4086, Pagano; Sez. V,
30.09.1498, n. 10309, Licata; Cass. Sezioni Unite
03.02.1997, sentenza n, 714, ric. Luongo.
Cosicché, deve ritenersi definitivamente superata, in
materia urbanistica, la visione di un giudice supplente
della pubblica Amministrazione, in quanto è il territorio a
costituire l'oggetto della tutela posta dalle relative norme
penali: non può affermarsi, pertanto, che la legge riserva
all'autorità amministrativa ogni tipo di intervento nella
materia e, avendo l'ordine di demolizione la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, ben può trovare
applicazione l'art. 165 cod. pen..
Sanatorie amministrative - Sanzionabilità penale.
Solo il legislatore statale può incidere sulla
sanzionabilità penale (per tutte v. la sentenza C. Cost. n.
487 del 1989) e che esso, specie in occasione di sanatorie
amministrative, dispone di assoluta discrezionalità in
materia di estinzione del reato o della pena, odi non
procedibilità (C. Cost. sentenze n. 327 del 2000, n. 149 del
1999 e n. 167 del 1989; C. Cost. n. 196/2004).
Illeciti ammessi a sanatoria - Profili esclusivamente
penali - Estinzione dei reati edilizi - Effetti.
Il comma 36 dell'art. 32 del D.L. n. 269/2003 ricollega la
produzione degli "effetti di cui all'art. 38, comma 2,
della legge 28.02.1985, n. 47" (estinzione dei reati
edilizi e di quelli già previsti dalle leggi n. 1086/1971 e
n. 64/1974) ai soli illeciti ammessi a sanatoria. Il comma 1
del novellato art 32 della legge n. 47/1985 dispone che
soltanto "il rilascio del titolo abilitativo edilizio
[previo parere favorevole delle Amministrazioni preposte
alla specifica tutela vincolistica n.d.r.] estingue anche il
reato per la violazione del vincolo", (Corte
Costituzionale n. 196/2004). Conseguentemente, l'art. 39
della legge n. 47/1985, non può essere applicato per le
opere che oggettivamente non abbiano i requisiti di
condonabilità di cui all'art. 32 del D.L. n. 269/2003.
Condono edilizio - Sospensione del processo - Poteri
del giudice - Sospensione in assenza dei presupposti di
legge - Effetti.
Il giudice, già prima di sospendere il processo ex art. 44
della legge n. 47/1985, deve effettuare un controllo in
ordine alla sussistenza delle condizioni legittimanti
l'accesso alla procedura sanante (data di esecuzione delle
opere, stato di ultimazione delle stesse secondo la nozione
fornita dall'art. 31 della legge n. 47/1985; rispetto dei
limiti volumetrici, eventuali esclusioni oggettive della
tipologia d'intervento dalla sanatoria; tempestività della
presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una
domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate
nel capo di imputazione), (Cass. Sezioni Unite 24.11.1999,
sentenza n. 22, ric. Sadini).
L'ambito di tale potere di controllo è strettamente connesso
all'esercizio della giurisdizione penale, perché è il
giudice che deve eseguire, in conclusione, l'indispensabile
verifica degli elementi di fatto e di diritto della causa
estintiva. Trattasi, inoltre, di compiti propri
dell'autorità giurisdizionale -conformi al dettato degli
artt. 101, 2° comma, 102, 104, 1° comma, e 112 Cost.- che
non possono essere demandati neppure con legge ordinaria
all'autorità amministrativa in un corretto rapporto delle
sfere specifiche di attribuzione.
Nel caso in cui il giudice sospenda il processo (ex arti. 44
o 38 della legge n. 47/1985) in assenza dei presupposti di
legge, la sospensione è inesistente ed il corso della
sospensione non è interrotto (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 15.02.2007 n. 6431
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EDILIZIA
PRIVATA:
BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Annullamento del nulla
osta paesaggistico - Sentenza di annullamento - Diniego di
sanatoria edilizia fondato sul decreto soprintendentizio -
Caducazione - Esclusione - Invalidità ad effetto caducante e
invalidità ad effetto viziante.
Il diniego di sanatoria edilizia, ancorché fondato sul
decreto soprintendentizio di annullamento del nulla osta
paesaggistico, non è caducato dalla sentenza di annullamento
di quest’ultimo atto, vertendosi nell'ambito dell'invalidità
ad effetto cd. "viziante". La tradizionale
distinzione, elaborata in sede giurisprudenziale, tra
invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto
viziante, si basa sulla diversa intensità che
contraddistingue il nesso di presupposizione o di
derivazione intercorrente tra l'atto annullato e l'atto
successivo. Quando l'atto presupposto entra nel modello
legale dell'atto conseguenziale come requisito di esistenza
opera l’effetto caducante.
Nel caso dell’invalidità ad effetto viziante, invece, l’atto
consequenziale risulta invalido per vizio derivato, ma resta
efficace, salva un’apposita ed idonea impugnativa,
resistendo all’annullamento dell’atto presupposto (cfr.
Cons. Stato Sez. V 22/11/1996 n. 1389; TAR Veneto Sez. I
09/05/1996 n. 901, in materia di illegittimità caducante
nell’ambito del rapporto endoprocedimentale, o TAR Puglia
Sez. I 06/11/2002 n. 4837, Cons. Stato Sez. V 11/02/2002 n.
785, in ipotesi di rapporto di “preordinazione funzionale”).
Così, l’effetto caducante si realizza, tipicamente, per
tutti gli atti che, in quello annullato, trovano il loro
antecedente necessario, purché non sia frattanto intervenuto
un nuovo e diverso atto, il quale, come suo proprio effetto
e indipendentemente dall’atto annullato, modifichi
irreversibilmente le situazioni giuridiche; in quest’ultimo
caso, gli atti, seppur viziati, potranno essere annullati
soltanto se tempestivamente gravati; nel primo il ricorrente
non ha evidentemente l’onere d’impugnare gli atti
consequenziali che in quello annullato trovano il loro
antecedente necessario (cfr. C.d.S., V, 24.05.1996, n. 592).
Nel caso di specie, gli atti in questione (annullamento del
nulla osta comunale e diniego della concessione in
sanatoria) pur collegati nell’ambito del rapporto
procedimentale, esprimono una differente valutazione di
interessi, e non sussiste quel rapporto strettamente
funzionale, tale da far ritenere il rapporto di necessaria
presupposizione tra atti, riconducibile al novero della “preordinazione
funzionale”.
Invero, il diniego di concessione in sanatoria, seppure
fondato sulla presa d’atto dell’annullamento del nulla osta
paesaggistico, è espressione di una rinnovata valutazione di
interessi da parte della autorità comunale, tale da non
poter essere travolto dai vizi del precedente provvedimento
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 12.02.2007 n. 997
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ATTI
AMMINISTRATIVI: Preavviso
di rigetto e controdeduzioni del privato.
Il G.A. piemontese ha
stabilito che, ai sensi dell'art. 10-bis della legge n. 241
del 1990, il provvedimento di diniego a fronte di un'istanza
del privato deve riportare le ragioni per la cui la P.A. ha
ritenuto di non accogliere le deduzioni prodotte dal
richiedente in riscontro al cd. "preavviso di rigetto"
della sua domanda pretensiva; diversamente, il provvedimento
risulta illegittimo.
Le regole in tema di partecipazione al procedimento,
infatti, sono finalizzate a consentire al privato una
fattiva partecipazione all'istruttoria procedimentale; ciò
importa che, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), della
stessa legge, l'amministrazione ha l'obbligo di valutare le
memorie scritte ed i documenti prodotti dall'interessato,
ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento, e di dare
conto, nella motivazione del provvedimento finale, delle
ragioni che l'hanno indotta a non accogliere quanto
rappresentato dal privato.
E, pertanto, illegittimo il provvedimento che non esterni
compiutamente e specificamente la motivazione che ha indotto
l'amministrazione all'adozione dell'atto pur in presenza di
controdeduzioni formalizzate dal destinatario dell'azione
amministrativa (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 07.02.2007 n. 505
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AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
INFORMAZIONE AMBIENTALE - D.Lgs. n. 195/2005 - Nozione
- Dichiarazione in ordine all’interesse all’accesso -
Necessità - Esclusione.
Si definisce “informazione ambientale”, di cui al
D.Lgs. 195/2005, qualsiasi informazione disponibile in forma
scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra
forma materiale concernente:
1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali
l'aria, l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio, i
siti naturali, compresi gli igrotopi, le zone costiere e
marine, la diversità biologica ed i suoi elementi
costitutivi, compresi gli organismi geneticamente
modificati, e, inoltre, le interazioni tra questi elementi;
2) fattori quali le sostanze, l'energia, il rumore,
le radiazioni od i rifiuti, anche quelli radioattivi, le
emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell'ambiente, che
incidono o possono incidere sugli elementi dell'ambiente,
individuati al numero 1);
3) le misure, anche amministrative, quali le
politiche, le disposizioni legislative, i piani, i
programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche
di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o
possono incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente
di cui ai numeri 1) e 2), e le misure o le attività
finalizzate a proteggere i suddetti elementi;
4) le relazioni sull'attuazione della legislazione
ambientale;
5) le analisi costi-benefìci ed altre analisi ed
ipotesi economiche, usate nell'àmbito delle misure e delle
attività di cui al numero 3);
6) lo stato della salute e della sicurezza umana,
compresa la contaminazione della catena alimentare, le
condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli
edifici d'interesse culturale, per quanto influenzabili
dallo stato degli elementi dell'ambiente di cui al punto 1)
o, attraverso tali elementi, da qualsiasi fattore di cui ai
punti 2) e 3).
L’informazione può essere richiesta da qualsiasi persona
fisica o ente “senza che questi debba dichiarare il
proprio interesse”, ad ogni Autorità pubblica che ne
abbia il possesso “in quanto dalla stessa prodotta o
ricevuta o materialmente detenuta” (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 07.02.2007 n. 294
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività valutativa ed
elaborativa - Istanza generica di accesso agli atti - Limiti
- Diniego di accesso - Fattispecie.
Quando l'istanza di accesso agli atti postuli un'attività
valutativa ed elaborativa dei dati in possesso
dell'amministrazione, è precluso il suo accoglimento, poiché
rivela un fine di generale controllo sull'attività
amministrativa che non risponde alla finalità per la quale
lo specifico strumento in parola può venire azionato, che è
solo quella della tutela di un ben specifico interesse
(Consiglio Stato, sez. IV, 09.08.2005, n. 4216)
(Fattispecie: lesioni da inquinamento acustico, accesso alla
documentazione concernente il procedimento avviato dall’ARPA
Lazio per il risanamento acustico dell’area. Quanto al
procedimento sanzionatorio a carico dell’Impresa in
relazione all’inquinamento acustico lamentato, la nota del
Comune informava l’interessato che il procedimento era in
corso di svolgimento, procedendosi alle verifiche richieste.
Pertanto, l’auspicato intervento sanzionatorio si trovava in
una fase interlocutoria, destinata all’accertamento dei
presupposti legali per l’adozione del provvedimento, quindi,
l’Amministrazione non era in condizioni di esibire un
documento di natura provvedimentale, che integrava in modo
compiuto l’esito delle valutazioni necessarie)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.01.2007 n. 408
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EDILIZIA
PRIVATA:
Installazione di una stazione radio base - Istanza di
rilascio del permesso di costruire - Formazione del silenzio
assenso ex art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003 - Esclusione.
Una volta inoltrata, in vigenza dell’art. 87 del D. Lgs. n.
259/2003, la domanda di rilascio del permesso di costruire
per l’installazione di una stazione radio base, il
richiedente non può più avvalersi dell’istituto del silenzio
assenso ex art. 87 citato.
Se è vero che l’Amministrazione ha l’obbligo di attenersi ai
principi di cui all’art. 97 della Cost. nell’espletamento
della propria attività amministrativa, in modo conforme deve
agire anche la parte privata, evitando, cioè, di chiedere un
determinato provvedimento con l’intento di avvalersi, in
caso di negato rilascio, di un altro e ben diverso
provvedimento.
Nel caso specifico, quindi, proprio perché era stato
espressamente chiesto il permesso di costruire,
l’Amministrazione non aveva alcun obbligo di intendere
diversamente la domanda.
Regione Marche - L.R. n. 124/2001 - Comuni - Potere di
individuare i siti idonei alla localizzazione degli impianti
di telefonia mobile - Sussistenza - Preventivo invito ai
gestori a presentare osservazioni - Legittimità del
regolamento comunale.
E’ legittimamente adottato un regolamento comunale per
l’installazione delle infrastrutture di comunicazione
elettronica, posto che, ai sensi della Legge regionale
Marche n. 124/2001, ai Comuni è demandata la possibilità di
individuare sul proprio territorio i siti più idonei per la
localizzazione di nuovi impianti di telefonia mobile; tanto
a maggior ragione se (come nella specie) l’individuazione è
preceduta dall’espresso invito ai gestori delle reti a
comunicare le proprie osservazioni in seno alla procedura di
variante al P.R.G. adottata (TAR Marche, Sez. I,
sentenza 31.01.2007 n. 28
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Inquinamento idrico - Acque - Nuova attività
produttiva nel medesimo impianto - Autorizzazione allo
scarico - Mutamento titolare dello scarico - Autonoma
autorizzazione - Necessità - Valori limite di emissione -
Fattispecie - Art. 45 D. L.vo n. 152/1999 (ora art. 124
D.Lgs. n. 152/2006.
L’insediamento di una nuova attività produttiva nel medesimo
capannone facente capo a diversa persona giuridica priva di
ogni collegamento con quella precedentemente insediata,
seppure avente non dissimile oggetto sociale, impone
necessariamente l'acquisizione di autonoma autorizzazione
allo scarico da emettersi a seguito di nuova valutazione
dell'attività produttiva e delle caratteristiche dello
scarico.
Ciò in quanto l'autorizzazione allo scarico ex art. 45 D.
Legislativo n. 152/1999 (ora art. 124 del D. Lgs. n.
152/2006) è necessariamente funzionale alle caratteristiche
qualitative e quantitative dello scarico, alla indicazione
dei mezzi tecnici indicati nel processo produttivo e nei
sistemi di scarico nonché all'indicazione dei sistemi di
depurazione utilizzati per conseguire il rispetto dei valori
limite di emissione (art 46 D. Lgs.vo. 152/1999).
Fattispecie: nuovi scarichi di acque reflue industriali,
mediante immissione in rete fognaria pubblica. (conferma,
Tribunale di Modena sentenza del 03/10/2005).
Inquinamento idrico - Tutela delle acque - Nuovi
scarichi di acque reflue industriali, mediante immissione in
rete fognaria pubblica - Controlli - Natura - Titolare
dell'attività autorizzata - Mutamento del titolare -
Autonoma autorizzazione - Necessità - Artt. 59, c. 1° e 45,
D.Lgs. n. 152/1999 (ora artt. 137 e 124 D. Lgs. n.
152/2006).
In materia di tutela delle acque, la natura temporanea
dell'autorizzazione allo scarico è stabilita anche in
funzione di un controllo circa l'affidabilità del relativo
destinatario in ordine alla piena osservanza di tali
prescrizioni. Sicché, non è indifferente per il legislatore
l'identità del soggetto, persona fisica o giuridica,
destinatario della autorizzazione allo scarico, che appunto
l'art. 45 del D. Lgs. n. 152 (ora art. 124 del D.Lgs. n.
152/2006) prevede che possa essere rilasciata unicamente "al
titolare dell'attività da cui origina lo scarico".
Un tale collegamento presuppone il controllo preventivo
sulle caratteristiche e sulle qualità soggettive di
affidabilità dell'impresa richiedente, a garanzia, già nella
fase preliminare del procedimento di autorizzazione,
dell'effettiva osservanza, da parte del destinatario di
questa, delle prescrizioni imposte dalla legge e
dall'autorità amministrativa in materia di scarichi (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.01.2007 n. 2877
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EDILIZIA
PRIVATA:
BOSCHI E FORESTE - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Area
boscata - Nozione - Qualifica di bosco - Presupposti -
Inclusione negli elenchi - Necessità - Esclusione - Art. 163
D. Lgs. n. 490/1999 - Art. 181 D. Lgs. n. 42/2004.
Il taglio del bosco eseguito con tecnica a raso e non
culturale configura il reato dell'articolo 163 d.lgs. n.
490/1999, ora sostituito dall'articolo 181 del D.Lgs. n. 42
della 2004 (Sez. 3 n 18695 dell'11.03.2004, rv 228452).
Un’area boscata è qualificabile dalla presenza effettiva del
bosco quando un terreno coperto da vegetazione forestale
arborea, associata o meno a quella arbustiva, abbia i
requisiti indicati dalla normativa in materia, (ad es.
estensione, copertura, ecc). e ciò indipendentemente dal
dato che la zona sia riportata come tale in specifici
elenchi.
Sicché, ai fini della sottoposizione a vincolo paesaggistico
non può assumere una portata riduttiva la nozione di "territorio
coperto da bosco".
BOSCHI E FORESTE - BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Nozione di "territorio coperto da bosco" - Zona boscata -
Natura.
La nozione di "territorio coperto da bosco", ai fini
della sottoposizione a vincolo paesaggistico ai sensi
dell'art. 1, lett. g), della legge 08/08/1985 n. 431 e s.m.,
non può assumere una portata riduttiva (Sez. 3, n. 1551 del
10/04/2000 Rv. 216980), sicché la natura di zona boscata è
determinata dalla presenza effettiva di bosco fitto di alto
fusto o di bosco rado indipendentemente dal dato che la zona
sia riportata come tale dalla Carta tecnica regionale (Sez.
3, n. 17060 del 21/03/2006 Rv. 234318).
BOSCHI E FORESTE - BENI CULTURALI E AMBIENTALI -
Macchia mediterranea - Zona boscata - Tutela.
La macchia mediterranea interessata dalla predominanza,
rispetto ai sottostanti cespugli, di alberi di medio fusto o
di essenze arbustive di elevato sviluppo -e non avente,
quindi, caratteristiche di macchia bassa o rada- rientra
nella previsione dell'art. 1, lett. g), della legge
08/08/1985 n. 431 e s.m. (da ultimo Sez. 3, n. 48118 del
04/11/2004 Rv. 230483) (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 25.01.2007 n. 2864
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Zonizzazione - Inserimento nella stessa classe di aree
aventi valenza e destinazione diversa - Abitazioni e
insediamenti industriali - Irragionevolezza.
Non risulta ragionevole, perché non fondato su una
realistica rappresentazione della situazione considerata, un
azzonamento acustico che preveda l’inserimento nella stessa
classe di aree aventi valenza e destinazione diversa, atteso
che, in questo modo, si assoggettano tali aree agli stessi
limiti di emissione, pregiudicando le esigenze dei soggetti
che operano nel settore industriale, ove lo stesso
legislatore ha consentito più elevati livelli di rumorosità
in considerazione delle esigenze scaturenti dalla natura
dell’attività svolta. (cfr. Tar Milano n. 1231/2004)
(nella specie, l’amministrazione comunale aveva creato una
macrozona contenente parti del territorio significativamente
diverse per destinazione - zone C e D, interessate da
insediamenti industriali e da abitazioni - determinandosi ad
attribuire, nella medesima macrozona, una duplice, diversa
classificazione acustica - II e III -).
Zonizzazione - Divieto di contatto diretto di aree con
grado acustico non immediatamente consecutivo - Art. 4 L. n.
447/1995 - Procedimento - Zone cuscinetto - Piani di
risanamento acustico.
La creazione di macrozone che comprendano parti del
territorio del tutto eterogenee non può essere giustificata
dall’esigenza di rispettare il divieto, sancito
normativamente dall’art. 4 della L. 447/1995, di contatto
diretto di aree aventi grado acustico non immediatamente
consecutivo (come può avvenire quando zone urbanisticamente
qualificate produttive sono collocate a ridosso di aree
residenziali).
In tal caso, infatti, il piano di zonizzazione acustica
dovrà prevedere la realizzazione di zone cuscinetto, ovvero,
se neppure questo è praticabile, imporre piani di
risanamento acustico (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 24.01.2007 n. 187
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EDILIZIA
PRIVATA:
Immobile abusivo - Acquisizione al patrimonio comunale
- Ordine di demolizione - Interesse a sospendere o
paralizzare l'esecuzione - Limiti.
Dopo l'acquisizione del bene al patrimonio comunale, viene
di regola comunque meno per il condannato l'interesse a
sospendere o paralizzare l'esecuzione dell'ordine di
demolizione in quanto nel frattempo è il Comune ad essere
divenuto proprietario del bene.
Demolizione del manufatto abusivo - Esecuzione
dell'ordine - Domanda di condono edilizio - Presupposti -
Verifiche del giudice.
In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del
manufatto abusivo, impartito con la sentenza di condanna, il
giudice, al fine di pronunciarsi sulla sospensione
dell'esecuzione a seguito dell'avvenuta presentazione della
domanda di condono edilizio ex art. 32 del D.L. 30.09.2003
n. 289, convertito con modificazioni in legge 24.11.2003 n.
326, deve accertare l’esistenza delle seguenti condizioni:
a) la tempestività e proponibilità della domanda;
b) la effettiva ultimazione dei lavori entro il termine
previsto per l'accesso al condono;
c) il tipo di intervento e le dimensioni volumetriche;
d) la insussistenza di cause di non condonabilità assoluta;
e) l'avvenuto integrale versamento della somma dovuta ai
fini dell'oblazione;
f) l'eventuale rilascio di un permesso in sanatoria o la
sussistenza di un permesso in sanatoria tacito (Cass. Sez.
3, n. 3992 del 12/12/2003 Rv. 227558) e che, quindi, non può
essere disposta in sede di esecuzione la sospensione
dell'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna in attesa della definizione della
procedura relativa al rilascio della concessione in
sanatoria qualora l'opera non rientri tra quelle condonabili
(Cass. Sez. 3, n. 49399 del 16/11/2004 Rv. 230798).
Ordine di demolizione accessivo alla condanna
principale - Autonomia funzionale - Finalità - Ristoro
dell'offesa al territorio.
In materia urbanistica, sussiste l’autonomia funzionale
dell'ordine di demolizione accessivo alla condanna
principale. Lo stesso persegue la finalità di ristoro
dell'offesa al territorio e che le modalità di applicazione
e di esecuzione del provvedimento ripristinatorio devono
trovare esatta corrispondenza nella situazione lesiva da
rimuovere (Cass. S.U. n. 15 del 1996, RV 205336).
Manufatto abusivo - Demolizione - Sanzione - Riesamina
in fase esecutiva - Art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
La sanzione della demolizione del manufatto abusivo,
prevista dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47 ed ora
sostituito dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è
sottratta alla regola del giudicato ed è riesaminabile in
fase esecutiva (Cass. Sez. 3, n. 23992 del 16/04/2004 Rv
228691).
Opera abusiva - Ordine di demolizione emesso dal
giudice penale - Acquisizione gratuita nel patrimonio
indisponibile del comune - Incompatibilità - Esclusione -
Deliberazione consiliare - Condizioni.
L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva patrimonio
indisponibile del comune non è incompatibile con l'ordine di
demolizione emesso dal giudice penale ed eseguito dal
pubblico ministero, potendosi ravvisare un'ipotesi di
incompatibilità soltanto se la deliberazione consiliare
abbia statuito di non dover demolire l'opera acquisita
ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive. (ex plurimis Cass.
Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003 Rv. 226321; Cass. Sez. 3, n.
26149 del 09/06/2005 Rv. 231941; Cass. Sez. III, n. 37120
del 11/05/2005 Rv. 232174).
Ordine di demolizione impartito dal giudice penale -
Natura - Autonoma funzione ripristinatoria - Art. 31, ultimo
c., T.U. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice penale ai
sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge n. 47/1985
(attualmente previsto dell'art. 31, ultimo comma, del T.U.
n. 380/2001), assolvendo ad un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, ha natura di
provvedimento accessorio rispetto alla condanna principale e
costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non
residuale o sostitutivo ma autonomo rispetto a quelli
dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al
giudice penale (vedi: Cass. sentenza n. 37120/2005; Cass.,
Sez. Unite, 24.07.1996, n. 15, ric. PM in proc. Monterisi).
Opera abusiva - Ordine demolitorio impartito dal
giudice penale - Acquisizione gratuita - Patrimonio
indisponibile del comune - Finalità - Consiglio Comunale -
Poteri e limiti.
L'acquisizione gratuita, in via amministrativa, è
finalizzata essenzialmente alla demolizione, per cui non si
ravvisa alcun contrasto con l'ordine demolitorio impartito
dal giudice penale, che persegue lo stesso obiettivo: il
destinatario di tale ordine, a fronte dell'ingiunzione del
P.M., allorquando sia intervenuta l'acquisizione
amministrativa a suo danno, non potrà ottemperare
all'ingiunzione medesima allorquando il Consiglio Comunale
abbia già ravvisato (ovvero sia sul punto di deliberare)
l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento
delle opere abusive.
Ove il Consiglio comunale non abbia deliberato il
mantenimento dell'opera, il procedimento sanzionatorio
amministrativo (per le opere realizzate in assenza di
permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni
essenziali) ha come sbocco unico ed obbligato la demolizione
a spese del responsabile dell'abuso.
Ordine di demolizione - Fase di esecuzione -
Provvedimenti concorrenti - Risoluzione - Incompatibilità.
Nella fase di esecuzione dovranno risolversi le questioni
riguardanti i rapporti con i provvedimenti concorrenti della
pubblica Amministrazione e potrà disporsi la revoca
dell'ordine di demolizione (statuizione sanzionatoria
giurisdizionale, che, avendo natura amministrativa, non è
suscettibile di passare in giudicato) che risulti non
compatibile con situazioni di fatto o giuridiche
sopravvenute, quali atti amministrativi della competente
autorità, che abbia conferito all'immobile altra
destinazione o abbia provveduto alla sua sanatoria.
Tale incompatibilità, però, oltre che assoluta, deve essere
già esistente ed insanabile e non invece futura e meramente
eventuale (Cass., Sez. 3^: 17.12.2001, Musumeci ed altra;
30.03.2000, Ciconte; 14.02.2000, Cucinella; 04.02.2000, Le
Grottaglie; 07.03.1994, Iannelli e 7.3.1994, Acquafredda).
Manufatto abusivo - Ordine di demolizione adottato dal
giudice penale - Efficacia e limiti - Acquisizione al
patrimonio del Comune - T.U. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, adottato dal
giudice penale ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della
Legge 28.02.1985, n. 47, (attualmente previsto dell'art. 31,
ultimo comma, del T.U. n. 380/2001) conserva efficacia fino
a quando la Pubblica Amministrazione rimanga inerte,
omettendo sia di ingiungere la demolizione, sia di procedere
all'acquisizione di diritto del manufatto al patrimonio del
Comune (in questo senso Sez. III, n. 22743 del 15/04/2004 Rv.
228721).
Pertanto, una volta esauritasi la procedura ablatoria con il
provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio
comunale -provvedimento che costituisce titolo per la
successiva immissione in possesso e la trascrizione nei
registri immobiliari- il condannato è privato della
titolarità e disponibilità del bene stesso e, quindi, viene
a trovarsi nella condizione dell'impossibilità di eseguire
l'ordine giudiziale di demolizione, se non compiendo un atto
di intervento su cosa altrui (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1904
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EDILIZIA
PRIVATA:
Concessione edilizia o permesso di costruire -
Legittimità del titolo abilitativo - Poteri del giudice
penale - Giudicato amministrativo.
Il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della
liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la
conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla
legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici
e dal titolo abilitativo edificatorio (vedi Cass., Sez. Un.,
28.11.2001, Salvini).
Deve escludersi che -qualora sussista difformità dell'opera
edilizia rispetto a previsioni normative statali o regionali
ovvero a prescrizioni degli strumenti urbanistici- il
giudice debba comunque concludere per la mancanza di
illiceità penale qualora sia stata rilasciata concessione
edilizia o permesso di costruire, in quanto detti
provvedimenti non sono idonei a definire esaurientemente lo
statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda.
Inoltre, deve escludersi che una qualsiasi pronuncia del
giudice amministrativo, coinvolgente l'atto amministrativo
costituente elemento di fattispecie penalmente rilevante,
possa inibire al giudice ordinario la valutazione dei
profili di illegittimità dello stesso.
Titolo edilizio illegittimo - Esecuzione di lavori
edilizi in assenza di permesso di costruire - Configurazione
del reato.
Il reato di esecuzione di lavori edilizi in assenza di
permesso di costruire può ravvisarsi anche in presenza di un
titolo edilizio illegittimo, (Cass. Sez. III, sentenza del
21.03.2006, ric. Di Mauro), salvo che provvedimenti
giurisdizionali del giudice amministrativo passati in
giudicato abbiano espressamente affermato la legittimità
della concessione o della autorizzazione edilizia ed il
conseguente diritto del cittadino alla realizzazione
dell'opera.
Prescrizioni degli strumenti urbanistici - Difformità
da disposizioni legislative o regolamentari - Poteri del
giudice penale - Elementi di natura extrapenale.
Nel caso di accertata difformità da disposizioni legislative
o regolamentari, ovvero dalle prescrizioni degli strumenti
urbanistici, non si configura una non consentita "disapplicazione",
da parte del giudice penale dell'atto amministrativo
concessorio (Cass., Sez. Un., 12.11,1993, Borgia), in quanto
lo stesso giudice, qualora come presupposto o elemento
costitutivo di una fattispecie di reato sia previsto un atto
amministrativo ovvero l'autorizzazione del comportamento del
privato da parte di un organo pubblico, non deve limitarsi a
verificare l'esistenza ontologica dell'atto o provvedimento
amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno
della fattispecie penale, "in vista dell'interesse
sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella
quale gli elementi di natura extrapenale convergono
organicamente, assumendo un significato descrittivo"
(vedi Cass., Sez. Un., 28,11.2001, Salvini; nonché Sez. VI,
18.03.1998, n. 3396, Calisse ed altro).
Illegittimità sostanziale di un titolo abilitativo
edilizio - Poteri del giudice penale - Art. 5 L. n.
2248/1863, all. E).
Il giudice penale, allorquando accerta profili di
illegittimità sostanziale di un titolo abilitativo edilizio,
procede ad una identificazione in concreto della fattispecie
sanzionata e non pone in essere alcuna "disapplicazione"
riconducibile all'art. 5 della legge 20.03.1863, n. 2248,
allegato E), né incide, con indebita ingerenza, sulla sfera
riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un
potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa
previsione normativa incriminatrice. (Cass., Sez. III,
28.09.2006, sentenza n. 40425, Consiglio).
Non conformità dell'atto amministrativo alla normativa
- Sindacato del giudice penale.
La non conformità dell'atto amministrativo alla normativa
che ne regola l'emanazione alle disposizioni legislative
statali e regionali in materia urbanistico-edilizia ed alle
previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata
non soltanto se l'atto medesimo sia illecito, cioè frutto di
attività criminosa, ed a prescindere da eventuali collusioni
dolose del soggetto privato interessato con organi
dell'amministrazione.
Il sindacato del giudice penale, al contrario, è possibile
tanto nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia
espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste
dalla legge quanto in quelle di mancato rispetto delle norme
che regolano l'esercizio del potere.
Costruzione edilizia - Conformità alla legge ed agli
strumenti urbanistici - Potere e limiti del giudice penale.
Il potere del giudice penale di accertare la conformità alla
legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione
edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali
del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano
espressamente affermato la legittimità della concessione o
della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del
cittadino alla realizzazione dell'opera (vedi: Cass., Sez.
III, 21.10.2003, n. 34707, Luterano di Scorpianello) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1894
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EDILIZIA
PRIVATA:
Distanze legali minime tra costruzioni - Disciplina
applicabile ai rapporti tra privati - Art. 9 del D.M., n.
1444/1968 - Esclusione - Disciplina codicistica - Art. 873
segg. cod. civ..
La disciplina delle distanze legali minime tra costruzioni
posta dall'art. 9 del D.M., n. 1444/1968 non è applicabile
ai rapporti tra privati, trattandosi di disposizione
esclusivamente dedicata ai Comuni, i quali sono tenuti al
rispetto delle menzionate distanze nella predisposizione
degli strumenti urbanistici.
Ne consegue che: a) se lo strumento urbanistico si ponga in
contrasto con l'art. 9 del D.M. n 1444/1968, esso può essere
finanche disapplicato dal giudice ordinario, che può
riconoscere immediata precettività al predetto art. 9,
divenuto, per inserzione automatica, parte integrante dello
strumento urbanistico in sostituzione della disposizione
disapplicata; b) se lo strumento urbanistico non stabilisca
distanze legali minime per le costruzioni in una determinata
area, dall'impossibilità di applicazione dell'art, 9 D.M. n.
1444/1968 nei rapporti interprivati discende che alla
costruzioni si applica la disciplina codicistica, con
possibilità di edificazioni sul confine o in aderenza (artt.
873 segg. cod. civ.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1894
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EDILIZIA
PRIVATA:
Nozione di bosco - Tutela
paesaggistica - Competenze dello Stato e delle Regioni -
Lotta contro gli incendi boschivi - Art. 2, c. 6, D.Lgs. n.
227/2001.
La definizione della nozione di bosco ai fini della tutela
paesaggistica spetta solo allo Stato, che l'ha esercita
attraverso il comma 6, dell'art. 2 del D.Lgs. 18.05.2001 n.
227, mentre spetta alle Regioni stabilire eventualmente un
diverso concetto di bosco per i territori di loro
appartenenza, solo per fini diversi, attinenti per esempio
allo sviluppo dell'agricoltura e delle foreste, alla lotta
contro gli incendi boschivi, alla gestione
dell'arboricoltura da legno etc..
E' evidente che se le
Regioni formulassero una diversa definizione di bosco avente
efficacia anche per la individuazione dei territori boschivi
protetti dal vincolo paesaggistico finirebbero per
interferire sulla estensione della tutela dell'ambiente, che
per precisa scelta costituzionale è riservata allo Stato.
(Legge costituzionale 18.10.2001 n. 3, che ha modificato la
ripartizione delle competenze regionali tra Stato e
Regioni).
Individuazione dei territori boschivi protetti dal
vincolo paesaggistico - Nozione di bosco.
La nozione di bosco ai fini della individuazione dei
territori boschivi protetti dal vincolo paesaggistico è
stata definita nel comma 6 dell'art. 2 del D.Lgs. 18.05.2001
n. 227, e coincide con ogni terreno coperto da vegetazione
forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da
castagneti, sugherete o da macchia mediterranea, purché
avente estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati,
larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non
inferiore al 20 per cento. Inoltre, sono assimilati al bosco
i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento per fini di
tutela ambientale, nonché le radure e le altre superfici di
estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono
la continuità del bosco.
INCENDI boschivi - Elaborazione dei piani regionali -
Competenza regioni - Limiti.
In materia di incendi boschivi, la legge 21.11.2000 n. 353
(legge quadro in materia di incendi boschivi), affida alle
regioni il compito di elaborare piani regionali per la
programmazione delle attività di previsione, prevenzione e
lotta attiva contro gli incendi boschivi, sulla base di
linee guida e direttive deliberate dal Consiglio dei
ministri.
Tutela dei boschi - Concetto di bosco - Fattispecie.
Il D.Lgs. 18.05.2001 n. 277, all'art. 2, stabilisce una
definizione generale, valevole per ogni normativa che si
riferisca ai boschi ed espressamente per la normativa
ambientale che tutela i boschi, quale è l'art. 146, comma 1,
lett. g), D.Lgs. 490/1999, ora sostituito dall'art. 142 comma
1, lett. g) D.Lgs. 22.01.2004 n. 42.
Tale generale
definizione vale sino a che le regioni, per gli stessi fini
previsti dalle norme nazionali, non provvedano a definire il
concetto di bosco relativamente al territorio di loro
competenza, e a meno che le stesse regioni non abbiano
diversamente già definito il concetto per gli stessi fini
previsti dalle leggi nazionali.
Nella specie, il concetto di
bosco definito dal piano regionale della Sardegna approvato
allo specifico fine della prevenzione e repressione degli
incendi boschivi, non può sostituire la definizione di bosco
formulata nel comma 6 dell'art. 2 su riportato valevole al
fine della tutela paesaggistica.
Nozione di bosco - Fattispecie
giuridica di "bosco" - Giurisprudenza - Art. 2 del D.Lgs.
227/2001.
Nella nozione di bosco rientra sia la vegetazione arborea,
sia la macchia mediterranea come tale, indipendentemente dal
suo carattere arboreo o arbustivo, sicché non si dovrebbe
più distinguere tra "macchia alta", di predominanza arborea,
e "macchia bassa", di natura arbustiva.
In tal senso non si
può condividere Cass. Sez. III, n. 6011 del 14.12.2001,
Martella, rv. 221164 (poi seguita da Cass. Sez. III, n.
48118 del 04.11.2004, Cani, rv. 230483), che ha il merito di
aver rigorosamente distinto, secondo criteri botanici, le
nozioni di macchia alta, macchia bassa e macchia rada o
"gariga", ma anche il difetto di aver del tutto ignorato la
definizione da poco formulata dal legislatore con l'art. 2
del D.Lgs. 227/2001. (In relazione a tale definizione, si
potrebbe plausibilmente sostenere che dei tre tipi di
macchia individuati nella sentenza Martella, solo la
"gariga", cioè la scarna coltre vegetale dei suoli più
poveri, resti estranea alla nozione legislativa di bosco).
Alla luce dei principi su esposti, del tutto correttamente
il giudice del riesame ha ritenuto che nel caso di specie
ricorresse la fattispecie giuridica di "bosco", come tale
vincolata a fini paesaggistici, atteso che il terreno sul
quale era in corso di realizzazione l'intervento de quo era
coperto da macchia mediterranea c.d. alta, composta da
tipica vegetazione arborea, associata a vegetazione
arbustiva (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1874
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EDILIZIA
PRIVATA:
Tutela paesaggistica - Intervento edilizio effettuato con
permesso di costruire ma in assenza della autorizzazione
paesaggistica - Violazione, dell’art. 181 D.Lgs. 22.01.2004
n. 42 - Sussiste - Reato di cui all'art. 44 lett. c) D.P.R.
380/2001, in relazione agli artt. 142 e 146 D.Lgs. 42/2004 -
art. 2, comma 6, D.Lgs. 227/2001.
In materia di tutela paesaggistica, deve essere ravvisato il
fumus della contravvenzione di cui agli artt. 142 e 146 (rectius
di cui all'art. 181 in relazione agli artt. 142 e 146)
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 sul rilievo che un intervento
edilizio sia stato effettuato in forza di una concessione
edilizia (rectius permesso di costruire), ma in
assenza della autorizzazione paesaggistica prescritta dal
citato art. 146 (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1874
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URBANISTICA: Piano
regolatore: in caso di stravolgimento è necessaria la
riadozione.
Laddove previsioni di
incremento edilizio ed urbanistico siano state drasticamente
ridimensionate a seguito della presentazione di alcune “osservazioni”
riduttive di carattere generale condivise e fatte proprie
dal Comune e, in aggiunta, nella fase di approvazione
regionale siano stati apportati ulteriori stralci che hanno
in definitiva ridotto la variante dall’iniziale previsione
di espansione edilizia, il ridimensionamento operato appare
effettivamente consistente ed esso ha operato uno
stravolgimento delle originarie scelte dell’Amministrazione,
con un radicale cambiamento della filosofia ispiratrice
della variante; si tratta di una profonda deviazione,
insomma, dai criteri originariamente posti alla base
dell’intervento di pianificazione.
In casi di questo genere, peraltro, la modifica in itinere
del Piano, sia che intervenga in sede di accoglimento da
parte del Comune di osservazioni pervenute, sia che trovi
ragione in atti regionali della fase di approvazione, non è
rispondente allo schema ed ai limiti di cui agli artt. 9 e
10 della L.U. del 1942, ma ne costituisce deviazione e
presuppone dunque la riadozione del piano e la riapertura
della fase delle osservazioni.
Se anche poi la modifica a seguito delle osservazioni è nel
caso in esame da imputare, sul piano dispositivo, alle
determinazioni regionali (qualificando come “mera
proposta” quella che il Comune ha inteso dare al
recepimento, da parte sua, delle osservazioni stesse e
conseguenti modifiche di Piano), ugualmente, ad avviso del
Collegio, si è nella specie al di fuori (per il rilievo
delle modifiche stesse e considerato che non tutte sono
motivate con quelle ragioni di protezione ambientale le
quali solamente potrebbero al limite giustificare anche
modifiche essenziali del Piano in sede di approvazione)
degli ambiti modificativi ammessi in sede regionale.
Quanto agli stralci, va rilevato, in generale, che essi, per
la loro rilevanza, ben possono incidere sul piano nella sua
interezza determinandone, in violazione dei normali percorsi
procedimentali previsti dalla legge, una radicale
immutazione, dando luogo, sostanzialmente, ad un piano del
tutto diverso da quello adottato. Nella fattispecie
all’esame, appunto, stralci e prescrizioni si solo
sovrapposti ed il procedimento ne è risultato alfine viziato
(TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 18.01.2007 n. 45
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EDILIZIA
PRIVATA:
Immobile abusivo - Confisca - Inammissibilità -
Demolizione - Art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380/2001 Testo
unico dell'edilizia - L. n. 47/1985 - Art. 240 c. p. - Art.
444 e ss. c.p.p..
Allorché viene contestata l'ipotesi di cui all'articolo 44,
lettera b), del D.P.R. n. 380 del 2001, già ipotesi prevista
dalla lettera b) dell'articolo 20 della legge n. 47 del
1985, non può essere disposta la confisca, né obbligatoria
né facoltativa, ai sensi dell'art. 240 c. p., giacché questa
norma generale è derogata dalla disciplina speciale di cui
all'art. 31, comma 9 e 9-bis, del D.P.R. citato (già articolo
7 della legge n. 47 del 1985), il quale prevede per i reati
di cui all'articolo 44 e per gli interventi di cui
all'articolo 22, comma terzo, una sanzione amministrativa ripristinatoria affidata all'autorità comunale (con ordine
sindacale di demolizione, salva delibera consiliare di
acquisizione gratuita al patrimonio del comune) o in via
subordinata all'autorità giurisdizionale (con ordine
giudiziale di demolizione, se non contrastante con le
determinazioni dell'autorità comunale - Cass. n. 4089 del
2002). Nella specie, il giudice dell'udienza preliminare non
avrebbe potuto disporre la confisca del manufatto costruito
in violazione dell'art. 44, lett. b), e 64, 65, 71 del Testo
unico dell'edilizia. Anzi, pronunciando una sentenza ex art.
444 e ss. c.p.p., che è espressamente equiparata a una
decisione di condanna, doveva restituire all'avente diritto
il manufatto sequestrato (ex art. 262/4 o ex art. 323/3
c.p.p.) e contestualmente disporne la demolizione, essendo
quest'ultima una sanzione amministrativa atipica che il
magistrato ha l'obbligo d'irrogare anche se estranea al
patteggiamento della pena (cfr per tutte Cass. Sez. Un.
15.05.2002 n. 5777).
Confisca giudiziaria ex art.
240 c.p. - Espropriazione a favore dello Stato - Ratio.
La confisca giudiziaria ex art. 240 c. p., come misura di
sicurezza patrimoniale che attua l'espropriazione a favore
dello Stato di cose che servirono a commettere un reato o
che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo o
che sono intrinsecamente criminose, è oggettivamente
incompatibile con la disciplina speciale di cui all’art. 7
legge n. 47 del 1985, (con previsione riprodotta nell'art.
31, 9^ comma, del T.U. 06.06.2001, n. 380), che affida
invece all'autorità comunale la facoltà di scegliere tra la
demolizione e la conservazione del manufatto sequestrato nel
patrimonio immobiliare del comune in considerazione di
prevalenti interessi pubblici.
Demolizione - Potere giurisdizionale - Giurisprudenza.
Solo il potere giurisdizionale di demolizione, che la stessa
disciplina speciale affida in via subordinata al giudice
penale, resta coordinato al potere amministrativo spettante
al sindaco e al consiglio comunale, sia per espressa
disposizione della legge (laddove prevede che il giudice
ordina la demolizione "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita"), sia per consolidata interpretazione
giurisprudenziale. (Cfr. Cass. n. 104/1995; Cass. n.
12288/2000; Cass. n. 4089/2002; Cass. n. 45674/2003).
Ordine di ripristino e demolizione - Lottizzazione
abusiva - Proscioglimento con formula diversa
dall'insussistenza del fatto - Confisca - Obbligatoria.
Nessun coordinamento è previsto dal sistema codicistico tra
il potere della pubblica amministrazione del ripristino e
l'ordine giurisdizionale di confisca, giacché questo, per
espressa disposizione di legge (art. 86 disp. att. c.p.p.),
sfocia nella vendita delle cose confiscate e in via
subordinata nella loro distruzione.
Vero è che la
distruzione può equipararsi sostanzialmente alla
demolizione; ma è altrettanto certo che essa, a differenza
della demolizione disposta ai sensi dell'art. 31, comma 9 e
9-bis, del T.U. n. 380/2001, resterebbe sottratta
all'eventualità di una diversa determinazione da parte
dell'autorità che ha la competenza in materia edilizia e
urbanistica.
Solo nell'ipotesi di lottizzazione abusiva, la
confisca è prevista obbligatoriamente anche in caso di
proscioglimento con una formula diversa dall'insussistenza
del fatto (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2007 n. 591
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EDILIZIA
PRIVATA:
Beni mobile di interesse storico, artistico archeologico
- Omessa denuncia all’autorità - Confisca - Annullamento -
Restituzione dei beni allo Stato - Onere della prova.
L'annullamento della confisca, in materia beni mobili di
interesse storico, artistico archeologico, non comporta,
anche l'annullamento dell'ordine di restituzione dei beni
allo Stato ed è comunque possibile per la parte ottenere la
revoca o la modifica di esso in sede di esecuzione fornendo
la dimostrazione della sussistenza delle condizioni che
legittimano la detenzione dei beni medesimi.
Ritrovamento o scoperta dei beni di interesse storico,
artistico archeologico - Amministrazione statale - Azione di
revindica di beni archeologici - Possessore - Onere della
prova - L. n. 364/1909.
Nell'azione di revindica di beni archeologici promossa
dall'amministrazione statale, il ritrovamento o la scoperta
dei beni stessi in data anteriore all'entrata in vigore
della L. n. 364 del 1909, non é fatto costitutivo negativo
del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere
provato da chi l'eccepisce: dal complesso delle
disposizioni, contenute nel codice civile e nella
legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le
scoperte archeologiche, ed il relativo regime di
appartenenza, si ricava il principio generale della
proprietà statale delle cose d'interesse archeologico, e
della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli
stessi oggetti, onde qualora l'amministrazione intenda
rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti privati,
incombe al possessore l'onere della prova della dedotta
scoperta e appropriazione anteriormente all'entrata in
vigore della L. n. 364 del 1909, a partire dalla quale le
cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato".
Cass. Sez. 1 civile, n. 2995 del 10.02.2006).
Codice dei beni culturali d.lgs. n. 42/2004 - Verifica di "culturalità"
di un bene - Riconoscimento - Atto di certazione -
Disciplina.
In materia di tutela dei beni culturali, anche con
riferimento al Codice dei beni culturali, di cui al d.lgs.
n. 42/2004, resta il principio fondamentale per cui, fino al
compimento della verifica di "culturalità" (qualora questa
dovesse avere esito negativo), le cose sono comunque
sottoposte alla legislazione di tutela" e che "la verifica
concernente i beni di proprietà pubblica, non si estrinseca
in una formale "dichiarazione" (art. 13, comma 2, Codice) in
quanto il riconoscimento di culturalità non è provvedimento
costitutivo, che si basi sull'esercizio della
discrezionalità amministrativa, ma solo atto di certazione,
che rivela prerogative che il bene possiede per le sue
caratteristiche e che, ove l'atto di certazione non sia
intervenuto, ciò non significa che il bene sia di proprietà
privata, od oggetto di libera apprensione ed usucapione".
Rapporto di continuità normativa tra l’art. 48 della
legge 1089/1939 e quelle degli articoli 87 del d.Lvo n.
490/1999 e 90 del d.lvo n. 42/2004 - C.d. successione di leggi
nel tempo ex art, 2 cod. pen..
Sussiste un rapporto di continuità normativa tra l’art.
48 della legge 1089/1939 e quelle degli articoli 87 del d.Lvo n. 490/1999 e 90 del d.lvo n. 42/2004 ad essa
rispettivamente succedute costituendo queste ultime, per
l'oggetto della tutela, la sostanziale riproposizione della
norma precedentemente in vigore.
Infatti, gli articoli 87 d.Lvo n. 490/1999 e 90 d.lvo n. 42/2004, pur introducendo il
termine di ventiquattro ore per la denuncia della scoperta
delle cose immobili o mobili che presentano interesse
archeologico, riproducono per il resto in maniera pressoché
identica il testo dell'art. 48 della legge 1089/1939 (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2007 n. 458
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EDILIZIA
PRIVATA:
Natura precaria di una costruzione - Nozione -
Destinazione oggettiva della opera - Fattispecie - Reato
edilizio - Realizzazione abusiva di una veranda -
Demolizione del manufatto.
La natura precaria di una costruzione non dipende dal tipo
di materiali usati o dalla tecnica costruttiva o dalla
facile rimovibilità della struttura, ma dalla destinazione
oggettiva della opera. (Nella specie, è stato ritenuto
esistente il reato edilizio ed ordinata la demolizione del
manufatto, in relazione all’edificazione abusiva di una
veranda, presentata come una struttura volante fatta con un cannucciato ed un telo di limitate dimensioni avente l'unica
funzione di riparare dal sole).
Natura precaria di una costruzione - Nozione -
Manufatti di assoluta ed evidente precarietà - Permesso di
costruire - Necessità - Esclusione.
In materia edilizia, le costruzioni di natura precaria, non
necessitino di permesso di costruire i manufatti di assoluta
ed evidente precarietà destinati a soddisfare esigenze
contingenti, specifiche, cronologicamente delimitate e ad
essere rimossi dopo il momentaneo uso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2007 n. 455
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PUBBLICO
IMPIEGO: Concorsi
e mancato rispetto della riserva alle donne nelle
commissioni.
Nei concorsi pubblici,
la nomina delle commissioni esaminatrici e la verifica dei
presupposti legali posseduti dei loro componenti è una
scelta che rientra nei poteri discrezionali della pubblica
amministrazione.
Inoltre, la norma che prescrive la riserva
alle donne di almeno un terzo dei posti nelle commissioni
esaminatrici è solo diretta a tutelare la parità dei sessi
nell’accesso al pubblico impiego, pertanto il mancato
rispetto non discrimina lo svolgimento delle prove
concorsuali
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 12.01.2007 n. 149
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APPALTI:
Sull'illegittimità di una procedura negoziata per la mancata
consultazione con tutti gli offerenti prevista dal c. 40
dell'art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006.
Deve essere annullata l'intera procedura di gara in quanto è
illegittimo il procedimento seguito dalla stazione
appaltante, la quale dopo aver ha indetto una procedura
negoziata, non ha proceduto alla negoziazione con tutti gli
offerenti, violando così la disciplina della normativa
negoziata, ponendo in essere una procedura anomala, tipica
della cd. procedura aperta.
La disciplina della procedura
negoziata, dettata dal d.lgs. n. 163 del 2006, presuppone
che si svolga una negoziazione che non può essere riservata
al solo concorrente che abbia proposto, sin dall'inizio, il
prezzo più basso, ma deve svolgersi tra l'ente aggiudicatore
e i vari concorrenti al fine di arrivare alla scelta del
prezzo più conveniente per la fornitura del servizio.
La
negoziazione con tutti gli offerenti costituisce quindi, un
elemento essenziale della procedura negoziata; al riguardo è
opportuno precisare che, poiché il c. 40 dell'art. 3 del
d.lgs. n. 163 del 2006, usa l'espressione negoziano con uno
o più di essi, è anche possibile che la negoziazione avvenga
con uno solo degli offerenti, ma ciò può avvenire solo
quando una simile possibilità sia stata espressamente
prevista nel bando (TAR Lombardia, Milano, Sez. I,
sentenza 11.01.2007 n. 8
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
Esalazioni maleodoranti provenienti da stalle,
allevamenti o luoghi simili - Reato di cui all'art. 674 c.p.
- Sussistenza - Risarcibilità ex art. 844 c.c. -
Fattispecie.
Le esalazioni maleodoranti provenienti da stalle,
allevamenti o luoghi simili configurano il reato di cui
all'articolo 674 c.p. e non solo un illecito penale
risarcibile ex articolo 844 c.c. allorché siano idonee a
creare offesa al benessere dei vicini e grave pregiudizio
per lo svolgimento della loro attività (Cass n. 678 del 1996
P.M. in proc. Viale; Cass n. 138 del 1995 Composto; 1293 del
1994 Sperotto). Nella specie, dai manufatti destinati
all'allevamento di suini e pollame ed ubicati ad una
distanza di circa 10 - 20 metri dalle abitazioni, si
avvertivano cattivi odori i quali provocavano nei confronti
delle persone offese ivi residenti uno stato d'ansia
accertato documentalmente, che nonostante, l'avvenuto
adeguamento della porcilaia alle prescrizioni vigenti non
escludeva la sussistenza del reato proprio perché le
emissioni maleodoranti non erano state comunque eliminate.
"Esalazioni" maleodoranti - Superamento del limite della
normale tollerabilità - Molestie - Nozione - Fattispecie -
Relazione del medico dell'azienda sanitaria e dei
sopraluoghi espletati.
Per molestia deve intendersi ogni fatto idoneo a recare
fastidio, disagio o disturbo ed in genere qualsiasi fatto
idoneo a turbare il modo di vivere quotidiano.
Il
superamento del limite della normale tollerabilità
costituisce il parametro principale (ma non l'unico) per
valutare l'idoneità dell'esalazione maleodorante a recare
offesa o molestia e ciò perché le emissioni maleodorante
sono vietate nei casi non consentiti dalla legge, la quale
contiene una sorta di presunzione di legittimità delle
emissione dei fumi che non superino la soglia fissata da
leggi speciali.
Nella fattispecie, anche se non è stata
espletata alcuna perizia tecnica (ma di ciò non si è doluto
il ricorrente, il quale non ha sollevato alcuna specifica
doglianza in merito ad un eventuale mancato superamento dei
limiti di tollerabilità), si è comunque accertato per mezzo
della relazione del medico dell'azienda sanitaria e dei
sopraluoghi espletati dagli inquirenti, che si trattava di
esalazioni non tollerabili tanto e vero che creavano "una
condizione di disagio che culminava nella non vivibilità
dell'ambiente" (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.12.2006 n. 42087
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EDILIZIA
PRIVATA: Interesse
ad agire dei vicini, sopraelevazione, distanze dei
fabbricati.
La situazione giuridica
soggettiva azionata dai proprietari di immobili situati
nelle immediate vicinanze dell'opera assentita ed ivi
residenti, comporta la sussistenza di quella situazione di
stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto
dell'intervento costruttivo autorizzato richiesta per la
titolarità della potestà di impugnativa in materia e al
riguardo laddove i ricorrenti facciano valere in primo luogo
un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica,
quale è quello dell'osservanza delle prescrizioni
regolatrici dell'edificazione, non occorre procedere ad
alcuna ulteriore indagine al fine di accertare, in concreto,
se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno
un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone
l'impugnazione (vd. ad es. CdS, IV, n. 6467/2005);
La sopraelevazione -per tale intendendosi qualsiasi
costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda
di un preesistente fabbricato- deve rispettare le distanze
legali tra costruzioni stabilite dalla normativa vigente al
momento della realizzazione della stessa, poiché comporta
sempre un aumento della volumetria preesistente (vd. ad es.
TAR Puglia Lecce, n. 565/2006);
Le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel D.M. n.
1444 del 1968, a differenza di quelle sulle distanze dai
confini derogabili mediante convenzione tra privati, hanno
carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette
alla tutela di interessi generali in materia urbanistica,
sicché l'inderogabile distanza di dieci metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i
comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti
urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con il suddetto limite minimo è
illegittima essendo consentito alla p.a. solo la fissazione
di distanze superiori (vd. ad es. TAR Liguria, 1027/2005);
Gli strumenti urbanistici locali devono osservare la
prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 che
prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel
caso di norme contrastanti , il giudice è tenuto ad
applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto
automaticamente inserita nello strumento urbanistico in
sostituzione della norma illegittima (vd. ad es. Cass.
Civile, n. 12741/2006);
In linea di diritto deve escludersi che l'ampliamento di un
fabbricato attraverso la sopraelevazione di un piano possa
configurarsi alla stregua di una mera ristrutturazione.
Infatti ai fini dell'individuazione della tipologia di un
intervento edilizio, il concetto di sopraelevazione si
differenzia da quello di mero innalzamento, dovendosi
considerare che quest'ultimo, specie se modesto ed inidoneo
a determinare un incremento volumetrico, può risultare
compatibile con la nozione di ristrutturazione, mentre
altrettanto non può affermarsi nel caso di una
sopraelevazione che sia inscindibilmente connessa
all'incremento volumetrico in ragione di un rapporto di
causa ed effetto e che sia quindi diretta all'accrescimento
della cubatura di un fabbricato (vd. ad es. TAR Piemonte, n.
1603/2003);
Le autorizzazioni paesaggistiche, sebbene abbiano natura di
atti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari,
debbono essere congruamente motivate in modo che possa
essere ricostruito l'iter logico che ha condotto a ritenere
le opere autorizzate non lesive dei valori paesistici
sottesi all'imposizione del vincolo (vd. ad es. TAR Liguria
n. 1408/2005)
(TAR Liguria,
Sez. I,
sentenza 19.12.2006 n. 1711
- link a www.altalex.com). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
temporanea e d'urgenza - Procedura accelerata ex art. 3
Legge 1/1978 - Ambito di applicazione - Edilizia agevolata -
Esclusione.
La procedura accelerata ex art. 3 Legge 1/78 vigente al
momento dei fatti di causa riguarda solo le opere pubbliche
e tra queste si devono ricomprendere anche gli interventi di
edilizia sovvenzionata in ragione della natura di opere
pubbliche rivestita dagli alloggi di edilizia residenziale
pubblica, ma non gli interventi di edilizia agevolata, che,
al contrario di quelli sovvenzionati, sono eseguiti da
soggetti privati e si traducono nella realizzazione di beni
di natura privata (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2962
- massima tratta da www.solom.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Atti e comportamenti della P.A. - Danno e
pericolo di danno - Assenza di potere autoritativo e
discrezionale - Giurisdizione A.G.O..
Il privato proprietario che subisca danno o pericolo di
danno per effetto di azioni od omissioni della P.A.,
contrarie alle regole della diligenza, prudenza e tecnica
nella costruzione di un'opera pubblica, deve richiedere
tutela al Giudice Ordinario ogniqualvolta l'attività
materiale della amministrazione si sostanzi in meri
"comportamenti" e non possa ricondursi all'esercizio di un
potere autoritativo e discrezionale (nel caso di specie il
TAR ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione attesa
la domanda di accertamento e conseguente condanna di un
Comune a modificare la pendenza degli scarichi dell'acqua
piovana a seguito della manutenzione di una strada operata
dallo stesso Comune) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2954
- massima tratta da www.solom.it e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1.
Contratti della P.A. - Appalti - Bando - Termine per la
presentazione delle offerte - Ratio.
2. Contratti della P.A. - Appalti - Bando - Termine
per la presentazione delle offerte - Derogabilità - Avviso
pubblico di preinformazione - Necessità.
1. Il termine minimo di 52 giorni, previsto ex art. 6
D.Lgs. 358/1992, art. 9 D.Lgs. 157/1995 e art. 70 D.Lgs.
163/2006 per la ricezione delle offerte, risponde
all'esigenza di consentire ai concorrenti di approntare la
documentazione che il bando richiede ai fini della
qualificazione alla gara e di formulare un'offerta
sufficientemente ponderata e idonea a conseguire
l'aggiudicazione.
2. Tale termine può essere suscettibile di deroga da
parte delle stazioni appaltanti solo previo apposito
procedimento di pubblicazione di un avviso di
preinformazione: in mancanza di ciò il bando è illegittimo e
deve essere annullato (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2953
- massima tratta da www.solom.it). |
APPALTI: 1. Verifica offerte - Mancanza di contestazioni e
ammissione dell'offerta - Completezza documentale - Si
presume.
2. Verifica offerte - Completezza
documentale - Verifica supplementare successiva all'apertura
delle buste - Possibilità - Limiti.
1. Poiché il momento rilevante della verifica delle
offerte coincide con la formale operazione di apertura delle
buste innanzi al seggio di gara, la mancanza di
contestazioni al riguardo e l'ammissione dell'offerta ne fa
presumere la completezza documentale.
2. A fronte dell'attestazione, contenuta nei verbali
di gara, della completezza della documentazione allegata
alle offerte, già verificata in seduta pubblica, una
successiva verifica dei documenti è possibile, nel
contraddittorio dei concorrenti, solo in presenza di
determinate condizioni che garantiscano il rigore formale
della gara, prima fra tutte l'adeguata conservazione degli
atti concernenti le offerte delle diverse imprese secondo
modalità di conservazione delle offerte e dei documenti
allegati (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2928
- massima tratta da www.solom.it e link a
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AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Accumulo dei rifiuti - Nozione -
Caratteristiche modalità e tempi.
Le caratteristiche delle modalità e dei tempi d'accumulo dei
materiali delineano la nozione normativa di discarica
abusiva punibile quando, per effetto di una condotta
ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata
area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di
rifiuti, sicché rientra nella nozione in parola l'accumulo
sul ruolo ripetuto dei rifiuti con tendenziale carattere di
definitività, in considerazione delle quantità considerevoli
dei rifiuti e dello spazio occupato, a nulla rilevando la
circostanza che tale accumulo avvenga sullo stesso terreno
in cui è situato l'operatore che in parte li tratta
[Cassazione Sezione III n. 7577/1992, Abortivi, RV. 190924].
Rifiuti - Differenza tra abbandono e discarica abusiva -
Fattispecie - D. L.vo n. 36/2003 - Art. 6 lett. m. decreto
n. 22/1997.
Solo l'abbandono di rifiuti connotato dall'assenza di
caratteristiche quantitative e di sistematicità, vale ad
escludere la realizzazione o la gestione di una discarica
abusiva. Rientra,. in specie, nella definizione di discarica
introdotta col decreto legislativo n. 36/2003, la
realizzazione di un depositato incontrollato nell'area
circostante a una segheria di un ingente quantità di rifiuti
prodotti dalla lavorazione del marmo [polveri e fanghi di
marmo] raccolti in vasche di decantazione aziendali per
oltre un anno.
Né era in atto una legittima operazione
preliminare all'attività di gestione, preparatoria al
recupero non ricorrendo un deposito temporaneo di rifiuti
[art. 6 lett. m. decreto n. 22/1997] "quale raggruppamento
dei rifiuti effettuando, prima della raccolta, nel luogo in
cui gli stessi sono prodotti" nel rispetto di precise
condizioni temporanee, quantitative e qualitative.
Rifiuti - Deposito di rifiuti nel luogo diverso da quello
in cui sono stati prodotti - Gestione di rifiuti non
autorizzata - Presupposti.
Il deposito di rifiuti nel luogo diverso da quello in cui
sono stati prodotti è equiparabile giuridicamente
all'attività di gestione di rifiuti non autorizzata,
prevista come reato dall'art. 51 del d. lgs. 22/1997 (Cass.
Sez. III n. 7140, 21.03.2000, Eterno, RV 216977).
In specie,
correttamente è stata esclusa la ricorrenza delle condizioni
che integrano il concetto normativo di deposito temporaneo
di rifiuti poiché risulta che non sono state rispettate la
condizioni relative alle cadenze temporali di raccolta e
d'avviamento alle operazioni di recupero o di smaltimento;
ai termini massimi di durata e alle modalità de deposito
stesso.
Quindi, i detentori si sono disfatti degli scarti
della lavorazione del marmo effettuando un'attività di
smaltimento mediante deposito al suolo di rifiuti per un
tempo prolungato (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.12.2006 n. 40446
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LAVORI PUBBLICI: Contratti
della P.A. - Associazione temporanea di imprese - Ammissione
alla gara - Incremento ex art. 3, D.P.R. 34/2000 -
Applicazione a tutte le imprese associate - Possibilità -
Non sussiste.
In caso di partecipazione di una Ati alla gara per
l'affidamento di un appalto di lavori pubblici, va esclusa
la possibilità di applicare a tutte le imprese associate
l'incremento del quinto della classifica posseduta quando
esse non sono qualificate per una classifica pari ad almeno
1/5 dell'importo dei lavori a base di gara, atteso che ex
art. 3 D.P.R. 34/2000 l'aumento di 1/5 riguarda non il
raggruppamento, ma le imprese in sé considerate, le quali
beneficiano dell'aumento a condizione che siano qualificate
per una classifica pari ad almeno un quinto dell'importo dei
lavori a base di gara (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2927
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APPALTI SERVIZI: 1.
Contratti della P.A. - Servizi pubblici - Affidamento in
house - E' fattispecie residuale ed eccezionale.
2. Contratti della P.A. - Servizi pubblici -
Affidamento in house - Elementi necessari.
1. L'affidamento "in house" è fattispecie residuale
ed eccezionale rispetto all'ipotesi normale rappresentata
dall'affidamento della concessione di pubblico servizio
mediante procedura ad evidenza pubblica, in ossequio ai princìpi di trasparenza, pubblicità e concorrenza vigenti
nella materia.
2. Tre sono gli elementi che devono cumulativamente
concorrere per consentire l'eccezionale affidamento in
house: il capitale interamente pubblico della Società
affidataria; l'esercizio, da parte degli Enti Locali soci,
di un controllo sulla Società analogo a quello esercitato
sui propri servizi; la realizzazione, da parte della
Società, della quota più importante della propria attività
con l'Ente o con gli Enti Pubblici che la controllano (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
12.12.2006 n. 2920
- massima tratta da www.solom.it e link a
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LAVORI PUBBLICI: 1.
Contratti della P.A. - Appalti - Divieto di subappalto -
Ambito di applicazione - Categorie OG.
2. Contratti della P.A. - Appalti - Divieto di
subappalto - Facoltà della P.A. di subappaltare - Limiti.
1. Il divieto di subappalto di cui all'art. 13, comma
7, Legge 109/1994 si applica alle categorie generali OG in
forza del loro essere categorie caratterizzate dalla
medesima specializzazione delle categorie speciali OS e
quindi una sommatoria di opere speciali.
2. Le amministrazioni possono, tuttavia, contemplare
nei bandi di gara la possibilità di subappaltare la
categoria generale scorporata, verificando l'operatività del
divieto in relazione alla singola categoria di opera
speciale in essa compresa; dunque in presenza di più opere
speciali il divieto di affidamento in subappalto si applica
alle sole opere altamente specializzate, indicate nel bando
come scorporabili, le quali abbiano singolarmente valore
superiore al 15% dell'importo totale dei lavori, senza
bisogno che, qualora vi siano altre categoria altamente
specializzate, anche le altre -singolarmente considerate -
siano tutte di importo superiore al 15% del valore
complessivo dell'intervento (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2912
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APPALTI SERVIZI: 1.
Autorizzazione e concessione - Concessione di servizi
pubblici e contratto di appalto di servizi - Criteri
distintivi.
2. Autorizzazione e concessione - Concessione di
servizi pubblici - Soggetti legittimati al conferimento -
Società di persone - Esclusione.
1. Il tratto distintivo delle concessioni di servizi
pubblici rispetto agli appalti di servizi consiste nel fatto
che, mentre nell'appalto si prevede un corrispettivo pagato
direttamente dall'amministrazione aggiudicatrice al
prestatore di servizi, nella concessione la remunerazione
del prestatore di servizi proviene non già dall'autorità
pubblica interessata, ma dagli importi versati dai terzi per
l'utilizzo del servizio;
2. Ai sensi dell'art. 113 D.Lgs. 267/2000, la
gestione delle reti e l'erogazione dei servizi pubblici di
rilevanza economica può essere affidato esclusivamente a
società di capitali aventi determinate caratteristiche, con
esclusione delle società di persone (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2908
- massima tratta da www.solom.it e link a
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EDILIZIA
PRIVATA: Della
motivazione e della partecipazione nei procedimenti
sanzionatori edilizi.
Il concetto di
disponibilità di cui all'art. 3 della L. n. 241 del 1990 non
comporta che l'atto amministrativo richiamato "per
relationem" debba essere unito imprescindibilmente al
documento, bensì che il documento sia reso disponibile a
norma della stessa legge, vale a dire che esso possa essere
acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai
documenti amministrativi.
In sostanza, detto obbligo
determina che la motivazione del provvedimento deve essere
portata nella sfera di conoscibilità legale del
destinatario, sicché nella motivazione "per relazione" è
sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi
dell'atto richiamato, mentre non è necessario che lo stesso
sia allegato, dovendo essere messo a disposizione e mostrato
su istanza di parte.
La normativa generale sull'obbligo di comunicazione
dell'avvio del procedimento amministrativo ai possibili
destinatari dell'emanando provvedimento, di cui agli art. 7
e ss. della L. n. 241 del 1990, deve trovare applicazione
anche nei procedimenti preordinati all'emanazione di
provvedimenti di ingiunzione della demolizione di opere
edili abusive, laddove il Comune non abbia emesso alcun
provvedimento di sospensione dei lavori, suscettibile di
assumere una tale natura.
La mancata indicazione di precisi confini ovvero dell'area
di sedime che verrebbe acquisita nell'ipotesi di
inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce
causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, in
quanto tali indicazioni più propriamente si appartengono al
successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di
acquisizione gratuita al patrimonio comunale
(TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter,
sentenza 04.12.2006 n. 13652
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PUBBLICO
IMPIEGO: Ordinamento
degli uffici comunali: esercizio del potere regolamentare.
L'esercizio del potere regolamentare comunale in materia di
ordinamento degli uffici e dei servizi non può invadere la
sfera di competenza riservata alla contrattazione
collettiva.
Lo hanno stabilito i giudici del Tar Lecce per i quali la
disposizione regolamentare comunale che istituisce l'area
professionale dei professionisti dipendenti, “alla quale
appartengono i laureati specialistici di tipo professionale,
il cui profilo ... preveda lo svolgimento di mansioni per
l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione, previo
superamento dell'esame di Stato, agli albi speciali previsti
dalla legge per i dipendenti comunali”, va ad incidere
sulla classificazione del personale dipendente, poiché crea
una nuova area professionale cui aggregare il personale
stesso in possesso di particolari titoli professionali
(laurea ed iscrizione in appositi albi professionali)
(TAR
Puglia-Lecce,
sentenza 02.12.2006 n. 5636
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APPALTI: Contratti
della P.A. - Appalto in generale - Gara - Ammissione -
Soggetto pubblico - Esclusione - Legittimità.
Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della
concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli
operatori, è fatto divieto alle società a capitale
interamente pubblico o misto costituite dalle
amministrazioni pubbliche regionali e locali per la
produzione di beni e servizi strumentali all'attività di
tali enti di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti
pubblici, né in affidamento diretto né con gara, né le
stesse possono partecipare ad altre società o enti (il TAR
ha dichiarato l'illegittimità dell'aggiudicazione ad
un'Azienda Ospedaliera toscana di una gara di appalto
bandita dalla Regione Lombardia) (TAR Lombardia-Milano, Sez.
I,
sentenza 24.11.2006 n. 2840
- massima tratta da www.solom.it e link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: 1. Difetto di motivazione - Carenza
d'istruttoria - Illegittimità.
2. Ricorso giurisdizionale - Risarcimento danni -
Prova del danno - Necessità.
1. E' illegittimo per difetto di motivazione e
carenza di istruttoria il provvedimento che, in violazione
degli articoli 3 e 10 Legge 241/1990, non appaia assistito
da congrua motivazione e che non tenga adeguatamente conto
delle osservazioni presentate dal destinatario del
provvedimento stesso.
2. Ai fini dell'ammissibilità dell'azione per
risarcimento danni ai sensi dell'art. 35 D.Lgs. 31.03.1998
n. 80, costituisce passaggio necessario la prova da parte
dell'interessato dell'esistenza del danno non potendo il
Giudice Amministrativo supplire alle lacune probatorie di
parte (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.11.2006 n. 2837
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APPALTI: 1.
Contratti della P.A. - Licitazione privata - Offerte anomale
- Giustificazioni - Mera allegazione parere del legale della
P.A. e delle osservazioni della controinteressata -
Illegittimità.
2. Ricorso giurisdizionale - Risarcimento danni -
Annullamento atto amministrativo - Permanenza del potere
rinnovatorio della P.A. - Esclude il risarcimento.
1. La valutazione sull'anomalia dell'offerta
presentata da un concorrente non può essere ricavata per
relationem dalla mera allegazione al provvedimento di
aggiudicazione delle giustificazioni fornite dal concorrente
stesso e del parere reso dal legale della stazione
appaltante.
2. Non vi sono i presupposti per disporre il
risarcimento del danno derivante dall'emanazione di un
provvedimento illegittimo laddove il suo annullamento lasci
spazi all'attività rinnovatoria della Amministrazione e
questa sia caratterizzata da margini di discrezionalità (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2180
- massima tratta da www.solom.it e link a
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APPALTI: Contratti
della P.A. - Bando di gara - Licitazione privata
-Sostituzione tardiva dell'offerta economica -
Illegittimità.
Le disposizioni del regolamento per l'amministrazione del
patrimonio e la contabilità generale dello Stato contenute
nel R.D. 827/1994, richiamate nella lettera di invito di una
licitazione privata, che consentono la sostituzione
dell'offerta delle imprese partecipanti alla gara oltre la
scadenza dei termini per la presentazione dei plichi
contenenti le offerte, o persino dopo l'apertura degli
stessi, devono ritenersi superate dalla normativa successiva
e incompatibili con i princìpi inderogabili della par
condicio tra i concorrenti e del regolare, trasparente e
imparziale svolgimento della gara, vigenti in tema di
procedure ad evidenza pubblica.
Pertanto la sostituzione
dell'offerta economica oltre i termini per la presentazione
dei plichi contenenti le offerte ed addirittura dopo
l'apertura degli stessi, è illegittima (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza
13.11.2006 n. 2179
- massima tratta da www.solom.it e link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI: 1. Accesso ai documenti - Presupposti -
Interesse qualificato - Nozione.
2. Accesso ai documenti -
Presidente Consiglio di Amministrazione di Società per la
tutela ambientale - Revoca della carica - Diritto -
Sussiste.
1. Ai sensi degli art. 22 e ss. L. 241/1990 il
diritto di accesso ai documenti amministrativi formati dalle
P.A. o, comunque, utilizzati ai fine dell'attività
amministrativa, è riconosciuto in favore di chiunque vi
abbia un interesse diretto, concreto e attuale,
differenziato rispetto a quello della generalità dei
consociati e corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso.
2. Sussiste il diritto di accesso ai documenti
amministrativi in capo al Presidente del Consiglio di
Amministrazione di una Società per la tutela ambientale nel
caso di proposta di revoca, da parte della Provincia, del
medesimo dalla propria carica (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2177
- massima tratta da www.solom.it e link a
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APPALTI: 1.
Interesse all'impugnazione - Bando - Clausole impeditive
della partecipazione in via di fatto - Impugnazione
immediata - Sussiste.
2. Contratti della P.A. - Appalto di servizi -
Settori esclusi - Valutazione delle offerte - Art. 14 d.lgs.
n. 164/2000 - Interpretazione.
1. L'interesse, rectius l'onere della immediata
impugnazione del bando e della lettera di invito prima
dell'aggiudicazione sussiste non solo ove questi contengano
clausole escludenti, le quali, richiedendo determinati
requisiti per l'ammissione alla procedura che l'impresa
interessata non possiede, precluderebbero immediatamente la
partecipazione (Cons. St., Ad. Plen. 29.01.2003 n. 1), ma
anche ove le modalità stabilite nel bando o nella lettera
d'invito per la presentazione dell'offerta siano illogici e
non consentano di formulare una proposta logica e razionale.
Ciò in quanto tali previsioni ledono immediatamente la
posizione dell'impresa, rendendo difficoltoso o addirittura
impedendo la partecipazione alla gara con la formulazione di
una corretta proposta contrattuale. Si tratta di un
impedimento realizzantesi sul piano di fatto e non di
diritto, ma che non per questo è meno incisivo e idoneo ad
esplicitare effetti anticoncorrenziali, perché l'impresa che
non è in grado di formulare un'offerta ragionevole sarà
indotta a non partecipare alla gara (cfr. TAR Milano, Sez.
III, 14.10.2005 n. 3793).
2. L'art. 14 del d.lgs. 23.05.2000 n. 164 non reca
indicazioni circa il peso da attribuire ai singoli elementi
da prendere in considerazione ai fini della valutazione
delle offerte.
La norma di bando che attribuisce maggior
peso ponderale al canone, favorendo di conseguenza i
concorrenti che formuleranno la migliore offerta economica,
a discapito della qualità del servizio e delle finalità
sottese alla riforma del settore, appare frutto di
ragionevole, e come tale insindacabile, esercizio di
discrezionalità (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2168
- massima tratta da www.solom.it e link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI:
Preavviso ex articolo 10-bis deve esser dato in ogni
procedimento amministrativo.
In una fattispecie di
diniego ad un permesso a costruire, che risulta non essere
stato preceduto dalla comunicazione dei motivi ostativi, ex
art. 10-bis, L. 07.08.1990 n. 241, il carattere vincolante
dell’adozione dell’atto di diniego non appare sussistente,
attesa la complessità delle fattispecie.
In ogni caso, questa Sezione ha più volte ribadito come non
vada attribuito carattere dirimente, rispetto all’obbligo di
comunicazione ex art. 10-bis, L. 241/1990, sopra citato,
all’eventuale natura di atto vincolato del diniego
(TAR Veneto,
Sez. II,
sentenza 06.11.2006 n. 3674
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LAVORI PUBBLICI: Contratto
di appalto e profili di responsabilità in capo al
committente dei lavori.
In presenza di fatto
illecito posto in essere nell’esecuzione di lavori dedotti
in un contratto di appalto, il soggetto committente non è
esente da responsabilità concorrente con quella dell’impresa
appaltante ove risulti che l’appaltatore abbia dovuto
eseguire un progetto predisposto dal committente sotto la
sua diretta sorveglianza, e che il committente si sia
ingerito nella realizzazione dell’opera, riducendo
l’autonomia dell’appaltatore
(Tribunale Vibo Valentia,
sentenza 23.10.2006 n. 669
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ATTI
AMMINISTRATIVI: 1. Atto vincolato - Motivazione -
Rilevanza - Limiti.
2. Calamità naturali - Contributi di ricostruzione -
Diniego - Applicazione criteri fissati nella delibera della
Giunta Comunale - Difetto di motivazione - Non sussiste.
1. La motivazione per i provvedimenti vincolati
rileva solo in relazione al riscontro dei presupposti.
2. In caso di calamità naturali, qualora il
provvedimento di diniego di contribuiti risulti motivato
solo in relazione al calcolo degli stessi, ma tale calcolo
derivi dall'applicazione di criteri fissati nella delibera
del Comune, mai impugnata, non può configurarsi difetto di
motivazione, dal momento che a seguito di tale delibera la
discrezionalità della P.A. deve ritenersi vincolata al
calcolo delle somme dovute (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
17.10.2006 n. 2021
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ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: 1.
Ricorso giurisdizionale - Interesse all'impugnazione -
Consigliere provinciale - Vizi procedurali -Impugnazione di
delibera consiliare - Limiti.
2. Ricorso giurisdizionale - Interesse
all'impugnazione - Consigliere provinciale - Vizi
procedurali - Acquiescenza - Inammissibilità riscorso.
1. I consiglieri provinciali di minoranza che, pur
avendo rilevato, nel corso di una seduta del Consiglio, vizi
procedurali, non si siano valsi degli strumenti interni
posti a tutela della loro funzione dalla legge e dal
regolamento e che si siano solo astenuti dalla votazione
finale, hanno prestato acquiescenza, evidenziando in modo
chiaro ed univoco la volontà di accettare implicitamente le
eventuali precedenti violazioni procedurali dagli stessi
ravvisate.
2. L'acquiescenza, pur avendo natura sostanziale,
comporta il riconoscimento della legittimità del precedente
operato dell'amministrazione e quindi la rinuncia
all'interesse legittimo che il titolare avrebbe potuto far
valere, con conseguenti effetti anche sul piano processuale,
nel senso dell'illegittimità del ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
17.10.2006 n. 2015
- massima tratta da www.solom.it e link a
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ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: 1.
Interesse all'impugnazione - Comune e Provincia -
Consigliere provinciale - Impugnazione di delibera
consiliare - Limiti.
2. Competenza e giurisdizione - Contratti di diritto
privato della P.A. - Giurisdizione Ordinaria.
1. I consiglieri provinciali non sono legittimati, in
quanto tali, ad agire contro la P.A. di appartenenza, in
quanto il processo amministrativo non è, di regola, aperto
alle controversie tra organi o componenti di uno stesso
organo, ma è diretto a risolvere controversie
intersoggettive, mentre i conflitti interorganici trovano
composizione in via amministrativa.
Infatti, la
legittimazione dei componenti di un organo collegiale
dell'ente locale ad agire contro lo stesso sussiste solo in
caso di vizi propri del subprocedimento di deliberazione,
che si concretino in violazioni procedurali direttamente
lesive dell'incarico rivestito dal componente dell'organo,
ovverosia in violazioni dello jus ad officium (il TAR ha
dichiarato l'inammissibilità del ricorso, per carenza di
legittimazione attiva, proposto dai consiglieri di minoranza
della Provincia di Milano avverso le delibere con le quali
la Giunta, previa definizione delle linee di indirizzo
concernenti la riorganizzazione ed il rafforzamento delle
partecipazioni della Provincia in alcune Società, ha
deliberato di potenziare le partecipazioni azionarie
provinciali nella "Serravalle- Milano Tangenziale S.p.A."
mediante l'acquisto di nuove azioni della succitata Società
da parte dell'ASA S.p.A. - ora ASAM S.p.A., società
partecipata al 99% dalla Provincia).
2. Appartengono alla Giurisdizione Ordinaria le
controversie nelle quali la P.A. non agisce attraverso atti
autoritativi, bensì interviene nella sua qualità di socio di
maggioranza di altra Società, atteso che in tale occasione
l'azione della P.A. è espressione di posizione giuridiche di
diritto societario (il TAR ha ritenuto quindi non rientranti
nella sua giurisdizione le controversie concernenti i
contratti mediante i quali è stata posta a compimento la
complessa operazione di finanziamento dell'acquisito delle
azioni della Serravalle da parte di ASAM) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza
17.10.2006 n. 2014
- massima tratta da www.solom.it e link a
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EDILIZIA
PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Morti
bianche: è responsabile l'imprenditore che non vigila.
Il datore di lavoro che
sceglie un professionista come responsabile della sicurezza
non si libera delle conseguenze legate alla sua posizione di
garanzia se non designa un professionista idoneo, non
elabora insieme a questi un piano di sicurezza, non gli
mette a disposizione i mezzi per attuarlo, non vigila su
tale attuazione
(Corte di
Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 04.10.2006 n. 41943
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EDILIZIA
PRIVATA: Clausola
di precarietà non applicabile al titolo per l’autorizzazione
di antenne.
L’apposizione di una
clausola di precarietà in sede di rilascio di una
concessione edilizia (clausola peraltro mai richiesta dalla
ricorrente) è idonea a costituire motivo di annullamento di
una concessione edilizia, solo nel caso in cui sia
dimostrato che in assenza di tale clausola l’intervento non
era assentibile.
In tutti gli altri casi, l’illegittimità della clausola può
condurre al massimo alla eliminazione della stessa, ma non
dell’intero provvedimento, rispetto al quale la clausola non
costituiva elemento essenziale
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza
04.09.2006 n. 5096
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ATTI
AMMINISTRATIVI: Gara
d'appalto e diritto di accesso ai curricula professionali
dei concorrenti.
Già in precedenza,
questo Consiglio di Stato ha evidenziato che la
partecipazione ad una gara comporta, tra l'altro, che
l'offerta tecnico progettuale presentata fuoriesca dalla
sfera di dominio riservato dell'impresa per porsi sul piano
della valutazione comparativa rispetto alle offerte
presentate da altri concorrenti, con la conseguenza che la
società non aggiudicataria ha interesse ad accedere alla
documentazione afferente le offerte presentate in vista
della tutela dei propri interessi giuridici.
In altri termini, in presenza di una offerta vincente, non
può negarsi ad altra impresa partecipante l'accesso agli
atti necessari alle finalità di controllo dei requisiti
tecnici e di tutte le altre caratteristiche del prodotto,
oggetto della fornitura, minuziosamente contemplati nel
relativo bando di gara.
Il bilanciamento tra il diritto di accesso degli interessati
e il diritto alla riservatezza dei terzi non è stato rimesso
alla potestà regolamentare o alla discrezionalità delle
singole amministrazioni, ma è stato compiuto direttamente
dalla legge che, nel prevedere la tutela della riservatezza
dei terzi, ha fatto salvo il diritto degli interessati alla
visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi,
la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere
i propri interessi giuridici. Il concetto di difesa degli
interessi giuridici assume un carattere generale,
comprensivo sia della difesa tecnica processuale, sia della
difesa procedimentale.
A tal fine, con particolare riguardo alle procedure di
evidenza pubblica, la difesa degli interessi giuridici del
partecipante alla gara, risultato non aggiudicatario, va
limitata a quei documenti o parti di essi valutati
dall’amministrazione per l’ammissione alla procedura, per la
verifica della sussistenza dei requisiti di partecipazione e
per la valutazione dell’offerta e l’attribuzione dei
punteggi
(Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 07.06.2006 n. 3418
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EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio di una concessione o autorizzazione
in sanatoria (accertamento di conformità),
ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del
1985 (e oggi ai sensi dell’art. 36 del
D.P.R. 06.06.2001, n. 380), è possibile solo
quando l’opera realizzata in assenza del
preventivo titolo abilitativo risulti
conforme agli strumenti urbanistici generali
e di attuazione approvati e non in contrasto
con quelli adottati sia al momento della
realizzazione dell’opera sia al momento
della presentazione della domanda.
Per il procedimento volto al rilascio di
concessioni edilizie in sanatoria ai sensi
dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (ed
oggi dell’art. 36 del nuovo T. U.
dell’edilizia), nel quale occorre una
verifica sulla conformità urbanistica delle
opere realizzate in assenza del necessario
previo titolo abilitativo, si deve ritenere
normalmente necessario il parere della
Commissione Edilizia a meno che l’eventuale
diniego al rilascio del titolo abilitativo
non si fondi su ragioni puramente giuridiche
o, come è oggi ammesso, la Commissione
Edilizia, sia stata soppressa dal Comune o
dichiarata non legittimata ad esprimersi su
alcuni determinati tipi di interventi
edilizi.
Il rilascio di una concessione o
autorizzazione in sanatoria (accertamento di
conformità), ai sensi dell’art. 13 della
legge n. 47 del 1985 (e oggi ai sensi
dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380,
recante il Testo Unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia
edilizia), è possibile solo quando l’opera
realizzata in assenza del preventivo titolo
abilitativo risulti conforme agli strumenti
urbanistici generali e di attuazione
approvati e non in contrasto con quelli
adottati sia al momento della realizzazione
dell’opera sia al momento della
presentazione della domanda.
La giurisprudenza che ritiene superfluo il
parere della Commissione Edilizia per il
rilascio delle concessione in sanatoria,
peraltro sul punto oscillante, si riferisce
al procedimento di rilascio di concessioni
edilizie in sanatoria ai sensi degli
articoli 31 e seguenti della legge n. 47 del
1985
(condono
edilizio) e cioè a quei casi nei quali non
occorre una verifica sulla compatibilità
urbanistica delle opere abusive realizzate.
La questione si pone in modo diverso invece
per il procedimento volto al rilascio di
concessioni edilizie in sanatoria ai sensi
dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (ed
oggi dell’art. 36 del nuovo T. U.
dell’edilizia) nel quale occorre al
contrario proprio una verifica sulla
conformità urbanistica delle opere
realizzate in assenza del necessario previo
titolo abilitativo.
In tale procedimento si deve ritenere
normalmente necessario il parere della
Commissione Edilizia a meno che l’eventuale
diniego al rilascio del titolo abilitativo
non si fondi su ragioni puramente giuridiche
o, come è oggi ammesso, la Commissione
Edilizia, sia stata soppressa dal Comune o
dichiarata non legittimata ad esprimersi su
alcuni determinati tipi di interventi
edilizi
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 13.09.2004 n. 11950 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 22.06.2011 |
ã |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Le ferie non incidono sul
godimento dei permessi mensili per assistere
i disabili.
La Direzione Generale per l'Attività
Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle
Politiche Sociali, con l'interpello
17.06.2011 n. 21/2011 sostiene che la
fruizione delle ferie non va ad incidere sul
godimento dei permessi di cui all’art. 33,
L. n. 104/1992 e che quindi non è
ammissibile un proporzionamento degli stessi
permessi in base ai giorni di ferie fruiti
nel medesimo mese.
A seguito di richiesta di interpello
avanzata dal NURSIND, in merito alla
possibilità di proporzionare i permessi ex
art. 33, Legge n. 104/1992 in base ai giorni
di ferie usufruite nel mese, la Direzione
Generale per l'Attività Ispettiva chiarisce,
data la diversa finalità, che i due istituti
(ferie e permessi per assistere i disabili)
hanno natura totalmente diversa e non sono
interscambiabili.
Conseguentemente, conclude la risposta
ministeriale, si ritiene che la fruizione
delle ferie non vada ad incidere sul
godimento dei permessi di cui all’art. 33,
Legge n. 104/1992 e pertanto non appare
possibile un proporzionamento degli stessi
permessi in base ai giorni di ferie fruiti
nel medesimo mese (commento tratto da
www.ipsoa.it). |
NEWS |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Misure urgenti per l’economia:
Governo ottiene la fiducia.
Nella seduta odierna (21.06.2011) la Camera
con 317 voti a favore e 293 contro ha votato
la fiducia posta dal Governo
sull'approvazione, senza subemendamenti ed
articoli aggiuntivi, del suo
emendamento Dis. 1.1 interamente
sostitutivo dell'articolo unico del disegno
di legge di conversione del decreto-legge
13.05.2011 n. 70 concernente Semestre
Europeo - Prime disposizioni urgenti per
l'economia (C.
4357-A) (il cosiddetto "decreto
sviluppo"). |
APPALTI SERVIZI: Ok
ai servizi in house o misti.
Confermati gli affidamenti coerenti con
l'ordinamento Ue.
LE CONDIZIONI - Controllo
«analogo» da parte degli enti locali soci e
svolgimento della maggior parte
dell'attività della società a favore degli
stessi.
Il risultato del referendum non tocca le
gestioni di servizi pubblici locali
esistenti che possono proseguire sino alla
scadenza naturale, a condizione che siano
coerenti con l'ordinamento comunitario.
L'abrogazione dell'articolo 23-bis della
legge n. 133/2008 a seguito degli esiti
della consultazione del 12-13.06.2011
(quesito numero 1) produce una serie di
effetti sul sistema di riferimento per i
servizi pubblici locali con rilevanza
economica, dei quali i comuni devono tener
conto per l'elaborazione di adeguate
strategie.
Una delle conseguenze del venir meno della
norma è rilevabile nelle motivazioni della
sentenza della Corte costituzionale n. 24
del 26.01.2011 (con la quale è stato
ritenuto ammissibile il quesito
referendario).
La Consulta, facendo riferimento in molti
punti alla sua analisi del sistema dei
servizi pubblici prodotta con la sentenza n.
325/2010, ha evidenziato che l'articolo
23-bis costituiva normativa più restrittiva
rispetto al quadro regolativo comunitario,
il quale si pone come normativa diretta a
favorire l'assetto concorrenziale minimo e
inderogabile del mercato.
L'articolo 86, comma 2, del Trattato Ue,
infatti, determina anche per le società
partecipate l'essere soggette alle regole
della concorrenza.
L'esito di maggior impatto del referendum è
senza dubbio la possibilità di proseguire le
gestioni esistenti, affidate a società in
house o miste, sino alla loro scadenza
naturale, poiché la dead line del 31.12.2011 non è più prevista. La
rilevanza dell'ordinamento comunitario
sancita dalla Corte costituzionale impone
tuttavia alle amministrazioni locali di
sottoporre a un'accurata revisione tutti gli
affidamenti di servizi pubblici in essere,
per verificarne la coerenza e tenuta
rispetto ai parametri delineati dall'Unione
europea per la gestione dei servizi di
interesse generale, nonché per stabilire
un'adeguata strategia nel medio periodo.
Per gli affidamenti in house sfumano i
presupposti di eccezionalità e non è più
necessario il parere dell'Agcm, ma devono
necessariamente sussistere sia il controllo
analogo da parte degli enti locali soci, sia
lo svolgimento della maggior parte
dell'attività della società a favore degli
stessi.
Qualora un'amministrazione intenda
costituire una società mista, dovrà comunque
attenersi ai principi del partenariato
pubblico privato di tipo istituzionale,
individuati dalla Commissione Ue nella
comunicazione interpretativa C(2007)6661 del
05.02.2008, nella quale stabilisce che
il socio privato deve essere scelto con
procedura ad evidenza pubblica (gara) ed
allo stesso devono essere affidati
contestualmente specifici compiti operativi.
Anche questo principio è stato assunto nella
giurisprudenza nazionale. Le linee-guida
della Commissione Ue non individuano
peraltro alcuna percentuale di capitale
sociale da attribuire al partner privato.
Per questo tipo di organismi risulta
possibile l'acquisizione di servizi
ulteriori, tuttavia solo partecipando a
gara, come la giurisprudenza comunitaria e
quella nazionale hanno evidenziato, anche di
recente (Consiglio di Stato, sezione V,
sentenza n. 2222 dell'11.04.2011).
L'eliminazione dei vincoli dettati
dall'articolo 23-bis in ordine ai modelli
gestionali per i servizi pubblici locali
permette di ipotizzare soluzioni diverse,
tra le quali anche la gestione in economia,
quando il servizio sia di modesta entità
(come affermato dal Consiglio di Stato,
sezione V, con la sentenza n. 552 del 26.01.2011).
Gli effetti dell'abrogazione del l'articolo
23-bis non incidono invece sulle discipline
settoriali della distribuzione di gas
naturale, della distribuzione di energia
elettrica, della gestione delle farmacie
comunali e del trasporto ferroviario
regionale, espressamente sottratte dalla
stessa norma alla sua sfera applicativa ed
evidenziate come oggetti esclusi dalla
portata del referendum dalla sentenza n.
25/2010 della Corte costituzionale. Pertanto
può proseguire il processo di sviluppo delle
gare per il gas sulla base della recente
determinazione degli ambiti territoriali
minimi (articolo Il Sole 24
Ore del 20.06.2011 - link a www.corteconti.it).
---------------
Personale, vincoli a reclutamento e costi.
L'affidamento di servizi pubblici locali a
società partecipate mediante il modulo
dell'«in house providing» deve essere
comunque fondato sui presupposti richiesti
dall'ordinamento comunitario. L'abrogazione
dell'articolo 23-bis della legge n. 133/2008
a seguito del referendum elimina i
presupposti particolari che dovevano guidare
le amministrazioni nell'analisi di
sostenibilità del particolare modulo, nonché
l'intera procedura relativa al parere
obbligatorio dell'Agcm.
Tuttavia il nuovo quadro di riferimento deve
essere fondato sui parametri affinati dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia Ue a
partire dalla sentenza Teckal del 1998, come
evidenziato dalla Corte costituzionale nella
sentenza n. 325/2010.
Secondo la normativa comunitaria, le
condizioni che consentono questa soluzione
gestionale sono tre e devono sussistere
contestualmente: capitale totalmente
pubblico, controllo esercitato
dall'aggiudicante sull'affidatario di
«contenuto analogo» a quello esercitato
dall'aggiudicante stesso sui propri uffici;
svolgimento della parte più importante
dell'attività dell'affidatario in favore
dell'aggiudicante.
La Consulta richiama l'orientamento storico
della Corte di giustizia Ue, per la quale le
condizioni per l'affidamento diretto devono
essere interpretate restrittivamente, poiché
l'in house providing costituisce
un'eccezione rispetto alla regola generale
dell'affidamento a terzi mediante gara ad
evidenza pubblica. L'eccezione è
giustificata dal diritto comunitario sulla
base di una valutazione per cui le tre
condizioni escludono che l'in house
configuri un rapporto contrattuale
intersoggettivo (tra amministrazione e
società affidataria) distorsivo del
confronto concorrenziale, determinando
invece una vera e propria relazione
organizzativa (sancita come rapporto
interorganico).
L'elemento-chiave è individuabile nel
controllo analogo, che deve tuttavia essere
sostanziato con varie misure (norme
statutarie, previsioni nei patti
parasociali, disposizioni nel contratto di
servizio), combinate in modo tale da
permettere all'ente locale di esercitare
un'influenza effettiva sui principali
processi decisionali della società
partecipata alla quale è stato assegnato il
servizio pubblico in via diretta.
Rispetto alle gestioni esistenti derivanti
da affidamenti teoricamente impostati
secondo il modulo in house, le
amministrazioni locali sono chiamate a
riesaminare gli strumenti di interazione con
le affidatarie, al fine di eliminare
possibili criticità che potrebbero
evidenziarne comunque l'incoerenza con i
necessari presupposti fissati in ambito
comunitario. La configurazione di una
società come gestore di un servizio in base
all'in house providing e quindi quale
organismo del sistema pubblico allargato ne
determina la sottoposizione alle stesse
regole organizzative e contabili.
L'abrogazione dell'articolo 23-bis e
l'inapplicabilità del Dpr n. 168/2010 non
incidono sull'assoggettamento delle società
affidatarie dirette di servizi pubblici
all'articolo 18 della legge n. 133/2008, con
conseguente obbligo di adozione di regole
parapubblicistiche per il reclutamento di
risorse umane e con il necessario
contenimento della spesa per il personale,
come più volte evidenziato dalla Corte dei
conti.
I presupposti tipici dell'in house
corrispondono peraltro ai caratteri
identificativi degli organismi di diritto
pubblico (personalità giuridica, istituzione
finalizzata al soddisfacimento di esigenze
di interesse generale, gestione soggetta al
controllo totalitario di amministrazioni
pubbliche): pertanto le società affidatarie
dirette di servizi pubblici locali secondo
tale modulo sono senza dubbio qualificabili
come Odp e devono applicare alle loro
procedure di acquisto e di appalto le regole
del codice dei contratti pubblici (articolo Il Sole 24
Ore del 20.06.2011 - link a www.corteconti.it).
---------------
Tariffe modulate su investimenti e gestione
delle reti.
PROFILI OPERATIVI - I contratti di servizio
devono tenere conto delle norme
«sopravvissute» dell'articolo 113 del Tuel.
Le relazioni tra amministrazioni locali e
società affidatarie dei servizi pubblici
locali sono regolate da un complesso sistema
di norme e devono essere comunque
reimpostate per ottimizzare gli
investimenti.
L'abrogazione dell'articolo 23-bis della
legge n. 133/2008 non ha scalfito
l'articolato sistema normativo regolante i
rapporti tra amministrazioni pubbliche e
società partecipate, formato negli anni da
varie leggi di natura finanziaria.
Continuano pertanto a esplicare i loro
effetti nei rapporti tra enti locali e
società in house o miste l'articolo 13 della
legge n. 248/2006 (limiti relativi
all'affidamento di servizi strumentali),
l'articolo 3, comma 27, della legge n.
244/2007 (verifica della coerenza delle
partecipate con le attività istituzionali
dell'ente socio), l'articolo 18 della legge
n. 133/2008 (regole pubblicistiche per le
assunzioni nelle partecipate e limiti alla
spesa per il personale). In questo quadro
incidono anche le previsioni dell'articolo
6, comma 19 (divieto di ripiano delle
perdite delle partecipate) e dell'articolo
14, comma 32 (divieto di costituzione e
liquidazione delle società partecipate da
Comuni con meno di 30mila abitanti) della
legge n. 122/2010.
L'esito positivo del secondo quesito
referendario sull'acqua (quesito numero 2)
ha determinato l'eliminazione dell'adeguata
remunerazione del capitale investito
portando all'attenzione il tema della
corretta gestione delle reti e dei relativi
piani di investimento.
Questi aspetti devono essere oggetto di una
dettagliata regolamentazione nei contratti
di servizio, non solo per quello idrico, ma
per tutte le tipologie di servizi pubblici
locali.
I Comuni, in particolare, entrano in gioco
su questo versante, poiché sono chiamati a
ripensare alle politiche strutturali delle
reti e al finanziamento delle stesse, anche
in rapporto alle tariffe.
Lo stesso articolo 154 del Dlgs n. 152/2006
al comma 7 prevede che l'eventuale
modulazione della tariffa tra i Comuni
(appartenenti al medesimo Ato) tiene conto
degli investimenti pro capite per residente
effettuati dai Comuni medesimi che risultino
utili ai fini dell'organizzazione del
servizio idrico integrato.
La norma evidenzia quindi la possibilità di
intervento attivo degli enti locali sulle
reti, con incidenza direttamente valutabile
anche sulle tariffe e con conseguente
necessità di clausole che regolino la messa
a disposizione dei nuovi impianti ai
soggetti gestori.
Se le linee di rapporto istituzionale sono
ampiamente dettagliate dalla normativa, i
profili operativi e di regolazione devono
essere ridisciplinati nei contratti di
servizio, per i quali valgono le norme
"sopravvissute" dell'articolo 113 del Tuel
(comma 11) e quelle delle normative speciali
(ad esempio l'articolo 151, comma 2 dello
stesso Dlgs n. 152/2006, che prevede i
dettagliati contenuti della convenzione per
il servizio idrico)
(articolo Il Sole 24
Ore del 20.06.2011). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L. Prati,
La responsabilità soggettiva per
inquinamento e bonifica in danno della
procedura fallimentare (nota a Trib. Milano
n. rg. 10655/2010) (link a
www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
R. Bertuzzi,
Rifiuti speciali. Decreto 11.04.2011, n. 82.
Regolamento per la gestione degli pneumatici
fuori uso (PFU) (link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Grisanti,
La statica e la sicurezza delle costruzioni
quali presupposti di esistenza dei titoli
abilitativi per l’attività edilizia (primo
commento alla sentenza n. 3505
dell'08/06/2011 del Consiglio di Stato)
(link a www.lexambiente.it). |
APPALTI:
A. P. Mazzuccato,
L’attestazione di intervenuta efficacia
dell’aggiudicazione definitiva negli appalti
pubblici (link a
www.altalex.com). |
PUBBLICO IMPIEGO:
S. Mattia,
Gli incarichi dirigenziali a contratto negli
enti locali. I limiti percentuali fissati
dalla disciplina statale per gli incarichi a
soggetti esterni si applicano anche agli
enti locali? Dipende… (link a
www.leggioggi.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. Quaranta,
Bonifica provvisoria a carico del
proprietario incolpevole (link a
www.ipsoa.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quali sono le date di entrata in
funzione del SISTRI dopo la nuova proroga?
Domanda.
Vorrei sapere quali sono, precisamente, le
date di scadenza della "fase transitoria"
del SISTRI, dato che il D.M. 26.05.2011
riporta delle indicazioni che mi sembrano
differenti da quelle diffuse dal Ministero
dell'ambiente in un comunicato stampa
ufficiale?
Risposta.
Il
Decreto 26.05.2011 del MATTM è intitolato "Proroga
del termine di cui all'articolo 12, comma 2,
del decreto 17.12.2009, recante
l'istituzione del sistema di controllo della
tracciabilità dei rifiuti" (pubblicato
sulla G.U. n. 124 del 30.05.2011) e dispone
lo slittamento della fase transitoria "a
doppio regime" documentale (adempimenti
ambientali "tradizionali" e
adempimenti nuovi del SISTRI), periodo che,
per l'appunto, è disciplinato dall'art. 12,
comma 2, del decreto istitutivo e s.m.i.
La nuova proroga disposta dal D.M.
26.05.2011:
• ha il "fine di consentire ai soggetti
obbligati di far fronte alle "rispettive
differenziate esigenze di adeguamento
operativo necessarie a garantire la piena
funzionalità del sistema della tracciabilità
SISTRI";
• recupera, per così dire, quel "criterio
di gradualità" che aveva caratterizzato
le previsioni del MATTM relative all'avvio
sia della fase di iscrizione sia di quella
dell'operatività del SISTRI, laddove
venivano previste date diverse per singoli
gruppi di produttori/gestori di rifiuti, a
cominciare da quelli di più grandi
dimensioni per arrivare, gradualmente, sino
alle imprese col numero più piccolo di
dipendenti.
Infatti, in proposito, il D.M. 26.05.2011
parla di "tempistiche proporzionate e
graduate".
In altre parole, è previsto un avvio a tappe
della obbligatorietà del SISTRI e queste
sono le date da ritenere corrette, cioè
quelle indicate dall'art. 1, comma 1, del
D.M. 26.05.2011:
• 1° settembre 2011,
• 1° ottobre 2011,
• 2 novembre 2011,
• 1° dicembre 2011,
• 2 gennaio 2012.
Più precisamente, l'art. 1 (Proroga di
termini) del D.M. 26.05.2011 proroga il
pieno avvio del SISTRI:
- al 1° settembre 2011
[comma 1]:
a) per i produttori di rifiuti [ex art. 3,
comma 1, lettera a) TU SISTRI] che abbiano
più di 500 dipendenti,
b) per le imprese e gli enti produttori di
rifiuti speciali non pericolosi [ex art.
184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che
hanno più di 500 dipendenti,
c) per le imprese e gli enti che raccolgono
o trasportano rifiuti speciali a titolo
professionale (c.d. "trasportatori
professionali") autorizzati per una
quantità annua complessivamente trattata
superiore a 3.000 tonnellate;
d) per i soggetti di cui all'art. 3, comma
1, lettere c) e d) del TU SISTRI (stimati in
circa 5.000 impianti).
- sempre al 1° settembre
2011 [comma 6]:
- per i soggetti di cui all'art. 3 del TU
SISTRI, non menzionati nei commi da 1 a 5
dell'art. 1, D.M. 26.05.2011, nonché per i
soggetti di cui all'art. 4 del TU SISTRI.
- al 1° ottobre 2011 [comma
2]:
a) per i produttori di rifiuti [ex art. 3,
comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano
da 251 a 500 dipendenti,
b) per le imprese e gli enti produttori di
rifiuti speciali non pericolosi [ex art.
184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA] che
hanno da 251 a 500 dipendenti,
c) per i Comuni, gli enti e le imprese che
gestiscono i rifiuti urbani della regione
Campania;
- al 2° novembre 2011
[comma 3]:
a) i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma
1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 51
a 250 dipendenti,
b) le imprese e gli enti produttori di
rifiuti speciali non pericolosi [ex art.
184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che
hanno da 51 a 250 dipendenti.
- al 1° dicembre 2011
[comma 4]:
a) i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma
1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 11
a 50 dipendenti,
b) le imprese e gli enti produttori di
rifiuti speciali non pericolosi [ex art.
184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che
hanno da 11 a 50 dipendenti,
c) le imprese e gli enti che raccolgono o
trasportano rifiuti speciali a titolo
professionale (i c.d. "trasportatori
professionali") che sono autorizzati per
una quantità annua complessivamente trattata
fino a 3.000 tonnellate (stimati in un
numero di circa 10.000);
- al 2 gennaio 2012 [comma
5]:
- per i produttori di rifiuti [ex art. 3,
comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano
fino a 10 dipendenti (17.06.2011 - commento
tratto da www.ipsoa.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Un consorzio può essere definito
"stabile" solo se caratterizzato
dall'esistenza di una struttura stabile e
duratura il cui fine sia quello di operare
nel settore dei contratti pubblici.
Il consorzio, per essere ritenuto “stabile”
deve:
a) possedere almeno tre consorziati;
b) consorziare imprese che abbiano deciso
(attraverso una determinazione assunta dai
propri organi deliberativi) di operare
congiuntamente nel settore dei contratti
pubblici per un periodo di tempo non
inferiore a cinque anni;
c) avere una autonoma struttura
imprenditoriale tale per cui esso può essere
in grado di eseguire direttamente i
contratti pubblici allo stesso aggiudicati
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 17.06.2011 n. 1104 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICA: E'
legittima –proprio al fine di evitare
difficoltà insormontabili nei Comuni di
medie e piccole dimensioni– l'approvazione
dello strumento urbanistico per parti
separate, con l’astensione per ciascuna di
esse di coloro che in concreto vi abbiano
interesse, purché a ciò segua una votazione
finale dello strumento nella sua interezza;
in tale ipotesi a quest’ultima votazione non
si applicano le cause di astensione, dal
momento che sui punti specifici oggetto del
conflitto di interesse si è già votato senza
la partecipazione dell’amministratore in
conflitto.
Con riguardo
agli effetti dell’obbligo di astensione in
sede di votazione dello strumento
urbanistico dei consiglieri in posizione di
conflitto di interessi ai sensi del citato
art. 78, d.lgs. nr. 267 del 2000, questa
Sezione si è già espressa nel senso della
legittimità –proprio al fine di evitare
difficoltà insormontabili nei Comuni di
medie e piccole dimensioni– di una
approvazione dello strumento urbanistico per
parti separate, con l’astensione per
ciascuna di esse di coloro che in concreto
vi abbiano interesse, purché a ciò segua una
votazione finale dello strumento nella sua
interezza; si è aggiunto anche che in tale
ipotesi a quest’ultima votazione non si
applicano le cause di astensione, dal
momento che sui punti specifici oggetto del
conflitto di interesse si è già votato senza
la partecipazione dell’amministratore in
conflitto (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
22.06.2004, nr. 4429).
Alla luce di tale orientamento, che il
Collegio condivide, risulta legittimo
l’operato dell’Amministrazione nel caso di
specie, essendosi proceduto a votazioni
separate (fra le quali, per quanto qui
interessa, quella relativa al suolo in
proprietà dell’odierno appellato, nella
quale un solo consigliere si astenne) e
quindi a votazione finale della variante
nella sua globalità, con la regolare
partecipazione di tutti gli amministratori
che nelle singole votazioni precedenti
avevano ritenuto di non partecipare alla
deliberazione.
Ne consegue che nemmeno può parlarsi di
insussistenza del quorum strutturale
di cui all’art. 19 del Regolamento
consiliare, atteso che:
a) in nessuna delle votazioni parziali è
contestata la sussistenza del detto quorum,
essendosi registrata in ciascuna di esse
l’astensione di uno o due consiglieri;
b) del pari pacifica è la sussistenza del
quorum nella votazione finale, in occasione
della quale –come si è visto– nessun
consigliere aveva l’obbligo di astenersi.
Le considerazioni che precedono, disvelando
l’infondatezza delle censure accolte dal
primo giudice, consentono di sorvolare sulle
questioni –pure sollevate
dall’Amministrazione appellante– in ordine
alla sussistenza o meno dell’interesse a
ricorrere in capo all’originario istante
(ivi compresa quella di un eventuale
interesse “strumentale” all’integrale
rinnovazione dell’attività pianificatoria,
per effetto dell’auspicato travolgimento
dell’intero strumento a causa del
prospettato vizio procedimentale).
Inoltre, può omettersi anche
l’approfondimento dell’ulteriore questione
se l’obbligo di astensione ex art. 78,
d.lgs. nr. 267 del 2000 comporti anche la
necessità di un allontanamento fisico
dall’aula dell’amministratore in conflitto
di interessi, dal momento che su tale punto
il primo giudice si è espresso nel senso
dell’insussistenza di tale necessità, con
statuizioni non oggetto di impugnazione
incidentale da parte dell’odierno appellato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.06.2011 n. 3663 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per mobbing si intende
comunemente una condotta del datore di
lavoro o del superiore gerarchico,
complessa, continuata e protratta nel tempo,
tenuta nei confronti di un lavoratore
nell'ambiente di lavoro, che si manifesta
con comportamenti intenzionalmente ostili,
reiterati e sistematici, esorbitanti od
incongrui rispetto all’ordinaria gestione
del rapporto, espressivi di un disegno in
realtà finalizzato alla persecuzione o alla
vessazione del lavoratore, tale che ne
consegua un effetto lesivo della sua salute
psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono rilevanti
la molteplicità e globalità di comportamenti
a carattere persecutorio, illeciti o anche
di per sé leciti, posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente secondo un disegno vessatorio;
l’evento lesivo della salute psicofisica del
dipendente; il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore
gerarchico e la lesione dell’integrità
psicofisica del lavoratore; la prova
dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento
persecutorio.
In sé, un atto illegittimo o più atti
illegittimi di gestione del rapporto in
danno del lavoratore non sono sintomatici
della presenza di un comportamento
mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti
gli altri elementi sopra richiamati
Per mobbing si intende comunemente
–in assenza di una definizione normativa-
una condotta del datore di lavoro o del
superiore gerarchico, complessa, continuata
e protratta nel tempo, tenuta nei confronti
di un lavoratore nell'ambiente di lavoro,
che si manifesta con comportamenti
intenzionalmente ostili, reiterati e
sistematici, esorbitanti od incongrui
rispetto all’ordinaria gestione del
rapporto, espressivi di un disegno in realtà
finalizzato alla persecuzione o alla
vessazione del lavoratore, tale che ne
consegua un effetto lesivo della sua salute
psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta
lesiva del datore di lavoro sono, pertanto,
rilevanti la molteplicità e globalità di
comportamenti a carattere persecutorio,
illeciti o anche di per sé leciti, posti in
essere in modo miratamente sistematico e
prolungato contro il dipendente secondo un
disegno vessatorio; l’evento lesivo della
salute psicofisica del dipendente; il nesso
eziologico tra la condotta del datore o del
superiore gerarchico e la lesione
dell’integrità psicofisica del lavoratore;
la prova dell’elemento soggettivo, cioè
dell’intento persecutorio.
Nel verificare l’integrazione della
fattispecie che si esamina è quindi
necessario, anche in ragione della sua
indeterminatezza, attendere ad una
valutazione complessiva ed unitaria degli
episodi lamentati dal lavoratore, da
apprezzare per accertare tra l’altro:
- da un lato, l'idoneità offensiva della
condotta datoriale (desumibile dalle sue
caratteristiche di persecuzione e
discriminazione),
- e, dall'altro, la connotazione
univocamente emulativa e pretestuosa della
condotta.
Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi
di condotta mobbizzante andrà esclusa quante
volte la valutazione complessiva
dell'insieme di circostanze addotte (ed
accertate nella loro materialità), pur se
idonea a palesare, singulatim,
elementi od episodi di conflitto sul luogo
di lavoro, non consenta di individuare,
secondo un giudizio di verosimiglianza, il
carattere esorbitante ed unitariamente
persecutorio e discriminante nei confronti
del singolo del complesso delle condotte
poste in essere sul luogo di lavoro.
E’ in primo luogo necessaria, quindi, la
prova dell'esistenza di un sovrastante
disegno persecutorio, tale da piegare alla
sue finalità i singoli atti cui viene
riferito.
D’altra parte, determinati comportamenti non
possono essere qualificati come costitutivi
di mobbing, ai fini della pronuncia
risarcitoria richiesta, se è dimostrato che
vi è una ragionevole ed alternativa
spiegazione al comportamento datoriale.
In sé, un atto
illegittimo o più atti illegittimi di
gestione del rapporto in danno del
lavoratore non sono sintomatici della
presenza di un comportamento mobbizzante,
occorrendo che ricorrano tutti gli altri
elementi sopra richiamati
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Gare: certificazione di qualità
solo parziale, niente cauzione ridotta.
Al fine di poter
accedere al beneficio della dimidiazione
della cauzione provvisoria ex art. 75, comma
7, del D.Lgs. n. 163/2006, è necessario che
sussista una più o meno perfetta
corrispondenza tra le lavorazioni
certificate e quelle da eseguire.
Viene impugnata l’aggiudicazione di una gara
d’appalto per l’affidamento dei lavori di
ristrutturazione di un complesso edilizio
provinciale da parte della ditta seconda in
graduatoria; la controinteressata spiega
ricorso incidentale, assumendo, oltre al
resto, l’inammissibilità del ricorso
principale in quanto la ricorrente
(principale) avrebbe dovuto essere esclusa
dalla procedura in quanto aveva presentato
per la partecipazione alla gara una cauzione
provvisoria illegittimamente dimidiata nel
suo importo.
Il Tribunale amministrativo di Bolzano
stabilisce di esaminare prioritariamente il
ricorso incidentale proposto dall’A.T.I.
controinteressata, come tale preordinato a
paralizzare la possibilità di accoglimento
del ricorso principale e delle censure con
esso dedotte.
Tra l’altro il deducente incidentale lamenta
la violazione dell’art. 75, comma 7, del
D.Lgs. n. 163/2006 avendo la ricorrente
principale presentato una cauzione
provvisoria dimidiata senza essere in
possesso dei requisiti richiesti dalla norma
citata.
Il motivo viene condiviso dal Collegio.
Ha infatti rilevato il T.R.G.A. che la
facoltà di presentare la cauzione
provvisoria in un importo ridotto del
cinquanta per cento, come previsto dal comma
7 della norma suindicata, costituisce un
beneficio a favore di imprese che offrono
garanzie di maggiore affidabilità, in quanto
sono in possesso di una capacità certificata
nell’esecuzione dell’opera oggetto
dell’appalto.
La seconda in graduatoria, a tal fine, ha
presentato il certificato di attestazione
del sistema di qualità rilasciato da una
società specializzata, con il quale viene
certificato che il: “… sistema di
gestione per la qualità implementato
dall’organizzazione è conforme alla norma
UNI EN ISO 9011:2008 e alle prescrizioni del
documento Sincert RT per le attività:
progettazione, installazione e manutenzione
di impianti termotecnica”.
Orbene, ha statuito il Collegio tirolese
che, se è vero che in astratto la
certificazione è conforme all’art. 75, comma
7 del D.Lgs. n. 163 cit., la stessa tuttavia
è limitata agli impianti termici, che, a
norma del disciplinare di gara costituisce
soltanto il 22,14 % dell’importo d’opera.
Logica e buon senso, a suo avviso,
suggeriscono che dev’esservi –al fine di
poter accedere al beneficio della
dimidiazione della cauzione– una più o meno
perfetta corrispondenza tra le lavorazioni
certificate e quelle da eseguire.
Questa tesi, ha soggiunto il G.A.
altoatesino, è stata seguita anche
dall’Autorità per la Vigilanza sui contratti
pubblici (pareri n. 155 e 156 del
09.09.2010) laddove viene puntualizzato che:
“nel caso in cui la certificazione
identifica espressamente talune tipologie di
lavorazioni, la predetta certificazione
attesta la capacità organizzativa ed
operativa dell’impresa limitatamente alle
lavorazioni indicate, per tutte le altre,
invece, l’impresa risulta priva della
certificazione di qualità”.
Tesi, peraltro, costantemente seguita dalla
giurisprudenza amministrativa (da ultimo, si
veda TAR Liguria, Sez. II, 24.06.2010, n.
5260).
Poiché secondo il disciplinare di gara la
garanzia per la cauzione provvisoria (per un
importo di Euro 104.430,80, pari al 2%
dell’importo complessivo dei lavori) doveva
essere inserita nella busta A relativa alla
“documentazione amministrativa” a
pena di esclusione, la presentazione di una
cauzione per un importo ridotto rispetto a
quello prescritto, equivale alla mancata
presentazione di tale garanzia e, quindi, ha
concluso il T.R.G.A. di Bolzano, a una
fattispecie alla quale avrebbe dovuto
necessariamente seguire l’esclusione
dell’offerta dalla gara della ricorrente
principale (commento tratto da www.ipsoa.it
- TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 09.06.2011 n. 227 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Scelte di pianificazione
urbanistica del Consiglio Comunale.
Le scelte di panificazione fanno parte di
una competenza specifica del Consiglio
comunale, quale ente esponenziale della
comunità, a cui solo spetta la potestà di
valutare, nell'esercizio degli ordinari
poteri di pianificazione urbanistica, la
congruità delle scelte urbanistiche proposte
e la loro compatibilità con gli obiettivi
fondamentali che l'ente si è dato, o che
intenda fissare, per il migliore assetto del
territorio comunale (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV, 21.10.2008, n. 5146).
Per questo, in assenza di plateali e
reiterate inadempienze, il giudice
amministrativo non può, in sede dello
speciale procedimento per il silenzio
affidare al Commissario ad acta la
definizione di un singolo segmento della
pianificazione del territorio comunale
interessante il ricorrente in maniera del
tutto disgiunto dalle scelte di politica
urbanistica, ovvero imporre termini del
tutto incongrui in relazione all’importanza
e rilevanza sociale dei procedimenti ed
all’entità e gravosità degli adempimenti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3490 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: La
gara per la tesoreria non è soggetta al
«Codice».
La gara per l'affidamento del servizio di
tesoreria di un ente locale non è soggetta
alla disciplina del Codice dei contratti
pubblici (Dlgs 163/2006) e quindi non sussiste
l'obbligo per l'aggiudicatario di prestare
la cauzione definitiva.
È quanto affermato dal Consiglio di Stato
con la
sentenza
06.06.2011 n. 3377,
chiarendo che il contratto di tesoreria
rientra fra le concessioni di servizi ed
evidenziando che la modalità di
remunerazione costituisce il tratto
distintivo dell'appalto. Così, si avrà
concessione quando l'operatore si assume in
concreto i rischi economici della gestione
del servizio, rifacendosi essenzialmente
sull'utenza, mentre si avrà appalto quando
l'onere del servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull'amministrazione.
Peraltro, la giurisprudenza interna ha più
volte posto l'accento sulla tipologia del
rapporto, configurando l'appalto in caso di
prestazioni rese in favore
dell'amministrazione (rapporto bilaterale),
diversamente dalla concessione di servizi
che instaura un rapporto tra ente,
concessionario e utenti (rapporto
trilaterale).
La conclusione cui perviene il Consiglio di
Stato si pone senz'altro in linea con la più
recente giurisprudenza comunitaria: con la
sentenza del 10.03.2011 la Corte di
giustizia Ue ha infatti affermato che nella
concessione la remunerazione non è garantita
dall'amministrazione aggiudicatrice, bensì
dagli importi riscossi presso gli utenti del
servizio.
Il contratto di tesoreria va quindi
qualificato in termini di rapporto
concessorio e non di appalto di servizio,
come più volte affermato dalla Cassazione
con le pronunce 8113/2009, 9648/2001 e 874/1999.
Si tratta in sostanza del medesimo rapporto
che si configura nel caso di accertamento e
riscossione delle entrate locali (Consiglio
di Stato, 5566/2010, 4510/2010 e 236/2006). La
procedura di gara è pertanto assoggettata al Dlgs 163/2006 solo nei limiti indicati
dall'articolo 30, che esclude
l'applicabilità del Codice dei contratti
alle concessioni di servizi, ma impone
comunque il rispetto dei principi generali,
prevedendo una gara informale a cui invitare
almeno cinque concorrenti e con
predeterminazione dei criteri selettivi.
Occorre quindi rispettare i "principi"
desumibili dalla normativa sugli appalti,
individuati di volta in volta dalla
giurisprudenza. Infatti, alcune disposizioni
del Dlgs 163/2006, in quanto espressione di
principi generali, sono state ritenute
applicabili anche alle concessioni: tra
queste, l'articolo 83 sulla definizione dei
criteri di valutazione delle offerte (Tar
Toscana 1710/2008). Altre norme del Dlgs
163/2006 sono state invece ritenute
inapplicabili alle concessioni: tra esse,
gli articoli 86 e seguenti sull'anomalia
dell'offerta (Consiglio di Stato, 1784/2011
e 513/2011)
(articolo Il Sole 24
Ore del 20.06.2011 - link a www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Rifiuti. Impianti mobili di
macinatura.
In tema di rifiuti devono ritenersi
sicuramente assoggettati al procedimento
autorizzatorio di cui all’articolo 208 D.Lv.
152/2006 gli impianti mobili adibiti alla
macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei
materiali inerti prodotti da cantieri edili
di demolizione, in quanto non possono essere
considerati impianti che effettuano una
semplice riduzione volumetrica e separazione
di eventuali frazioni estranee, essendo essi
impiegati per effettuare un’operazione “di
trattamento” il cui principale risultato
è quello di permettere ai residui ferrosi “di
svolgere un ruolo utile” (in linea anche
con la nozione di “recupero” posta
dal D.Lgs. 03.12.2010, n. 205, ove viene
espressamente previsto che l’elenco delle
operazioni di cui all’allegato C del D.Lgs.
n. 152/2006 (non è per nulla esaustivo)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.06.2011 n. 21859 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Opere nel
sottosuolo.
Il reato di cui all’ari. 181, comma 1-bis,
del D. L.vo 42/2004 (che si pone come tipica
ipotesi di reato di pericolo), si configura
anche in caso di lavori realizzati, in
difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di
zone sottoposte a determinati vincoli
paesaggistici in quanto la norma in parola
vieta l’esecuzione di lavori di qualunque
genere su beni paesaggistici, dovendosi
ritenere realizzata anche in tali casi una
modificazione, anche se non immediatamente
visibile, dell’assetto del territorio.
La ratio della norma incriminatrice ,
quindi, la tutela massima del paesaggio,
dovendosi escludere il reato solo nella
residuale ipotesi che, nemmeno in via
astratta, l’opera realizzata (o in corso di
esecuzione) sia idonea a pregiudicare il
bene paesaggistico protetto dalla norma
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.06.2011 n. 21842 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Variazioni essenziali.
Secondo le disposizioni dell’art. 32, lett.
c), del T.U. n. 380/2001, costituiscono
variazioni essenziali le “modifiche
sostanziali di parametri urbanistico-edilizi
del progetto approvato ovvero della
localizzazione dell’edificio sull’area di
pertinenza”.
Ne consegue che la modifica della
localizzazione dell’edificio integra una
variazione essenziale rispetto al progetto
qualora si sia in presenza di una
traslazione tale da comportare lo
spostamento del fabbricato su un’area
totalmente o pressoché totalmente diversa da
quella originariamente prevista: a detta
modifica, pertanto, si connette la necessità
di una nuova valutazione del progetto da
parte dell’amministrazione concedente, sotto
il profilo della sua compatibilità con i
parametri urbanistici e con la
considerazione dell’area (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.05.2011 n. 21781 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Beni ambientali. Installazione
pannelli solari.
L’installazione di pannelli solari è
inequivocabilmente un intervento idoneo ad
incidere negativamente sull’assetto
paesaggistico e richiede l’autorizzazione
dell’ente preposto alla tutela del vincolo
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19328 -
link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione abusiva, nozione,
precisazioni.
Si ha
lottizzazione abusiva di terreni a scopo
edificatorio non solo quando vengono
iniziate opere che comportino trasformazione
urbanistica od edilizia dei terreni stessi
in violazione delle prescrizioni degli
strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e
comunque stabilite dalle leggi statali o
regionali o senza la prescritta
autorizzazione) ma anche quando tale
trasformazione venga predisposta attraverso
il frazionamento e la vendita, o atti
equivalenti, del terreno in lotti che, per
le loro caratteristiche quali la dimensione
in relazione alla natura del terreno e alla
sua destinazione secondo gli strumenti
urbanistici, il numero, l'ubicazione o la
eventuale previsione di opere di
urbanizzazione ed in rapporto ad elementi
riferiti agli acquirenti denuncino in modo
non equivoco la destinazione a scopo
edificatorio
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 13.05.2011 n. 2937 -
link a www.altalex.com). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Per
la sfiducia al sindaco basta la motivazione
politica.
RICORSO BOCCIATO - Secondo il primo
cittadino, era necessaria l'indicazione di
circostanze e fatti riconducibili alla sua
responsabilità.
È legittima la delibera del Consiglio
comunale che ha approvato la mozione di
sfiducia al sindaco, motivandola con la
diversità di orientamento politico tra il
sindaco stesso e la maggioranza consiliare.
Così ha stabilito il TAR Sicilia–Catania,
Sez. III, con la
sentenza 12.05.2011 n. 1170, la quale ha confermato con ulteriori
argomenti le linee giurisprudenziali del
Consiglio di Giustizia amministrativa della
Regione siciliana, 28.09.2007, n.
886.
Il caso riguardava un Comune siciliano nel
quale, trascorso un anno e mezzo dallo
svolgimento della competizione elettorale e
dall'insediamento del sindaco, sei
consiglieri su 12 avevano depositato una
mozione di sfiducia nei confronti del primo
cittadino, e il consiglio, con i voti
favorevoli di 11 dei 12 consiglieri, aveva
approvato tale mozione.
Il sindaco sfiduciato aveva allora proposto
ricorso al Tar, affermando che –in base
all'articolo 10, comma 2, della legge
regionale siciliana 35/1997– la mozione di
sfiducia doveva essere «motivata», nel senso
che avrebbe dovuto riferirsi a circostanze e
fatti effettivamente accaduti ed esistenti,
riconducibili a una responsabilità del
sindaco stesso.
Ma il Tar non ha accolto questa tesi e ha
quindi respinto il ricorso, per le seguenti
ragioni:
1) la mozione di sfiducia al sindaco è
caratterizzata da una elevatissima
discrezionalità, sindacabile soltanto in
casi di manifesta illogicità o evidente
travisamento dei fatti;
2) l'articolo 10, comma 2, della legge
35/1997 della Regione siciliana prevede sì
come condizione di legittimità della mozione
di sfiducia al sindaco, che essa sia
«motivata», ma non contiene ulteriori
precisazioni sulle modalità di questa
motivazione;
3) in conseguenza, la motivazione della
sfiducia al sindaco può essere non soltanto
di tipo politico-giuridico-amministrativo,
ma di carattere politico, e può
legittimamente basarsi sulla diversità di
orientamento politico tra sindaco e
maggioranza consiliare.
La sentenza è da condividere. Essa –in
riferimento allo specifico caso affrontato–
contiene il persuasivo argomento che, in
mancanza di una diversa qualificazione
legislativa della motivazione, è sufficiente
che vi sia una motivazione basata sulla
diversità di orientamento politico tra
sindaco e maggioranza consiliare.
Va detto, inoltre, che la sentenza si
inquadra esattamente anche nei rapporti tra
gli organi dell' ente locale. È, infatti,
necessario che vi sia sempre una consonanza
politica tra il sindaco e il consiglio,
tant'è vero che l'approvazione della mozione
di sfiducia al sindaco comporta non solo la
cessazione della carica di quest'ultimo, ma
anche il cosiddetto "effetto Sansone",
vale a dire il contemporaneo scioglimento
del consiglio
(articolo Il Sole 24
Ore del 20.06.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
URBANISTICA: In
materia di impugnazione di piani
urbanistici, l'ordinamento riconosce una
posizione qualificata e differenziata a
tutti coloro che si trovino in una
situazione di stabile collegamento
(residenza, possesso o detenzione di
immobili, o altro titolo di qualificata
frequentazione) con la zona interessata
dall'operazione contestata, specificandosi
che detti soggetti sono legittimati
all'impugnazione ove possano lamentare una
pregiudizievole alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio per effetto
della realizzazione dell'intervento
controverso.
Il pregiudizio che può conseguire ad un
intervento di pianificazione può consistere
nella possibile diminuzione di valore del
proprio immobile o nella peggiore qualità
ambientale: una volta accertata la “vicinitas”,
rappresentata dal collegamento territoriale,
vanno valutate le implicazioni urbanistiche
dell’intervento e le conseguenze prodotte
sulla qualità della vita di coloro che per
residenza, attività lavorative e simili
ragioni, sono in durevole rapporto con la
zona interessata dall’intervento.
In punto di diritto, va richiamato il
consolidato l’indirizzo giurisprudenziale
secondo cui, in materia di impugnazione di
piani urbanistici, l'ordinamento riconosce
una posizione qualificata e differenziata a
tutti coloro che si trovino in una
situazione di stabile collegamento
(residenza, possesso o detenzione di
immobili, o altro titolo di qualificata
frequentazione) con la zona interessata
dall'operazione contestata, specificandosi
che detti soggetti sono legittimati
all'impugnazione ove possano lamentare una
pregiudizievole alterazione del preesistente
assetto urbanistico ed edilizio per effetto
della realizzazione dell'intervento
controverso (cfr. Cons. St., Sez. IV,
10.04.2008, n. 1548).
Come è stato evidenziato, proprio in tema di
impugnazione di un P.I.I. (cfr. TAR
Lombardia Sez. II, 09.07.2009 n. 4345), il
pregiudizio che può conseguire ad un
intervento di pianificazione può consistere
nella possibile diminuzione di valore del
proprio immobile o nella peggiore qualità
ambientale: una volta accertata la “vicinitas”,
rappresentata dal collegamento territoriale,
vanno valutate le implicazioni urbanistiche
dell’intervento e le conseguenze prodotte
sulla qualità della vita di coloro che per
residenza, attività lavorative e simili
ragioni, sono in durevole rapporto con la
zona interessata dall’intervento (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.04.2011 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
fascia di rispetto cimiteriale prevista
dall'art. 338 R.D. 1265 del 1934 persegue
una triplice finalità: a) assicurare
condizioni di igiene e di salubrità mediante
la conservazione di una "cintura sanitaria"
intorno allo stesso cimitero, b) garantire
la tranquillità e il decoro ai luoghi di
sepoltura, c) consentire futuri ampliamenti
del cimitero.
Una volta intervenuta la soppressione del
cimitero, si apre una fase temporale di
quindici anni dall’avvenuta ultima
inumazione, all’esito della quale, previo
dissodamento del terreno, il sito ove era
allocato il cimitero può essere destinato a
tale funzione.
Il R.D. 27.7.1934 n. 1265 -T.U. delle leggi
sanitarie- all’art. 338 dispone che i
cimiteri devono essere collocati alla
distanza di almeno 200 metri dal centro
abitato, vietando la costruzione intorno ai
cimiteri di nuovi edifici entro il raggio di
200 metri dal perimetro dell'impianto
cimiteriale, quale risultante dagli
strumenti urbanistici vigenti nel comune o,
in difetto di essi, quale esistente in
fatto, salve le deroghe ed eccezioni
previste dalla legge.
La medesima norma, in forza delle modifiche
da ultimo introdotte dall’art. 28 della L.
01.08.2002 n. 166, prevede la possibilità di
deroga da parte del Consiglio comunale,
previo parere favorevole della ASL, sino al
limite di m. 50, in concorrenza di
determinate condizioni.
La giurisprudenza ha rilevato (cfr. ex
multis: TAR Brescia, sez. I, 01.12.2009
n. 2381, TAR Toscana Sez. III, 12.07.2010 n.
2446, Cons. St., Sez. V, 14.09.2010 n. 6671)
che la fascia di rispetto cimiteriale
prevista dall'art. 338 R.D. 1265 del 1934
persegue una triplice finalità: a)
assicurare condizioni di igiene e di
salubrità mediante la conservazione di una "cintura
sanitaria" intorno allo stesso cimitero,
b) garantire la tranquillità e il decoro ai
luoghi di sepoltura, c) consentire futuri
ampliamenti del cimitero.
Va poi rilevato che la procedura di
soppressione dei cimiteri risulta
disciplinata dagli artt. 96-99 del D.P.R.
10.09.1990 n. 285. In particolare, l’art. 97
dispone (al primo comma) che il terreno di
cimitero di cui sia stata deliberata la
soppressione non può essere destinato ad
altro uso se non siano trascorsi almeno 15
anni dall'ultima inumazione, con la
conseguenza che per tale periodo esso rimane
sotto la vigilanza dell'autorità comunale e
deve essere tenuto in stato di decorosa
manutenzione; mentre, una volta che è
trascorso tale lasso di tempo, (secondo
comma) il terreno del cimitero soppresso,
prima di essere destinato ad altro uso, deve
essere dissodato per la profondità di metri
due al fine di recuperare tutte le ossa che
si rinvengono da depositarsi nell'ossario
del nuovo cimitero.
L’art. 98 prevede poi la possibilità, per i
concessionari di posti per sepolture private
nel vecchio cimitero, di ottenere a titolo
gratuito, nel nuovo cimitero, un posto
corrispondente in superficie a quello
precedentemente loro concesso, per il tempo
residuo spettante secondo l'originaria
concessione, o per la durata di 99 anni nel
caso di maggiore durata o di perpetuità
della concessione estinta, nonché il
gratuito trasporto delle spoglie mortali dal
soppresso al nuovo cimitero, da effettuare a
cura del Comune.
L’art. 99 infine disciplina la sorte dei
monumenti funerari del cimitero soppresso.
Da tale complesso normativo si evince quindi
che, una volta intervenuta la soppressione
del cimitero, si apre una fase temporale di
quindici anni dall’avvenuta ultima
inumazione, all’esito della quale, previo
dissodamento del terreno, il sito ove era
allocato il cimitero può essere destinato a
tale funzione (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 18.04.2011 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 20.06.2011 |
ã |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Oggetto: Comunicato alle SOA e alle
Stazioni appaltanti su criteri
interpretativi per il rilascio della
validità delle attestazioni di
qualificazione nel periodo transitorio
previsto dal D.P.R. n. 207/2010 come
modificato dal D.L. n. 70/2011 (comunicato
del Presidente del 10.06.2011 -
link a www.autoritalavoripubblici.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del
13.06.2011, "Criteri e modalità per
l’erogazione dei contributi agli enti locali
ed agli enti gestori delle aree regionali
protette per l’esercizio delle funzioni
paesaggistiche loro attribuite (art. 79,
comma 1, lett. b), l.r. 12/2005)"
(decreto D.S.
08.06.2011 n. 5173). |
ENTI LOCALI: G.U.
13.06.2011 n. 135, suppl. ord. n. 144, "Patto
di stabilità interno per il triennio
2011-2013 per le Province e i Comuni con
popolazione superiore a 5.000 abitanti"
(Ministero dell'Economia e delle Finanze,
circolare 06.04.2011
n. 11). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
G. Guzzo,
L’assetto della disciplina SPL di rilevanza
economica all’indomani del risultato del
referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011:
riflessioni minime (link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: L.
Bellagamba,
La tracciabilità dei flussi finanziari nelle
concessioni di lavori pubblici e di servizi,
dopo la legge di conversione del D.L.
187/2010: il perseverare dell’Autorità
nell’errore di fondo (det. 10/2010)
(link a www.linobellagamba.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
V. Paone,
Il rapporto tra il reato di gestione
illecita di rifiuti e l’inosservanza di
modalità operative (nota a Cass. pen. n.
22763/2010) (link a
www.lexambiente.it). |
ENTI LOCALI - VARI:
M. Villani,
Tarsu soppressa dal 2010 e 2011
(link a www.filodiritto.com). |
SINDACATI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Fac-simile di Contratto
Collettivo Decentrato Integrativo per l'anno
2011 (versione modificabile a piacimento)
(CISL-FP di Bergamo,
giugno 2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'indennità
di disagio negli enti locali
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 15.06.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Comunicato ai pubblici dipendenti
(CSA di Roma,
comunicato 14.06.2011). |
UTILITA' |
APPALTI: Procedura
Negoziata: definizioni, domande e risposte.
Estratto del Convegno sul nuovo Regolamento
dei Contratti pubblici.
La procedura negoziata consente alle
Stazioni Appaltanti di consultare gli
operatori economici da loro scelti e
negoziare con uno o più di essi le
condizioni dell'appalto.
Essa può essere “previa pubblicazione di
bando” o “senza previa comunicazione
di bando”.
Ricordiamo brevemente che:
la procedura negoziata
previa pubblicazione di un bando di gara è
applicabile:
-
quando tutte le offerte presentate sono
irregolari ovvero inammissibili, in ordine a
quanto disposto dal presente codice in
relazione ai requisiti degli offerenti e
delle offerte;
- nel caso di appalti per lavori realizzati
unicamente a scopo di ricerca,
sperimentazione.
la procedura negoziata
senza previa pubblicazione di un bando di
gara è applicabile:
- nel caso in cui non sia stata presentata
nessuna offerta, o nessuna offerta
appropriata, o nessuna candidatura;
- se il contratto possa essere affidato
unicamente ad un operatore economico
determinato il per ragioni di natura tecnica
o artistica ovvero attinenti alla tutela di
diritti esclusivi;
- in casi di estrema urgenza, risultante da
eventi imprevedibili per le stazioni
appaltanti.
Il Decreto Sviluppo (Decreto Legge
13.05.2011, n. 70) ha innalzato i limiti di
importo per l'affidamento degli appalto
mediante procedura negoziata (fino alla
soglia comunitaria), con l'obbligo di
invitare almeno 5 operatori per importi
inferiori a 500.000 euro e almeno 10
operatori per importi maggiori di 500.000
euro.
La redazione di BibLus-net propone ai propri
lettori un estratto in formato audio-video
del seminario di aggiornamento e studio
riguardante il nuovo “REGOLAMENTO DI
ESECUZIONE ED ATTUAZIONE DEI CONTRATTI
PUBBLICI”, organizzato dall'Ordine degli
Ingegneri di Avellino il 16.05.2011, che
riporta la relazione del dott. Ugo MONTELLA
(Vice Procuratore Generale presso la Corte
dei Conti) con domande e risposte sulla
Procedura Negoziata.
In particolare, vengono
analizzati gli artt. 56, 57 e 122 del D.Lgs
163/2006 e le modifiche apportate dal D.P.R.
207/2010 e dal Decreto Sviluppo e vengono
fornite le risposte ai quesiti dei
partecipanti
(news del 16.06.2011 - link a www.acca.it). |
APPALTI: Clausole
di tracciabilità: dal 17.06.2011 adeguamento
automatico di tutti i contratti.
Come previsto dalla Legge n. 127/2010, dal
17.06.2011 tutti i contratti stipulati prima
del 10 settembre 2010, non adeguati
volontariamente, saranno automaticamente
integrati con le clausole di tracciabilità
previste Legge n. 136/2010.
In particolare, per questi contratti, le
varie stazioni appaltanti dovranno chiedere
(entro venerdì) il CIG (Codice
Identificativo di Gara) e dovranno
effettuare i pagamenti tramite bonifico
bancario o postale o altri strumenti
tracciabili.
L'AVCP consiglia alle stazioni appaltanti di
inviare una comunicazione agli operatori
economici per evidenziare l'adeguamento
automatico del contratto e comunicare il
CIG, dove non fosse già previsto.
Per approfondire la problematica relativa ad
adempimenti e procedure si rinviano i
lettori all'articolo sulla Tracciabilità dei
flussi finanziari.
In allegato si riportano le diverse
Determinazioni dell'AVCP
(news del 16.06.2011 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Documento
di Valutazione dei Rischi: redazione e
aggiornamento e miglioramento in otto mosse!
Il D.V.R. (Documento di Valutazione dei
Rischi) è lo strumento attraverso il quale
il Datore di Lavoro effettua “la
valutazione globale e documentata di tutti i
rischi per la sicurezza e la salute dei
lavoratori” (D.Lgs. 81/2008), al fine di
garantire il miglioramento dei livelli di
sicurezza nel tempo.
In particolare, il Datore di Lavoro nel DVR
definisce l'organizzazione che ha
predisposto per garantire la sicurezza dei
Lavoratori.
Tuttavia, si osserva che molto spesso il DVR
predisposto in adempimento dell'art. 17 del
D.Lgs. 81/2008 ha un eccessivo contenuto
formale e non è uno strumento efficace per
gestire le varie problematiche della
sicurezza dei Lavoratori. Inoltre,
nonostante la redazione del DVR sia un
obbligo INDELEGABILE, talvolta il datore di
lavoro non ne conosce il contenuto.
Lo S.P.I.S.A.L. (Servizio di Prevenzione
Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro)
USSL 5 ovest vicentino propone 8 punti
chiave per la redazione/aggiornamento del
DVR. ...
(news del 16.06.2011 - link a www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO: Otto
regole vitali per chi lavora in edilizia. Un
interessante vademecum per la sicurezza sui
cantieri.
Il SUVA (INAIL svizzero) ha pubblicato un
vademecum sulle regole da far seguire in
cantiere.
Il documento è indirizzato ai Datori di
Lavoro o ai formatori sulla sicurezza e
contiene le regole basilari da impartire ai
lavoratori, esposte in modo semplice, chiaro
e preciso, con illustrazioni, schemi e foto.
Innanzitutto vengono forniti consigli ai
Datori di Lavoro su come predisporre la
formazione dei lavoratori, come preparare le
lezioni, come impartire le regole e come
rapportarsi con i propri dipendenti.
Vengono poi analizzate singolarmente otto
regole fondamenti, corredate da opportune
schede esplicative, consigli e istruzioni da
impartire.
Le regole sono:
1- mettere in sicurezza le aperture nel
vuoto a partire da un'altezza di 2 m;
2- mettere in sicurezza le aperture nel
pavimento;
3- manovrare opportunamente le gru e
imbracare opportunamente i carichi;
4- fare uso del ponteggio quando necessario
;
5- controllare il ponteggio ogni giorno;
6- realizzare accessi sicuri a tutti i posti
di lavoro;
7- utilizzare i D.P.I.;
8- mettere in sicurezza gli scavi
(news del 16.06.2011 - link a www.acca.it). |
QUESITI &
PARERI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Quali sono le incombenze se il produttore
intende movimentare un rifiuto già
registrato sul registro di carico e scarico
ma non ancora caricato sull’area registro
cronologico SISTRI? (link a
www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il registro cronologico – SISTRI sostituisce
il registro di carico scarico?
(link a www.ambientelegale.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Chi è responsabile della veridicità dei dati
inseriti nel SISTRI? (link a
www.ambientelegale.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Merito
e professionalità: quali strumenti premiali?
Domanda.
E'
possibile per gli Enti Locali assegnare
premialità con strumenti ulteriori rispetto
a quelli previsti dall'art. 20 del D.Lgs. n.
150/2009?
Risposta.
Si, in quanto se da un lato il comma 3
dell'art. 31 stabilisce che gli Enti Locali,
al fine di premiare il merito e la
professionalità, utilizzano gli istituti
premiali di cui all'art. 20 della Riforma
Brunetta, dall'altro si aggiunge "oltre a
quanto autonomamente stabilito nei limiti
delle risorse disponibili per la
contrattazione integrativa".
Quindi, in buona sostanza, qualora in sede
di contrattazione decentrata vengano
individuate risorse disponibili, se ne può
fissare la destinazione ad altre ulteriori
forme di premialità rispetto a quelle
previste dal citato art. 20 del D.Lgs.
27-10-2009, n. 150 (13.06.2011 - commento
tratto da www.ipsoa.it). |
NOTE,
CIRCOLARI E COMUNICATI |
APPALTI SERVIZI:
Prime osservazioni sull’affidamento dei
servizi pubblici locali e sulla tariffa del
servizio idrico integrato in esito al
referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011
(ANCI,
nota interpretativa 14.06.2011). |
ENTI LOCALI: Oggetto:
Applicazione dell'art. 9 D.L. 31.05.2010, n.
78, convertito, con modificazioni, nella L.
30.07.2010, n. 122, recante "Misure urgenti
in materia di stabilizzazione finanziaria e
di competitività economica" (Ministero
dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento
della Ragioneria Generale dello Stato,
circolare 15.04.2011 n. 12). |
COMPETENZE PROFESSIONALI:
Oggetto: Competenze professionali
(Consiglio Nazionale dei Periti Industriali
e dei Periti Industriali Laureati,
circolare 14.04.2011
n. 22/2011). |
COMPETENZE PROFESSIONALI:
Oggetto: competenza perito termotecnico
per la progettazione di un impianto di
smaltimento acque nere e meteoriche di un
piano di lottizzazione residenziale
(Consiglio Nazionale dei Periti Industriali
e dei Periti Industriali Laureati,
nota 14.01.2011 n. 196
di prot.). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI:
Niente politica estera per i
comuni. Al bando promozioni, fiere, scambi e
aiuti alle imprese. Per la Corte conti gli
enti non hanno competenza in materia. E
scatta il danno erariale.
I comuni non possono
svolgere attività di «politica estera»,
consistenti in svariate iniziative di
promozione all'estero delle attività
imprenditoriali locali, come fiere, scambi
internazionali e aiuti alle imprese.
Lo chiarisce la Corte dei Conti, Sez. I
giurisdizionale centrale,
sentenza 28.07.2008 n. 346, che
ha condannato amministratori e funzionari
che hanno dato materialmente corso alle
attività oggetto della censura. Per altro,
la sentenza della sezione centrale ha
riformato la pronuncia del giudice di primo
grado, secondo il quale non si erano
verificate le condizioni per accertare il
danno erariale, perché la legge non
vieterebbe espressamente una funzione di
promozione all'estero in capo ai comuni.
Tale assunto, tuttavia, viene
approfonditamente contestato dalla sezione
centrale, a seguito di una compiuta analisi
del riparto normativo delle competenze in
materia di politica estera e di promozione
commerciale e di immagine.
La sezione mette correttamente in evidenza
come sia erroneo analizzare la legittimità
delle azioni amministrative sulla semplice
base della constatazione dell'assenza di
espliciti divieti. L'ordinamento giuridico è
un insieme coerente e complesso: se,
nonostante, manchi un divieto espresso, in
capo a un ente, a svolgere una certa
attività, ma, contestualmente, l'ordinamento
quella stessa attività l'assegni alle
competenze di altro ente, tale assegnazione
costituisce un limite invalicabile.
Ciò è quanto avviene nel campo della
promozione all'estero. Risulta assolutamente
chiaro a chiunque che tale materia,
rientrante nella complessa politica estera,
appartenga in esclusiva allo stato. Per
altro, limitate funzioni di rilievo
internazionale possono essere svolte anche
dalle regioni, in base al dpr 31.03.1994, «Atto
di indirizzo e coordinamento in materia di
attività all'estero delle regioni e delle
province autonome», il quale, tuttavia
impone alle amministrazioni regionali di
coordinarsi strettamente con lo stato, per
non contrastare con gli indirizzi di
politica internazionale.
Il citato decreto non assegna alcuna
competenza in materia ai comuni; né tale
attribuzione di competenze emerge dalla
legge n. 59/1997 o dal dlgs 112/1998, i
quali, al contrario, prevedono
l'assegnazione in via esclusiva alle sole
regioni di funzioni attinenti la promozione
delle imprese.
Insomma, il sistema del «policentrismo
istituzionale» o federalismo, secondo la
magistratura contabile, non può essere
intese che ciascun soggetto istituzionale
che lo compone sia libero di svolgere
qualsiasi iniziativa, al di fuori di regole
di ripartizione delle competenze: ciò
determinerebbe, infatti, l'impossibilità del
controllo delle politiche di finanza
pubblica.
Dall'esame delle norme regolanti la materia
della politica e della promozione
all'estero, dunque, secondo la sezione
centrale emerge senza ombra di dubbi che gli
enti locali, in particolare i comuni non
dispongono di alcuna competenza a svolgere
attività all'estero o, comunque, aventi
carattere internazionale. Ciò per la
semplice ragione che tali attività per il
loro rilievo, non possono essere gestite in
modo efficiente al livello comunale: la
corretta applicazione del principio di
sussidiarietà verticale impone che tali
funzioni siano svolte al massimo livello
organizzativo pubblico, lo stato.
La sussistenza, allora, di un chiaro sistema
normativo implica la colpa grave di
amministratori, funzionari e segretari
comunali, che hanno materialmente attivato
una pluralità di viaggi all'esterno non
utili per fini pubblici apprezzabili. Nei
quali, per altro, rileva la sentenza, sono
state attivate spese per mance, pay-tv,
addebitate al comune, senza che da esse
potesse cogliersi alcuna possibile utilità
per la comunità amministrata, per altro
ulteriormente danneggiata dalla circostanza
che importanti energie e risorse lavorative,
utilizzate per le attività all'estero, sono
state distolte dagli ordinari compiti propri
del comune (articolo ItaliaOggi
dell'08.08.2008). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
La colpa grave non è
assicurabile. L’ente locale non può
estendere la copertura dei danni. La Corte
conti Lombardia bacchetta il sindaco di
Erba: la polizza fa scattare il danno
erariale.
Agli enti locali è permesso sottoscrivere un
contratto assicurativo che preveda il
risarcimento all’amministrazione dei danni
causati dagli amministratori o dai
dipendenti con colpa lieve.
In nessun caso è permesso all’ente stesso di
assicurare i danni causati dagli stessi con
colpa grave, posto che in tal caso il premio
eventualmente pagato non risponde ad alcun
pubblico interesse e costituisce danno
erariale per il dirigente che ha
sottoscritto la polizza.
Altresì non è possibile per l’ente integrare
una copertura assicurativa danni per colpa
lieve con una clausola che estenda la
responsabilità per colpa grave, con il
pagamento della relativa quota di premio a
carico del contraente. In tale ultimo caso,
l’amministratore o il dipendente potrà
concludere separati contratti per coprire la
colpa grave in maniera del tutto autonoma e
con oneri a proprio carico.
Le interessanti conclusioni sopra riportare
pervengono da un rilevante parere che la
sezione regionale di controllo della Corte
dei conti per la Lombardia ha reso in questi
giorni (parere
22.07.2008 n. 57) sulla vexata
quaestio della legittimità
dell’assicurazione degli amministratori e
dipendenti, con onere a carico del bilancio
comunale, per coprire i danni commessi.
Qui si tratta della possibilità, ventilata
dal sindaco di Erba, di assicurare
amministratori e dipendenti per la colpa
lieve e di prevede, nello stesso contratto,
una clausola di estensione anche per la
colpa grave, con pagamento relativo di
premio esclusivamente a carico dei
contraenti.
Innanzitutto, bisogna ricordare che la
scorsa Finanziaria, all’articolo 3, comma
59, ha disposto la nullità del contratto di
assicurazione con il quale un ente pubblico
assicuri propri amministratori per i rischi
derivanti dall’espletamento dei compiti
istituzionali connessi con la carica e
riguardanti la responsabilità per danni
cagionati
allo stato o a enti pubblici.
Una mano pesante, quella legislatore,
previsto che l’amministratore che ponga in
essere un simile contratto (e il
beneficiario della copertura assicurativa)
siano tenuti a rimborsare, quale vero e
proprio danno erariale, una somma pari a
dieci volte l’ammontare del premio relativo.
Una disposizione che viene fuori da un
filone giurisprudenziale che ormai si è
consolidato (su tutte, Corte conti Sicilia
n. 3471/2005), secondo cui stipulare un
contratto che «copre» il danno
erariale (e pertanto quando è stata
acclarata la colpa grave) non può che
definirsi esso erariale, quanto «del
tutto privo di sinallagma con la p.a. e non
rispondente ad alcun pubblico interesse».
Ora, rimane la possibilità che a carico
dell’ente restino le conseguenze di fatti
causativi di danno posti in essere da
amministratori e dipendenti senza dolo o
colpa grave. Per tali tipologie è possibile
ricorrere a una copertura assicurativa a
carico dell’erario, in cui l’assicurato e il
beneficiario sia l’ente locale stesso.
È questa una forma ammissibile di tutela dai
danni che altrimenti rimarrebbero a totale
carico delle stesse amministrazioni locali
e, giustamente, il premio relativo è posto a
carico della p.a., in quanto soggetto
garantito dall’assicurazione.
Non è invece possibile, ha ammesso il
collegio, inserire in un contratto
assicurativo per «colpa lieve», una
clausola estensiva che copra anche la colpa
grave, anche quando l’onere sia a carico
degli amministratori e dei dipendenti. A
prima vista, ciò non sembrerebbe contrastare
con il divieto posto dalla finanziaria 2008,
ma è pur vero che tale clausola, in cui
contraente e beneficiario dell’assicurazione
è l’amministratore o il dipendente, «non
troverebbe giustificazione nella polizza
assicurativa conclusa dal comune», non
trovando ragion d’essere nel contratto
concluso dal comune.
Se gli amministratori o i dipendenti, ha
concluso la Corte, vogliono tutelarsi dai
danni commessi per colpa grave, potranno
concludere, con oneri a proprio carico, «separati
contratti che l’impresa assicuratrice
intenda autonomamente proporgli».
---------------
I PUNTI DEL PARERE
• La legge finanziaria 2008 ha posto un
divieto assoluto a stipulare contratti di
assicurazione, con oneri a carico della
p.a., che coprano il rischio di danni
commessi con colpa grave;
• È tuttavia possibile stipulare contratti
di assicurazione che tutelino
l’amministrazione dai danni commessi con
colpa lieve, i cui oneri sono da imputare al
bilancio della stessa p.a.;
• Non è invece ammissibile l’inclusione in
contratti a copertura di danni da colpa
lieve, di una clausola estensiva alla colpa
grave, ancorché il relativo premio sia a
carico del contraente. I soggetti, siano
essi amministratori o dipendenti, che
intendano tutelarsi in tal modo, potranno
sottoscrivere separati contratti, con oneri
a proprio carico
(articolo ItaliaOggi
dell'08.08.2008). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Per i dipendenti pubblici vige,
nel nostro ordinamento giuridico, il
principio immanente di onnicomprensività del
trattamento economico per cui non è
possibile remunerare il dipendente con
compensi extra-ordinem per compiti
rientranti nelle mansioni dell'Ufficio
ricoperto. Alla luce del quadro normativo
sopra delineato si evince, senza alcuna
ombra di dubbio, che il pubblico dipendente,
compreso quello in servizio nel territorio
regionale, non può essere in alcun modo
ricompensato extra-retribuzione per lo
svolgimento di mansioni riguardanti
l'Ufficio ricoperto e che allo stesso, salvo
i casi espressamente previsti da apposite
disposizioni, non possono essere conferiti
incarichi libero-professionali.
La ratio del divieto di conferire incarichi
libero-professionali ai dipendenti pubblici,
al di fuori delle ipotesi espressamente
previste, discende dal principio di
esclusività che li lega all'Ente datore di
lavoro, e consiste nell'evitare commistioni
di qualsiasi tipo tra interessi pubblici e
privati che potrebbero minare il principio
costituzionale di imparzialità dell'azione
amministrativa; ciò è anche conseguenza
della incompatibilità logica, prima che
giuridica, tra lo svolgimento della libera
professione ed il rapporto di pubblico
impiego, tradizionalmente richiedente, come
sopra delineato, una esclusività della
prestazione lavorativa in favore
dell'amministrazione di appartenenza, non
esigibile da chi svolge anche una libera
professione.
Deve ravvisarsi in capo all'odierno
convenuto il requisito soggettivo della
colpa grave, considerata la chiarezza del
quadro normativo di riferimento che, stante
la particolare posizione apicale ricoperta
dall'ing. ... nell'ambito dell'apparato
burocratico del Comune di Gela, non avrebbe
potuto essere in alcun modo ignorata.
Il conferimento degli incarichi
libero-professionali ai dipendenti del
Comune di Gela ha costituito, pertanto, un
danno erariale in quanto avvenuto contra
legem, non rilevando in alcun modo che
l'ente locale avrebbe ottenuto un risparmio
di spesa per non avere fatto ricorso a
professionisti esterni, considerato che,
prescindendo da ogni ulteriore circostanza,
l'effettuazione di una spesa in violazione
di chiara e puntuale normativa non può
trovare alcuna giustificazione da parte di
una pubblica amministrazione.
... considerato che ai predetti dipendenti è
stato conferito un incarico libero
professionale al di fuori delle mansioni
d'ufficio, ritenuto fonte di illecito
erariale, è necessario esaminare innanzi
tutto la relativa normativa.
L'art. 60 del d.p.r. n. 3/1957, in materia
di disposizioni concernenti lo statuto degli
impiegati civili dello Stato, prevedeva
espressamente il divieto per i pubblici
dipendenti di eserciate “il commercio,
l'industria, né alcuna professione”.
L'art. 58 del decreto legislativo n.
29/1993, trasfuso successivamente nell'art.
53 del decreto legislativo n. 165/2001,
riguardante norme generali sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, i cui principi
desumibili dall'art. 2 della legge n.
421/1992 e dall'art. 11 co. 4° della legge
n. 59/1997 costituiscono per le regioni a
statuto speciale norme fondamentali di
riforma economico-sociale della Repubblica,
ha esteso a tutti i dipendenti pubblici la
disciplina delle incompatibilità previste
dall'art. 60 del d.p.r. n. 3/1957, fatte
salve le eccezioni previste per i dipendenti
a tempo parziale: “le pubbliche
amministrazioni non possono conferire ai
dipendenti incarichi, non compresi nei
compiti e doveri d'ufficio, che non siano
espressamente previsti o disciplinati dalla
legge o da altre fonti normative, o che non
siano espressamente autorizzati ... in ogni
caso il conferimento operato direttamente
dall'amministrazione, nonché
l'autorizzazione all'esercizio di incarichi
che provengano da amministrazione pubblica
diversa da quella di appartenenza … sono
disposti dai rispettivi organi competenti
secondo criteri oggettivi e predeterminati,
che tengano conto della specifica
professionalità, tali da escludere casi di
incompatibilità, sia di diritto che di
fatto, nell'interesse del buon andamento
della pubblica amministrazione”.
La legge regionale n. 21/1985, come
modificata dalla legge regionale n. 10/1993,
ha stabilito:
- all'art. 5, che la progettazione può
essere affidata agli Uffici tecnici, con
indicazione dei criteri per l'incentivazione
economica dei rispettivi dipendenti, previa
adozione di apposito regolamento, come
quello adottato con la delibera della Giunta
Municipale di Gela n. 158 del 23.10.1995,
nonché a professionisti esterni,
disciplinando con un proprio regolamento le
modalità per i conferimenti degli incarichi
di progettazione e di direzione dei lavori;
inoltre, ai sensi dell'ultimo comma del
citato articolo, ha previsto che gli enti
non possono avvalersi, come professionisti
esterni, di dipendenti di uffici tecnici di
altri enti pubblici, ancorché autorizzati
dall'ente di appartenenza, con la
conseguenza che a maggior ragione tale
incarico non può essere conferito con
contratto libero-professionale a propri
dipendenti al di fuori delle ipotesi
permesse;
- agli artt. 8, 9 e 19, che possono essere
attribuiti gli incarichi di ingegnere-capo,
collaudatore tecnico-amministrativo, di
collaudatore statico anche a funzionari
dipendenti, secondo le modalità indicate con
decreto dell'assessore regionale per i
lavori pubblici che dovrà fissare anche “il
compenso massimo complessivo per ciascun
biennio percepibile dai funzionari regionali”.
L'art. 17 della legge n. 109/1994, in
materia di lavori pubblici, trasfuso
successivamente nell'art. 90 del Codice dei
lavori pubblici, i cui principi ai sensi
dell'art. 1 costituiscono norme fondamentali
di riforma economico sociale per le regioni
a statuto speciale, prevede che l'attività
di progettazione preliminare, definitiva ed
esecutiva, la direzione dei lavori, nonché
gli incarichi di supporto
tecnico-amministrativo, sia affidata agli
uffici tecnici delle stazioni appaltanti,
con gli incentivi previsti dal successivo
art. 18, o a soggetti che esercitano
professionalmente la relativa attività e che
non possono identificarsi in generale,
tranne espresse eccezioni normative, con
coloro che hanno la qualità di pubblici
dipendenti (cfr. art. 17 co. 8°: “indipendentemente
dalla natura giuridica del soggetto
affidatario dell'incarico, lo stesso deve
essere espletato da professionisti iscritti
negli appositi albi previsti nei vigenti
ordinamenti professionali, personalmente
responsabili e nominativamente indicati già
in sede di presentazione dell'offerta, con
la specificazione delle rispettive
qualificazioni professionali”); le forme
di incentivazione per il personale
dell'amministrazione appaltante, stabilito
in una percentuale dell'importo posto a base
di gara, è ripartita, per ogni singola opera
o lavoro, tra il responsabile unico del
procedimento, gli incaricati della redazione
del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo
nonché tra i loro collaboratori: modalità e
criteri di ripartizione sono previsti in
sede di contrattazione decentrata e assunti
in un regolamento adottato
dall'Amministrazione appaltante; in detta
percentuale devono essere inseriti anche gli
oneri riflessi, come sancito dall'art. 3 co.
29° della legge n. 350/2003 riguardante i
compensi erogati dagli enti locali e come
disposto con interpretazione autentica
dall'art. 1 co. 207° della legge n.
266/2005.
L'art. 2 co. 3° della legge regionale n.
23/1998 ha recepito, comunque, l'art. 6
della legge n. 127/1997 e successive
modifiche e integrazioni, il cui co. 13° ha
sostituito l'art. 18 co. 1° della citata
legge n. 109/1994; a sua volta il suddetto
art. 6 della legge n. 127/1997 è stato
modificato dall'art. 2 co. 18° della legge
n. 191/1998 e, successivamente, dall'art. 13
co. 4° della legge n. 144/1999.
Il Comune di Gela ha adottato il relativo
regolamento con delibera della Giunta
Municipale n. 238 del 12.11.2002.
L'art. 13 co. 4° della legge n. 144/1999 ha
abrogato l'art. 62 co. 4° e 5°del regio
decreto n. 2537/1925 che prevedeva la
possibilità, per le sole amministrazioni
dello Stato, di liquidare ai propri
funzionari i corrispettivi per le
prestazioni compiute per enti pubblici o
aventi finalità di pubblico interesse con
una riduzione non inferiore ad un terzo né
superiore alla metà delle tariffe
professionali; sul punto è necessario
puntualizzare che l'art. 21 della legge n.
734/1973 prevedeva che i compensi previsti
dal suddetto art. 62 avrebbero dovuto essere
versati “al bilancio dello Stato in conto
entrate eventuali del Tesoro” e che “nessun
corrispettivo è dovuto agli interessati per
l'attività professionale dagli stessi
eventualmente svolta quali dipendenti o in
rappresentanza dello Stato eccettuato il
compenso per lavoro straordinario per
l'attività svolta oltre il normale orario di
lavoro anche in eccedenza ai limiti orari
previsti dalle norme in materia, e
l'indennità di missione per i servizi resi
fuori sede”.
In ultimo sulla materia de qua,
l'Autorità per la Vigilanza sui Lavori
Pubblici, con atto di regolazione datato
08.11.1999, ha definito l'attività di
progettazione svolta da funzionari pubblici
come “attività professionalmente
qualificata, ma non di libera professione”
ed ha ribadito il divieto per i dipendenti
pubblici a tempo pieno di assumere incarichi
da parte delle pubbliche amministrazioni in
qualità di liberi professionisti e la
possibilità per i dipendenti part-time di
ricevere incarichi di progettazione esterna,
purché previa procedura concorsuale e con le
limitazioni territoriali di cui all'art. 18,
comma 2-ter della legge n. 104/1994.
Aggiungasi che per i dipendenti pubblici
vige, nel nostro ordinamento giuridico, il
principio immanente di onnicomprensività del
trattamento economico per cui non è
possibile remunerare il dipendente con
compensi extra-ordinem per compiti
rientranti nelle mansioni dell'Ufficio
ricoperto (ex plurimis Consiglio di
Stato, Sezione V, 09.09.1999 n. 1027 e
Sezione VI, 05.05.1995 n. 419; Corte di
Cassazione, Sezioni Unite civili, 04.01.1995
n. 94; Corte dei Conti, Sezione Campania
18.11.1991 n. 3 e 08.11.1994 n. 54, Sezione
Puglia 10.05.1994 n. 43; nonché Sezione II
Centrale d'Appello 30.10.2000 n. 327 e
13.03.2001 n. 115 e Sezione III Centrale
d'Appello n. 179/2006).
Alla luce del quadro normativo sopra
delineato si evince, senza alcuna ombra di
dubbio, che il pubblico dipendente, compreso
quello in servizio nel territorio regionale,
non può essere in alcun modo ricompensato
extra-retribuzione per lo svolgimento di
mansioni riguardanti l'Ufficio ricoperto e
che allo stesso, salvo i casi espressamente
previsti da apposite disposizioni, non
possono essere conferiti incarichi
libero-professionali.
Ciò posto, l'ing. ... con la determina n.
162 del 05.08.1999 (segr. n. 839 del
15.09.1999) ha conferito, per la
realizzazione di 700 loculi nel cimitero di
Farello, incarichi libero-professionali agli
ingg. ... e ..., quali coordinatori per
l'esecuzione, e all'arch. ..., quale
collaudatore statico in corso d'opera, per
mansioni non rientranti nei compiti
d'istituto, e remunerati secondo tariffa
professionale abbattuta del 20%, ai sensi
dell'art. 4 co. 12-bis della legge n.
155/1989, giusta la determina dirigenziale
n. 277 del 17.11.1999 (seg. n. 1227 del
18.11.1999).
Innanzitutto, è palese la contraddizione
nella quale cade l'ing. ... circa l'obbligo
dei suddetti dipendenti di svolgere i
compiti attribuiti al di fuori dell'orario
di servizio, considerato che è irragionevole
il solo supporre, anche alla luce del comune
buon senso, che il funzionamento di un
cantiere edile possa essere subordinato
all'orario di lavoro a tempo pieno di un
pubblico dipendente.
Aggiungasi che nessuna norma
dell'ordinamento statale, né di quello
regionale autorizzava l'ing. ... a conferire
tali incarichi libero-professionali ai
dipendenti di cui sopra, né gli stessi
potevano dirsi autorizzati dall'Ente di
appartenenza, considerato che la Giunta
Municipale (delibera n. 186/1999) non aveva
approvato il relativo regolamento
predisposto dall'ing. ... per il
conferimento di incarichi professionali ai
dipendenti.
Del resto, la ratio del divieto di
conferire incarichi libero-professionali ai
dipendenti pubblici, al di fuori delle
ipotesi espressamente previste, discende dal
principio di esclusività che li lega
all'Ente datore di lavoro, e consiste
nell'evitare commistioni di qualsiasi tipo
tra interessi pubblici e privati che
potrebbero minare il principio
costituzionale di imparzialità dell'azione
amministrativa; ciò è anche conseguenza
della incompatibilità logica, prima che
giuridica, tra lo svolgimento della libera
professione ed il rapporto di pubblico
impiego, tradizionalmente richiedente, come
sopra delineato, una esclusività della
prestazione lavorativa in favore
dell'amministrazione di appartenenza, non
esigibile da chi svolge anche una libera
professione.
In ultimo, non risulta in alcun modo
dimostrato che i compiti attribuiti
esulassero dalle mansioni d'ufficio degli
interessati, già coinvolti a diverso titolo
nella realizzazione dell'opera pubblica di
cui sopra, e che non potessero essere svolti
dall'ordinaria organizzazione burocratica
dell'ente appaltante.
In conclusione, deve ravvisarsi in capo
all'odierno convenuto il requisito
soggettivo della colpa grave, considerata la
chiarezza del quadro normativo di
riferimento che, stante la particolare
posizione apicale ricoperta dall'ing. ...
nell'ambito dell'apparato burocratico del
Comune di Gela, non avrebbe potuto essere in
alcun modo ignorata; aggiungasi che la
proposta di delibera n. 186 del 24.06.1999
dallo stesso inoltrata per il conferimento
di incarichi professionali a professionisti
dipendenti non è stata approvata dalla
Giunta Municipale, considerato il parere
negativo del segretario generale che non ha
ritenuto legittimo il conferimento di
suddetti incarichi, e le cui argomentazioni
sono state ribadite nel verbale della
riunione del 21.07.1999.
Il Collegio ritiene che la nota
dell'A.N.C.I. datata 08.06.1999 non possa
acquisire efficacia esimente, contrariamente
a quanto sostenuto dalla difesa in quanto la
stessa reca una data anteriore alla mancata
approvazione da parte della G.M. della
proposta di delibera n. 186 del 24.06.1999 e
alla riunione del 21.07.1999.
Il conferimento degli incarichi
libero-professionali ai dipendenti del
Comune di Gela ha costituito, pertanto, un
danno erariale in quanto avvenuto contra
legem, non rilevando in alcun modo che
l'ente locale avrebbe ottenuto un risparmio
di spesa per non avere fatto ricorso a
professionisti esterni, considerato che,
prescindendo da ogni ulteriore circostanza,
l'effettuazione di una spesa in violazione
di chiara e puntuale normativa non può
trovare alcuna giustificazione da parte di
una pubblica amministrazione (Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia,
sentenza 26.03.2007 n. 801 - link
a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: L'esclusività
del rapporto di lavoro del pubblico
dipendente con l'ente di appartenenza ha costituito un caposaldo storico
del pubblico impiego, in tempi relativamente
recenti mitigato dalle norme che hanno
previsto e disciplinato la possibilità di
espletare attività lavorative ulteriori,
rispetto a quella propria di pubblico
dipendente (v., in particolare, art. 1,
comma 56/65 della l. n° 62/1996 e relative
circolari della Presidenza del Consiglio dei
Ministri n° 3 e n° 6 del 1997, pure
considerate da parte attrice) .
Ora, la inosservanza di siffatte norme, da
parte del pubblico dipendente, se sul piano
estrinseco e formale dei doveri di servizio
violati può anche indurre all'adozione di
sanzioni disciplinari e se, sul piano più
strettamente laburista, può anche costituire
“giusta causa di recesso” da parte
dell'ente datore di lavoro (ex art. 1, comma
61, della citata l. n° 662/1996), sul piano
erariale, invece, è certamente fonte di
danno, quante volte il dipendente continua a percepire
-per effetto di detta violazione- la
retribuzione del rapporto di lavoro a “tempo
pieno”, in luogo della retribuzione del
rapporto di lavoro “a tempo parziale”,
effettivamente spettategli.
E' evidente che la violazione del
dovere di esclusività lavorativa e, quindi,
delle norme sul part-time, incide
sull'equilibrato esplicarsi del rapporto
sinallagmatico tra le prestazioni lavorative
del pubblico dipendente e le prestazioni
retributive dell'ente datore di lavoro, con
negative ricadute per quest'ultimo, che
continua ad erogare una retribuzione (piena)
non più giustificata dalle prestazioni
lavorative (a tempo parziale) del primo.
... la Procura ha invitato l'odierno
convenuto a dedurre, ai sensi dell'art. 5
della l n° 19/1994, contestandogli:
a)
di “aver svolto direttamente ed
autonomamente attività lavorative
professionali a scopo di lucro, in qualità
di geometra, risultati incompatibili con il
suo status di dipendente pubblico”, ai
sensi dell'art. 1, comma 60, della l.
662/1996 e dell'art. 53 del DLvo n° 165/2001;
b)
di essere stato “socio accomandante dal
28/09/2000 al 22/02/2002 presso l'impresa di
servizi Studio ... (figlia del geometra
comunale), in violazione dei precitati
articoli”;
c)
di avere instaurato, dall'01/12/1999 al
31/09/2000 e senza esserne preventivamente
autorizzato, “un rapporto di
collaborazione con la ... SRL a scopo di
lucro, in maniera non occasionale e non
temporanea, per la vendita di contratti di
assicurazione della “Baierische”, ancora in
violazione dei ripetuti articoli, come
illustrate dalle circolari della Presidenza
del Consiglio dei Ministri-Funz. Pubblica n°
3 e n° 6 del 1997, e di aver poi proseguito
“tale attività sotto la copertura dello
Studio ... , dall'01/10/2000”;
d)
di essersi assentato dal servizio negli
ultimi cinque anni per periodi di tempo
frequenti e prolungati, accumulando
(svariati) giorni di assenza dal lavoro a
causa di malattia, (e di avere) durante tali
assenze svolto attività lavorativa in
proprio come geometra, ovvero stipulato
contratti della Baierische, ovvero ancora
svolto viaggi a scopo turistico o
partecipato a convegni e meeting e viaggi di
formazione organizzati dalla holding Star
Service International SRL.
---------------
L'esclusività
del rapporto di lavoro del pubblico
dipendente con l'ente di appartenenza, in
realtà, ha costituito un caposaldo storico
del pubblico impiego, in tempi relativamente
recenti mitigato dalle norme che hanno
previsto e disciplinato la possibilità di
espletare attività lavorative ulteriori,
rispetto a quella propria di pubblico
dipendente (v., in particolare, art. 1,
comma 56/65 della l. n° 62/1996 e relative
circolari della Presidenza del Consiglio dei
Ministri n° 3 e n° 6 del 1997, pure
considerate da parte attrice) .
Ora, la inosservanza di siffatte norme, da
parte del pubblico dipendente, se sul piano
estrinseco e formale dei doveri di servizio
violati può anche indurre all'adozione di
sanzioni disciplinari e se, sul piano più
strettamente laburista, può anche costituire
“giusta causa di recesso” da parte
dell'ente datore di lavoro (ex art. 1, comma
61, della citata l. n° 662/1996), sul piano
erariale, invece, è certamente fonte di
danno, quante volte -come nel caso di
specie- il dipendente continua a percepire
-per effetto di detta violazione- la
retribuzione del rapporto di lavoro a “tempo
pieno”, in luogo della retribuzione del
rapporto di lavoro “a tempo parziale”,
effettivamente spettategli.
E' evidente, infatti, che la violazione del
dovere di esclusività lavorativa e, quindi,
delle norme sul part-time, incide
sull'equilibrato esplicarsi del rapporto
sinallagmatico tra le prestazioni lavorative
del pubblico dipendente e le prestazioni
retributive dell'ente datore di lavoro, con
negative ricadute per quest'ultimo, che
continua ad erogare una retribuzione (piena)
non più giustificata dalle prestazioni
lavorative (a tempo parziale) del primo.
In questo contesto, quindi, appare del tutto
corretta l'impostazione data in citazione da
parte attrice al danno in questione, così
come appare del tutto corretto il criterio
seguito da parte attrice medesima per la
determinazione del danno stesso.
A tal ultimo riguardo, infatti, evidenti
ragioni di garanzia hanno, anzitutto,
indotto a fissare l'entità del part-time
-nel caso- nel limite “non superiore al
50% di quello a tempo pieno”, di cui
all'art. 1, comma 56, della l. n° 662/1996”;
limite, questo, che oltretutto è anche
quello (l'unico) che consente di espletare
attività che richiedo l'iscrizione ad albi
professionali, come quella di geometra, pure
in concreto espletata dal ...
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria,
sentenza 09.01.2004 n. 2 - link a
www.giustizia-amminisrativa.it). |
NEWS |
VARI: Effetti
normativi conseguenti agli esiti del
referendum del 12-13.06.2011.
In seguito all'esito delle consultazioni
referendarie numerose sono le norme abrogate
in materia di:
a) Energia nucleare;
b) Servizi Pubblici di rilevanza economica;
c) Tariffa del servizio idrico integrato.
A) ENERGIA NUCLEARE.
Il D.L. 31.03.2011, n. 34, convertito dalla
Legge n. 75/2011, ha sancito l’abrogazione
della normativa inerente il ritorno alla
produzione di energia nucleare prevedendo,
però, una moratoria al fine di acquisire
ulteriori evidenze scientifiche sui profili
relativi alla sicurezza nucleare. Il quesito
referendario, così come riformulato con
D.P.R. del 9 giugno 2011, abroga il comma 1
e il comma 8 dell’articolo 5 che disponevano
la moratoria sul nucleare e l’adozione della
Strategia energetica nazionale.
Resta esclusa dalla portata del referendum
la disciplina sullo stoccaggio del
combustibile irraggiato e dei rifiuti
radioattivi, nonché dei sistemi per il
deposito definitivo dei materiali e rifiuti
radioattivi. Proseguirà pertanto l’iter
legislativo previsto dal D.Lgs. n. 31/2010
per la localizzazione, costruzione ed
esercizio del Parco tecnologico e del
Deposito nazionale per i rifiuti
radioattivi.
B) SERVIZI PUBBLICI LOCALI
DI RILEVANZA ECONOMICA.
L’esito del voto referendario ha comportato
l’abrogazione della disciplina inerente
l’affidamento e la gestione dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica
introdotta recentemente dall’articolo 23-bis
del D.L. n. 112/2008 così come convertito
dalla legge 133/2008.
Si ricorda che tale normativa comprendeva,
tra i settori oggetto di riforma, quello del
servizio idrico, quello dei trasporti
pubblici locali, quello dello smaltimento
dei rifiuti urbani e tutti i servizi
pubblici aventi rilevanza economica ad
esclusione dei settori della distribuzione
di gas naturale e di energia elettrica, il
cui mercato è già liberalizzato, del
trasporto ferroviario regionale e quello
della gestione delle farmacie comunali.
Nelle Regioni a statuto speciale e nelle
province autonome di Trento e di Bolzano
sono esclusi anche i contratti di servizio
in materia di trasporto pubblico locale su
gomma.
L’esito del referendum comporta quindi il
ripristino dell’articolo 113 “gestione
delle reti ed erogazione dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica”
di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo
Unico delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali), il quale consente all’ente
pubblico di optare liberamente tra le tre
differenti modalità di affidamento di un
servizio pubblico a rilevanza economica:
– a società di capitali individuate
attraverso l'espletamento di gare con
procedure ad evidenza pubblica;
– a società a capitale misto pubblico
privato nelle quali il socio privato venga
scelto attraverso l'espletamento di gare con
procedure ad evidenza pubblica;
– a società a capitale interamente pubblico
a condizione che l'ente o gli enti pubblici
titolari del capitale sociale esercitino
sulla società un controllo analogo a quello
esercitato sui propri servizi e che la
società realizzi la parte più importante
della propria attività con l'ente o gli enti
pubblici che la controllano.
Si evidenzia che, in base ai dati pubblicati
dalla Commissione nazionale per la vigilanza
sui servizi idrici (oggi Agenzia Nazionale
di Vigilanza sulle Risorse Idriche) nel
Rapporto annuale sullo stato dei servizi
idrici, delle 92 Autorità d’ambito previste
sono 69 quelle che hanno effettuato gli
affidamenti per un totale di 114 affidamenti
societari di cui:
- 57 sono stati effettuati a favore di
società pubbliche;
- 7 società private;
- 23 società mista con partner selezionato;
- 9 società mista con partner finanziario
quotato in borsa;
- più 18 casi non specificati.
Le concessioni in essere termineranno
pertanto alla scadenza prevista dal
contratto di servizio non essendo più in
vigore l’obbligo, per l’ente pubblico
gestore, di indire apposita gara.
In particolar modo per il settore del
trasporto pubblico locale su gomma, l’esito
del referendum comporta il ripristino della
disciplina settoriale dettata dal D.Lgs. n.
422/1997, centrata sulle gare ad evidenza
pubblica, unitamente, però alle deroghe
successivamente consentite dall'art. 61
della legge n. 99/2009. Tale legge,
richiamando il Regolamento europeo
1370/2007, ha introdotto la possibilità di
procedere all'affidamento dei servizi con
modalità "in house" diretta per
servizi di entità minore e per servizi
ferroviari, prevedendo un periodo
transitorio di 10 anni per rispettare la
normativa (2009-2019).
C) TARIFFA DEL SERVIZIO
IDRICO INTEGRATO.
Il referendum comporta l’abrogazione di
parte dell’articolo 154 del D.Lgs. 152/2006
recante “Norme in materia ambientale”.
Nello specifico viene previsto che nel
determinare il corrispettivo tariffario del
servizio idrico integrato, i gestori del
servizio non debbano tenere più conto del
criterio dell’adeguatezza della
remunerazione del capitale investito.
Restano in vigore gli altri criteri:
- qualità della risorsa idrica, del
servizio, delle opere e degli adeguamenti
necessari;
- entità dei costi di gestione delle opere e
delle aree di salvaguardia;
- recupero della quota parte dei costi di
funzionamento dell’Autorità d’ambito;
- copertura integrale dei costi di
investimento e di esercizio.
L’effetto dell’abrogazione della norma è
quindi quello di ridurre la profittabilità
del settore, in quanto non sarà più concessa
la remunerazione del 7% del capitale
investito medio netto prevista a copertura
degli oneri finanziari e fiscali della
gestione (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Sportello
Unico attività produttive. Comuni, obbligo di
telematica.
Commissariamento per chi non si attiva entro
il 30/09/2011.
Acceleratore premuto sullo sportello unico
delle imprese. Se il Comune non provvede a
fornire alle Camere di commercio i dati
necessari affinché lo Sportello unico per le
attività produttive possa essere attivato
dalla Camera di commercio, il Prefetto può
nominare un commissario ad acta.
È questo
quanto hanno proposto le commissioni
permanenti bilancio, tesoro e programmazione
e finanze nel ddl di conversione del decreto
legge Sviluppo (si veda ItaliaOggi di ieri),
entrato in vigore lo scorso 13 maggio (dl
70/2011).
Lo Sportello, comunemente chiamato Suap, formalmente istituito più di dieci
anni fa con il dlgs 112/1998, ma di fatto
mai decollato in quanto non obbligatorio, ha
subito un'accelerazione con il dl 112/2008
che aveva idealmente previsto, con
l'articolo 38, l'«impresa in un giorno» di
cui lo Suap doveva rappresentare il naturale
strumento per la sua realizzazione.
Da
allora, grazie anche al dlgs 59/2010 di
recepimento della direttiva Servizi, la
strada è stata in discesa fino a quando con
il dpr n. 160/2010, pubblicato nella GU del
30.09.2010, (la data di pubblicazione
è importante perché a questa fanno
riferimento i diversi step previsti per la
sua attuazione) sono state dettate le
disposizioni di dettaglio di questo
strumento di semplificazione ed il 29 marzo
avrebbe dovuto, nelle intenzioni del
legislatore, rappresentare la data di
svolta. Ciò in quanto da tale data le Scia,
segnalazione certificata d'inizio attività,
avrebbero dovuto essere trasmesse soltanto
con modalità telematica o ai comuni che
avevano ottenuto l'accreditamento dal
ministero dello sviluppo economico o dalla
Camera di commercio se l'amministrazione
comunale territorialmente competente fosse
rimasta inattiva.
Sta di fatto che pochi
giorni prima della scadenza del 29 marzo
scorso una circolare a firma congiunta dei
responsabili degli uffici legislativi del
ministero della semplificazione e dello
sviluppo economico aveva informato gli enti
interessati che tutto poteva continuare come
prima, nel senso che le Scia potevano
continuare a essere presentate in forma
cartacea. Ciò in quanto gli enti locali
avevano difficoltà a informatizzarsi.
Dalla
lettura dell'articolato normativo che le
commissioni parlamentari hanno licenziato,
emerge ora che il Commissario ad acta
nominato dal Prefetto avrà il compito di
fornire alle camere di commercio gli
elementi necessari all'intervento
sostitutivo, che sarà peraltro limitato,
perché sarà il Comune interessato a
concludere il procedimento relativo
all'esercizio dell'attività di impresa in
quanto non c'è stato trasferimento di
funzione. Di conseguenza, i comuni dovranno
comunque disporre dei requisiti per il
procedimento telematico previsto
espressamente dal Codice
dell'Amministrazione digitale (dlgs
235/2010).
La disposizione che prevede la
nomina del Commissario ad acta perché le
Camere di commercio possano essere messe
nella condizione di operare in sostituzione
dei comuni inadempienti, non lascia spazi di
sorta a ulteriori rinvii, in vista della
prossima scadenza di fine settembre. Da tale
data, infatti, non soltanto le Scia ma anche
tutte le domande relative all'esercizio
dell'attività di impresa dovranno essere
inoltrate telematicamente. Ciò in quanto in
base alla normativa vigente (art. 38 del dl
112/2008), gli Suap devono essere l'unico
punto d'accesso per le pratiche
amministrative relative allo svolgimento
dell'attività imprenditoriale.
In altre parole tutte le comunicazioni,
comprese le Scia, devono transitare
attraverso questo canale telematico ai sensi
dell'art. 5 del dpr 160/2010 e,
successivamente, le richieste di
autorizzazione ai sensi dell'articolo 7 del
medesimo decreto
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2011). |
ENTI LOCALI: Patto, scocca l'ora X. Rgs:
termine di 45 giorni dalla pubblicazione in
G.U..
Prospetti da inviare via web al Mef.
Patto di stabilità alla resa dei conti. Dopo
aver conosciuto ufficialmente (con la
pubblicazione in G.U. del dpcm 23.03.2011) l'ammontare degli sconti utilizzabili,
solo per quest'anno, dai comuni sopra i 5
mila abitanti e dalle province, per gli enti
locali soggetti al Patto è giunto il momento
di iniziare a compilare i prospetti che
certificano il rispetto degli obiettivi
programmatici e che andranno trasmessi
esclusivamente via web (attraverso il
portale www.pattostabilita.rgs.tesoro.it)
alla Ragioneria generale dello stato.
I
prospetti sono contenuti in un decreto del
ministero dell'economia e delle finanze
datato 7 giugno che, dopo aver ricevuto
parere favorevole dalla Conferenza
stato-città e autonomie locali il 31 maggio
scorso, è stato anticipato ieri sul sito
internet del dipartimento guidato da Mario Canzio, in attesa che venga pubblicato in
Gazzetta Ufficiale. E sarà proprio dalla
pubblicazione in G.U. che inizierà a
decorrere il termine di 45 giorni per la
trasmissione.
Una scadenza che gli enti
locali dovranno assolutamente rispettare se
non vorranno essere considerati (così come
previsto dalla legge di stabilità 2011)
inadempienti al Patto.
Il decreto del Mef fissa un timing
particolare solo per comuni e province che
abbiano rideterminato i propri obiettivi
sfruttando i margini di flessibilità offerti
dal patto regionalizzato. Dovranno
trasmettere i prospetti entro 15 giorni
dalla rideterminazione degli obiettivi.
Dopo aver ancora una volta messo in guardia
le amministrazioni che chi non provvederà a
inviare i prospetti «nei modi e nei tempi
indicati» sarà considerato inadempiente al
Patto, il decreto avverte anche che,
terminato l'anno di riferimento, non sarà
più consentito variare le voci che vanno a
comporre l'obiettivo per l'anno in corso.
Pertanto, eventuali acquisizioni, rettifiche
o variazioni potranno essere apportate
esclusivamente tramite web e non oltre il 31.12.2011.
Infine, la Ragioneria dello stato rassicura
gli enti che, qualora dovessero sopravvenire
ulteriori novità normative volte a
modificare le regole di calcolo degli
obiettivi, gli allegati al decreto con i
prospetti saranno aggiornati dandone
comunicazione alla Conferenza
stato-città-autonomie locali, all'Anci e
all'Upi
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Le commissioni rispecchino gli
equilibri consiliari.
Un consigliere comunale, nominato membro di
tre commissioni consiliari in rappresentanza
di uno dei gruppi di minoranza, è
fuoriuscito da tale gruppo per andare a
costituire, sempre in quota allo
schieramento politico di minoranza, un
gruppo misto di minoranza unipersonale;
inoltre, per effetto di una specifica
previsione regolamentare, è decaduto dalla
carica di componente in tutte le
commissioni. Il gruppo di appartenenza
originaria è legittimato a designare un
proprio nuovo rappresentante nelle
commissioni?
In base a quanto disposto dall'art. 38,
comma 6, del dlgs n. 267/2000, le
commissioni consiliari, una volta istituite
sulla base di una facoltativa previsione
statutaria, sono disciplinate dall'apposito
regolamento comunale con l'inderogabile
limite, posto dal legislatore, del rispetto
del criterio proporzionale nella
composizione. Ciò significa che le forze
politiche presenti in consiglio devono
essere il più possibile rispecchiate anche
nelle commissioni, in modo che in ciascuna
di esse sia riprodotto il peso numerico e di
voto.
Il Tar Lazio, con sentenza sez.
staccata di Latina, 24/07/2004, n. 649, ha
precisato che la previsione legislativa del
criterio proporzionale «serve ad assicurare
l'apporto delle idee e della volontà della
minoranza consiliare, in applicazione del
criterio di governo democratico degli enti
locali, alle deliberazioni da assumersi
dalle stesse commissioni».
Sebbene il
legislatore non abbia precisato come debba
essere applicato tale criterio di
proporzionalità, è da ritenersi che spetti
al regolamento, cui sono demandate le
determinazioni dei poteri delle commissioni
nonché la disciplina dell'organizzazione e
delle forme di pubblicità dei lavori,
stabilire i meccanismi idonei a garantirne
il rispetto.
Nel caso di specie, se il
regolamento del consiglio comunale prevede
che la designazione dei consiglieri
incaricati di far parte delle commissioni
consiliari in rappresentanza dei singoli
gruppi presenti nel consiglio, così come la
determinazione numerica dei commissari, è
demandata alla conferenza dei capigruppo,
«mantenendo il rapporto esistente in
consiglio tra maggioranza e minoranza» e
garantendo che i gruppi siano
complessivamente rappresentati in rapporto
proporzionale alla propria consistenza, gli
eventuali mutamenti in corso di consiliatura
nel rapporto tra maggioranza e minoranza
consiliare, ovvero nella consistenza
numerica dei gruppi, dovrebbero implicare
una revisione, a cura della conferenza dei
capigruppo, degli assetti preesistenti nelle
commissioni consiliari, al fine di
ripristinare il rispetto di tali criteri.
L'ipotesi del distacco di uno o più
consiglieri dal gruppo di appartenenza
originaria per aderire o formare altro
gruppo va, quindi, inquadrata nell'ambito di
un riequilibrio generale degli assetti
presenti nelle commissioni, e non già di
mera sostituzione degli stessi
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Scioglimento
consigli.
In caso di scioglimento dei consigli di due
dei comuni costituenti un'unione di comuni,
la rappresentanza in seno agli organi
assembleari dell'ente comunitario spetta ai
commissari straordinari oppure ai
consiglieri, in virtù della «prorogatio» di
funzioni?
L'art. 141, comma 5, del Testo unico
267/2000, dispone che «i consiglieri cessati
dalla carica per effetto dello scioglimento
continuano ad esercitare, fino alla nomina
dei successori, gli incarichi esterni loro
eventualmente attribuiti».
Sulla questione, in vigenza dell'art. 39
della legge n. 142/1990, il cui contenuto è
stato trasfuso nella citata disposizione, si
è pronunciato il Consiglio di stato con il
parere n. 666 del 10/07/2000 della prima
sezione, il quale, sebbene riferito alla
rappresentanza in seno alla comunità montana
dei comuni a gestione commissariale, può
essere senz'altro esteso alle unioni di
comuni, configurandosi le comunità montane
come una particolare espressione delle
unioni stesse.
L'Alto consesso ha
sottolineato che la norma sulla permanenza
in carica dei consiglieri deve intendersi
come espressiva di un principio di carattere
generale: pertanto andrà interpretata nel
senso che la permanenza del consigliere
nell'incarico fino alla nomina del
successore costituisce la regola, mentre la
decadenza costituisce l'eccezione, come
nell'ipotesi di scioglimento per
infiltrazione mafiosa, di cui all'art. 143
del Tuel. Secondo il medesimo orientamento,
lo scioglimento del consiglio, in assenza di
una previsione di legge o di statuto, non
incide sul mandato elettivo di secondo
grado, che «resterà pieno iure esercitato
sino alla nomina dei nuovi rappresentanti».
È stato, inoltre, chiarito che gli incarichi
esterni, dai quali i consiglieri comunali
non decadono per effetto dello scioglimento
del consiglio, sono essenzialmente quelli
relativi agli organismi ed enti di natura
associativa o consortile, cui sono
ricondotte le comunità montane e le unioni
di comuni. Considerata l'attualità del
parere del Consiglio di stato, non si
ravvisano, pertanto, motivi per discostarsi
dall'orientamento espresso
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Progressioni, obiettivo risparmio.
Sulle verticali riduzione della spesa. Caos
sulle orizzontali. L'attesa circolare Rgs sugli effetti del dl 78
rischia di creare più di un problema agli
enti locali.
Progressioni orizzontali effettuate negli
anni 2011, 2012 e 2013 valide solo a fini
giuridici ma non economici. Progressioni
verticali (oggi di carriera) valide ai soli
fini giuridici solo se attivate prima
dell'entrata in vigore del dlgs 150/2009
(avvenuta il 15/11/2009).
La
circolare
15.04.2011 n. 12 della ragioneria generale dello
stato sull'applicazione dell'articolo 9 del
dl 78/2010, convertito in legge 122/2010
cerca di fare chiarezza sul comma 21
dell'articolo medesimo, sposando in parte
posizioni espresse dalla Corte dei conti,
sezione regionale di controllo per la
Lombardia, ma risulta fuorviante, in
particolare per il comparto enti locali.
Progressioni orizzontali. L'istituto
consiste nella possibilità di attribuire ad
un dipendente pubblico, a parità di mansioni
e profilo professionale, senza alcuna
promozione, dunque, a mansioni e qualifiche
superiori, un incremento economico, su basi
selettive. Esse sono state variamente
disciplinate dai contratti nazionali
collettivi ed oggi trovano regolamentazione
nell'articolo 23 del dlgs 150/2009, che le
qualifica espressamente «progressioni
economiche».
La stessa denominazione
legislativa dell'istituto, di per sé rivela
come le progressioni economiche non abbiano
alcun effetto giuridico, poiché ne
comportano solo di economici.
L'interpretazione fornita dalla circolare
12/2011, dunque, si rivela oggettivamente
contraria alla legge. Del resto, l'articolo
9, comma 21, della manovra estiva 2010 si
riferisce molto chiaramente al diverso
istituto delle progressioni di carriera,
disciplinato dall'articolo 24 del dlgs
150/2009, che sostituisce le abolite
progressioni verticali.
È vero che
l'articolo 21 parla di progressioni di
carriera «comunque denominate», ma non si
può correttamente ritenere che le
progressioni economiche siano equivalenti a
quelle di carriera, pur essendo diversamente
«denominate»: sono proprio cosa totalmente
diversa.
In alcuni comparti pubblici, alla posizione
economica corrisponde anche una certa
posizione giuridica: ascendendo la prima, si
modifica e migliora, dunque anche il
trattamento giuridico. Solo in questi casi
può valere quanto afferma la circolare
12/2011, quando indica «le progressioni di
carriera comunque denominate del personale
non contrattualizzato nonché le progressioni
di carriera comunque denominate e i passaggi
tra le aree del personale contrattualizzato
disposte negli anni 2011, 2012 e 2013
abbiano effetto, per i predetti anni, ai
soli fini giuridici. Ad esempio, il computo
ai fini giuridici rimane salvaguardato nel
caso di progressione alla posizione
superiore per la quale sia prescritta una
determinata anzianità per un ulteriore
avanzamento di qualifica/posizione, fermo
restando che vanno comunque esclusi effetti
economici anteriormente al 1° gennaio 2014».
Nel comparto regioni enti locali ciò risulta
del tutto impossibile. Infatti, l'articolo
5, comma 1, del Ccnl 31/03/1999 è sul punto
chiarissimo: «All'interno di ciascuna
categoria è prevista una progressione
economica che si realizza mediante la
previsione, dopo il trattamento tabellare
iniziale, di successivi incrementi economici
secondo la disciplina dell'art. 13».
Dunque, non possono esservi effetti
esclusivamente giuridici, per la semplice
ragione che non esistono. Per altro, non si
vedrebbe come gli organi di revisione
potrebbero accettare procedure di
progressione che andrebbero ad impegnare le
risorse stabili nel 2014, non potendo
conoscere la consistenza delle risorse a
quella data.
Progressioni verticali. In merito alle
progressioni verticali la Ragioneria
generale legge l'articolo 9, comma 21, della
manovra 2010 nel senso che «la limitazione
degli effetti nei casi di passaggi tra le
aree è circoscritta alle sole procedure,
eventualmente ancora in corso, svolte
anteriormente all'entrata in vigore
dell'articolo 24 del decreto legislativo n.
150/2009 il quale ha equiparato i suddetti
passaggi alle assunzioni ordinarie (fatta
salva la riserva di posti) anche in termini
procedurali oltre che di copertura
finanziaria dell'onere conseguente».
In questo modo, la circolare limita le
conseguenze di risparmio dell'articolo 9,
comma 21, alle sole progressioni verticali
indette prima della vigenza della
riforma-Brunetta, salvaguardando, di
conseguenza, le progressioni di carriera
vere e proprie, previste dall'articolo 24
del dlgs 150/2009, effettuate
successivamente.
Dunque, secondo la
Ragioneria, laddove un dipendente pubblico
venisse assunto nella quota di riserva
nell'ambito di procedure concorsuali
pubbliche, ai sensi degli articoli 24 del dlgs 150/2009 e 52, comma 1-bis, del dlgs
165/2001, otterrebbe non solo i benefici
giuridici dell'ascensione ad una qualifica o
categoria superiore, ma anche quelli
economici senza dover attendere il 2014. In
questo caso, l'interpretazione suggerita
corregge l'evidente vizio di illegittimità
costituzionale dell'articolo 9, comma 21, ma
si pone in chiarissimo contrasto con esso
(articolo ItaliaOggi del 17.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA: SISTEMA
CASA QUALITÀ: il nuovo sistema unico di
Certificazione della qualità edilizia
residenziale.
“Sistema Casa Qualità”, un nuovo
sistema di certificazione volontaria con
l’obiettivo di indurre un cambiamento
culturale nell’edilizia: i costruttori
dovrebbero realizzare edifici di qualità
certificata, mentre i Comuni e le Regioni,
dovrebbero prevedere agevolazioni di varia
natura (premi volumetrici, sconti sull’ICI,
etc.).
Questo il nuovo disegno di legge approvato
dalla Camera e passato al Senato.
La certificazione valuterà i consumi
energetici, considerando una serie di
parametri quali l'isolamento, l'esposizione,
l'orientamento, l'ombreggiamento, la
ventilazione e l'utilizzo di fonti
energetiche rinnovabili.
La classificazione avverrà assegnando una
lettera decrescente in base alla qualità
dell'edificio, in analogia con quanto
avviene per la certificazione energetica,
con la quale dovrà esserci corrispondenza.
Si tratta, quindi, di un sistema di
certificazione che si pone l'obiettivo non
solo di migliorare la qualità ambientale,
attraverso il ridimensionamento dell'impatto
che l'edilizia ha sull'ambiente, ma anche il
benessere psicofisico di chi gli edifici li
abita
(news del 16.06.2011 - link a www.acca.it). |
APPALTI SERVIZI: Servizi,
affidamenti diretti fino a 40.000 euro.
Certificazioni da inviare alla banca dati
contratti pubblici in 30 giorni.
Affidamenti diretti di
servizi e forniture possibili fino a 40.000
euro; certificazioni delle prestazioni volte
da trasmettere alla Banca dati dei contratti
pubblici entro 30 giorni, affidamento in
subappalto dei lavori della categoria
prevalente fino al 20% in caso di trattativa
privata; procedure ristretta con scelta
degli offerenti anche per servizi e
forniture, possibilità per i contraenti
generali di utilizzare i requisiti anche per
i lavori subappaltati e affidati a terzi,
esclusione della disciplina sull'accordo
bonario per i contratti affidati a
contraente generale, trattativa privata per
gli appalti nel settore dei beni culturali
fino a un milione di euro. Confermati il
divieto di riserve su progetti validati e il
limite del 20% alle varianti.
Sono questi alcuni dei principali effetti
derivanti dall'esame e dell'approvazione, in
commissione bilancio e finanze
della Camera, degli
emendamenti relativi all'articolo 4 del
disegno di legge di conversione del decreto
legge 70/2011 (il cosiddetto decreto
per lo sviluppo), che contiene diverse
modifiche al Codice degli appalti pubblici.
Fra le novità approvate in commissione si
segnala la modifica all'articolo 62 del
Codice che ammette la possibilità di
utilizzare la cosiddetta «forcella»
nelle procedure ristrette in caso di appalti
di servizi e forniture (il cosiddetto
passaggio dalla «long list» alla «short
list» con una predeterminazione del
numero dei soggetti da invitare a presentare
offerta), possibilità al momento prevista
solo per i lavori.
E' stato poi approvato un emendamento della
Lega Nord che porta da 20.000 a 40.000 euro
il limite per procedere ad affidamenti
diretti di incarichi di servizi e forniture
da parte del Responsabile del procedimento
(non è stato invece approvato l'innalzamento
della soglia dei 100.000 euro —fino a
193.000 euro— per le trattative private con
bando relative agli incarichi di
progettazione).
Nell'emendamento del relatore approvato in
commissione sono contenute anche alcune
modifiche relative alla disciplina del
contraente generale: l'inapplicabilità
dell'articolo 240 (accordo bonario) e la
possibilità, per i contraenti generali, di
utilizzare i lavori subappaltati o affidati
a terzi per la qualificazione SOA Viene
inoltre previsto il limite del 20% per i
subappalti dei lavori della categoria
prevalente in caso di affidamento
dell'appalto a trattativa privata (con o
senza bando).
Passa a un milione (da 500.000 euro) il
limite per gli affidamenti a trattativa
privata nel settore dei beni culturali, che
nel decreto legge era stato portato a un
milione e mezzo
(articolo ItaliaOggi del 16.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Scatti
di carriera con aumenti solo dal 2014.
La Ragioneria dello Stato sdogana la
circolare 15.04.2011 n. 12 sugli
scatti dei dipendenti pubblici: soltanto dal
primo gennaio 2014 le progressioni potranno
produrre gli effetti economici ma senza il
beneficio della retroattività.
La circolare dedicata in particolare
all'applicazione dell'articolo 9 del Dl
78/2010, con particolare riferimento ai
commi 1, 2-bis e 4.
Secondo la Ragioneria, il trattamento
ordinariamente spettante per l'anno 2010 è
composto dal trattamento fondamentale (lo
stipendio base, la tredicesima e la Ria) e
dal «trattamento accessorio aventi
carattere fisso e continuativo» in cui
far confluire l'indennità di amministrazione
per lo stato, l'indennità di comparto per
gli enti locali, la retribuzione di
posizione e le «indennità pensionabili»,
espressioni non molto felice, considerando
che, da11996, anche tutto il salario
accessorio è utile ai fini del calcolo della
pensione. Non rientrano nel tetto lo
straordinario, le maggiorazioni orarie e le
indennità di turno.
Per il calcolo, si deve far riferimento al
concetto di ordinarietà, e quindi non
rilevano i congedi, i permessi non
retribuiti e le aspettative. Il limite del
3,20% interessa solo i non dirigenti degli
enti locali e i dipendenti della sanità ...
(articolo
Il Sole 24 Ore del 16.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Appalti,
niente ribassi sul costo del lavoro.
Approvato un emendamento dei democratici che
blocca gli «sconti» anche per la sicurezza.
Il costo del lavoro non può più essere
oggetto di ribassi in tutti gli appalti
pubblici di lavori, servizi e forniture.
A sorpresa, con un emendamento al decreto
sviluppo presentato da Cesare Damiano (Pd) e
approvato dalle commissioni Bilancio e
Finanze della Camera gli appalti perdono una
delle voci di costo finora manovrabili in
fase di offerta.
L'emendamento prevede che l'offerta migliore
deve essere individuata dalla stazione
appaltante «al netto delle ...
(articolo
Il Sole 24 Ore del 16.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
SEGRETARI COMUNALI: Segretari,
rimborsi double face. Sì ai pagamenti.
Commisurati a 1/5 del prezzo della benzina.
Le limitazioni imposte dal legislatore alla
spesa per missioni del personale pubblico,
contenute all'articolo 6, comma 12, della
manovra correttiva dei conti pubblici 2010,
non disapplicano le norme contrattuali in
materia di rimborsi spese per i segretari
comunali cosiddetti a scavalco , contenute
all'art. 45, comma 2 ...
(articolo
ItaliaOggi del 15.06.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: EFFETTI
COLLATERALI DEL REFERENDUM/ Il politico
ritrova posto nella municipalizzata.
I politici locali possono tornare nelle
partecipate. Cancellato il divieto per
sindaci e assessori di far parte dei
consigli di amministrazione.
Le migliaia di sindaci, presidenti di
Provincia, assessori e consiglieri che hanno
dovuto dire addio all'incarico dopo le
elezioni di maggio hanno una seconda chance:
per loro si riaprono le porte dei consigli
di amministrazione delle società partecipate
dalle amministrazioni locali.
All'indomani di un maxi-turno elettorale,
che ha coinvolto il 15% degli enti locali
italiani, non è un risultato da poco: tra
spoil system e mandati in scadenza
naturale, si possono stimare 1.500-2mila
posti in palio nei prossimi mesi solo nelle
società, all'interno di una partita che in
tutti i Comuni e le Province vale oltre
11.500 posti (ce ne sono altri 7mila nei
consorzi).
A offrire una seconda opportunità agli ex
politici sono i 25,9 milioni di «sì» vergati
domenica e lunedì dagli italiani sul primo
quesito referendario, che era intitolato
alla «privatizzazione dell'acqua» ma
in realtà chiedeva l'abolizione dell'intera
disciplina recente dei servizi pubblici
locali: con la "semi-riforma" del
2008 e la riscrittura del decreto Ronchi nel
2009, il referendum ha buttato a mare anche
tutti i regolamenti attuativi, compreso
quello che provava a impedire agli ex
politici di ricollocarsi nei consigli di
amministrazione delle partecipate. Esclusi
l'energia e le farmacie, che con
un'interpretazione generosa erano stati
esonerati dalle nuove regole, tutti gli
altri settori vedono riaprirsi a sorpresa
una strada ormai considerata chiusa. Non che
la nuova griglia delle incompatibilità fosse
un esempio di particolare severità.
Arrivata solo nel settembre 2010, con due
anni di ritardo sul calendario previsto che
aveva «salvato» i rinnovi legati alle
amministrative 2009 e 2010, il regolamento
era stato oggetto di un braccio di ferro
infinito e di continue riscritture, ma
almeno provava ad arginare la prassi del "riciclaggio"
societario di ex politici. La regola finale
era semplice: qualsiasi amministratore
locale, in giunta o in consiglio, in
maggioranza o in opposizione (per evitare
spinte nella carriera favorite da un
rovescio elettorale che porta l'ex minoranza
a gestire l'ente), avrebbe dovuto fermarsi
per almeno tre anni prima di ambire a una
poltrona in consiglio di amministrazione.
La stessa regola, poi doveva applicarsi a
chi avesse ricoperto un incarico in una
delle 337 Unioni che raggruppano 1.708
Comuni italiani (più di un quinto del
totale) e chiudeva le porte dei cda per ...
(articolo
Il Sole 24 Ore del 15.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Sforbiciata
su permessi e congedi. Il periodo concesso
ai genitori non può andare oltre i tre anni.
Piccola stretta su congedi e permessi
dal lavoro. Il prolungamento del congedo
parentale fino a tre anni, previsto a favore
dei genitori di bambino con disabilità,
comprende anche il congedo ordinario (fino a
10 mesi). Pertanto, complessivamente, il
periodo di congedo non pub durare oltre tre
anni, includendo sia il congedo parentale
ordinario (fino a 10 mesi) che il periodo di
prolungamento.
E' questa una delle novità del decreto
legislativo di riordino della disciplina in
materia di congedi, aspettative e permessi
dei lavoratori del settore pubblico e
privato, approvato in via definitiva dal
consiglio dei ministri il 09.06.2011, in
attuazione dell'articolo 23 della legge n.
183/2010 (collegato lavoro).
Congedo di maternità. La disciplina
vigente (articolo 16 del Tu. maternità)
prevede l'obbligo, perla lavoratrice, di
astenersi dal lavoro nel periodo di cinque
mesi che va dai due mesi precedenti la data
presunta del parto e i tre mesi successivi
al parto.
Ferma restando questa durata complessiva
dell'astensione obbligatoria (di cinque
mesi), la lavoratrice ha facoltà di
posticipare il periodo cominciando ad
assentarsi dal mese precedente la data
presunta del parto per proseguirlo, così,
fino ai quattro mesi successivi (è la
cosiddetta flessibilità, disciplinata
dall'articolo 20 del T.u. maternità), a
condizione che cib non arrechi pregiudizio
alla salute della gestante e del nascituro.
Durante l'astensione obbligatoria (ora:
congedo di maternità) la lavoratrice ha
diritto a un'indennità, a carico dell'lnps,
pari all'80% della retribuzione media
giornaliera.
Integrando direttamente la normativa del Tu.
maternità (le modifiche sono apportate
all'articolo 20), il decreto di riordino
prevede che, nel caso di interruzione
spontanea o terapeutica della gravidanza
successiva al 180 giorno dall'inizio
della gestazione, nonché in caso di decesso
del bambino alla nascita o durante il
congedo di maternità, le lavoratrici hanno
facoltà di riprendere in qualunque momento
l'attività lavorativa, dando un preavviso di
dieci giorni al datore di lavoro, a
condizione che il medico specialista ... (articolo
ItaliaOggi del 13.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
con più poteri. Funzioni disciplinari
allargate a una serie di infrazioni minori.
Nel quadro di una riforma organica della
disciplina del rapporto di lavoro alle
dipendenze delle pubbliche amministrazioni,
introdotta con il Dlgs 150 del 27.10.2009
(il cosiddetto decreto Brunetta), anche la
normativa riguardante i procedimenti e le
sanzioni disciplinari ...
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.06.2011 - tratto da
www.ecostampa.it). |
APPALTI:
Le clausole di tracciabilità
entrano in tutti i contratti. Integrazione automatica da venerdì
prossimo.
A partire da venerdì 17.06.2011, data di
scadenza del periodo transitorio, i
contratti sorti prima del 07.09.2010,
che non siano stati adeguati volontariamente
dalle parti, sono automaticamente integrati
(secondo l'articolo 1374 del Codice civile)
con le clausole di tracciabilità previste
dall'articolo 3, commi 8 e 9, della legge
136/2010 e diventano soggetti ai relativi
obblighi; ciò a condizione, ovviamente, che
essi siano ancora produttivi di effetti.
Per questi contratti, le oltre 28mila
stazioni appaltanti dovranno chiedere, entro
il termine del periodo transitorio, il Cig
(numero identificativo di gara). I pagamenti
andranno effettuati tramite bonifico
bancario o postale o altro strumento
tracciabile, transitare su conti correnti
dedicati, riportare il Cig e, ove
necessario, il Cup (codice unico di
progetto). Il meccanismo dell'inserzione
automatica pone fine all'incertezza che
aveva accompagnato la versione iniziale
della normativa, semplificando gli oneri per
le stazioni appaltanti e per gli operatori
privati. Conseguentemente, le stazioni
appaltanti sono sollevate anche dall'obbligo
di controllare l'inserimento delle clausole
nei contratti della filiera.
L'Autorità di vigilanza sui contratti
pubblici consiglia alle stazioni appaltanti
di inviare una comunicazione agli operatori
economici per evidenziare l'adeguamento
automatico del contratto e comunicare il Cig,
ove non fosse già previsto (determinazione
10/2010).
Intanto per gli operatori restano alcuni
dubbi, per esempio sul pagamento delle
utenze dalla stazione appaltante,
sull'estensione degli obblighi di
tracciabilità alle operazioni dove la
controparte è la banca tesoriere,
sull'applicazione della tracciabilità ai
contratti di swap. Fra le difficoltà spunta
anche quella legata alla tassazione dei
contratti sopra i 40mila euro, i cui importi
vanno pagati quadrimestralmente con
bollettino Mav. Nel primo anno di
applicazione le stazioni appaltanti devono
trovare la copertura finanziaria degli oneri
straordinari conseguenti alla
regolarizzazione dei vecchi contratti
sottoscritti prima del 07.09.2010.
L'appesantimento dei nuovi obblighi emerge
anche dal comunicato sull'impennata delle
richieste telefoniche all'Autorità (da circa
7mila a 60mila contatti mensili) e
sull'incremento dell'attività, per cui da
novembre 2010 ad aprile 2011 sono stati
assegnati circa 1,5 milioni di Cig ai soli
fini della tracciabilità. L'Autorità ha già
disciplinato procedure semplificate per
l'acquisizione del Cig e la possibilità di
effettuare un unico adempimento per un dato
intervallo temporale con i carnet di Cig.
Queste semplificazioni si applicano ai
contratti di lavori fino a 40mila euro e ai
contratti di servizi e forniture sotto i
20mila euro (affidati ai sensi dell'articolo
125 del codice dei contratti o mediante
procedura negoziata senza previa
pubblicazione del bando) nonché ai contratti
esclusi in tutto o in parte
dall'applicazione del codice
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Ragioneria generale. Monitoraggio degli
ispettori dalle violazioni del patto ai
compensi a pioggia. I dieci errori più gravi
delle amministrazioni.
La Ragioneria generale ha appena pubblicato
i risultati della propria attività ispettiva
negli enti locali. Dal massimario 2010, è
utile trarre il decalogo degli errori più
gravi incontrati diffusamente dagli
ispettori, per mettere in luce i punti
deboli che rimangono nell'attività degli
enti.
- Affidamento appalti. Si aggirano i vincoli
dettati dal codice degli appalti, attraverso
il frazionamento dell'importo: in questo
modo gli enti stanno al di sotto della
soglia per il conferimento di incarichi di
progettazione con i vincoli comunitari e di
quelle per i lavori in economia e in
amministrazione diretta.
- Anagrafe delle prestazioni. Molte
amministrazioni non comunicano al
dipartimento della Funzione pubblica le
informazioni sugli incarichi conferiti a
soggetti esterni (generalità, oggetto,
compenso, durata) né quelli conferiti a
dipendenti pubblici e ai propri dipendenti.
- Attivazione di nuovi servizi. La parte
variabile del fondo per la contrattazione
decentrata viene incrementata per
l'attivazione di nuovi servizi e/o il loro
miglioramento senza che essi siano
progettati preventivamente, che determinano
risultati tangibili per i cittadini, che la
misura degli aumenti sia determinata
oggettivamente, ripetendo l'incremento negli
anni senza accertare il raggiungimento
dell'obiettivo.
- Conferimento degli incarichi di
collaborazione. Non si rispettano i vincoli
dettati dall'articolo 7, comma 6, del Dlgs
165/2001: l'ente non ha adottato un piano, è
stato violato il tetto di spesa, non è stata
accertata la mancanza di analoghe
professionalità all'interno dell'ente, il
compenso non è stato determinato con criteri
oggettivi, i collaboratori non sono stati
scelti con criteri selettivi, è mancata la
pubblicità sul sito internet.
- Indebitamento. Viene violato il principio
costituzionale per cui l'indebitamento è
consentito solamente per il finanziamento
delle spese per gli investimenti. In
particolare, si qualificano come tali altre
spese.
- Indennità agli amministratori. Sono
erogati compensi illegittimi agli
amministratori per la remunerazione delle
riunioni svolte dalla conferenza dei
capigruppo consiliari, l'illegittimo
innalzamento e/o la mancata decurtazione
delle indennità di carica e gettoni di
presenza, il mancato accertamento della
presenza e della durata delle riunioni delle
commissioni consiliari.
- Onnicomprensività del trattamento
accessorio. I dirigenti e, anche se in
misura minore, i titolari di posizione
organizzativa, ricevono compensi in
violazione del principio della
onnicomprensività delle indennità di
posizione e di risultato: gettoni per le
commissioni di concorso e di gara,
remunerazione di incarichi ulteriori.
- Produttività. Questo compenso non può
essere erogato sulla base di criteri
automatici o "a pioggia", quali ad esempio
la presenza e l'inquadramento, ma in modo
selettivo sulla base di una valutazione
effettuata dai dirigenti, dopo che sia stato
accertato dal nucleo il raggiungimento degli
obiettivi assegnati ed a condizione che
questi, assegnati preventivamente,
determinino un apprezzabile miglioramento
dei normali standard.
- Riduzione del fondo. Il fondo per la
contrattazione decentrata deve essere
decurtato del salario accessorio in
godimento da parte del personale Ata
trasferito al ministero della Pubblica
istruzione. Gli oneri per il reinquadramento
dei vigili e degli operai vanno tolti dal
fondo. E così vanno tolte le risorse in
godimento da parte del personale cessato per
esternalizzazione del servizio.
- Tetto alla spesa del personale e alle
assunzioni. Occorre rispettare il tetto alla
spesa del personale dell'anno precedente
negli enti soggetti al patto e del 2004 in
quelli non soggetti al patto. Le assunzioni
a tempo indeterminato possono essere
effettuate nei vincoli dettati dalle
finanziarie e non dagli enti che non hanno
rispettato il patto. Le assunzioni
flessibili non possono essere prorogate più
di una volta e in modo da superare il tetto
di tre anni e devono essere adeguatamente
motivate
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
SEGRETARI COMUNALI:
Rimborsi auto «ultra-light» ai segretari in
convenzione.
I segretari in convenzione possono
continuare a utilizzare il mezzo proprio, ma
il rimborso non può avvenire tramite le
tariffe Aci. L'Unità di missione del
ministero dell'Interno ha stabilito,
infatti, che potrà essere riconosciuto
esclusivamente il rimborso pari a un quinto
del costo della benzina verde per
chilometro. Un apposito parere (nota
17.05.2011 n. 25402 di prot.) è stato
acquisito dalla Ragioneria generale dello
Stato. Come per i dipendenti, i dubbi
nascevano dalla manovra estiva 2010
(articolo 6, comma 12, del Dl n. 78) che ha
reso impossibile l'uso del mezzo proprio per
recarsi nei luoghi di missione e trasferta.
Nell'ultimo anno sono intervenute più volte
le interpretazioni della Corte dei conti. Le
conclusioni sono state inserite nelle
Deliberazioni n. 8, 9 e 21 del 2011 delle
Sezioni riunite.
Ma per i segretari comunali c'era una
questione aggiuntiva. Infatti, negli enti
locali di minori dimensioni, è ormai
consuetudine stipulare apposite convenzioni
per avvalersi di tale figura professionale
suddividendo in tal modo anche le spese. Gli
spostamenti del segretario tra una sede e
l'altra sono quindi all'ordine del giorno.
Anche in questo caso è scesa la scure? La
risposta era giunta dalle Sezioni riunite
nella Delibera n. 9/2011: le limitazioni al
trattamento di missione non comportano
l'inefficacia del l'articolo 45, comma 2 del
Ccnl del 16.05.2001 per i segretari
comunali e provinciali inerente il rimborso
delle spese sostenute dal segretario
titolare di sede di segreteria
convenzionata. Nulla veniva detto sulla
quantificazione del rimborso.
La Ragioneria generale, nella
nota
21.04.2011 n. 54055 fatta propria dall'Unità di
missione, aggiunge qualche paletto. Le
amministrazioni in convenzione potranno
continuare a rimborsare l'utilizzo del mezzo
proprio da parte del segretario,
esclusivamente nell'importo di un quinto del
costo della benzina verde per ogni
chilometro. Non potrà essere riconosciuto
alcun indennizzo per i tragitti
abitazione-luogo di lavoro e viceversa.
Questo permetterà agli enti di risparmiare
importi fino a 20 centesimi di euro a km, ma
molto dipenderà dal mezzo di proprietà del
segretario. Per le reggenze e le supplenze,
sia a tempo pieno che a scavalco, il
risparmio sarà totale in quanto non sarà
possibile erogare alcun rimborso
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.06.2011 - tratto da
www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Sempre necessario il passaggio in consiglio.
Secondo il calendario fissato dal Dl
sviluppo, dopo il 12 luglio –cioè 60 giorni
dopo l'entrata in vigore del Dl 70/2011– e
in attesa delle discipline regionali, il
permesso di costruire in deroga è lo
strumento per riqualificare le aree
dismesse.
È bene anzitutto ricordare che l'articolo 14
del Dpr 380/2001 (permesso di costruire in
deroga agli strumenti urbanistici) è
rilasciato esclusivamente per edifici e
impianti pubblici o di interesse pubblico,
previa deliberazione del consiglio comunale.
Inoltre, la deroga, nel rispetto delle norme
igieniche, sanitarie e di sicurezza, può
riguardare solo i limiti di densità
edilizia, di altezza e di distanza tra i
fabbricati dettati dalle norme di attuazione
degli strumenti urbanistici generali ed
esecutivi, fermo restando in ogni caso il
rispetto delle disposizioni di cui agli
articoli 7, 8 e 9 del Dm 1444/1968, in tema
di standard minimi per servizi, densità
edilizie massime e distanze inderogabili.
Molto opportunamente, dunque, il decreto
sviluppo ritiene da un lato che la
riqualificazione delle aree urbane
costituisca una finalità di interesse
pubblico (diversamente l'istituto della
deroga non sarebbe utilizzabile), mentre,
dall'altro, estende il campo d'azione della
deroga anche al mutamento di destinazione
d'uso. Sotto quest'ultimo profilo, il
principale ostacolo al recupero delle aree
dismesse è proprio rappresentato dalla
perdurante destinazione produttiva ad esse
sovente riconosciuta dal piano regolatore,
che inibisce l'insediamento di altre
funzioni urbane (come il commercio, la
residenza e gli uffici) aventi valore
sufficiente a sostenere i costi di bonifica
e di trasformazione.
Purtroppo però il procedimento della deroga
edilizia non è particolarmente spedito,
richiedendo pur sempre una apposita delibera
del consiglio comunale.
Non è quindi sufficiente la firma del
dirigente sul permesso di costruire né,
tanto meno, la presentazione di una Superdia
(nei casi residuali in cui il titolo esiste
ancora) o di una Scia.
Neppure è possibile che il permesso di
costruire possa formarsi per
silenzio-assenso secondo le previsioni del
Dl 70/2011, valide solo per i progetti
conformi (dunque non in deroga) alla
disciplina urbanistica ed edilizia
applicabile.
Il procedimento in deroga resta comunque
assai più veloce di quello della variante
urbanistica, che impone due delibere
consiliari e, in molte Regioni, la ratifica
della provincia o della giunta regionale.
Un'ultima notazione. Il decreto precisa che
il cambio d'uso possa avvenire solo verso
destinazioni «compatibili o complementari».
La norma parrebbe intendere semplicemente
che le nuove destinazioni debbano essere
coerenti con il contesto urbano in cui si
dovranno inserire, secondo una valutazione
discrezionale delegata al consiglio comunale
(ovviamente sulla scorta delle indicazioni
progettuali e dell'istruttoria degli uffici)
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.06.2011). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Gli strumenti del Dl sviluppo
in attesa delle leggi decentrate. La deroga
rende più facile il recupero aree dismesse.
Obiettivo recupero: il decreto sviluppo (Dl
78/2011), nel semplificare le procedure
relative all'attività edilizie e alla
trasformazione del territorio, mira anche a
favorire il recupero delle aree dismesse
attraverso il riconoscimento di incentivi e
semplificazioni procedurali. L'articolo 5
del decreto (comma 9 e seguenti), punta
sulla razionalizzazione del patrimonio
edilizio esistente attraverso il recupero di
aree urbane degradate ed edifici non
residenziali dismessi.
Le aree urbane dismesse e il loro recupero
rappresentano un problema sempre più attuale
e di non facile soluzione, dal momento che
la recente crisi economica e la chiusura di
stabilimenti produttivi ha determinato il
sorgere di nuove are industriali dismesse
oltre a quelle già dismesse a inizio anni
90. Problemi ambientali e urbanistici,
intreccio di disposizioni non sempre
coordinate, tempi incerti, costi
potenzialmenti maggiori rispetto ai nuovi
sviluppi sono tutte incognite che gravano
sul progetto. E questo vale in particolare
per la bonifica e il ripristino ambientale,
che possono rappresentare un onere eccessivo
per gli investitori.
Non sono mancati in passato tentativi
legislativi volti a favorire il recupero
delle ex aree industriali –come ad esempio
l'articolo 252-bis del Dlgs 152/2006– ma
questi tentativi si sono rivelati poco
efficaci in quanto, pur prevedendo norme ad
hoc, risultavano spesso troppo rigidi
(conferma della destinazione produttiva
delle aree) ed economicamente poco
allettanti per gli operatori privati (costi
di bonifica interamente a carico della
proprietà).
Il Dl sviluppo, invece, sembra compiere un
passo in più, in quanto chiede alle regioni
di emanare specifiche leggi che incentivino
il recupero delle aree industriali dismesse
attraverso il riconoscimento di premi
volumetrici, trasferimento di volumetrie e
inserimento di nuove destinazioni d'uso con
interventi di demolizione e ricostruzione.
Secondo il calendario fissato dalla norma,
le regioni hanno 60 giorni per emanare le
leggi specifiche (periodo di tempo
sicuramente troppo breve perché venga
rispettato), dopodiché –decorso tale
termine– i privati avranno comunque facoltà
di procedere al cambio d'uso delle proprie
aree attraverso un premesso a costruire in
deroga allo strumento urbanistico, previsto
dall'articolo 14 del Dpr 380/2001, che potrà
essere usato anche per effettuare il cambio
d'uso, ma dovrà comunque garantire il
rispetto delle norme ambientali. Il che
significa, nel caso delle aree industriali
dismesse, che dovranno essere programmate le
opportune verifiche ambientali e le
eventuali bonifiche.
La norma nazionale –fermo restando il fatto
che l'iter di conversione del Dl è ancora in
corso– traccia una cornice entro cui
potranno muoversi i legislatori locali. Non
erano mancati, in passato tentativi di
alcune Regioni, come la Lombardia, che
avevano cercato di incentivare il recupero
delle aree dismesse anche attraverso la
previsione di una definizione di area
dismessa (legge regionale 1/2007) o il
riconoscimento di strumenti e incentivi
economici –quali lo scomputo di parte dei
costi di bonifica dagli oneri di
urbanizzazione (legge 10/2009)– che
potessero effettivamente favorire gli
interventi di recupero su tali aree, ma una
previsione di legge a livello nazionale è un
passo in più.
Due punti, infine, andrebbero migliorati: la
nozione di «area dismessa» e l'introduzione
di un coordinamento tra l'iter edilizio e
urbanistico e quello ambientale di bonifica,
così che le due procedure (le due anime del
medesimo intervento) vengano coordinate come
tempi, approvazioni e certificazioni
(articolo Il Sole 24
Ore del 13.06.2011). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Sussiste l'obbligo di rendere la
dichiarazione di cui all'art. 38 del d.lgs.
n. 163/2006, anche in capo ai soggetti
dotati di un ruolo decisionale all'interno
della società, al di là della qualificazione
formale dei poteri loro attribuiti.
L'art. 38, lett. b), c) e m-ter, del d.lgs.
n. 163/2006, va interpretato alla luce del
più sostanziale indirizzo orientamento
attento all' effettività del rapporto
amministrativo, nonché all'affidabilità di
chi in esso agisce nell'interesse e per
conto del concorrente, secondo cui, la
dichiarazione relativa all'insussistenza di
cause di esclusione deve essere resa anche
dai procuratori speciali, al di là della
loro qualifica formale, in virtù dei poteri
ad essi in concreto conferiti. Ciò in
quanto, la ratio legis è di
escludere, dalla partecipazione alla gara,
le società in cui abbiano commesso gravi
reati i soggetti dotati di un ruolo
decisionale e gestionale significativo.
Il fondamento della disposizione consiste
infatti nell'assicurare preventivamente la
piena affidabilità morale dell'impresa che
ambisce all'esecuzione dell'opera pubblica:
affidabilità che, ridotta al rango
soggettivo in ragione della personalità
della responsabilità penale, va garantita e
dichiarata anche per quanti, in concreto,
risultino svolgere una reale funzione di
amministrazione dell'impresa ed esercitarne
i tipici poteri di gestione; a maggior
ragione quando, come nel caso di specie,
tali soggetti si mostrino capaci di reali
poteri gestori nei confronti
dell'amministrazione pubblica; diversamente,
la ratio legis verrebbe elusa e
dunque vanificata.
A tal fine, peraltro, rileva anche
considerare l'attribuzione del potere di
partecipare a pubblici appalti e formulare
le relative offerte, come avvenuto nella
fattispecie in esame (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 15.06.2011 n. 3655 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Informativa
antimafia: la stazione appaltante non è
tenuta a comunicare l'avvio del procedimento
di revoca dell'aggiudicazione.
L'amministrazione è esonerata dall'obbligo
di comunicazione di cui all'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, relativamente
all'informativa antimafia ed al successivo
provvedimento di revoca un'aggiudicazione
rilasciata, atteso che si tratta di
procedimento in materia di tutela antimafia,
come tale intrinsecamente caratterizzato da
profili di urgenza (in termini C. Stato
sent. n. 1148 del 02/09/2009, ove è richiamata
copiosa giurisprudenza e precisamente
Consiglio Stato, sez. VI, 07.11.2006,
n. 6555; conf. anche Cons. Stato, sez. IV,
11.02.1999, n. 150; sez. V 28.02.2006, n.
851) (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 13.06.2011 n. 1470
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Informativa antimafia: può
legittimamente fondarsi su fatti e vicende
aventi valore meramente sintomatico ed
indiziario.
Il Prefetto non deve basarsi su specifici
elementi, ma deve effettuare la propria
valutazione sulla scorta di uno specifico
quadro indiziario, ove assumono rilievo
preponderante i fattori induttivi della non
manifesta infondatezza che i comportamenti e
le scelte dell’imprenditore possano
rappresentare un veicolo di infiltrazione
delle organizzazioni criminali negli appalti
delle pubbliche amministrazioni.
L’informativa prefettizia pertanto può
legittimamente fondarsi su fatti e vicende
aventi valore meramente sintomatico ed
indiziario, data la peculiare finalità
rivestita di prevenire infiltrazioni mafiose
e criminali nel tessuto economico
imprenditoriale, anche a prescindere dal
concreto accertamento in sede penale di
reati specifici (TAR Lazio sez. 1^ di Roma,
sent. n. 6487/2008).
Al fine però di evitare il travalicamento in
uno “stato di polizia” e di
salvaguardare i principi di legalità e di
certezza del diritto, non possono ritenersi
sufficienti semplici sospetti o mere
congetture prive di riscontro fattuale, in
assenza di individuati elementi di fatto
obiettivamente sintomatici di concrete
connessioni con la criminalità. La
valutazione rimessa all’autorità prefettizia
nella esternazione della richiesta
informativa antimafia costituisce
espressione di discrezionalità tecnica, che
esclude la possibilità per il giudice di
esplicare un sindacato pieno e assoluto, ma
non impedisce di formulare un giudizio di
logica e di congruità delle informazioni
assunte o alle deduzioni che sono state
tratte (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza
13.06.2011 n. 1469 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Incarichi
di progettazione sotto soglia: l'ente
appaltante non ha l'obbligo di pubblicare il
bando di gara.
Non sussiste la violazione delle norme
relative alle procedure ad evidenza
pubblica, trattandosi di appalto sotto
soglia comunitaria riguardante incarichi di
progettazione, per cui l’Ente non era
obbligato alla pubblicazione del bando di
gara.
Difatti, nonostante il bando contenga
erroneamente il richiamo all’art. 124 del
codice dei contrati, trattandosi di incarico
di progettazione di importo inferiore a
100.000 euro, trova applicazione l’art. 91,
2° comma, cod. contr. che così dispone: “Gli incarichi di progettazione di importo
inferiore alla soglia di cui al comma 1 (100.000 euro) possono essere affidati dalle
stazioni appaltanti, a cura del responsabile
del procedimento, ai soggetti di cui al
comma 1, lettere d), e), f), g) e h)
dell'articolo 90, nel rispetto dei principi
di non discriminazione, parità di
trattamento, proporzionalità e trasparenza,
e secondo la procedura prevista
dall'articolo 57, comma 6; l'invito è
rivolto ad almeno cinque soggetti, se
sussistono in tale numero aspiranti idonei.”
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 13.06.2011 n. 1464
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nessuna
segnalazione all'Authority nel caso di buona
fede dell'impresa che abbia ritenuto di
possedere il requisito in realtà carente.
Nel caso di buona fede dell'impresa che
abbia ritenuto di possedere il requisito in
realtà carente o contestato, non ha senso
irrogare sanzioni che vadano oltre la
fisiologica esclusione dell'impresa dalla
gara, quali la segnalazione all'Autorità per
la Vigilanza sui contratti pubblici di
lavori, servizi e forniture (TAR Trentino
Alto Adige Trento, 09.02.2011, n. 34): nel
caso specifico, era evidente l’assenza di
condotte contrarie alla buona fede
concorsuale e/o fraudolente, non essendovi
state dichiarazioni mendaci nell'ambito
della verifica dei requisiti, di guisa che
non avrebbero comunque potuto essere
adottate le contestate sanzioni (massima
tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it
-
TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 13.06.2011 n. 1460
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI LOCALI - VARI: Sussiste
la giurisdizione del g.o. in tema di revoca
di contributi per fatto imputabile al
beneficiario.
Nell’ipotesi di revoca di contributi per
fatto imputabile al beneficiario, riconosce
in ogni caso la giurisdizione del Giudice
ordinario.
In particolare, nella fase procedimentale
successiva all'attribuzione del contributo,
il beneficiario risulta titolare di un
diritto soggettivo avente ad oggetto la
concreta erogazione delle somme disposte con
tale finanziamento, con conseguente
attribuzione della relativa giurisdizione al
G.O. per le controversie relative al
pagamento degli importi dovuti ovvero
riconducibili ai provvedimenti di decadenza
o di risoluzione con i quali la p.a. abbia
ritirato la sovvenzione sulla scorta di un
preteso inadempimento, da parte del
beneficiario, agli obblighi impostigli dalla
legge o dalla convenzione posta a fondamento
del rapporto di finanziamento (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2010, n. 3501; ma anche questo TAR Catania, sez. IV, 16.12.2010, n. 4744).
Viceversa, solo quando nella stessa fase
procedimentale la p.a. si determini nel
senso di non erogare il finanziamento già
accordato, provvedendo, in sede di
autotutela, ad annullare il predetto
provvedimento per vizi di legittimità ovvero
a revocarlo per contrasto originario con
l'interesse pubblico, il beneficiario può
vantare una posizione di interesse legittimo
al corretto esercizio di detti poteri, con
conseguente attribuzione delle relative
controversie alla giurisdizione del G.A.
(cfr. giurisprudenza già richiamata).
In definitiva, sussiste la giurisdizione
ordinaria tutte le volte in cui il
provvedimento impugnato -a prescindere dal
nomen juris adoperato (annullamento, revoca,
decadenza, risoluzione)- sia basato
sull'asserito inadempimento da parte del
concessionario agli obblighi impostigli
dalla legge o assunti a fronte della
concessione del contributo (massima tratta
da www.dirittodegliappaltipubblici.it -
TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 13.06.2011 n. 1459
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'art. 90 del d.lgs. 163/2006
consente lo svolgimento della progettazione
di opere pubbliche mediante affidamento
delle stesse ad una società in house della
stazione appaltante.
L'art. 90, c. 1, del d.lgs. n. 163/2006
prevede che, se non affidate a
professionisti, le attività relative alla
progettazione di opere pubbliche e quelle
relative alla direzione lavori, devono
essere espletate dagli uffici tecnici delle
stazioni appaltanti, oppure dagli uffici
consortili di progettazione e direzione dei
lavori o dagli organismi di altre pubbliche
amministrazioni di cui le singole stazioni
appaltanti possono avvalersi per legge.
Nel concetto di stazione appaltante, va
ricompresa anche l'eventuale società in
house, poiché quest'ultima non si configura
quale soggetto esterno all'amministrazione
medesima ma, analogamente ai suoi uffici
interni, ne rappresenta una parte
integrante, sia pure giuridicamente
separata.
La forma societaria è uno strumento che
l'Amministrazione ha scelto per
l'espletamento delle proprie attività in
materia di realizzazione di opere pubbliche,
ritenendo che possano più agevolmente essere
portate a compimento mediante strumenti
civilistici; ma sulla società medesima il
Comune esercita un controllo penetrante, il
quale esclude che essa possa operare
autonomamente.
Le attività di progettazione svolte
rientrano, pertanto, nell'ambito di
previsione dell'art. 90, c. 1, lett. a),
d.lgs. 163/2006, in quanto l'ufficio tecnico
della società opera unicamente a favore
dell'affidante e sotto il suo diretto
controllo, e ciò esclude che nella
fattispecie si sia realizzato un affidamento
esterno da parte della stazione appaltante
in spregio alle norme codicistiche, tanto
più che la società di cui si discute è a sua
volta è tenuta ad affidare tramite gara la
progettazione delle stesse (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 13.06.2011 n. 1041 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente da una gara, per
incompletezza della dichiarazione relativa
all'insussistenza di cause di esclusione ai
sensi dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006
(Codice degli appalti).
E' legittimo il provvedimento di esclusione
da una gara, adottato da una stazione
appaltante nei confronti di un concorrente
che abbia reso una dichiarazione incompleta,
in ordine alle cause di esclusione previste
dall'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006,
riguardanti tutti i soggetti tenuti per
legge ad assolvere a tale obbligo.
Nel caso di specie, l'ATI concorrente ha
omesso di rendere la suddetta dichiarazione
con riferimento al Presidente del C.d.A. In
ordine alle dichiarazioni relative ai
requisiti di partecipazione alle pubbliche
gare ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, la
giurisprudenza amministrativa non appare
univoca, propendendo talora, per una tesi "sostanzialistica",
secondo cui l'esclusione dalla gara può
avvenire non tanto per la mancata
allegazione della attestazione
sull'esistenza di condanne penali per i
soggetti indicati, quanto in caso di
effettiva esistenza di tali condanne;
talaltra, la giurisprudenza privilegia il
dato formale della omessa allegazione della
dichiarazione.
Peraltro, anche secondo quella
giurisprudenza che ha recepito il concetto,
di derivazione penalistica, del cd. "falso
innocuo", l'omessa dichiarazione in
ordine all'esistenza di condanne penali non
integra, di per sé, causa di esclusione,
salvo espressa previsione del bando, in tal
senso. Nel caso di specie, la mancata
presentazione di una delle dichiarazioni
richieste era sanzionata dal bando con
l'esclusione del concorrente (TAR Toscana,
Sez. I,
sentenza 13.06.2011 n. 1026 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
VARI:
E' illegittimo l'utilizzo della
insegna costituita dalla croce di colore
verde da parte delle parafarmacie.
L'art. 5 del d.lgs. n. 153 del 2009, prevede
che "al fine di consentire ai cittadini
un'immediata identificazione delle farmacie
operanti nell'ambito del Servizio sanitario
nazionale, l'uso della denominazione:
"farmacia" e della croce di colore verde, su
qualsiasi supporto cartaceo, elettronico o
di altro tipo, è riservato alle farmacie
aperte al pubblico e alle farmacie
ospedaliere". La norma contempla,
pertanto, il diritto di utilizzo della
insegna in esame soltanto alle farmacie. Ne
consegue che è illegittimo l'utilizzo della
medesima insegna da parte delle
parafarmacie.
Inoltre, il Comune ha l'obbligo di vietare
tale impiego e dunque di ordinare la
rimozione sia in ragione del dovere di
vigilanza nella fase di attuazione
dell'autorizzazione rilasciata all'esercizio
della relativa attività sia in ragione del
dovere di reprimere tutte le forme di
abusivismo nell'utilizzo di impianti
pubblicitari (TAR Calabria-Catanzaro, Sez.
I,
sentenza 13.06.2011 n. 900 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Deve considerarsi illegittimo il
regolamento comunale che stabilisca le zone
del territorio in cui possono essere
installati gli impianti radio base di
telefonia cellulare e le distanze che gli
stessi devono avere dalle civili abitazioni
o dalle aree sensibili. Agli enti locali,
infatti, spetta solo regolamentare
l'installazione dei suddetti impianti da un
punto di vista urbanistico e territoriale,
dando rilievo a particolari accorgimenti
edilizi che possano ridurre ulteriormente
l'esposizione alle onde elettromagnetiche.
Ai fini della determinazione della potenza
dell'impianto di telecomunicazione, occorre
tenere in considerazione solo quella del
singolo impianto e non anche quella di altri
impianti eventualmente esistenti sul
medesimo traliccio.
Il Collegio non
ravvisa ragione di discostarsi dalla
giurisprudenza secondo cui “è illegittimo
un regolamento comunale che stabilisce in
quali zone del territorio possono essere
installati gli impianti radio base di
telefonia cellulare e quali distanze devono
avere dalle abitazioni o dalle aree
sensibili. I comuni possono solo
regolamentare le installazioni delle
stazioni radio base sotto il profilo
urbanistico e territoriale, non potendo
neppure regolamentare l'individuazione dei
siti idonei all'installazione. I comuni
possono esercitare in materia una potestà
regolamentare del tutto sussidiaria, che
concerne esclusivamente i profili
urbanistici e territoriali (con esclusione
dell'individuazione dei siti) e l'eventuale
indicazione di ulteriori, particolari
accorgimenti edilizi che possano utilmente
concorrere alla minimizzazione
dell'esposizione” (così TAR Sicilia
Catania, sez. III, 29.01.2002, n. 140,
successivamente ripresa da TAR Calabria
Catanzaro, sez. II, 05.12.2006, n. 1573, di
analogo contenuto).
Come già affermato da questo Tribunale nella
sentenza n. 16 del 12.01.2007, quindi, è
illegittimo il regolamento che
esplicitamente estenda i vincoli stabiliti
unicamente per impianti di potenza superiore
-i quali possono essere realizzati solo
previa individuazione dei siti per la
localizzazione- anche alle SRB di potenza
inferiore a 300W. Per quest’ultime la
disciplina è dettata direttamente dalla
legge regionale che ne consente la
realizzazione in tutto il territorio
comunale, salvo gli espliciti divieti di cui
alla medesima legge regionale.
Come già affermato dalla giurisprudenza, ai
fini della determinazione della potenza
dell’impianto si deve considerare solo
quella del singolo impianto e non anche
quella degli altri impianti eventualmente
esistenti sul medesimo traliccio (cfr la
sentenza TAR Milano, 10.04.2002, n. 3713,
con cui si è esclusa la sommatoria delle
potenze di due stazioni presenti sul
medesimo traliccio). In tal caso si deve
valutare singolarmente l’impianto, fatto
salvo l’aspetto dei contributi di campo
elettromagnetico, che, nel caso in esame
sono stati ritenuti rispettosi degli stretti
parametri di legge da parte dell’ARPA
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 13.06.2011 n. 899
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Affidamento senza gara - Proroga
dei contratti affidati con gara -
Equiparazione - Limiti entro cui è
consentita la proroga.
All’affidamento senza una procedura
competitiva deve essere equiparato il caso
in cui ad un affidamento con gara segua,
dopo la sua scadenza, un regime di proroga
diretta che non trovi fondamento nel diritto
comunitario.
Infatti, le proroghe dei contratti affidati
con gara sono consentite se già previste
ab origine, e comunque entro termini
determinati. Una volta che il contratto
scada e si proceda a una sua proroga senza
che essa sia prevista ab origine, o
oltre i limiti temporali consentiti, la
proroga è da equiparare d un affidamento
senza gara. (Consiglio Stato , sez. VI,
16.02.2010, n. 850).
RIFIUTI - Servizio di
raccolta e trasporto rifiuti - Richiesta di
proroga - Affidataria - Rifiuto - Ordinanza
contingibile e urgente diretta ad assicurare
la continuità del servizio - Affidamento per
effetto di provvedimento extra ordinem - Non
costituisce impedimento alla partecipazione
ad altre gare.
In tema di servizio raccolta e trasporto
rifiuti, allorché in prossimità della
scadenza della proroga il Comune contatti la
società attuale affidataria del servizio al
fine di acquisire la disponibilità ad
un'ulteriore proroga del servizio, alle
medesime condizioni economiche e tecniche in
atto, nelle more della predisposizione degli
atti e degli adempimenti necessari per
l'affidamento mediante pubblica gara del
nuovo servizio, e l'affidataria declini la
proposta di ulteriore proroga, alla luce del
disposto di cui all'art. 23-bis, d.l. n. 112
del 2008, onde evitare il pregiudizio
derivante dall'impedimento alla
partecipazione ad altre gare, è legittima
l'ordinanza contingibile ed urgente assunta
dal Sindaco ai sensi dell'art. 50, d.lg. n.
267 del 2000, al fine di assicurare comunque
la continuità del servizio di gestione dei
rifiuti urbani, tenuto conto della qualità
di servizio essenziale, non suscettibile di
subire interruzioni; in tal caso l'avvenuto
affidamento del servizio alla società per
effetto di un provvedimento extra ordinem,
assunto sulla base di presupposti di diritto
del tutto diversi da quelli in base ai quali
in via ordinaria si procede mediante proroga
dell'affidamento in corso, non è
assimilabile a tale ultima ipotesi e quindi
non può costituire per la società istante
impedimento per l'eventuale partecipazione
ad altre gare (cfr. TAR Veneto, sez. I,
09.07.2010 n. 2906).
Divieto ex art. 23-bis
della L. n. 133/2008 - Società private -
Applicabilità.
Il divieto previsto all’art. 23-bis, comma
9, L. n. 133/2008 non prevede alcuna
delimitazione soggettiva e si presta ad
essere applicata in termini generali, a
tutela del principio concorrenziale fra gli
operatori del mercato pubblici e privati.
Non può pertanto condividersi la tesi
secondo cui la norma sarebbe riferibile
esclusivamente alle società in house
providing e non anche alle imprese
private (TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 11.06.2011 n. 556 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Quando il contratto scada e si proceda a una
sua proroga senza che essa sia prevista ab
origine essa è da equiparare ad un
affidamento senza gara.
All’affidamento senza una procedura
competitiva deve essere equiparato il caso
in cui ad un affidamento con gara segua,
dopo la sua scadenza, un regime di proroga
diretta che non trovi fondamento nel diritto
comunitario.
Infatti, le proroghe dei contratti affidati
con gara sono consentite se già previste
ab origine, e comunque entro termini
determinati. Una volta che il contratto
scada e si proceda a una sua proroga senza
che essa sia prevista ab origine, o
oltre i limiti temporali consentiti, la
proroga è da equiparare d un affidamento
senza gara (Consiglio Stato, sez. VI,
16.02.2010, n. 850).
Diverso sarebbe
stato se lo svolgimento del servizio fosse
stato svolto in forza di provvedimento
autoritativo (ordinanza contingibile ed
urgente, per il periodo strettamente
necessario all'espletamento della gara a
regime), in quanto "in tema di servizio
raccolta e trasporto rifiuti, allorché in
prossimità della scadenza della proroga il
Comune contatti la società attuale
affidataria del servizio al fine di
acquisire la disponibilità ad un'ulteriore
proroga del servizio (nella specie: per
altri sei mesi), alle medesime condizioni
economiche e tecniche in atto, nelle more
della predisposizione degli atti e degli
adempimenti necessari per l'affidamento
mediante pubblica gara del nuovo servizio, e
l'affidataria declini la proposta di
ulteriore proroga, alla luce del disposto di
cui all'art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008,
onde evitare il pregiudizio derivante
(attese le interpretazioni giurisprudenziali
rese sul punto) dall'impedimento alla
partecipazione ad altre gare, è legittima
l'ordinanza contingibile ed urgente assunta
dal Sindaco ai sensi dell'art. 50, d.lgs. n.
267 del 2000, al fine di assicurare comunque
la continuità del servizio di gestione dei
rifiuti urbani, tenuto conto della qualità
di servizio essenziale, non suscettibile di
subire interruzioni; in tal caso l'avvenuto
affidamento del servizio alla società per
effetto di un provvedimento extra ordinem,
assunto sulla base di presupposti di diritto
del tutto diversi da quelli in base ai quali
in via ordinaria si procede mediante proroga
dell'affidamento in corso, non è
assimilabile a tale ultima ipotesi e quindi
non può costituire per la società istante
impedimento per l'eventuale partecipazione
ad altre gare” (cfr. TAR Veneto, sez. I,
09.07.2010 n. 2906)
(TAR Sardegna, Sez. I,
sentenza 11.06.2011 n.
556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sull'illegittimità dell'operato
di una Commissione di gara, che abbia
introdotto nuovi e diversi parametri di
valutazione, in contrasto con il dettato
normativo di cui all'art. 83, c. 4, del
d.lgs. n. 163/2006.
E' illegittimo l'operato di una Commissione
di gara che, in ordine all'attribuzione dei
punteggi indicati nel bando, abbia
introdotto, pur qualificandoli come criteri
motivazionali, nuovi e diversi parametri di
valutazione, con relativi elementi
ponderali, in quanto ciò costituisce
violazione dell'art. 83, come novellato dal
d.lgs. n. 152/2008, il quale, in ossequio ai
principi di trasparenza imposti dalla
sovraordinata normativa comunitaria, ha
abrogato la disposizione che assegnava alla
Commissione giudicatrice, prima
dell'apertura delle buste contenenti le
offerte, la fissazione, in via generale, dei
criteri motivazionali cui attenersi, in sede
di attribuzione a ciascun criterio e
subcriterio di valutazione dei punteggi tra
il minimo e il massimo prestabiliti dal
bando.
In altri termini, il legislatore, con la
previsione dell'art. 83 c. 4, del d.lgs. n.
163/2006 come novellato dal predetto
decreto, ha effettuato una scelta
finalizzata a ridurre gli apprezzamenti
soggettivi della commissione giudicatrice,
garantendo l'imparzialità delle valutazioni
a tutela della "par condicio" tra i
concorrenti, i quali sono messi in
condizione di formulare un'offerta che
consenta di concorrere effettivamente alla
aggiudicazione del contratto in gara.
La gestione dei servizi oggetto del
contratto, va determinata e resa nota ai
potenziali concorrenti, già al momento della
produzione delle loro offerte, e ciò al fine
di evitare il pericolo che la Commissione
possa orientare, a proprio piacimento ed a
posteriori, l'attribuzione di un punteggio
determinante e, quindi, l'esito della gara
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 10.06.2011 n. 1035 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
L'omessa menzione di condanne
penali non gravi, ovvero di violazioni
contributive non gravi o non definitivamente
accertate, non integra un'ipotesi di falsa
dichiarazione e, quindi, causa di
esclusione.
L'omessa menzione di condanne penali non
gravi, ovvero di violazioni contributive non
gravi o non definitivamente accertate, non
integra, di per sé, un'ipotesi di falsa
dichiarazione e, quindi, causa di
esclusione, atteso che, nel caso in esame,
il bando di gara non impone ai partecipanti
di manifestare qualsivoglia condanna e
violazione contributiva, ma solo quelli
connotati dal requisito di gravità.
Pertanto, si configura illegittimo un
eventuale provvedimento di esclusione,
basato sul solo fatto dell'omissione
formale. Il giudizio sul connotato, di
gravità richiesto dall'art. art. 38, c. 1,
lett. c), d.lgs. n. 163/2006, impone una
concreta valutazione da parte
dell'amministrazione procedente, rivolta
alla verifica dell'effettiva incidenza della
condanna penale sul vincolo fiduciario da
instaurare; pertanto, non è sufficiente un
semplice richiamo al tipo di reato ed alla
sua attinenza alla materia dell'appalto.
Peraltro, nella fattispecie in esame, non
sussiste alcuna violazione contributiva
definitivamente accertata, al momento della
presentazione della domanda, essendo stati
esibiti d.u.r.c. successivi alla stessa,
attestanti la regolarità contributiva, e non
appalesandosi il superamento delle "soglie"
di gravità, in ordine alla rilevanza delle
violazioni contributive, indicate nel D.M.
25/10/2007 (TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 10.06.2011 n. 889 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti radiomobili, vincoli di
localizzazione limitati.
E' consentito alle
Regioni ed ai Comuni, ciascuno per la sua
competenza, introdurre criteri localizzativi
degli impianti di telefonia mobile. Sono
considerati criteri localizzativi legittimi
i divieti di installazione su ospedali, case
di cura e di riposo, scuole e asili nido,
siccome riferiti a specifici edifici, mentre
vanno ritenute limitazioni alla
localizzazione (vietate) i criteri
distanziali generici ed eterogenei.
Secondo il quadro emergente della
giurisprudenza costituzionale, è consentito
alle regioni ed ai comuni, ciascuno per la
sua competenza, introdurre criteri
localizzativi degli impianti de quibus,
nell'ambito della funzione di definizione
degli "obiettivi di qualità",
consistenti in criteri localizzativi, di cui
all'art. 3, comma 1, lettera d, ed all'art.
8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge
quadro, mentre non è consentito introdurre
limitazioni alla localizzazione ( conf.:
Corte Cost.: 07.10. 2003 n. 307; 07.11.2003,
n. 331; 28.03.2006, n. 129).
Coerentemente, vanno considerati criteri
localizzativi (legittimi, ancorché espressi
"in negativo") i divieti di
installazione su ospedali, case di cura e di
riposo, scuole e asili nido, siccome
riferiti a specifici edifici, mentre vanno
ritenute limitazioni alla localizzazione
(vietate) i criteri distanziali generici ed
eterogenei, quali la prescrizione di
distanze minime, da rispettare
nell'installazione degli impianti, dal
perimetro esterno di edifici destinati ad
abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività
diverse da quelle specificamente connesse
all'esercizio degli impianti stessi, di
ospedali, case di cura e di riposo, edifici
adibiti al culto, scuole ed asili nido,
nonché di immobili vincolati ai sensi della
legislazione sui beni storico-artistici o
individuati come edifici di pregio
storico-architettonico, di parchi pubblici,
parchi gioco, aree verdi attrezzate ed
impianti sportivi.
Ritiene, quindi, il Collegio, alla stregua
dei superiori principi che il Comune
potrebbe dotarsi di un Piano o di un
Regolamento di localizzazione degli impianti
di telefonia mobile, ex art. 8, comma 6, L.
n. 36/2001 e art. 5 L.R. n. 30/2000, purché
finalizzato a consentire il completamento
della rete cellulare e l'efficace copertura
di tale servizio su tutto il territorio
comunale e non a porre inammissibili
limitazioni di localizzazione.
Invero, alla stregua dei superiori principi,
nella specie, il Comune non poteva
giustificare il parere negativo della
procedura edilizia decisa con la nota
gravata, in contrasto proprio con le
esigenze di speditezza propria di tale
settore, che oggi hanno trovato testuale
riscontro negli artt. 87 e 87-bis del D.Lgs
n. 259 del 2003 (ex plurimis cfr. Tar
Lazio, Roma, Sez. II, 9816/2007, TAR
Campania, Sez. VII, 29.05.2006, n. 6199; TAR
Abruzzo, 15.06.2006, n. 420; TAR Puglia,
Sez. Lecce, 03.11.2006, n. 5142).
Va, infine, precisato che detto arresto
procedimentale non poteva neppure essere
giustificato in riferimento alle esigenze di
tutela della salute della popolazione del
Comune (di cui, comunque, non vi è traccia
nel corpo motivazionale del provvedimento
impugnato), atteso che, ai sensi dell'art. 4
della legge 22.02.2001 n. 36, la materia
della salute pubblica inerente
all'esposizione ai campi elettromagnetici è
riservata alla competenza dello Stato e non
del comune (cfr.: Cons. Stato, Sez. VI,
20.12.2002 n. 7274).
Invero, nella specie, le accertate
violazioni di legge e discrasie rispetto al
paradigma procedimentale previsto dalla
legge si traducono anche in un deficit
motivazionale ed istruttorio, considerato,
in particolare che, nella specie, era
intervenuta la nota prot. n. 842/NIR-R/10
del 03.06.2010 dell’Agenzia Regionale per la
Protezione dell’Ambiente della Calabria (A.R.P.A.C.A.L.),
attestante la conformità della D.I.A. e la
compatibilità del progetto con i limiti di
esposizione, i valori di attenzione e gli
obiettivi di qualità di cui alla legge
22.02.2001 n. 36 e D.C.P.M 08.07.2003
(commento tratto da www.ipsoa.it - TAR
Calabria-Catanzaro,
sentenza 10.06.2011 n. 822 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Esproprio di terreni agricoli non
coltivati e di fondi inedificabili: é
illegittimo il valore agrario.
Con
sentenza 10.06.2011 n. 181, la
Corte Costituzionale ha dichiarato
illegittimo l'articolo 5-bis, comma 4, del
d.l. 11.07.1992 n. 333, convertito con legge
08.08.1992, n. 359, nonché, in via
conseguenziale, l'articolo 40, commi 2 e 3,
del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (Testo Unico
in materia di espropriazione per pubblica
utilità).
La Corte ha affermato che -per le aree
agricole non coltivate e per quelle
inedificabili- "il valore agrario,
previsto di fatto in via automatica,
potrebbe non rivelarsi un ^serio ristoro^",
con conseguente violazione dell'articolo 117
della Costituzione.
E’ vero, afferma la Corte, che il
legislatore "non ha il dovere di
commisurare integralmente l’indennità di
espropriazione al valore di mercato del bene
ablato e che non sempre è garantita dalla
CEDU una riparazione integrale".
Tuttavia, "proprio l’esigenza di
effettuare una valutazione di congruità
dell’indennizzo espropriativo, determinato
applicando eventuali meccanismi di
correzione sul valore di mercato, impone che
quest’ultimo sia assunto quale termine di
riferimento dal legislatore (sentenza n.
1165 del 1988), in guisa da garantire il
“giusto equilibrio” tra l’interesse generale
e gli imperativi della salvaguardia dei
diritti fondamentali degli individui".
Diverso é il caso delle aree non edificabili
ma coltivate, trattate nel comma 1 del
D.P.R. 327/2001, per le quali la mancanza
del riferimento al ^valore agricolo medio^ e
il riferimento alle colture effettivamente
praticate sul fondo consentono, ad avviso
della Corte, una interpretazione della norma
costituzionalmente orientata, peraltro
demandata ai giudici ordinari.
Per le prime, dunque, é atteso l'intervento
del legislatore, che non potrà non muovere,
sia pure con gli opportuni correttivi, dal
valore venale, ossia di mercato, fissato
dall'articolo 37 del T.U. (tratto e link a
http://studiospallino.blogspot.com). |
APPALTI:
La stazione appaltante ha il
potere discrezionale di fissare requisiti di
partecipazione ad una gara più gravosi
rispetto a quelli previsti dalla legge.
Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale, la stazione appaltante ha
il potere discrezionale di fissare requisiti
di partecipazione ad una singola gara, anche
più gravosi rispetto a quelli previsti dalla
legge, in relazione alle peculiari
caratteristiche oggettive ed all'importanza
del servizio da affidare.
Detto potere costituisce attuazione dei
principi costituzionali di imparzialità e
buon andamento, e può tradursi anche in una
richiesta relativa alla dimostrazione del
possesso di adeguata capacità
economico-finanziaria, correlata allo
specifico importo dell'appalto, nonché alla
sua durata, ed è ampiamente discrezionale;
pertanto, in tali casi, il sindacato del
G.A. deve limitarsi alle ipotesi di
manifesta irragionevolezza ed illogicità
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 09.06.2011 n. 859 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Stazione appaltante - Fissazione
di requisiti più gravosi di quelli previsti
dalla legge - Principi di imparzialità e
buon andamento - Discrezionalità.
La stazione appaltante ha il potere
discrezionale di fissare requisiti di
partecipazione ad una singola gara, anche
più gravosi di quelli previsti dalla legge,
in relazione alle peculiari caratteristiche
oggettive ed all’importanza del servizio da
affidare.
Detto potere, che costituisce precipua
attuazione dei principi costituzionali di
imparzialità e buon andamento, può tradursi
anche nella richiesta di dimostrazione del
possesso di adeguata capacità
economico-finanziaria, correlata allo
specifico importo dell’appalto ed alla sua
durata, ed è ampiamente discrezionale,
sicché il sindacato del giudice
amministrativo deve limitarsi alle ipotesi
di manifesta irragionevolezza ed illogicità
(cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.10.2004 n.
6972; Id., sez. V, 31.12.2003 n. 9305;
deliberazione A.V.C.P. n. 61 del 27.02.2007)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 09.06.2011 n. 859 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione - Presupposto -
Preesistenza di un fabbricato da
ristrutturare - Ricostruzione su ruderi -
Nuova opera.
Il concetto di ristrutturazione postula
necessariamente la preesistenza di un
fabbricato da ristrutturare, ossia di un
organismo edilizio dotato di mura
perimetrali, strutture orizzontali e
copertura.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o
su un edificio già da tempo demolito, anche
se soltanto in parte, costituisce una nuova
opera e, come tale, è soggetta alle comuni
regole edilizie e paesistico-ambientali
vigenti al momento della riedificazione
(C.d.S. sez. IV 13.10.2010 n. 7476, C.d.S.
sez. IV 15.09.2006 n. 5375).
Ciò che contraddistingue la c.d.
ricostruzione di ruderi è la circostanza che
in tal caso la demolizione del fabbricato
preesistente avviene per ragioni
assolutamente autonome ed indipendenti dalla
volontà di effettuare un intervento di
ristrutturazione (TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 09.06.2011 n. 847 - link
a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Piani di recupero - Finalità -
Nuove costruzioni - Ammissibilità -
Condizioni. A norma dell'art. 27 della L.
457/1978 i Piani di Recupero sono
finalizzati non già al recupero di centri
storici o di quartieri, ma al recupero del
patrimonio edilizio "esistente".
In coerenza con ciò l'art. 31 della L.
457/1978 prevede che sono ammissibili, sul "patrimonio
edilizio esistente", gli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria, le
opere e modifiche necessarie per rinnovare e
sostituire parti anche strutturali di
edifici, le opere necessarie per realizzare
ed integrare servizi igienico-sanitari e
tecnologici, gli interventi di restauro e
risanamento conservativo, gli interventi di
ristrutturazione edilizia, e gli interventi
di ristrutturazione urbanistica: eventuali
nuove costruzioni sono dunque ammissibili
solo ove il Piano di Recupero, in conformità
allo strumento urbanistico generale,
persegua la finalità di attuare una
ristrutturazione urbanistica (TAR
Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 09.06.2011 n. 847 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Fascia di rispetto stradale -
Art. 9 L. n. 729/1961 - Finalità - Divieto
assoluto di edificare - Verifica in concreto
dei rischi per la circolazione stradale -
Necessità - Esclusione.
Il divieto di costruire a una certa distanza
dal nastro autostrdale, imposto dall'art. 9
l. n. 729/1961 e dal d.m. Lavori Pubblici
01.04.1968, non può essere inteso
restrittivamente, e cioè come previsto al
solo scopo di prevenire l'esistenza di
ostacoli materiali emergenti dal suolo e
suscettibilità di costituire, per la
prossimità alla sede stradale, pregiudizio
alla sicurezza del traffico e alla
incolumità delle persone, in quanto è
correlato alla più ampia esigenza di
assicurare una fascia di rispetto
utilizzabile, all'occorrenza, dal
concessionario per l'esecuzione dei lavori,
per l'impianto dei cantieri, per il deposito
dei materiali, per la realizzazione di opere
accessorie, senza limitazioni connesse alla
presenza di costruzioni.
Pertanto, il vincolo in questione,
traducendosi in un divieto assoluto di
costruire, rende legalmente inedificabili le
aree site in fascia di rispetto stradale o
autostradale, indipendentemente dalle
caratteristiche dell'opera realizzata e
dalla necessità di accertamento in concreto
dei connessi rischi per la circolazione
stradale (Cass. civ., sez. II, 03.11.2010 n.
22422; Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2010 n.
2076).
Fascia di rispetto
autostradale - Divieto di costruire a
distanza inferiore a 25 metri - Art. 9, c. 1
L. n. 729/1961 - Vigenza - Autostrade
costruite successivamente all’entrata in
vigore della legge.
Il divieto di costruire di ampliare edifici
o manufatti di qualsiasi specie, a distanza
inferiore a 25 m. dal limite della zona di
occupazione dell'autostrada, di cui all'art.
9, 1° comma, l. 24.07.1961, n. 729, opera
soltanto per le autostrade la cui
costruzione è avvenuta dopo l'entrata in
vigore della legge medesima, oppure alle
autostrade la cui costruzione è stata già
concessa anteriormente a tale data.
È la stessa lettera della legge ad implicare
tale conclusione, laddove fa riferimento
alle autostrade e ai relativi accessi,
previsti sulla base di progetti regolarmente
approvati: tanto basta a rendere
inapplicabile la nuova normativa ad
autostrade già edificate in base al generale
principio della irretroattività sancito
dall'art. 11 delle preleggi (Consiglio di
Stato sez. IV, 29.04. 2002 n. 2277)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3498 -
link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Sono soggette alla giurisdizione del giudice
amministrativo le procedure che consentono
il passaggio da un'area inferiore a quella
superiore.
Sulla scorta dell’insegnamento della Corte
costituzionale (sent. n. 1 del 1999), e poi
della Corte di Cassazione (SS.UU. 15.10.2003
n. 15403), il Consiglio di Stato afferma
costantemente che le procedure che
consentono il passaggio da un'area inferiore
a quella superiore integrino un vero e
proprio concorso, tali essendo anche le
procedure che vengono denominate selettive,
qualunque sia l'oggetto delle prove che i
candidati sono chiamati a sostenere, con la
conseguenza che le relative controversie
sono soggette alla giurisdizione del giudice
amministrativo (Sez. V, 06.07.2010, n. 4313)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3484 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il rapporto di pubblico impiego in
contrasto con le norme imperative che
regolano le assunzioni è nullo ma rileva
come rapporto di mero fatto.
Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 97,
Cost., “…Agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni si accede mediate concorso,
salvo i casi stabiliti dalla legge”:
affinché possa dirsi esistente (o possa
chiedersi la declaratoria di sussistenza di
un rapporto di pubblico impiego),
l’interessato deve aver utilmente
partecipato ad un pubblico concorso, oppure
deve sussistere una specifica norma di legge
in applicazione della quale la p.a. abbia
provveduto all’assunzione, e non rileva, per
costante giurisprudenza anche di questo
Consiglio di Stato, lo svolgimento di
mansioni di fatto anche in presenza dei c.d.
elementi rivelatori (cfr. C.S., sez. V, dec.
09.10.2007 n. 5262).
Com’è stato ribadito da questo Consiglio di
Stato, “Il rapporto di lavoro avente le
caratteristiche del pubblico impiego,
costituito in contrasto con le norme
imperative che disciplinano le assunzioni
della pubblica amministrazione, è nullo ma
rileva come rapporto di mero fatto, per il
quale, ai fini retributivi e previdenziali,
deve trovare applicazione l'art. 2126, c.c.;
infatti, gli effetti derivanti dalla
predetta norma civilistica sono connessi
alle prestazioni lavorative di fatto, che
sono tali proprio in quanto gli atti in base
ai quali le prestazioni stesse sono state
svolte sono affetti da nullità per contrasto
con norme imperative” (cfr. C.S., sez.
V, dec. 09.10.2007 n. 5262).
Ed ancora, “Quando il rapporto di lavoro
avente le caratteristiche del pubblico
impiego sia sorto in violazione di norme
imperative che ne sanzionavano la nullità di
diritto e la improduttività di effetti a
carico dell'amministrazione (nella specie,
quelle di cui agli art. 18, l. n. 808 del
1977, ed art. 123, d.P.R. n. 382 del 1980),
il rapporto stesso viene comunque a rilevare
come rapporto di fatto per il quale trova
applicazione ai fini retributivi e
previdenziali l'art. 2126, c.c., salvo che
la nullità derivi dalla illiceità
dell'oggetto o della causa”. (cfr. C.S.,
sez. VI, dec. 04.09.2007 n. 4620) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3474 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È sufficiente la mera presentazione di
domande di condono per rendere improcedibili
i giudizi relativi a pregressi provvedimenti
sanzionatori di opere ritenute abusive
dall’amministrazione comunale.
Sulla base di un consolidato orientamento
giurisdizionale, che il Collegio ritiene di
condividere, è sufficiente la mera
presentazione di domande di condono per
rendere improcedibili i giudizi relativi a
pregressi provvedimenti sanzionatori di
opere ritenute abusive da parte della
competente amministrazione comunale.
La presentazione della suddetta istanza
impone infatti al Comune la sua disamina e
l'adozione dei provvedimenti conseguenti,
sicché gli atti, repressivi dell'abuso, in
precedenza adottati perdono efficacia,
perché la proposizione dell’istanza stessa
può condurre o ad un suo accoglimento (con
connesso rilascio della concessione edilizia
in sanatoria e superamento degli atti
sanzionatori impugnati), oppure alla
reiezione l’istanza e la P.A. è, allora,
tenuta, in base all’art. 40, comma 1, della
l. n. 47/1985 e s.m.i., al completo riesame
della fattispecie, assumendo, ove del caso,
nuovi, e questa volta definitivi,
provvedimenti sanzionatori che troveranno
esecuzione, ovvero saranno oggetto di
autonoma impugnazione (Consiglio Stato,
Sezione V, 19.02.1997, n. 165; Sezione VI,
07.05.2009, n. 2833 e 26.03.2010, n. 1750) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3460 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Può agire per l'annullamento di una
concessione edilizia il proprietario di
un'area vicina che faccia valere il
pregiudizio derivante dalla illegittima
alterazione dell'ambiente circostante.
Va riconosciuto l'interesse ad agire per
l'annullamento di una concessione edilizia
al proprietario di un'area sita nelle
immediate vicinanze della progettata
costruzione, che faccia valere il
pregiudizio a lui derivante dalla
illegittima alterazione dell'ambiente
circostante, senza necessità della specifica
dimostrazione di un danno particolare.
Sono titolari
di una posizione qualificata e differenziata
ad impugnare i provvedimenti relativi alla
costruzione di un’opera come quella di
specie solo i soggetti residenti in immobili
siti nella zona in cui la costruzione è
permessa e coloro che si trovano in una
situazione di stabile collegamento con la
stessa. La sussistenza delle anzidette
circostanze è idonea quindi a radicare in
detti soggetti una posizione di interesse
differenziata rispetto a quella posseduta
dal “quisque de populo” (Consiglio
Stato, sez. IV, 30.11.2009, n. 7490), purché
sussista anche un concreto pregiudizio anche
solo potenziale, che potrebbe derivare dalla
costruzione, della cui esistenza deve essere
fornita la prova da parte di coloro che
vogliono far valere la illegittimità dei
provvedimenti autorizzativi della nuova
opera.
Quindi, pur essendo il requisito della “vicinitas”
insufficiente a provare, da solo,
l'interesse concreto ed attuale a ricorrere
dell'interessato, la giurisprudenza non ha
tuttavia dubitato che esso interesse sia
sempre sussistente nei casi in cui siffatta
concreta lesione sia a prima vista
ricavabile dalla stessa “vicinitas”,
alla costruzione di un’opera, per essere
preclusa la vista e l'aria goduta dalle
parti deducenti la lesione, come nella
fattispecie in esame.
Va, infatti, riconosciuto l'interesse ad
agire per l'annullamento di una concessione
edilizia al proprietario di un'area sita
nelle immediate vicinanze della progettata
costruzione, che faccia valere il
pregiudizio a lui derivante dalla
illegittima alterazione dell'ambiente
circostante, senza necessità della specifica
dimostrazione di un danno particolare
(Consiglio Stato, sez. V, 20.06.1987, n.
403).
Nel caso che occupa non può dubitarsi che la
costruzione di una palestra, sia pure in
materiale leggero e trasparente, nelle
adiacenze degli immobili dei ricorrenti in
primo grado, avrebbe sicuramente comportato
una limitazione della visuale di cui essi
godevano, non esistendo materiali
perfettamente trasparenti tali da eliminare
totalmente essa limitazione e costituendo
comunque la erigenda palestra una struttura
edilizia atta ad immutare il preesistente
paesaggio libero da costruzioni
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
piena conoscenza dell'attività
amministrativa e della sua lesività, al fine
del decorso del termine di impugnazione, non
può essere affermata in via meramente
presuntiva ma deve formare oggetto di prova
rigorosa da parte di chi eccepisce la
tardività del gravame.
Non può dedursi la assoluta e piena
conoscenza di un provvedimento, da parte di
chi ha interesse ad impugnarlo, dal solo
fatto che dello stesso sia venuto a
conoscenza un altro soggetto, anche se
legato al primo da determinati rapporti, ivi
compreso l'avvocato difensore.
La piena conoscenza dell'attività
amministrativa e della sua lesività, al fine
del decorso del termine di impugnazione, non
può essere affermata in via meramente
presuntiva ma deve formare oggetto di prova
rigorosa da parte di chi eccepisce la
tardività del gravame (CdS sez. IV,
15.05.2008 n. 2236; 18.12.2008 n. 6365).
In base al generalissimo principio, secondo
cui la conoscenza dell’atto, ai fini del
decorso del termine per la sua impugnazione,
deve essere, oltre che piena (con
riferimento alla sua esistenza e lesività),
anche personale (e quindi formarsi in capo
al diretto interessato), non può dedursi la
assoluta e piena conoscenza di un
provvedimento, da parte di chi ha interesse
ad impugnarlo, dal solo fatto che dello
stesso sia venuto a conoscenza un altro
soggetto, anche se legato al primo da
determinati rapporti, ivi compreso
l'avvocato difensore.
Invero, alla stregua di consolidato
orientamento giurisprudenziale, dal quale il
Collegio non ritiene di discostarsi, la
conoscenza di un atto da parte del legale
non può fornire né prova piena della
completa conoscenza dell’atto stesso anche
da parte del soggetto interessato, né
presunzione assoluta di conoscenza della
parte (C.d.S., Sez. IV, 10.04.2008 n. 1556)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'eventuale erronea determinazione degli
oneri connessi al rilascio della concessione
edilizia non determina l'illegittimità della
concessione stessa.
L'eventuale erronea determinazione degli
oneri connessi al rilascio della concessione
edilizia non determina l'illegittimità della
concessione stessa, e non giustifica quindi
la pretesa al suo annullamento
giurisdizionale, in quanto il procedimento
di determinazione del contributo di
urbanizzazione è diverso e autonomo rispetto
al procedimento di rilascio della relativa
concessione di costruzione, sia perché
persegue finalità sue proprie, sia perché si
conclude con un provvedimento diverso da
quello concessivo del titolo a costruire
(Consiglio Stato, sez. IV, 31.01.1995, n.
37).
Anche a seguito dell’entrata in vigore del
nuovo T.U sull’edilizia, la giurisprudenza
ha ribadito che il procedimento di rilascio
del permesso di costruire e quello di
determinazione dei contributi continuano ad
avere natura distinta ed autonoma, pur
essendo necessaria la determinazione del
contributo di costruzione prima del rilascio
della concessione edilizia (C.d.S sez. IV,
11.05.2007, n. 2325).
Da ciò consegue che il pagamento può
intervenire successivamente, anche a rate, e
l’erronea determinazione della somma dovuta
per oneri non incide sulla legittimità della
concessione edilizia e sul diritto
dell’Amministrazione di richiedere eventuali
conguagli o sul diritto dell’interessato di
chiedere la restituzione di quanto
eventualmente pagato in eccesso
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 08.06.2011 n.
550 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L’escluso dalla gara di appalto non ha
titolo per impugnare il bando.
In capo a chi sia stato escluso da una gara
con atto non impugnato, non sussiste un
interesse al ricorso avverso gli atti della
medesima selezione, neppure nella
declinazione mediata dell’interesse
strumentale alla rinnovazione della intera
gara.
Ritiene il Collegio che, come correttamente
rilevato dal giudice di primo grado, in capo
a chi sia stato escluso da una gara con atto
non impugnato, non sussiste un interesse al
ricorso avverso gli atti della medesima
selezione, neppure nella declinazione
mediata dell’interesse strumentale alla
rinnovazione della intera gara.
Tali conclusioni sono conformi, oltre che
alla prevalente giurisprudenza
amministrativa di epoca più risalente, con
la recente sentenza dell’Adunanza plenaria
di questo Consiglio di Stato 07.04.2011, n.
4 che ha ribadito l’orientamento per cui
l’esclusione da una gara d’appalto pone l’
escluso in posizione di fatto non diversa
dal non partecipante, perché non fa sorgere
il titolo su cui si fonda la legittimazione
al ricorso.
Non può essere pertanto condivisa la
prospettazione della società appellante,
secondo cui attraverso la impugnazione del
solo bando la stessa ha titolo per far
valere soltanto il suo interesse strumentale
alla ripetizione delle operazioni di gara
(cioè indipendentemente dal possesso di un
idoneo titolo partecipativo). Una posizione
legittimante all’impugnazione del bando può
sussistere solo in capo a chi abbia titolo a
partecipare alla gara.
L’eccezione a questa regola riguarda i
requisiti richiesti dalla clausola del bando
su cui si appunta l’impugnazione; ma non si
configura in capo a chi, come l’odierna
appellante, pretenderebbe travolgere
l’intera gara per pretesa illegittimità del
bando, tralasciando di esser stata
definitivamente esclusa dalla gara per
difetto di requisiti partecipativi diversi
da quelli sui quali si appunta
l’impugnazione della lex specialis,
ovvero per omissioni nella domanda di
partecipazione.
In tali casi è evidente il difetto di
legittimazione al ricorso del soggetto
escluso (che non contesti la propria
esclusione), se si considera il dato di base
che il processo amministrativo non è un
astratto strumento di ripristino della
legalità violata indipendentemente da una
posizione che configuri un concreto ed
effettivo titolo per agire in giustizia.
Nemmeno rileva che l’odierna società
appellante, prevedendo di restare esclusa
dalla gara a causa della carenza del
requisito di capacità tecnica, abbia
prodotto la domanda di partecipazione con
riconosciuta superficialità (donde le
carenze documentali a base della sua
esclusione). A rilevare in senso ostativo è
il dato oggettivo della carenza di titolo
partecipativo in capo alla ricorrente, a
causa della sua esclusione dalla gara per
fatti e circostanze rimaste inoppugnate,
data la mancata proposizione di specifico
gravame (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 07.06.2011 n. 3422 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Differenze retributive per mansioni
superiori nel pubblico impiego.
Nell'assetto normativo anteriore all'entrata
in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998, n.
387, lo svolgimento da parte dei dipendenti
pubblici di mansioni superiori rispetto a
quelle proprie della qualifica di
inquadramento, pur se protratte nel tempo e
conferite con atto formale, non dà luogo al
diritto del lavoratore a percepire le
differenze retributive ed è giuridicamente
irrilevante, salvo che tali effetti derivino
da un'espressa previsione normativa e salvo
in ogni caso il diritto alle differenze
retributive per il periodo successivo
all'entrata in vigore della richiamata
disposizione.
Secondo un consolidato orientamento, da cui
non si ravvisano ragioni per discostarsi,
nell'assetto normativo anteriore all'entrata
in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998, n.
387, lo svolgimento da parte dei dipendenti
pubblici di mansioni superiori rispetto a
quelle proprie della qualifica di
inquadramento, pur se protratte nel tempo e
conferite con atto formale, non dà luogo al
diritto del lavoratore a percepire le
differenze retributive ed è giuridicamente
irrilevante, salvo che tali effetti derivino
da un'espressa previsione normativa e salvo
in ogni caso il diritto alle differenze
retributive per il periodo successivo
all'entrata in vigore della richiamata
disposizione (Cons. Stato, IV, 30.06.2010,
n. 4165; IV, 26.03.2010, n. 1775; VI,
05.02.2010, n. 532).
Non vi sono ragioni pertanto per non
aderire, anche nel caso in esame, alla
consolidata valutazione giurisprudenziale
(di recente, in questi sensi, Cons. Stato,
VI, 24.01.2011 n. 467) secondo cui gli
interessi sottostanti al rapporto tra
amministrazione e dipendente pubblico, anche
se di natura economica, sono indisponibili e
derivano da disposizioni di rango primario,
per loro natura non derogabili dalla mera
volontà delle parti, e dunque caratterizzate
da una stringente corrispondenza tra
qualifica del dipendente, assetto
organizzativo in cui le mansioni vanno
svolte e retribuzione (cfr. Cons. Stato, Ad.
plen., 18.11.1999, n. 22, che ha ribadito
l'irrilevanza giuridica ed economica dello
svolgimento di mansioni superiori nel
pubblico impiego, salvo che per espressa
previsione normativa; e che il principio di
corrispondenza di retribuzione a qualità e
quantità del lavoro prestato, di cui
all'art. 36 Cost., concorre con altri
principi di pari rilevanza, come quello
dell'art. 98 Cost., che esclude nel pubblico
impiego la riduzione alla logica di scambio,
e soprattutto quello dell'art. 97 Cost.,
vale a dire con i principi di buon andamento
e imparzialità dell'amministrazione e - in
combinato con l'art. 28 Cost. - di rigida
determinazione di competenze, attribuzioni e
responsabilità dei funzionari; nonché di
esigenze primarie di controllo e
contenimento della spesa pubblica) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.06.2011 n. 3417 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Procedimento disciplinare nel pubblico
impiego.
La valutazione in ordine alla gravità dei
fatti addebitati in relazione
all'applicazione di una sanzione
disciplinare, costituisce espressione di
discrezionalità amministrativa, non
sindacabile in via generale dal giudice
della legittimità salvo che in ipotesi di
eccesso di potere, nelle sue varie forme
sintomatiche, quali la manifesta illogicità,
la manifesta irragionevolezza, l'evidente
sproporzionalità e il travisamento.
Le norme relative al procedimento
disciplinare sono necessariamente
comprensive di diverse ipotesi e, pertanto,
spetta all'amministrazione, in sede di
formazione del provvedimento sanzionatorio,
stabilire il rapporto tra l'infrazione e il
fatto, il quale assume rilevanza
disciplinare in base ad un apprezzamento di
larga discrezionalità (l'amministrazione
dispone, infatti, di un ampio potere
discrezionale nell'apprezzare autonomamente
le varie ipotesi disciplinari, con una
valutazione insindacabile nel merito da
parte del giudice amministrativo).
In sede di procedimento disciplinare nei
confronti di pubblici dipendenti, la
valutazione circa la gravità dei fatti
commessi ai fini dell'irrogazione di una
sanzione disciplinare è estrinsecazione di
discrezionalità amministrativa ed in quanto
tale è insindacabile dal giudice
amministrativo, salvo che in ipotesi di
eccesso di potere nelle sue varie
articolazioni di natura sintomatica, fra cui
l'evidente sproporzionalità della misura
disciplinare adottata rispetto alla gravità
dei fatti accertati.
Il Collegio rammenta il consolidato
orientamento -peraltro ben tenuto presente
dal giudice di prime cure e dal quale la
Sezione non intende discostarsi- secondo cui
“la valutazione in ordine alla gravità
dei fatti addebitati in relazione
all'applicazione di una sanzione
disciplinare, costituisce espressione di
discrezionalità amministrativa, non
sindacabile in via generale dal giudice
della legittimità salvo che in ipotesi di
eccesso di potere, nelle sue varie forme
sintomatiche, quali la manifesta illogicità,
la manifesta irragionevolezza, l'evidente
sproporzionalità e il travisamento.” (ex
multis, si veda Consiglio Stato, sez. IV,
31.05.2007, n. 2830).
La Sezione, in particolare, ha di recente
affermato che “le norme relative al
procedimento disciplinare sono
necessariamente comprensive di diverse
ipotesi e, pertanto, spetta
all'amministrazione, in sede di formazione
del provvedimento sanzionatorio, stabilire
il rapporto tra l'infrazione e il fatto, il
quale assume rilevanza disciplinare in base
ad un apprezzamento di larga discrezionalità
(l'amministrazione dispone, infatti, di un
ampio potere discrezionale nell'apprezzare
autonomamente le varie ipotesi disciplinari,
con una valutazione insindacabile nel merito
da parte del giudice amministrativo)”.
(Consiglio Stato, sez. VI, 22.03.2007, n.
1350).
“In sede di
procedimento disciplinare nei confronti di
pubblici dipendenti, la valutazione circa la
gravità dei fatti commessi ai fini
dell'irrogazione di una sanzione
disciplinare è estrinsecazione di
discrezionalità amministrativa ed in quanto
tale è insindacabile dal giudice
amministrativo, salvo che in ipotesi di
eccesso di potere nelle sue varie
articolazioni di natura sintomatica, fra cui
l'evidente sproporzionalità della misura
disciplinare adottata rispetto alla gravità
dei fatti accertati.” (Consiglio Stato,
sez. IV, 16.10.2009, n. 6353)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.06.2011 n. 3414 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Sussistenza dell’onere di immediata
impugnazione del bando di gara o della
lettera d’invito.
Le clausole del bando o della lettera di
invito che onerano l'interessato ad una
immediata impugnazione sono quelle che
prescrivono requisiti di ammissione o di
partecipazione alla gara, in riferimento sia
a requisiti soggettivi che a situazioni di
fatto, la carenza dei quali determina
immediatamente l'effetto escludente,
configurandosi il successivo atto di
esclusione come meramente dichiarativo e
ricognitivo di una lesione già prodotta.
In merito alla sussistenza dell'onere di
immediata impugnazione del bando o della
lettera d'invito, il Collegio non può che
richiamare l'ormai consolidata
giurisprudenza, maturata a partire dalla
decisione dell'Adunanza plenaria del
Consiglio di Stato n. 1 del 2003, per la
quale, ricollegandosi l'onere di
impugnazione ad una lesione immediata,
diretta ed attuale e non solo potenziale
dell'atto, esso sussiste solo allorquando il
bando contenga clausole impeditive
dell'ammissione dell'interessato alla
selezione.
Di conseguenza, le clausole del bando o
della lettera di invito che onerano
l'interessato ad una immediata impugnazione
sono quelle che prescrivono requisiti di
ammissione o di partecipazione alla gara, in
riferimento sia a requisiti soggettivi che a
situazioni di fatto, la carenza dei quali
determina immediatamente l'effetto
escludente, configurandosi il successivo
atto di esclusione come meramente
dichiarativo e ricognitivo di una lesione
già prodotta (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.06.2011 n. 3413 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.M. n. 1444/1968 - Forza
vincolante - Integrazione del regime delle
distanze di cui all’art. 872 c.c. -
Previsioni di P.R.G. difformi -
Illegittimità - Disapplicazione.
Il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù
dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942
introdotto a sua volta dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola pertanto anche
i comuni in sede di formazione e di
revisione degli strumenti urbanistici, con
la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l'anzidetto
limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori (TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 30.08.2007, n. 832).
D.M. n. 1444/1968 -
Pareti finestrate - Nozione.
Per "pareti finestrate", ai sensi
dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di
tutti quei regolamenti edilizi locali che ad
esso si richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute",
ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) (Corte
d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche
una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte,
10/10/2008 n. 2565) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1419 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sostituzione
ope legis delle N.T.A di un Comune e nozione
di pareti finestrate.
Il TAR Milano, Sez. IV, con
sentenza 07.06.2011 n. 1419, in
conformità a quanto espresso dal Consiglio
di Stato con la sentenza n. 2749/2011, ha
dichiarato l’illegittimità di una
concessione edilizia rilasciata sulla base
di norme tecniche di attuazione che,
trovandosi in contrasto con la previsione
contenuta nell’articolo 9 del D.M. 1444/1968
del Comune, dovevano ritenersi sostituite
ope legis dalle disposizioni del decreto
ministeriale.
La sentenza in commento è stata pronunciata
in seguito ad un ricorso con il quale veniva
contestata la legittimità di una concessione
edilizia che in attuazione delle N.T.A.
(Norme tecniche di attuazione) del Comune
aveva consentito, in contrasto con le
disposizioni contenute nell’articolo 9 del
D.M., la costruzione di un’autorimessa ad
una distanza di cinque metri dal fabbricato
dei ricorrenti.
Sul punto i giudici milanesi hanno chiarito
come “La giurisprudenza ha costantemente
affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444
–emanato in virtù dell’art. 41-quinquies l.
n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta
dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L.
Ponte)– ripete dal rango di fonte primaria
della norma delegante la forza di legge,
suscettibile di integrare con efficacia
precettiva il regime delle distanze dalle
costruzioni di cui all’art. 872 c.c.: la
regola della distanza di 10 metri tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti
vincola anche i comuni in sede di formazione
e di revisione degli strumenti urbanistici,
con la conseguenza che ogni previsione
regolamentare in contrasto con l’anzidetto
limite minimo è illegittima e va
disapplicata, essendo consentita alle
amministrazioni locali solo la fissazione di
distanze superiori (TAR Lombardia Brescia,
sez. I, 30.08.2007, n. 832)”.
Sulla nozione di pareti finestrate i giudici
del TAR Milano, richiamando quanto statuito
in precedenti sentenze sia dal giudice
amministrativo che civile, hanno precisato
come con tale definizione si devono
intendere non soltanto le pareti munite di “vedute”,
ma più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l’esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce) e
considerato altresì che basta che sia
finestrata anche un sola delle due pareti.
In attuazione di tali principi i giudici
hanno dunque dichiarato l’illegittimità
della concessione, disapplicando le regole
poste dalle N.T.A., in quanto contrastanti
con la previsione dell’articolo 9 del d.m.
1444/1968
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DELL’ENERGIA - Utilizzo
delle fonti rinnovabili - Pubblico interesse
e pubblica utilità - Protocollo di Kyoto.
L'utilizzazione delle fonti di energia
rinnovabile è considerata di pubblico
interesse e di pubblica utilità, e le opere
relative sono dichiarate indifferibili ed
urgenti (art. 12, comma 1, del D.Lgs.
387/2003), anche in considerazione del fatto
che la riduzione delle emissioni di gas ad
effetto serra attraverso la ricerca, la
promozione, lo sviluppo e la maggior
utilizzazione di fonti energetiche
rinnovabili e di tecnologie avanzate e
compatibili con l'ambiente costituisce un
impegno internazionale assunto dall'Italia
con la sottoscrizione del cosiddetto “Protocollo
di Kyoto” dell'11.12.1997 (ratificato
con legge n. 120 del 2002).
DIRITTO DELL’ENERGIA -
Impianti eolici - Attività d’impresa
liberalizzata - Autorizzazione unica -
Conferenza di servizi - Partecipazione del
Comune - Interesse alla corretta
localizzazione urbanistica.
La realizzazione e gestione di impianti
eolici rientra tra le attività di impresa
liberalizzate, che, a scopo di
semplificazione burocratica ed in ossequio
ai principi comunitari, viene sottoposta,
previa conferenza di servizi, ad
un’autorizzazione unica, che costituisce
anche titolo per la costruzione
dell'impianto, e, quindi, è anche
sostitutiva del permesso di costruire,
poiché il Comune può far valere il proprio
interesse, ambientale ed urbanistico, ad una
corretta localizzazione urbanistica del
parco eolico e alla sua conformità edilizia,
nell'ambito della suddetta conferenza di
servizi (Cons. Stato, Sez. III par.
14.10.2008 n. 2849).
DIRITTO DELL’ENERGIA -
“Moratoria eolica” - Contrarietà ai principi
di cui alla dir. 2001/77/CE.
La "moratoria eolica” si pone in
contrasto con i principi stabiliti dalla
disciplina comunitaria in materia e, in
particolare, della già citata Direttiva
27.09.2001, 2001/77/CE, che ha individuato,
tra gli obiettivi che gli Stati membri sono
chiamati a conseguire, quello di "ridurre
gli ostacoli normativi all'aumento della
produzione di elettricità da fonti
energetiche rinnovabili", quello di "razionalizzare
e accelerare le procedure all'opportuno
livello amministrativo", quello di "garantire
che le norme siano oggettive, trasparenti e
non discriminatorie e tengano pienamente
conto delle particolarità delle varie
tecnologie per le fonti energetiche
rinnovabili" nonché con lo spirito di “favor”
per gli impianti di tale tipologia, che
traspare, da tutta la normativa comunitaria
ed internazionale in materia.
DIRITTO DELL’ENERGIA -
Procedimento unico ex art. 12 d.lgs. n.
387/2003 - Termine di 180 gg. - Principio
fondamentale della materia vincolante per le
Regioni.
La previsione di un termine massimo di
centottanta giorni per la conclusione del
procedimento unico, volto al rilascio di
un'autorizzazione unica (delineato dall'art.
12, comma 4, del d.lgs. n. 387), costituisce
un principio fondamentale della materia - in
quanto ispirata alle regole della
semplificazione e della celerità
amministrativa - vincolante per le Regioni
nella materia di legislazione concorrente di
produzione, trasporto e distribuzione
nazionale dell'energia, cui è da ascrivere
la realizzazione e gestione degli impianti
di energia da fonte eolica (cfr. Cons. Stato
Sez. VI, 22-02-2010, n. 1020) (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 07.06.2011 n. 805 - link
a www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO: Chi
ne risponde penalmente se il piano
antincendio risulta inefficace?
Il dirigente dell'azienda deve garantire la
presenza in sede di personale qualificato,
in grado di attuare il piano antincendio per
far fronte all'emergenza dovuta al
propagarsi di fiamme.
E' quanto stabilito dalla quarta sezione
penale della Corte di Cassazione con la
sentenza 06.06.2011 n. 22334.
La vicenda esaminata dalla Corte di
Cassazione riguarda la morte di tre turisti
ospiti di un albergo romano a causa di un
incendio provocato da due ospiti dell'hotel
cittadine americane. In particolare, le
donne avevano svuotato inavvertitamente un
posacenere nel cestino portarifiuti e, alla
vista delle prime fiamme, erano fuggite
senza dare l'allarme.
I responsabili dell'hotel sono stati
condannati per non aver predisposto un
adeguato piano antincendio e che prevedesse
sempre la presenza in hotel di personale
addestrato per affrontare l'emergenza.
Tale compito spettava infatti alla
direttrice che, in quanto dirigente, era
responsabile del coordinamento della squadra
antincendio e aveva il dovere di predisporre
dei turni per la rotazione di personale
qualificato. Il piano di emergenza era stato
redatto e prevedeva la costituzione di una
squadra di emergenza antincendio composta da
24 persone munite di apposito patentino. Il
caposquadra era il direttore dell'albergo e
in sua assenza un vice.
Nella notte in cui accaddero i fatti non era
in servizio nessun dei componenti della
squadra, ma solo il portiere e un facchino.
Pertanto, il piano era stato disatteso,
impedendo di fronteggiare tempestivamente ed
adeguatamente all'incendio.
Pertanto il titolare di una struttura
ricettiva è tenuto a garantire sempre
l'incolumità fisica degli utenti mediante
una idonea organizzazione dell'attività di
vigilanza rispettando così oltre alle regole
legali anche quelle imposte dalla comune
prudenza
(commento tratto e link a www.acca.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non vi sono controinteressati cui notificare
l’impugnativa di una ordinanza di
demolizione.
Nell’impugnazione di un’ordinanza di
demolizione non sono configurabili
controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un
contraddittorio, anche nel caso in cui sia
palese la posizione di vantaggio che
scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione
della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare
all'Amministrazione l'illecito edilizio da
altri commesso. Ciò perché la qualità di
controinteressato, cui il ricorso deve
essere notificato, va riconosciuta non già a
chi abbia un interesse, anche legittimo, a
mantenere in vita il provvedimento impugnato
e tanto meno a chi ne subisca conseguenze
soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi
dal provvedimento stesso riceva un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo
ampliamento della propria sfera giuridica.
Ritiene il Collegio di dover innanzitutto
richiamare, sotto un profilo generale, il
condivisibile avviso giurisprudenziale alla
stregua del quale nell’impugnazione di
un’ordinanza di demolizione non sono
configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario
instaurare un contraddittorio, anche nel
caso in cui sia palese la posizione di
vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a
segnalare all'Amministrazione l'illecito
edilizio da altri commesso.
Ciò perché la qualità di controinteressato,
cui il ricorso deve essere notificato, va
riconosciuta non già a chi abbia un
interesse, anche legittimo, a mantenere in
vita il provvedimento impugnato e tanto meno
a chi ne subisca conseguenze soltanto
indirette o riflesse, ma solo a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio
diretto e immediato, ossia un positivo
ampliamento della propria sfera giuridica.
Va da sé, inoltre, che il riconoscimento di
una posizione di controinteressato non opera
in relazione ad esigenze processuali, ma
deve essere condotto sulla scorta del
cosiddetto elemento "sostanziale",
cioè sulla base dell’individuazione della
titolarità di un interesse analogo e
contrario alla posizione legittimante del
ricorrente, ovvero del cosiddetto elemento "formale",
cioè sulla base della indicazione nominativa
nel provvedimento di colui che ne abbia un
interesse qualificato alla conservazione.
Traslando tali principi in materia edilizia
-ed in particolare con riguardo a
provvedimenti di natura repressiva di
illecito edilizio, come quelli di cui si
discute- consegue che i proprietari
confinanti dell’area nella quale è stato
realizzato un manufatto abusivo del quale è
stata ordinata la demolizione dall’Autorità
competente, quali sono i sigg. Cozzi e
Ferrara, non rivestono la posizione
giuridica di controinteressati nel giudizio
instaurato per l'annullamento del
provvedimento demolitorio (cfr. tra le
ultime, TAR Molise 12.03.2009, n. 79 e la
giurisprudenza ivi richiamata) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 06.06.2011
n. 3380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: L’affidamento
del servizio di tesoreria non impone la
prestazione della cauzione definitiva.
In questa pronuncia decisa dalla quinta
sezione del Consiglio di Stato il ricorrente
contesta la sentenza di primo grado nella
parte in cui ritiene che l’affidamento del
servizio di tesoreria abbia natura di
concessione e non di appalto e, di
conseguenza, afferma l’insussistenza
dell’obbligo di prestare la cauzione
definitiva di cui all’art. 75 del D.Lgs
163/2006.
I giudici d’appello, rigettando
questa tesi, spiegano che il 2° comma
dell’art. 30 del D.Lgs n. 163/2006, nel
definire la concessione di servizi, precisa
che la stessa si caratterizza per il fatto
che “la controprestazione a favore del
concessionario consiste unicamente nel
diritto di gestire funzionalmente e di
sfruttare economicamente il servizio”, pur
potendo, essere previsto anche un prezzo
“qualora al concessionario venga imposto di
praticare nei confronti degli utenti prezzi
inferiori a quelli corrispondenti alla somma
del costo del servizio e dell’ordinario
utile di impresa, ovvero qualora sia
necessario assicurare al concessionario il
perseguimento dell’equilibrio economico–finanziario degli investimenti e della
connessa gestione in relazione alla qualità
del servizio da prestare”.
Non diversamente,
le direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del
2004 definiscono la concessione di servizi
come “un contratto che presenta le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico di
servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi
consiste unicamente nel diritto di gestire i
servizi o in tale diritto accompagnato da un
prezzo”. Alla stregua di quanto sopra, poi,
ricordano i giudici di Palazzo Spada, la
giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto
modo di precisare che le concessioni, nel
quadro del diritto comunitario, si
distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il
fatto che ci si trovi di fronte ad una
vicenda di trasferimento di pubblici poteri
o di ampliamento della sfera giuridica del
privato, (che sarebbe un fenomeno tipico
della concessione in una prospettiva
coltivata da tradizionali orientamenti
dottrinali), né per la loro natura
autoritativa o provvedi mentale rispetto
alla natura contrattuale dell’appalto, ma
per il fenomeno di traslazione dell’alea
inerente una certa attività in capo al
soggetto privato (cfr. Sez. VI 15.05.2002, n. 2634).
Quando l’operatore privato
si assume i rischi della gestione del
servizio, rifacendosi sostanzialmente
sull’utente mediante la riscossione di un
qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto,
allora si ha concessione: è la modalità
della remunerazione, quindi, il tratto
distintivo della concessione dall’appalto di
servizi. Così, si avrà concessione quando
l’operatore si assuma in concreto i rischi
economici della gestione del servizio,
rifacendosi essenzialmente sull’utenza,
mentre si avrà appalto quando l’onere del
servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull’amministrazione.
E tale
assunto, è stato più volte confermato dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia CE,
la quale ha ribadito che si è in presenza di
una concessione di servizi allorquando le
modalità di remunerazione pattuite
consistono nel diritto del prestatore di
sfruttare la propria prestazione ed
implicano che quest’ultimo assuma il rischio
legato alla gestione dei servizi in
questione (Corte Giustizia CE, Sez. III, 15.10.2009, C–196/08), mentre in caso di
assenza di trasferimento al prestatore del
rischio legato alla prestazione,
l’operazione rappresenta un appalto di
servizi (Corte Giustizia CE, Sez. III, 10.09.2009, C–206/08).
Premesso ciò,
non c’è dubbio la gara in commento, secondo
i giudici di Palazzo Spada, rientri tra
quelle in cui “la controprestazione a favore
del concessionario consiste unicamente nel
diritto di gestire funzionalmente e di
sfruttare economicamente il servizio”, e,
per ciò solo, tra le concessioni di servizi,
ai sensi dell’art. 30, 2° comma, del D.Lgs
163/2006: infatti, la normativa citata “non
significa che il concessionario non può
trarre alcuna utilità economicamente
apprezzabile dallo svolgimento del servizio
(se così fosse, ben difficilmente si
troverebbero concorrenti per le gare di
tesoreria) ma solo che la gara non deve
prevedere un prezzo che remuneri il
servizio, a carico della Stazione
Appaltante; in altre parole, la concessione
di servizi prevede il trasferimento in capo
al concessionario della responsabilità della
gestione, da intendersi come assunzione del
rischio, che dipende direttamente dai
proventi che il concessionario può trarre
dalla utilizzazione economica de l
servizio”.
In questo senso, del resto, si è
espressa anche la Corte di Cassazione, con
la decisione n. 8113/1909, ove viene precisato
che “come reiteratamente affermato da queste
Sezioni Unite (sentenze n. 13453/1991, n.
874/1999, n. 9648/2001) il contratto di
tesoreria … va qualificato in termini di
rapporto concessorio, e non di appalto di
servizi … avendo ad oggetto la gestione del
servizio di tesoreria comunale implicante,
ai sensi del T.U. della Legge Comunale e
Provinciale, approvato con R.D. 03.03.1934,
n. 383, art. 325, il conferimento di
funzioni pubblicistiche quali il maneggio
del denaro pubblico e il controllo sulla
regolarità dei mandati e prospetti di
pagamento, nonché sul rispetto dei limiti
degli stanziamenti in bilancio”.
L’affidamento del servizio di tesoreria,
pertanto, concludono gli stessi giudici, si
sostanzia in una concessione di servizi che,
in linea di principio, resta assoggettato
alla disciplina del Codice degli Appalti
solo nei limiti specificati dall’art. 30
che, per quanto qui interessa, non pone di
certo l’obbligo di prestare la cauzione
definitiva di cui al successivo art. 75
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it -
Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.06.2011 n. 3377 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Appalto o concessione di servizi,
una questione di rischi.
Il Consiglio di Stato
torna nuovamente a chiarire quale sia la
differenza esistente tra la concessione e
l'appalto di servizi; i giudici
amministrativi nell'analizzare una questione
prospettata a seguito di un ricorso
delineano il quadro di differenziazione che
si ritiene utile portare, con il presente
commento, all'attenzione dei soggetti che si
trovano ad applicare con quotidianità, le
disposizioni contenute nel D.Lgs. 163/2006 e
s.m.i. (cd. Codice degli Appalti pubblici).
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la
sentenza 06.06.2011 n. 3377,
torna nuovamente a chiarire, in materia di
appalti pubblici, quale sia la differenza
esistente tra la concessione e l’appalto di
servizi; i giudici amministrativi
nell’analizzare una questione prospettata a
seguito di un ricorso delineano il quadro di
differenziazione che si ritiene utile
portare, con il presente commento,
all’attenzione dei soggetti che si trovano
ad applicare con quotidianità, le
disposizioni contenute nel D.Lgs. 163/2006 e
s.m.i. (cd. Codice degli Appalti pubblici).
La questione.
La vicenda trae origine a seguito del fatto
che un ente locale autorizzava con delibera
l’avvio della procedura di gara per
l’affidamento del servizio di tesoreria, per
il periodo 01.01.2010-31.12.2014; alla gara
partecipavano due importanti banche.
A seguito della valutazione dell’offerta
presentata, seguendo il criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
l’ente locale affidava il servizio di
tesoreria in via provvisoria ad una delle
due banche.
La banca che non si era aggiudicata il
servizio ricorreva al TAR che però
respingeva il ricorso.
Avverso la decisione dei giudici
amministrativi di primo grado la banca
ricorreva al Consiglio di Stato.
L’analisi dei Giudici del
Consiglio di Stato.
Per i giudici di Palazzo Spada l’appello
della banca è da ritenersi infondato. Tra i
diversi gravami proposti dalla banca
ricorrente , quello che riveste particolare
rilevanza è la differenziazione rilevata in
merito all’istituto della concessione e
dell’appalto di servizi negli appalti
pubblici. In particolare la banca ricorrente
censura la sentenza del TAR impugnata,
laddove ha ritenuto che l’affidamento del
servizio di tesoreria abbia natura di
concessione e non di appalto, ed ha di
conseguenza affermato l’insussistenza
dell’obbligo di prestare la cauzione
definitiva di cui all’art. 75 del D. Lgs
163/2006.
Tale affermazione per il Consiglio di Stato
non può essere condivisa.
Il comma 2°, dell’art. 30 del D. Lgs n.
163/2006 e s.m.i., nel definire la
concessione di servizi, precisa che la
stessa si caratterizza per il fatto che “la
controprestazione a favore del
concessionario consiste unicamente nel
diritto di gestire funzionalmente e di
sfruttare economicamente il servizio”, pur
potendo, essere previsto anche un prezzo
“qualora al concessionario venga imposto di
praticare nei confronti degli utenti prezzi
inferiori a quelli corrispondenti alla somma
del costo del servizio e dell’ordinario
utile di impresa, ovvero qualora sia
necessario assicurare al concessionario il
perseguimento dell’equilibrio
economico–finanziario degli investimenti e
della connessa gestione in relazione alla
qualità del servizio da prestare”.
Le direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del
2004 definiscono la concessione di servizi
come “un contratto che presenta le stesse
caratteristiche di un appalto pubblico di
servizi, ad eccezione del fatto che il
corrispettivo della fornitura di servizi
consiste unicamente nel diritto di gestire i
servizi o in tale diritto accompagnato da un
prezzo”.
Anche l’orientamento giurisprudenziale del
Consiglio di Stato ha avuto modo di
precisare che le concessioni, nel quadro del
diritto comunitario, si distinguono dagli
appalti non per il titolo provvedimentale
dell’attività, né per il fatto che ci si
trovi di fronte ad una vicenda di
trasferimento di pubblici poteri o di
ampliamento della sfera giuridica del
privato, né per la loro natura autoritativa
o provvedimentale rispetto alla natura
contrattuale dell’appalto, ma per il
fenomeno di traslazione dell’alea inerente
una certa attività in capo al soggetto
privato.
Quando l’operatore privato si assume i
rischi della gestione del servizio,
rifacendosi sostanzialmente sull’utente
mediante la riscossione di un qualsiasi tipo
di canone, tariffa o diritto, allora si ha
concessione: è la modalità della
remunerazione, quindi, il tratto distintivo
della concessione dall’appalto di servizi.
Per i giudici di Palazzo Spada si ha
concessione quando l’operatore si assume in
concreto i rischi economici della gestione
del servizio, rifacendosi essenzialmente
sull’utenza, mentre si ha appalto quando
l’onere del servizio stesso venga a gravare
sostanzialmente sull’amministrazione.
Nel caso in esame è evidente che la gara
oggetto del ricorso rientra tra quelle in
cui “la controprestazione a favore del
concessionario consiste unicamente nel
diritto di gestire funzionalmente e di
sfruttare economicamente il servizio”, e
per ciò solo, tra le concessioni di servizi,
ai sensi dell’art. 30, comma 2°, del D.Lgs
163/2006.
Conclusioni.
Per i giudici del Consiglio di Stato
l’affidamento del servizio di tesoreria si
sostanzia in una concessione di servizi che,
in linea di principio, resta assoggettato
alla disciplina del Codice degli Appalti
solo nei limiti specificati dall’art. 30
che, per quanto qui interessa, non pone di
certo l’obbligo di prestare la cauzione
definitiva di cui al successivo art. 75 del
citato D.Lgs. 163/2006 (commento tratto da
www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Autenticazione della firma digitale nella
gara di appalto.
Come ha correttamente rilevato il Tar, dalla
legge di gara, e segnatamente dal punto 8
del disciplinare, che elenca le cause di
esclusione, si evince che è causa di
esclusione l’ipotesi di “cauzione
provvisoria non presentata con le modalità
di cui all’articolo 2 punto 5 del presente
disciplinare, ed in particolare non
autenticata con firma digitale da Notaio o
da Pubblico Ufficiale”.
Ora, se è vero, in astratto, che nel caso di
specie la cauzione recava firma digitale
autenticata, è anche vero che, in concreto,
l’autenticazione della firma digitale non è
pervenuta alla stazione appaltante entro il
termine perentorio per la presentazione
della domanda di partecipazione e
dell’offerta.
Ai fini della gara, rileva pertanto che agli
atti di gara vi era una firma digitale non
autenticata, che integra la citata causa di
esclusione, restando irrilevante il fatto
storico che la firma era stata autenticata e
l’autentica non trasmessa
(Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza
06.06.2011 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Non
è consentita la produzione, dopo la scadenza
dei termini fissati dal bando, di documenti
essenziali, richiesti a pena di esclusione:
la stazione appaltante non può formulare una
richiesta di integrazione documentale,
qualora si tratti di documenti univocamente
previsti dal bando o dalla lettera d’invito
a pena di esclusione.
Ai sensi
dell’art. 46, codice appalti, la stazione
appaltante invita i concorrenti a completare
o a fornire chiarimenti in ordine al
contenuto di certificati, documenti e
dichiarazioni.
La norma contempla il c.d. potere di
soccorso della stazione appaltante, che si
articola in una duplice possibilità che può
essere accordata ai concorrenti:
- il completamento della documentazione;
- il chiarimento in ordine al contenuto
della documentazione già presentata.
La norma è considerata di stretta
interpretazione quanto all’ambito
dell’integrazione documentale, in quanto,
pur essendo essa ispirata al principio della
massima partecipazione, tale principio va
coordinato con quello di par condicio tra i
concorrenti e con le esigenze di celerità
dell’azione amministrativa.
Pertanto non è consentita la produzione,
dopo la scadenza dei termini fissati dal
bando, di documenti essenziali, richiesti a
pena di esclusione: la stazione appaltante
non può formulare una richiesta di
integrazione documentale, qualora si tratti
di documenti univocamente previsti dal bando
o dalla lettera d’invito a pena di
esclusione [Cons. St., sez. III, 19.04.2011
n. 2387; Cons. St., sez. V, 02.08.2010 n.
5084; Cons. St., sez. V, 16.07.2007 n. 4027;
Cons. St., sez. IV, 10.05.2007 n. 2254;
Cons. St., sez. V, 30.05.2006 n. 3280] (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza
06.06.2011 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Avuto
riguardo allo scopo dell’autenticazione
della firma, ad avviso del Collegio è
proporzionato richiedere, in una gara di
appalto, la piena prova della provenienza
della cauzione da parte del sottoscrittore,
e dunque l’autenticazione della firma,
perché la cauzione è azionabile a prima
richiesta da parte della stazione
appaltante, sicché questa ha interesse a non
vedersi opporre il disconoscimento della
sottoscrizione.
La previsione del requisito dell’autentica
della sottoscrizione della cauzione, da
parte della lex specialis di gara, non
viola, pertanto, il principio di
proporzionalità recato dall’art. 74, co. 5,
codice appalti.
Questo Consesso si è già pronunciato nei
medesimi termini in analoga vicenda,
relativa a prescrizione del bando di gara di
pubblico appalto che prevedeva l’autentica
notarile della sottoscrizione della
fideiussione, statuendo che costituisce
interesse pubblico l’esatta individuazione
del soggetto che presta la garanzia a
corredo dell’offerta; sul piano dei rapporti
di diritto privato, solo l’autenticazione
della sottoscrizione della fideiussione
prestata garantisce pienamente
l’amministrazione perché determina la piena
prova in ordine alla provenienza da chi l’ha
sottoscritta, ai sensi degli artt. 2702 e
2703 c.c., impedendo il successivo
disconoscimento della stessa.
La clausola del disciplinare che richieda
l’autentica della sottoscrizione del
soggetto rilasciante la polizza fideiussoria
non può in alcun modo ritenersi un mero
aggravamento procedimentale ma deve
ritenersi legittima perché finalizzata alla
tutela dell'interesse pubblico alla certezza
sulla provenienza della garanzia.
Con il terzo
motivo di appello si ribadisce la censura di
illegittimità del bando e del capitolato,
che prevedono un requisito, l’autentica di
firma, non previsto dall’art. 75 codice
appalti, così aggravando il procedimento in
modo irragionevole. L’autentica sarebbe
irragionevolmente prescritta solo per la
polizza assicurativa e non anche per la
fideiussione rilasciata da banca o altro
intermediario finanziario autorizzato.
Il mezzo è infondato.
Giova anzitutto rilevare che dalla lettura
del bando e del capitolato si evince con
chiarezza che l’autenticazione della firma
digitale è richiesto per qualsivoglia tipo
di cauzione provvisoria, sia essa
fideiussione bancaria o polizza
assicurativa.
Non vi è pertanto la lamentata irragionevole
disparità di trattamento tra i diversi tipi
di cauzione.
Quanto poi al dedotto contrasto della legge
di gara con l’art. 75 codice appalti, lo
stesso, ad avviso del Collegio, non
sussiste.
E’ vero che l’art. 75, codice appalti, non
prescrive, formalmente, l’autenticazione
della sottoscrizione apposta alla cauzione.
Ma, a ben vedere, l’art. 75 nemmeno si
occupa della sottoscrizione della cauzione.
E’ evidente che la disciplina trova
necessario completamento nella disciplina
apprestata dall’ordinamento in ordine alla
sottoscrizione di atti e dichiarazioni
diretti ad una pubblica amministrazione.
Ai sensi dell’art. 38, co. 2 e 3, d.P.R. n.
445/2000, nel testo vigente ratione
temporis: “2. Le istanze e le
dichiarazioni inviate per via telematica
sono valide:
a) se sottoscritte mediante la firma
digitale, basata su di un certificato
qualificato, rilasciato da un certificatore
accreditato, e generata mediante un
dispositivo per la creazione di una firma
sicura;
b) ovvero quando l'autore è identificato dal
sistema informatico con l'uso della carta
d'identità elettronica o della carta
nazionale dei servizi.
3. Le istanze e le dichiarazioni sostitutive
di atto di notorietà da produrre agli organi
della amministrazione pubblica o ai gestori
o esercenti di pubblici servizi sono
sottoscritte dall'interessato in presenza
del dipendente addetto ovvero sottoscritte e
presentate unitamente a copia fotostatica
non autenticata di un documento di identità
del sottoscrittore. La copia fotostatica del
documento è inserita nel fascicolo. Le
istanze e la copia fotostatica del documento
di identità possono essere inviate per via
telematica; nei procedimenti di
aggiudicazione di contratti pubblici, detta
facoltà è consentita nei limiti stabiliti
dal regolamento di cui all'articolo 15,
comma 2 della legge 15.03.1997, n. 59 (oggi
art. 25, d.lgs. n. 82/2005)”.
Mentre il co. 2 si occupa di istanze e
dichiarazioni inviate per via telematica, il
co. 2 si occupa di istanze e dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà da produrre
alla p.a. nelle gare di appalto.
Nel caso di specie, la dichiarazione del
garante, non è né una istanza, né una
dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Va ascritta al genus delle “dichiarazioni”
che sono valide, se inviate per via
telematica, se sottoscritte mediante firma
digitale (art. 38, co. 2, d.P.R. n.
445/2000, nel testo vigente ratione
temporis, nonché, attualmente, art. 65,
co. 1, lett. a), d.lgs. n. 82/2005).
Non si richiede, invece, anche che la firma
digitale sia autenticata.
L’autenticazione della firma digitale era
invece prescritta per le istanze dirette
alla p.a. per via telematica nei pubblici
appalti, e dunque per la domanda di
partecipazione e per l’offerta, come si
desume dall’art. 38, co. 3, d.P.R. n.
445/2000, che rinvia al regolamento di cui
all’art. 15, co. 2, l. n. 59/1997,
regolamento oggi sostituito, in parte qua,
dall’art. 25, d.lgs. n. 82/2005.
Tuttavia, rispetto all’art. 38, d.P.R. n.
445/2000, il codice appalti si pone come
legge successiva e specifica, e tale codice:
a) quanto alle offerte trasmesse per via
telematica, richiede soltanto la firma
digitale, non anche la firma digitale
autenticata (art. 77, co. 6, lett. b),
codice appalti);
b) quanto alle cauzioni, non si occupa di
sottoscrizione e sua autenticazione.
D’altro canto, il d.lgs. n. 82/2005,
nell’occuparsi di firma elettronica, firma
digitale, firma elettronica autenticata, ne
indica le caratteristiche tecniche, ma non
anche i presupposti di utilizzo.
Si deve allora pervenire ad una prima
conclusione, ed è che in base alle norme
primarie, per le istanze e dichiarazioni
rese nelle gare di appalto, è sufficiente la
firma digitale, non occorrendo anche la
firma digitale autenticata.
Si pone allora l’ulteriore questione se la
prescrizione imposta autonomamente dal
bando, rispetto alla legge, della firma
digitale autenticata, sia o meno legittima
alla luce del principio di proporzionalità.
Sulla scorta della normativa applicabile al
caso di specie ratione temporis, svoltosi
prima dell’entrata in vigore del d.l. n.
70/2011 che ha introdotto il principio di
tassatività normativa delle cause di
esclusione dalle gare di appalto (art. 4, co.
1, lett. n), d.l. n. 70/2011 e art. 46, co.
1-bis, codice appalti, come novellato
dall’art. 4, co. 2, d.l. n. 70/2011), si
deve ritenere che le cause di esclusione
dalle gare di appalto non sono collegabili
solo all’inosservanza di prescrizioni
direttamente previste dalla legge o dal
regolamento.
Infatti l’art. 74, co. 5, codice appalti,
dispone che le stazioni appaltanti, oltre
agli elementi essenziali di cui all’art. 74,
co. 2, richiedono anche gli altri elementi e
documenti necessari o utili, nel rispetto
del principio di proporzionalità in
relazione all’oggetto del contratto e alle
finalità dell’offerta.
Si tratta allora di stabilire se la
prescrizione dell’autenticazione sia o meno
proporzionata.
Lo scopo dell’autenticazione della firma
digitale è di conferire alla sottoscrizione
digitale della scrittura privata il valore
giuridico di sottoscrizione legalmente
considerata come riconosciuta, valore
giuridico che per legge è attribuito alla
sottoscrizione autenticata (artt. 2702 e
2703 c.c.).
Tanto, al fine della piena prova, fino a
querela di falso, della provenienza delle
dichiarazioni da chi ha sottoscritto la
scrittura privata, piena prova che si ha se
colui contro cui è prodotta la scrittura
privata ne riconosce la sottoscrizione o se
la sottoscrizione è legalmente considerata
come riconosciuta (art. 2702 c.c.).
E, invero, ai sensi dell’art. 25, co. 1,
d.lgs. n. 82/2005, si ha per riconosciuta,
ai sensi dell'articolo 2703 del codice
civile, la firma elettronica o qualsiasi
altro tipo di firma avanzata autenticata dal
notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò
autorizzato.
L’autenticazione della sottoscrizione
attribuisce certezza alla provenienza della
dichiarazione e ne impedisce il
disconoscimento da parte del suo autore.
Avuto riguardo allo scopo
dell’autenticazione della firma, ad avviso
del Collegio è proporzionato richiedere, in
una gara di appalto, la piena prova della
provenienza della cauzione da parte del
sottoscrittore, e dunque l’autenticazione
della firma, perché la cauzione è azionabile
a prima richiesta da parte della stazione
appaltante, sicché questa ha interesse a non
vedersi opporre il disconoscimento della
sottoscrizione.
La previsione del requisito dell’autentica
della sottoscrizione della cauzione, da
parte della lex specialis di gara,
non viola, pertanto, il principio di
proporzionalità recato dall’art. 74, co. 5,
codice appalti.
Questo Consesso si è già pronunciato nei
medesimi termini in analoga vicenda,
relativa a prescrizione del bando di gara di
pubblico appalto che prevedeva l’autentica
notarile della sottoscrizione della
fideiussione, statuendo che costituisce
interesse pubblico l’esatta individuazione
del soggetto che presta la garanzia a
corredo dell’offerta; sul piano dei rapporti
di diritto privato, solo l’autenticazione
della sottoscrizione della fideiussione
prestata garantisce pienamente
l’amministrazione perché determina la piena
prova in ordine alla provenienza da chi l’ha
sottoscritta, ai sensi degli artt. 2702 e
2703 c.c., impedendo il successivo
disconoscimento della stessa [Cons. St.,
sez. III, 19.04.2011 n. 2387].
Sempre secondo l’appena citato precedente,
la clausola del disciplinare che richieda
l’autentica della sottoscrizione del
soggetto rilasciante la polizza fideiussoria
non può in alcun modo ritenersi un mero
aggravamento procedimentale ma deve
ritenersi legittima perché finalizzata alla
tutela dell'interesse pubblico alla certezza
sulla provenienza della garanzia (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza
06.06.2011 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La violazione degli obblighi di
pubblicazione e comunicazione relativi al
risultato della procedura di aggiudicazione,
non determina l'illegittimità delle
pregresse fasi procedimentali di scelta del
contraente.
La violazione degli obblighi di
pubblicazione e comunicazione dell'avviso
riguardante il risultato della procedura di
aggiudicazione, secondo quanto stabilito
dall'art. 65 del d.lgs. n. 163/2006, non
determina l'illegittimità delle pregresse
fasi procedimentali di scelta del contraente
e non coinvolge, quindi, le situazioni
soggettive di un'impresa ricorrente agli
effetti di un diverso esito della gara, ciò
in base al principio che eventuali vizi
della fase di comunicazione e di
integrazione dell'efficacia del
provvedimento non esplicano effetto
invalidante del contenuto del provvedimento
medesimo.
Ciò in quanto, in materia di appalti per la
fornitura del servizio di contenuti per
televideo, come nel caso di specie, resta
esclusa l'applicazione delle norme dettate
dal codice degli appalti, salvo il rispetto,
secondo quanto stabilito dall'art. 27 del
d.lgs. n. 163/2006, dei principi di
economicità, efficacia, imparzialità, parità
di trattamento, proporzionalità, nonché
dell' obbligo di invito ad almeno cinque
concorrenti.
Pertanto, la procedura di affidamento non
deve essere pedissequamente conformata alle
fasi procedimentali quali stabilite e
cadenzate dall'art. 11 del medesimo decreto
e, segnatamente, alla distinzione sul piano
formale ivi prevista fra le fasi di
aggiudicazione provvisoria e di
aggiudicazione definitiva (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n. 3357 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Opere
abusive, demolizione senza motivazioni
solenni.
Presupposto per
l'emanazione dell'ordinanza di demolizione
di opere edilizie abusive è soltanto la
constatata esecuzione di queste ultime in
assenza o in totale difformità del titolo
concessorio, con la conseguenza che, essendo
l'ordinanza atto dovuto, essa è
sufficientemente motivata con l'accertamento
dell'abuso, essendo ''in re ipsa''
l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In caso di abuso edilizio “l'ordinanza di
demolizione non richiede, in linea generale,
una specifica motivazione; l'abusività
costituisce di per sé motivazione
sufficiente per l'adozione della misura
repressiva in argomento. Ne consegue che, in
presenza di un'opera abusiva, l'autorità
amministrativa è tenuta ad intervenire
affinché sia ripristinato lo stato dei
luoghi, non sussistendo alcuna
discrezionalità dell'amministrazione in
relazione al provvedere” (TAR Lazio
Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021).
Infatti “l'ordinanza di demolizione di
opere edilizie abusive è atto dovuto e
vincolato e non necessita di motivazione
ulteriore rispetto all'indicazione dei
presupposti di fatto e all'individuazione e
qualificazione degli abusi edilizi” (TAR
Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824)
ed, ancora, “presupposto per l'emanazione
dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive è soltanto la constatata
esecuzione di queste ultime in assenza o in
totale difformità del titolo concessorio,
con la conseguenza che, essendo l'ordinanza
atto dovuto, essa è sufficientemente
motivata con l'accertamento dell'abuso,
essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico
alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale
obbligo di motivazione al riguardo solo se
l'ordinanza stessa intervenga a distanza di
tempo dall'ultimazione dell'opera avendo
l'inerzia dell'amministrazione creato un
qualche affidamento nel privato”
(Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n.
3270).
Quanto all’avvenuta presentazione ad opera
dell’istante di un’istanza di accertamento
di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R.
380/2001 (in data 30.12.2009), essa non
dispiega efficacia alcuna in punto di
legittimità dell’atto impugnato, emanato
anteriormente.
Peraltro, la difesa di parte istante non ha
dedotto di aver provveduto alla tempestiva
impugnazione del provvedimento di diniego,
espresso o tacito, della richiesta
sanatoria, né ha allegato l’avvenuto
rilascio del titolo in sanatoria che,
all’opposto, avrebbe determinato
l’improcedibilità del presente gravame per
sopravvenuta carenza di interesse (commento
tratto da www.ipsoa.it - TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 03.06.2011 n.
2961 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Vietato diffondere il
''cellulare'' altrui.
Commette il reato di cui all'articolo 167
del T.U. della privacy chi diffonda
indebitamente il numero di utenza cellulare
altrui.
Con un'interessante decisione, la Corte di
Cassazione adotta un'interpretazione
estensiva della disciplina di tutela della
privacy, giustamente estesa, dal punto di
vista sanzionatorio, a tutti coloro i quali
apprendano e indebitamente diffondano dati
sensibili altrui, violandone così le
esigenze di riservatezza.
La Corte ha infatti affermato che “chiunque”,
quindi anche un soggetto privato in sé
considerato, e non solo chi svolga un
compito “istituzionale” di
depositario della tenuta dei “dati
sensibili” e delle loro modalità di
utilizzazione all’esterno, può essere
chiamato a rispondere del reato di cui
all’articolo 167 del decreto legislativo
30.06.2003 n. 196, se ed in quanto dia
indebita diffusione di un “dato sensibile”
appartenente ad altro soggetto.
Infatti, si è osservato, il divieto di
diffusione di dati sensibili altrui riguarda
tutti indistintamente i soggetti entrati in
possesso dei dati, i quali sono tenuti a
rispettare sacralmente la privacy altrui, al
fine di assicurare un corretto trattamento
di quei dati senza arbitrii o pericolose
intrusioni.
Sul punto, il giudice di legittimità ha così
precisato che il concetto di “trattamento”
preso in considerazione dalla norma
incriminatrice, alla luce di quanto
dettagliato nell’articolo 4 dello stesso
decreto legislativo n. 196 del 2003, va
inteso in senso ampio, estendendosi non solo
alla raccolta dei dati sensibili, ma anche e
soprattutto alla loro diffusione indebita
senza il consenso dell’interessato, essendo
in proposito irrilevante che tali dati siano
stati acquisiti casualmente o no.
Proprio da queste premesse, nella specie, il
reato di cui all’articolo 167 citato è stato
ravvisato nei confronti di un soggetto che,
avendo appreso il numero dell’utenza
cellulare personale, quindi un “dato
sensibile”, di altro soggetto con cui
stava dialogando on-line, l’aveva poi
indebitamente diffuso attraverso una chat
line pubblica, compromettendo le
esigenze di riservatezza del dato che la
norma incriminatrice intende salvaguardare.
La Corte, a supporto della propria decisone,
ha anche apprezzato che la condotta
incriminata rientrava nel paradigma del
reato di cui all’articolo 167, in quanto
produttiva di danno, elemento infatti preso
in considerazione dal legislatore che lo
ricollega all’elemento soggettivo del reato
inteso quale dolo specifico (“al fine di
recare ad altri un danno”): ciò che
doveva ravvisarsi nella diffusione in ambito
generalizzato di un numero di un’utenza
cellulare personale, per sua intrinseca
natura riservato, giacché solitamente negli
elenchi telefonici pubblici diffusi dalle
società telefoniche figura solo il numero
telefonico pubblicabile e mai quello di
un’utenza cellulare a meno che il suo
titolare non vi abbia consentito.
In termini, v. anche Cassazione, Sezione III,
23.10.2008, M., che ha ritenuto di far
rientrare tra i dati personali la cui
indebita diffusione è sanzionata
dall’articolo 167 del decreto legislativo n.
196 del 2003 anche il numero
dell’apparecchio cellulare: cosicché, nella
fattispecie, l’indebita diffusione è stata
ravvisata a carico di un soggetto che aveva
diffuso l’utenza cellulare della persona
offesa aprendo una casella di posta
elettronica sia pure con indirizzo di
fantasia (commento tratto da www.ipsoa.it -
Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 01.06.2011 n.
21839). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO DELL’ENERGIA -
Autorizzazione ex art. 12 d.lgs. n. 387/2003
- Conferenza di servizi - Mancata
partecipazione della Soprintendenza -
Provvedimento negativo in ordine alla
compatibilità paesaggistica assunto al di
fuori della conferenza - Illegittimità -
Artt. 14-ter, c. 3-bis e 14-quater L. n.
241/1990.
La mancata partecipazione della
Soprintendenza per i Beni Architettonici e
Paesaggistici alla conferenza di servizi
convocata per l’esame dell’istanza di
rilascio dell’autorizzazione unica ex art.
12 d.lgs. n. 387/2003 è circostanza di per
sé sufficiente ad inficiare la legittimità
del provvedimento negativo reso -al di fuori
della conferenza- dall’organo statale
periferico in ordine alla compatibilità
paesaggistica dell’opera proposta (cfr. TAR
Molise nn. 98/2011 e 109/2011, TAR Sicilia
Palermo, I, 02.02.2010, n. 1297 e
20.01.2010, n. 578, nonché C.G.A.R.S.
ordinanza 14.10.2009, n. 1032 e 11.04.2008,
n. 295).
Tale considerazione è avvalorata dal
contenuto degli articoli 14-ter, comma
3-bis, e 14-quater, primo comma, della legge
n. 241 del 1990 nel testo risultante dalle
modifiche introdotte con il Decreto Legge n.
78 del 31.05.2010 (TAR Molise, Sez. I,
sentenza 01.06.2011 n. 314 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Realizzazione di una veranda con
conseguente aumento di volumetria -
Ristrutturazione edilizia.
La realizzazione di una veranda cui consegua
un aumento di volumetria deve essere
qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R.
n. 380 del 2001, come ristrutturazione
edilizia in quanto essa comporta, in
conseguenza dell'aumento di volumetria
correlata, la realizzazione di un organismo
diverso dal precedente per struttura e
destinazione (TAR Lazio Roma, sez. I,
01.09.2010, n. 32098) (TAR Molise, Sez. I,
sentenza 01.06.2011 n. 310 - link
a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Ordine di rimozione -
Proprietario del fondo - Responsabilità
oggettiva - Esclusione - Dimostrazione
dell’imputabilità soggettiva della condotta
- Istruttoria - Art. 192 d.lgs. n. 152/2006.
L’ordine di rimozione dei rifiuti presenti
sul fondo può essere rivolto al proprietario
(o al titolare di diritti reali o personali
di godimento) solo quando ne sia dimostrata
almeno la corresponsabilità con gli autori
dell’illecito, per avere cioè posto in
essere un comportamento, omissivo o
commissivo, a titolo doloso o colposo,
dovendosi escludere che la norma configuri
un’ipotesi legale di responsabilità
oggettiva, con conseguente illegittimità
degli ordini di smaltimento dei rifiuti
indiscriminatamente rivolti al proprietario
di un fondo in ragione della sua mera
qualità ma in mancanza di adeguata
dimostrazione da parte dell’amministrazione
procedente, sulla base di un’istruttoria
completa e di un’esauriente motivazione,
dell’imputabilità soggettiva della condotta
(Cons. Stato, V, 25.01.2005, n. 136).
Tale orientamento è stato confermato anche
con riferimento al disposto di cui all’art.
192 del d. lgs. 152/2006 (cfr. Cons. Stato,
V, 25.08.2008, n. 4061 e Cons. Stato, V,
19.03.2009, n. 1612).
RIFIUTI - Ordine di
rimozione - Preventiva comunicazione -
Necessità - Art. 192 d.lgs. n. 152/2006.
La cogenza del principio di necessaria
preventiva comunicazione di avvio del
procedimento è ribadita dal disposto di cui
all’art. 192 del d. lgs. 152/2006, che
condiziona la perseguibilità del
proprietario e dei titolari di diritti reali
o personali di godimento sull’area, alla
verifica della imputabilità della condotta a
titolo di “dolo o colpa in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio
con i soggetti interessati, dai soggetti
preposti al controllo” (Cons. Stato,
Sez. V, n. 4061/2008) (TAR Molise, Sez. I,
sentenza 01.06.2011 n. 302 - link
a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La condotta biasimevole ma
isolata del datore non configura il mobbing.
Il mobbing si realizza
quando è riconoscibile una azione aggressiva
cosciente e volontaria, protratta nel tempo,
finalizzata a mettere uno o più lavoratori
in una condizione di forte disagio col fine
dell’espulsione dal contesto lavorativo o
della sottomissione al potere direttivo.
Occorre pertanto che la condotta del datore
di lavoro si concretizzi in sistematici e
reiterati comportamenti ostili da cui può
derivare l’effetto lesivo dell’equilibrio
psico-fisico del lavoratore.
Con la
sentenza 31.05.2011 n. 12048
Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha escluso
che possano essere ricondotti ad una azione
di mobbing alcuni episodi, comunque
marginali ed isolati, riconducibili ad un
comportamento scorretto del datore di lavoro
ma non connotati da un carattere
persecutorio nei confronti del dipendente.
Questi i fatti.
La lavoratrice denuncia un comportamento del
datore di lavoro lesivo della sua dignità e
decoro personale (lancio dello stipendio sul
tavolo, consegna della retribuzione sotto
forma di monetine) sostenendo che questi
fatti rientrano nella fattispecie di mobbing
pur in difetto di un disegno persecutorio
finalizzato a espellere il dipendente e
chiede, quindi la condanna del datore di
lavoro al risarcimento del danno biologico,
del danno alla vita di relazione e del danno
morale.
La richiesta è stata respinta sia dal
Tribunale -che ha ritenuto non fosse emersa
la prova del comportamento persecutorio- sia
dalla Corte di Appello che ha confermato la
sentenza di primo grado. Avverso tali
decisioni la lavoratrice ha presentato
ricorso in Cassazione lamentando una omessa
valutazione degli episodi posti a fondamento
della domanda e la falsa applicazione
dell’articolo 2087 del codice civile.
In particolare, la ricorrente ha posto il
quesito di diritto teso a conoscere se possa
riconoscersi la violazione della personalità
morale del lavoratore in conseguenza di uno
o più atti lesivi della dignità e del decoro
professionale del lavoratore stesso, anche
in mancanza di un disegno persecutorio
finalizzato ad espellere il dipendente.
La decisione della Suprema
corte.
La Corte di cassazione, con la sentenza n.
12048/2011 in esame, ritiene il ricorso
infondato. Ribadisce la Corte che per
mobbing si intende “una condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico,
sistematica e protratta nel tempo, tenuta
nei confronti del lavoratore nell’ambiente
di lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono
per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica, da cui può
conseguire la mortificazione morale e
l’emarginazione del dipendente, con effetto
lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e
del complesso della sua personalità”.
Già con la sentenza n. 3785/2009 la
Cassazione ha sancito che ai fini della
configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono da ritenere rilevanti
i seguenti elementi:
a) la molteplicità dei comportamenti a
carattere persecutorio, illeciti o anche
liciti se considerati singolarmente, che
siano stati posti in essere in modo
miratamente sistematico e prolungato contro
il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del
datore di lavoro o del superiore gerarchico
e il pregiudizio all'integrità psico-fisica
del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio.
Non c'è una responsabilità
oggettiva del datore.
Con la stessa sentenza, la Suprema Corte ha
altresì affermato che l’articolo 2087 del
codice civile non configura una ipotesi di
responsabilità oggettiva a carico del datore
di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo
responsabile ogni volta che il lavoratore
abbia subito un danno nell'esecuzione della
prestazione lavorativa, occorrendo invece
che l'evento sia pur sempre riferibile a sua
colpa, per violazione di obblighi di
comportamento, concretamente individuati,
imposti da norme di legge e di regolamento o
contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica
e dall'esperienza, il cui accertamento
costituisce un giudizio di fatto riservato
al giudice di merito, non sindacabile in
sede di legittimità se logicamente e
congruamente motivato.
Con riferimento ai fatti in causa, pertanto,
ritiene la Corte di cassazione che la Corte
territoriale abbia correttamente considerato
l’insieme dei comportamenti datoriali,
dedotti dalla ricorrente come lesivi,
escludendone ogni intento persecutorio. La
valutazione di fatto di tali comportamenti è
devoluta al giudice di merito, in quanto
tale non censurabile quando sia
adeguatamente motivata e non appaia, nelle
sue risultante contradditoria.
Il giudice di legittimità non può
riesaminare il merito dell’intera vicenda
processuale, bensì egli deve controllare la
correttezza giuridica e la coerenza
logico-formale delle argomentazioni svolte
dal giudice di merito. Nel caso specifico,
detto giudice, valutate tutte le circostanza
rappresentate in giudizio ha ritenuto
potersi escludere che fosse stata raggiunta
la prova di un atteggiamento emarginante,
discriminatorio o persecutorio nei confronti
della lavoratrice, tale da raffigurare la
fattispecie del mobbing (commento tratto e
link a
www.diritto24.ilsole24ore.com). |
ESPROPRIAZIONE: Occupazione
appropriativa, la P.A. restituisca!
Nel caso in cui le condizioni di fatto
riscontrate deponessero nel senso di un
sopraggiunto difetto di interesse della PA a
perseguire l’obiettivo originariamente
considerato meritevole di soddisfacimento,
non vi sarebbe alcun motivo ostativo
all’accoglimento della domanda di
restituzione del terreno occupato a seguito
di dichiarazione di pubblica utilità,
domanda basata sulla richiesta di
applicazione delle disposizioni vigenti in
tema di risarcimento del danno.
Il Tribunale Superiore delle Acque, pur
senza entrare in specifici dettagli circa la
cronologia degli eventi, ha affermato, come
dato certo, che le opere in questione non
erano ancora terminate, né erano all’epoca
della decisione destinate al pubblico
interesse per cui furono predisposte e
progettate ma ha tuttavia ritenuto del tutto
irrilevante tale aspetto, e ciò in ragione
dell’avvenuta irreversibile trasformazione
di parte delle aree legittimamente occupate,
attestata sia dal consulente tecnico di
ufficio che dal consulente di parte.
Orbene non è dubbio che, alla luce dei
consolidati principi vigenti in materia,
l’affermata irreversibile (parziale)
trasformazione del fondo abbia determinato
l’acquisto della proprietà del bene nei
limiti della parte trasformata) da parte
della Pubblica Amministrazione che aveva
dato corso al processo espropriativo.
Peraltro da detta premessa non discende
automaticamente (come ha viceversa ritenuto
il Tribunale Superiore delle Acque) il
rigetto della domanda restitutoria a suo
tempo formulata dalla ricorrente.
Ed infatti la ricorrente, invocando la
restituzione del bene oggetto del
procedimento espropriativo, ha
sostanzialmente esercitato, nella sua
qualità di danneggiato, la richiesta di
reintegrazione in forma specifica del
pregiudizio subito, con ciò esercitando il
diritto riconosciuto dall’art. 2058, primo
comma, c.c.
E’ ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè
in cui, a seguito di dichiarazione di
pubblica utilità, sia intervenuta
l’irreversibile trasformazione del fonda)
l’eventuale domanda di risarcimento in forma
specifica formulata dal proprietario del
terreno interessato è ordinariamente
destinata ad un esito negativo, dovendo
trovare prioritario soddisfacimento
l’interesse posto a base della realizzazione
dell’opera pubblica.
Tuttavia nel caso in cui (come viene
rappresentato in quello oggetto di esame) le
condizioni di fatto riscontrate deponessero
nel senso di un sopraggiunto difetto di
interesse della Pubblica Amministrazione a
perseguire l’obiettivo originariamente
considerato meritevole di soddisfacimento,
non vi sarebbe alcun motivo ostativo
all’accoglimento della domanda di
restituzione del terreno occupato a seguito
di dichiarazione di pubblica utilità,
domanda come detto basata sulla richiesta di
applicazione delle disposizioni vigenti in
tema di risarcimento del danno.
D’altra parte tale conclusione (quella cioè
della necessità di una verifica in ordine al
collegamento effettivo fra i lavori di
trasformazione compiuti e la realizzazione
dell’opera programmata) risulta in sintonia
con principi già affermati dal legislatore
in tema di espropriazione e dalla
giurisprudenza di questa Corte.
In tema di retrocessione, infatti, è stato
previsto che, una volta trascorso il termine
per l’esecuzione dell’opera pubblica, gli
espropriati possono richiedere la decadenza
della dichiarazione di pubblica utilità e la
condanna dell’espropriante alla restituzione
dei beni precedentemente acquisiti (art. 63
l. 2359/1865 è stato analogamente previsto
identico diritto dell’espropriato nel caso
in cui il fondo non abbia dell’espropriato
nei caso in cui il fondo non abbia ricevuto
(sia pure in parte) la destinazione impressa
nel progetto originario (artt. 60 e 61 l.
2359/1865); anche con più recente normativa
è stato riconosciuto all’espropriato il
diritto di chiedere la decadenza dalla
dichiarazione di pubblica utilità e la
restituzione del fondo nel caso di mancata
realizzazione dell’opera nel termine di
dieci anni dall’esecuzione
dell’espropriazione (art. 46 D.P.R.
08.06.2001, n. 327).
E pure la giurisprudenza di questa Corte,
come detto, si è costantemente espressa nel
senso ora indicato, ribadendo inoltre, con
recente decisione in tema di elementi
ostativi alla restituzione dei terreni
oggetto di espropriazione al proprietario,
ove non risultante la loro conformazione
alla programmazione originaria dell’opera.
Conclusivamente, devono essere accolti il
quarto ed il quinto motivo dì ricorso con
assorbimento degli altri, la sentenza
impugnata va conseguentemente cassata, con
rinvio al Tribunale Superiore delle Acque
pubbliche diversa composizione, per una
nuova delibazione in ordine all’istanza di
restituzione del terreno oggetto di giudizio
proposta dalla ricorrente, sulla base del
principio secondo cui il sollecitato
riconoscimento del relativo diritto può
essere negato quando, oltre all’accertata
irreversibilità della trasformazione delle
aree occupate, risulti la permanenza e
l’attualità dell’interesse della Pubblica
Amministrazione alla realizzazione e alla
utilizzazione delle opere programmate
(commento tratto da www.ipsoa.it - Sentenza
Corte di Cassazione, civile, sentenza
31.05.2011 n. 11963). |
URBANISTICA: All'interno
delle convenzioni di urbanizzazione prevale
il profilo della libera negoziazione.
Sebbene sia innegabile che la convenzione di
lottizzazione, a causa dei profili di stampo
giuspubblicistico che si accompagnano allo
strumento dichiaratamente contrattuale,
rappresenti un istituto di complessa
ricostruzione, non può negarsi che in questo
si assista all'incontro di volontà delle
parti contraenti nell'esercizio
dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile.
Secondo il consolidato orientamento della
giurisprudenza, condiviso dal Collegio,
all'interno delle convenzioni di
urbanizzazione prevale il profilo della
libera negoziazione. Infatti, si è affermato
che, sebbene sia innegabile che la
convenzione di lottizzazione, a causa dei
profili di stampo giuspubblicistico che si
accompagnano allo strumento dichiaratamente
contrattuale, rappresenti un istituto di
complessa ricostruzione, non può negarsi che
in questo si assista all'incontro di volontà
delle parti contraenti nell'esercizio
dell'autonomia negoziale retta dal codice
civile (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV,
01.04.2011, n. 2040; Consiglio di Stato,
sez. IV, 28.07.2005, n. 4015; Consiglio di
Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 33).
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La società
ricorrente fa riferimento al disposto
dell'art. 1379 c.c. che limita gli effetti
del divieto di alienare stabilito con
contratto, prevedendo che tale divieto ha
effetto solo tra le parti e non è valido se
non è contenuto entro convenienti limiti di
tempo e se non risponde ad un apprezzabile
interesse di una delle parti.
Circa la portata di tale norma è stato
osservato che, con riguardo alle condizioni
di validità -limite temporale di durata e
rispondenza ad apprezzabile interesse di una
parte- del divieto convenzionale di
alienare, la stessa si applica, essendo
espressione di un principio di portata
generale, anche a pattuizioni che, come
quelle contenenti un vincolo di
destinazione, se pur non puntualmente
riconducibili al paradigma del divieto di
alienazione, comportino comunque limitazioni
altrettanto incisive del diritto di
proprietà (cfr. Cass. Civ. civ., sez. II,
17.11.1999, n. 12769; Cass. Sez. I,
11.04.1990 n. 3082).
Pertanto, ad avviso del Collegio, non vi è
dubbio che tale disposizione avrebbe potuto
essere, in linea di principio, applicata al
caso di specie, ma nondimeno ritiene che non
ne ricorrano i presupposti
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.05.2011 n. 920 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'intervenuta
inefficacia di un pregresso vincolo
urbanistico di destinazione a pubblico
servizio di una determinata area prevista da
un piano particolareggiato, comporta la
restituzione della stessa alla precedente
destinazione urbanistica recata dal P.R.G.;
mentre nel caso in cui il vincolo a
contenuto espropriativo sia previsto
direttamente dal Piano regolatore, la
mancata attuazione dello stesso nel termine
di cinque anni dalla sua approvazione,
comporta la successiva qualificazione
dell'area vincolata come zona bianca,
soggetta alla disciplina stabilita dell'art.
4, ultimo comma, della legge n. 10/1977,
sino all'adozione di nuove prescrizioni di
zona da parte dell'Amministrazione comunale.
Ritiene il Collegio, in adesione
all'orientamento della giurisprudenza
amministrativa, che l'intervenuta
inefficacia di un pregresso vincolo
urbanistico di destinazione a pubblico
servizio di una determinata area prevista da
un piano particolareggiato, comporta la
restituzione della stessa alla precedente
destinazione urbanistica recata dal P.R.G.;
mentre nel caso in cui il vincolo a
contenuto espropriativo sia previsto
direttamente dal Piano regolatore, la
mancata attuazione dello stesso nel termine
di cinque anni dalla sua approvazione,
comporta la successiva qualificazione
dell'area vincolata come zona bianca,
soggetta alla disciplina stabilita dell'art.
4, ultimo comma, della legge n. 10/1977,
sino all'adozione di nuove prescrizioni di
zona da parte dell'Amministrazione comunale
(cfr. TAR Marche, 17.01.2008, n. 8; TAR
Calabria, Catanzaro, 02.03.2004, n. 517; TAR
Lazio, Roma, II, 11.09.2000, n. 7000)
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 31.05.2011 n. 919 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Commissione di gara - Valutazione
delle offerte - Attribuzione dei punteggi in
forma soltanto numerica - Condizioni.
Con riferimento alle gare d’appalto, nella
fase di valutazione delle offerte da parte
di una commissione di gara, l'attribuzione
dei punteggi in forma soltanto numerica è
consentita quando il numero delle sottovoci,
con i relativi punteggi, entro le quali
ripartire i parametri di valutazione di cui
alle singole voci, sia talmente analitica da
delimitare il giudizio delle commissioni
nell'ambito di un minimo ed un massimo di
portata tale da rendere di per sé evidente
l'iter logico seguito nel valutare i singoli
progetti sotto il profilo tecnico in
applicazione di puntuali criteri
predeterminati, essendo altrimenti
necessaria una puntuale motivazione del
punteggio attribuito (CdS sez. V 03.12.2010
n. 8410) (TAR Marche,
sentenza 28.05.2011 n. 430 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Nomina dei commissari di gara
esterni alla P.A..
La nomina di un soggetto esterno alla
stazione appaltante quale componente della
commissione di una gara pubblica deve
avvenire nel rispetto delle disposizioni di
cui all’art. 84 del D.lgs. 163/2006.
La
sentenza 27.05.2011
n. 4810 del TAR Roma-Roma, Sez.
II-ter, ha infatti stabilito che nel caso in
cui una pubblica amministrazione decida di
nominare un soggetto esterno quale
componente di una commissione di gara, tale
nomina non può prescindere dalle previsioni
dell’art. 84, comma 8, del D.lgs. 163/2006,
secondo il quale la scelta del commissario
esterno deve essere effettuata nell’ambito
di un elenco formato sulla base di rose di
candidati fornite dagli ordini
professionali.
Nel caso di specie, relativo all’affidamento
del servizio di trasporto scolastico di un
comune laziale era stato impugnato l’atto di
nomina di un commissario esterno, un
avvocato, esperto in appalti pubblici.
La nomina di questo commissario era infatti
avvenuta prescindendo dalle disposizioni del
codice.
I giudici di Palazzo Spada, stabiliscono sul
punto che “L'art. 84 del codice dei
contratti pubblici prevede, infatti, al
comma 8, che, nel caso in cui la stazione
appaltante ricorra a professionisti esterni,
la scelta debba essere effettuata
nell'ambito di un elenco formato sulla base
di rose di candidati fornite agli ordini
professionali. Tale precetto non è stato
osservato nel caso in esame, risultando in
atti che la scelta, come professionista
esterno, (…), nella qualità di esperto in
appalti, è stata effettuata senza la
preventiva richiesta all’Ordine degli
avvocati di una rosa di candidati e la
conseguente formazione di un apposito elenco
al quale attingere.”
Su quale debba essere l’esatta
interpretazione delle disposizioni in esame,
i giudici stabiliscono in particolare che: “…..tali
disposizioni, recanti norme sulle funzioni,
sulla composizione e sulla modalità di
nomina dei componenti della Commissione
giudicatrice incaricata di esprimersi
nell'ipotesi di aggiudicazione con il
criterio dell'offerta economicamente più
vantaggiosa, pur disciplinando aspetti della
procedura di scelta del contraente, sono
preordinate a fini diversi rispetto a quelli
di garanzia della concorrenzialità, in
quanto gli aspetti connessi alla
composizione della Commissione giudicatrice
e alle modalità di scelta dei suoi
componenti attengono all'organizzazione
amministrativa degli organismi cui sia
affidato il compito di procedere alla
verifica del possesso dei necessari
requisiti, da parte della imprese
concorrenti, per aggiudicarsi la gara.”
In generale è tuttavia necessario affermare
che le norme del codice dei contratti e
tutte quelle disposizioni che impongono il
rispetto dei principi della trasparenza,
della concorrenzialità e del necessario
accesso al libero mercato, rappresentano il
recepimento di principi riconosciuti e
affermati in sede comunitaria, rispetto ai
quali l’ordinamento italiano, in un ottica
di adeguamento agli altri ordinamenti
europei, non può prescindere
(commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli interventi necessari ad
integrare o mantenere in efficienza gli
impianti tecnologici esistenti non rientrano
nel concetto di manutenzione straordinaria
né in quello di ristrutturazione edilizia,
bensì in quello di manutenzione ordinaria,
così come definito dall’art. 3, lett. a, del
D.P.R. 380/2001.
Gli interventi necessari ad integrare o
mantenere in efficienza gli impianti
tecnologici esistenti non rientrano nel
concetto di manutenzione straordinaria né in
quello di ristrutturazione edilizia, bensì
in quello di manutenzione ordinaria, così
come definito sia dall’art. 20, lett. a,
della L.R. 71/1978, sia dall’art. 3, lett.
a, del D.P.R. 380/2001.
E’ stato affermato sul punto che “L'elemento
ontologico qualificante dell'attività di
manutenzione ordinaria fa sì che gli
elementi da rinnovare, integrare e mantenere
in efficienza possono anche risultare
diversi da quelli oggetto di intervento, con
il limite che il nuovo elemento non risulti
né tipologicamente né funzionalmente diverso
dal precedente, non potendosi dare origine
ad un "quid novi” (C. di S., IV,
3555/2005)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 27.05.2011 n. 1344 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'eventuale impossibilità di
demolire per motivi di statica dell’edifico
(conforme) è motivo per evitare
l’applicazione delle sanzioni coattive
previste dal seguito della procedura di
sanzione dell’abuso edilizio in caso di
inottemperanza (demolizione d’ufficio ed
acquisizione gratuita dell’opera con area di
sedime).
La eventuale impossibilità di demolire per
motivi di statica dell’edifico non inficia
in alcun modo l’ordine di demolizione, ma
può al più –qualora effettivamente provata-
costituire motivo per evitare l’applicazione
delle sanzioni coattive previste dal seguito
della procedura di sanzione dell’abuso
edilizio in caso di inottemperanza
(demolizione d’ufficio ed acquisizione
gratuita dell’opera con area di sedime) (in
senso conforme Tar Campania, Napoli, sez.
VII, n. 1624 del 28.03.2008) (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.05.2011 n. 792 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
tradizionale orientamento della
giurisprudenza amministrativa, nel caso di
titolo edilizio relativo ad un fabbricato
unico, esclude la possibilità di
annullamento parziale dello stesso, poiché
una simile statuizione è ammissibile solo se
nel provvedimento siano individuabili
autonome statuizioni.
L’annullamento parziale del permesso di
costruire, pertanto, può aversi solo quando
l'opera autorizzata sia scindibile in modo
tale da poter essere oggetto di distinti
progetti e concessioni; nel caso contrario,
dovrà semmai essere il Comune ad eseguire il
giudicato d'annullamento rilasciando, a
richiesta del privato, un nuovo permesso
emendato dai vizi per i quali il precedente
era stato annullato.
Occorre domandarsi, al riguardo, se
l’accertamento di un’illegittimità che, in
relazione alle caratteristiche complessive
dell’opera, non presenta rilievo preminente,
determini l’annullamento del titolo
abilitativo nella sua interezza ovvero
limitatamente alle parti dell’edificio
riscontrate irregolari.
La più recente giurisprudenza dei giudici di
prime cure (pronunciandosi in materia di
annullamento d’ufficio da parte della
competente amministrazione, ma i termini
della questione non sembrano mutare nel caso
in cui l’effetto demolitorio derivi dalla
pronuncia del giudice), facendo applicazione
del principio di proporzionalità, ammette la
possibilità di un annullamento parziale del
titolo edilizio (TAR Abruzzo, Pescara,
11.03.2010, n. 173).
Pare maggiormente persuasivo, però, il
tradizionale orientamento della
giurisprudenza amministrativa che, nel caso
di titolo edilizio relativo ad un fabbricato
unico, esclude la possibilità di
annullamento parziale dello stesso, poiché
una simile statuizione è ammissibile solo se
nel provvedimento siano individuabili
autonome statuizioni (Cons. Stato, sez. V,
22.05.2006, n. 2960).
L’annullamento parziale del permesso di
costruire, pertanto, può aversi solo quando
l'opera autorizzata sia scindibile in modo
tale da poter essere oggetto di distinti
progetti e concessioni; nel caso contrario,
dovrà semmai essere il Comune ad eseguire il
giudicato d'annullamento rilasciando, a
richiesta del privato, un nuovo permesso
emendato dai vizi per i quali il precedente
era stato annullato (Cons. Stato, sez. V,
11.10.2005, n. 5495)
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 27.05.2011 n. 554 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ambiente in genere.
Legittimazione associazioni ambientaliste.
Le associazioni ambientaliste sono
legittimate a costituirsi pane civile quando
perseguono un interesse non caratterizzato
da un mero collegamento con quello pubblico,
bensì concretizzatosi in una realtà storica
di cui il sodalizio ha fatto il proprio
scopo: in tal caso l’interesse all’ambiente
cessa di essere diffuso e diviene
soggettivizzato e personificato (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 26.05.2011 n. 21016 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Con
riferimento alla decadenza del permesso di
costruire con l'entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche,
l'effettivo inizio dei lavori deve essere
valutato non in termini generali ed astratti
ma con una valutazione di carattere
concreto, che contenga uno specifico e
puntuale riferimento all'entità delle opere
ed all'intervento edificatorio programmato
ed autorizzato considerato nel suo
complesso.
Secondo quanto disposto dall’art. 15, comma
4, del d.P.R. n. 380 del 2001: “Il
permesso decade con l'entrata in vigore di
contrastanti previsioni urbanistiche, salvo
che i lavori siano già iniziati e vengano
completati entro il termine di tre anni
dalla data di inizio”.
Invero, come chiarito in giurisprudenza,
l'effettivo inizio dei lavori deve essere
valutato non in termini generali ed astratti
ma con una valutazione di carattere
concreto, che contenga uno specifico e
puntuale riferimento all'entità delle opere
ed all'intervento edificatorio programmato
ed autorizzato considerato nel suo complesso
(cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV,
15.07.2008, n. 3527; TAR Toscana, Sezione
III, 17.11.2008, n. 2533; TAR Lazio, Latina,
Sezione I, 12.11.2008, n. 1587)
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 26.05.2011 n. 2856 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della legittimità della procedura di
realizzazione di un parcheggio pertinenziale
nel rispetto dell’art. 9 l. n. 122 del 1989,
non è indispensabile che il numero dei
proprietari di immobili, siti nelle
vicinanze del realizzando parcheggio, sia
individuato prima della costruzione di
questo e che, quindi, il vincolo
pertinenziale debba preesistere,
richiedendosi solo che detto vincolo venga
previsto e, poi, effettivamente costituito e
trascritto nelle forme prescritte.
L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente
la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo
o nei locali siti al piano terreno anche in
deroga agli strumenti urbanistici ed ai
regolamenti edilizi, ha inteso consentire
esclusivamente la realizzazione di parcheggi
pertinenziali (i parcheggi devono essere al
servizio dell’unità immobiliare, anche se
adibiti ad un uso diverso da quello
residenziale come accade, ad esempio, per
gli immobili ad uso commerciale: i
parcheggi, in tale ipotesi, non possono
essere realizzati derogando alla disciplina
urbanistica per essere a servizio di coloro
che accedono all’esercizio commerciale).
In materia di realizzazione di interrati da
destinare a garage non va ignorato che
l’art. 9 della L. 24.03.1989 n. 122 dispone
che “i proprietari di immobili possono
realizzare nel sottosuolo degli stessi
ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari,
anche in deroga agli strumenti urbanistici
ed ai regolamenti edilizi vigenti”. La norma
non pone cioè alcun tetto massimo per quanto
riguarda l’estensione dei locali realizzati
nel sottosuolo aventi la destinazione di
parcheggi pertinenziali dell’abitazione, ed
anzi ne ammette la realizzabilità
generalizzata, anche in deroga agli
strumenti pianificatori”.
“Ai fini della legittimità della
procedura di realizzazione di un parcheggio
pertinenziale nel rispetto dell’art. 9 l. n.
122 del 1989, non è indispensabile che il
numero dei proprietari di immobili, siti
nelle vicinanze del realizzando parcheggio,
sia individuato prima della costruzione di
questo e che, quindi, il vincolo
pertinenziale debba preesistere,
richiedendosi solo che detto vincolo venga
previsto e, poi, effettivamente costituito e
trascritto nelle forme prescritte” (TAR
Abruzzo Pescara, 12.04.2006, n. 247).
Per ciò che concerne, inoltre, la
possibilità di realizzare parcheggi anche in
relazione ad immobili non destinati ad uso
abitativo, si consideri l’ulteriore
indirizzo giurisprudenziale, espresso nella
seguente massima: “L’art. 9 l. 24.03.1989
n. 122, che consente la realizzazione di
parcheggi nel sottosuolo o nei locali siti
al piano terreno anche in deroga agli
strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi, ha inteso consentire esclusivamente
la realizzazione di parcheggi pertinenziali
(i parcheggi devono essere al servizio
dell’unità immobiliare, anche se adibiti ad
un uso diverso da quello residenziale come
accade, ad esempio, per gli immobili ad uso
commerciale: i parcheggi, in tale ipotesi,
non possono essere realizzati derogando alla
disciplina urbanistica per essere a servizio
di coloro che accedono all’esercizio
commerciale)” (Consiglio Stato, sez. VI,
17.02.2003, n. 844).
Il verificatore ha osservato del resto,
nella sua relazione, che, riguardo
all’estensione dei parcheggi pertinenziali
realizzati nel sottosuolo, ai sensi
dell’art. 9 della l. 122/1989, non vi era
limite massimo, citando la decisione del TAR
Trentino Alto Adige, Trento, 24.02.2003, n.
90 (nella cui parte motiva può leggersi, in
effetti, quanto segue: “In materia di
realizzazione di interrati da destinare a
garage non va ignorato che l’art. 9 della L.
24.03.1989 n. 122 dispone che “i proprietari
di immobili possono realizzare nel
sottosuolo degli stessi ovvero nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati
parcheggi da destinare a pertinenza delle
singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti”. La norma non pone cioè
alcun tetto massimo per quanto riguarda
l’estensione dei locali realizzati nel
sottosuolo aventi la destinazione di
parcheggi pertinenziali dell’abitazione, ed
anzi ne ammette la realizzabilità
generalizzata, anche in deroga agli
strumenti pianificatori”) (TAR
Calabria-Salerno, Sez. II,
sentenza 26.05.2011 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L’art.
2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha
fissato entro il limite temporale del
quinquennio l’efficacia delle prescrizioni
dei piani regolatori generali nella parte in
cui incidono su beni determinati ed
assoggettano i beni stessi a vincoli
preordinati all’espropriazione od a vincoli
che comportino l’inedificabilità, si
riferisce ai vincoli che producano una
pressoché totale ablazione del diritto di
proprietà, essendo tanto intensi da
annullare o ridurre notevolmente il valore
degli immobili cui si riferiscono, ivi
compresa l’ipotesi di imposizione temporanea
di inedificabilità fino all’entrata in
vigore dei piani particolareggiati, per la
cui redazione non sia fissato alcun termine
finale certo.
Alla luce dell’orientamento
espresso dal Consiglio Stato, sez. IV,
24.03.2009, n. 1765: “L’art. 2, comma 1,
l. 19.11.1968 n. 1187, che ha fissato entro
il limite temporale del quinquennio
l’efficacia delle prescrizioni dei piani
regolatori generali nella parte in cui
incidono su beni determinati ed assoggettano
i beni stessi a vincoli preordinati
all’espropriazione od a vincoli che
comportino l’inedificabilità, si riferisce
ai vincoli che producano una pressoché
totale ablazione del diritto di proprietà,
essendo tanto intensi da annullare o ridurre
notevolmente il valore degli immobili cui si
riferiscono, ivi compresa l’ipotesi di
imposizione temporanea di inedificabilità
fino all’entrata in vigore dei piani
particolareggiati, per la cui redazione non
sia fissato alcun termine finale certo”
(TAR Calabria-Salerno, Sez. II,
sentenza 26.05.2011 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Differentemente
del provvedimento sanzionatorio, è da
ritenersi discrezionale il provvedimento
adottato in sede di autotutela, con il quale
l’amministrazione comunale vieta lo
svolgimento di attività edilizie iniziate a
seguito della presentazione di una dia e
ordina l’eliminazione degli effetti già
prodotti in conseguenza del mancato
esercizio dei poteri inibitori; pertanto,
l’amministrazione comunale è tenuta, da un
lato, a valutare gli interessi in conflitto,
anche tenendo conto dell’affidamento
ingeneratosi in capo al denunciante, e
dall’altro, a motivare in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale, non coincidente con il
mero ripristino della legalità violata.
A differenza
del provvedimento sanzionatorio, è da
ritenersi discrezionale il provvedimento
adottato in sede di autotutela, con il quale
l’amministrazione comunale vieta lo
svolgimento di attività edilizie iniziate a
seguito della presentazione di una dia e
ordina l’eliminazione degli effetti già
prodotti in conseguenza del mancato
esercizio dei poteri inibitori; pertanto,
l’amministrazione comunale è tenuta, da un
lato, a valutare gli interessi in conflitto,
anche tenendo conto dell’affidamento
ingeneratosi in capo al denunciante, e
dall’altro, a motivare in ordine alla
sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale, non coincidente con il
mero ripristino della legalità violata (TAR
Lombardia Milano, sez. II, 17.06.2009, n.
4066)
(TAR Calabria-Salerno, Sez. II,
sentenza 26.05.2011 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
vero che, in base al T.U. n. 380/2001, la
ristrutturazione edilizia può consistere
nella demolizione e ricostruzione di un
edificio, ma questo ha rilievo solo dal
punto di vista edilizio. Ai fini
dell’applicazione delle norme del Codice
della Strada, invece, la demolizione e
fedele ricostruzione è assimilata ad una
nuova costruzione (art. 26, commi 2 e 3, DPR
n. 495/1992). Questo obbedisce all’esigenza
di rimuovere con il tempo situazioni di
pericolo che preesistevano all’introduzione
delle fasce di rispetto.
E' vero che, in base al T.U. n. 380/2001, la
ristrutturazione edilizia può consistere
nella demolizione e ricostruzione di un
edificio, ma questo ha rilievo solo dal
punto di vista edilizio. Ai fini
dell’applicazione delle norme del Codice
della Strada, invece, la demolizione e
fedele ricostruzione è assimilata ad una
nuova costruzione (art. 26, commi 2 e 3, DPR
n. 495/1992).
Questo obbedisce all’esigenza di rimuovere
con il tempo situazioni di pericolo che
preesistevano all’introduzione delle fasce
di rispetto
(TAR Marche,
sentenza 26.05.2011 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Se
un provvedimento è fondato su più
motivazioni, la validità anche di una sola
delle argomentazioni poste autonomamente a
base del provvedimento stesso è sufficiente,
di per sé, a sorreggerne il contenuto.
Se un provvedimento è fondato su più
motivazioni, la validità anche di una sola
delle argomentazioni poste autonomamente a
base del provvedimento stesso è sufficiente,
di per sé, a sorreggerne il contenuto (si
veda, in questo senso, da ultimo e per
tutti: C.S. n. 828/2010; TAR Basilicata n.
111/2011 e TAR Toscana 336/2011)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO: Sulla
questione della necessità o meno di
acquisire l’assenso del Condominio, nel caso
in cui un condòmino chieda un titolo
edilizio per realizzare opere sulle parti
comuni di un edificio, sono state espresse
in giurisprudenza opinioni diverse.
Sulla questione
della necessità o meno di acquisire
l’assenso del Condominio, nel caso in cui un
condomino chieda un titolo edilizio per
realizzare opere sulle parti comuni di un
edificio, sono state espresse in
giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che
nessun assenso deve essere richiesto dal
Comune, posto che il condomino possiede una
propria legittimazione a richiedere il
titolo, e che lo stesso viene, in ogni caso,
rilasciato “con salvezza dei diritti dei
terzi”. Si è altresì affermato che i
problemi dell’uso delle parti comuni di un
edificio costituiscono questione
squisitamente civilistica, di cui il Comune
non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general,
condivisibile) giurisprudenza ha comunque
evidenziato che la regola soffre talora di
eccezioni, dovute alle peculiarità con cui
le singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha
stabilito che, quando un condomino abbia
realizzato (come nel presente caso) un abuso
su aree comuni “l’Amministrazione debba
chiedere all’istante, in applicazione delle
norme generali in tema di rilascio della
concessione edilizia, di provare di avere la
disponibilità piena dell’area interessata
all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno
per fatti concludenti ma comunque in modo
positivo, l’assenso degli altri
comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010
(che richiama anche C.S. n. 1654/2007) ha
ritenuto che “ciò che rileva è che i
lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi
(anche) su parti comuni del fabbricato e non
riguardino opere connesse all’uso normale
della cosa comune”; in tal caso,
l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai
fini del rilascio della relativa
concessione, a richiedere il consenso di
tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso
anche TAR Calabria-Reggio, con la recente
decisione n. 343/2011, aderendo
all’orientamento interpretativo secondo cui
nel procedimento di rilascio dei titoli
edilizi, “l’Amministrazione ha il potere
ed il dovere di verificare l’esistenza, in
capo al richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull’immobile interessato dal
progetto … per cui, in caso di opere che
vadano ad incidere sul diritto di altri
comproprietari (quali le opere edilizie
interessanti porzioni condominiali comuni),
è legittimo esigere il consenso degli stessi
o pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso
dell’amministrazione condominiale anche
nelle ipotesi di autorizzazioni in
sanatoria, in quanto il contitolare del bene
può essere estraneo all’abuso ed avere un
interesse contrario alla sanatoria di opere
che potrebbero risolversi in danno del
medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio
condivide, hanno ancora maggior rilievo nel
caso di specie, considerato che alcuni
condomini dapprima e, in seguito, il
Condominio stesso si sono inseriti nel
procedimento di rilascio dell’autorizzazione
a sanatoria di cui trattasi, manifestando il
proprio dissenso alle opere che, secondo la
loro prospettazione, incidevano
negativamente sul diritto di uso delle parti
comuni che spetta a ciascun condomino,
ponendo in luce in particolare come
-segnatamente le canne fumarie- inducessero
limiti all’uso individuale. Secondo TAR
Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un
vero e proprio obbligo per l’Amministrazione
di verificare “la legittimazione ad
effettuare l'intervento, soprattutto quando
vi sia stata in sede procedimentale
un’espressa opposizione da parte di terzi
condomini”.
Nello stesso senso è anche C.S. n.
1537/2010, che esplicitamente dichiara che,
in caso contrario, “l'Amministrazione
finirebbe per legittimare una sostanziale
appropriazione di spazi condominiali da
parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri,
i quali potrebbero essere, al contrario,
interessati all’eliminazione dell’abuso”.
La posizione contraria manifestata dal
Condominio risulta inoltre ulteriormente
rafforzata dalla decisione del Tribunale di
Trieste del 24.09.2008, che ha rigettato la
domanda presentata dei ricorrenti avverso la
delibera dell’assemblea condominiale che
negava l’assenso ai lavori, avendo ritenuto
che tale deliberazione “non abbia inciso
su diritti della proprietà privata essendo
l’uso particolare e più intenso del bene
comune da parte del condomino (e la relativa
indagine in merito all’eventuale
compressione quantitativa o qualitativa del
pari utilizzo, attuale o potenziale, di
tutti i comproprietari) questione di ordine
condominiale, disciplinata proprio dalle
norme che regolano i rapporti tra proprietà
individuali e beni condominiali”.
Né rileva, ai nostri fini, il richiamo alla
decisione n. 11/2006 del Consiglio di Stato,
che ha bensì ammesso la possibilità del
singolo condomino di installare una canna
fumaria (come nel presente caso, al servizio
di un ristorante) lungo un muro
condominiale, anche senza l’assenso del
Condominio, “purchè non impedisca agli
altri condomini l’uso del muro comune e non
ne alteri la normale destinazione”, che
è invece proprio quanto è avvenuto nel
nostro caso.
In queste condizioni -presenza di esplicito
e motivato dissenso del Condominio, unito
alla decisione del Giudice Ordinario che ha
ravvisato la correttezza della delibera
assembleare che negava l’assenso ai lavori-
legittimamente, ad avviso del Collegio, il
Comune ha negato la richiesta sanatoria
delle opere abusivamente realizzate
(TAR
Friuli Venezia Giulia,
sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Il "servizio di prelievo,
trasporto, trattamento e/o smaltimento dei
rifiuti prodotti dall'impianto di
depurazione delle acque reflue", non è
qualificabile quale servizio pubblico
locale.
Il "servizio di prelievo, trasporto,
trattamento e/o smaltimento dei rifiuti
prodotti dall'impianto di depurazione delle
acque reflue", non è qualificabile quale
servizio pubblico locale, e
conseguentemente, non è soggetto alla
disciplina dettata dall'art. 23-bis D.L. n.
112/2008, costituendo invece attività
rimessa alle libere dinamiche di mercato.
L'ambito di operatività del citato art.
23-bis riguarda, infatti, l'affidamento e la
gestione dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica, nell'intento di
garantire, da una parte, la più ampia
diffusione dei principi di concorrenza e,
dall'altra, un'adeguata tutela degli utenti,
sicché non trova applicazione laddove il
servizio dedotto in contratto non sia
qualificabile come servizio pubblico locale
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 25.05.2011 n. 1306 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatti abusivi - Provvedimenti
di concessione in sanatoria - Impugnazione
da parte di terzi - Termine - Decorrenza -
Individuazione.
Ai fini della decorrenza del termine per
l'impugnazione, da parte di terzi, di
provvedimenti di concessione in sanatoria di
manufatti abusivi, occorre avere esclusivo
riguardo alla data di scadenza della
pubblicazione del provvedimento a sanatoria
- da effettuarsi in forza dell'art. 20, t.u.
in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380
del 2001 e dell'art. 21, l. n. 1034 del
06.12.1971 (applicabili anche a tale tipo di
titolo abilitativo), in quanto qui già
compiutamente nota la lesione materiale
subita, che peraltro continua a costituire,
anch'essa, necessitato presupposto per
l'impugnativa (TAR Campania Napoli, sez. VII,
06.05.2005, n. 5552; TAR Puglia Lecce, sez.
III, 21.05.2009 n. 1200) (TAR Puglia-Lecce,
Sez. I,
sentenza 25.05.2011 n. 971 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le modificazioni del prospetto
dell’immobile (modifica della disposizione
delle finestre e delle porte-finestre)
assumono rilevanza paesaggistica proprio
perché incidenti sull’aspetto esterno
dell’immobile e, quindi, potenzialmente
idonee a determinare una modificazione
dell’impatto del manufatto sull’ambiente
circostante.
La Sezione deve innanzitutto rilevare come
la previsione dell’art. 146 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42 (codice dei beni culturali
e del paesaggio) sottoponga ad
autorizzazione paesaggistica tutti gli
interventi che possano determinare <<modificazioni
che rechino pregiudizio ai valori
paesaggistici oggetto di protezione>>;
appare pertanto di tutta evidenza come le
modificazioni del prospetto dell’immobile in
questione realizzate dalla ricorrente
(modifica della disposizione delle finestre
e delle porte-finestre) assumano rilevanza,
ai fini della previsione in questione,
proprio perché incidenti sull’aspetto
esterno dell’immobile e, quindi,
potenzialmente idonee a determinare una
modificazione dell’impatto del manufatto
sull’ambiente circostante (a questo
proposito, è, infatti, irrilevante il fatto
che il vincolo ricada sull’area e non
sull’immobile, trattandosi di valutare
proprio gli effetti che le modificazioni del
manufatto possono determinare sull’assetto
paesaggistico complessivo dell’area e quindi
sul bene soggetto a tutela) (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.05.2011 n. 969 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
VIA - Soggetto che intende
realizzare un intervento con effetti
rilevanti sull’ambiente - Art. 22, c. 3,
d.lgs. n. 152/2006 - Elaborazione di uno
Studio di Impatto - Valutazione soggettiva
preliminare - Successiva valutazione della
competente PA - Autonomia di giudizio.
Ai sensi dell’art. 22, c. 3, d.lgs. n.
152/2006 e dell’allegato VII al codice
stesso, il soggetto che intende realizzare
un determinato intervento con effetti
rilevanti sull’ambiente deve elaborare uno
studio di impatto con il quale non solo
descrivere il relativo progetto ma anche
compiere una prima valutazione -sebbene
soggettivamente rimessa alle proprie
personali (ma pur sempre tecniche)
considerazioni- in ordine agli impatti che
il medesimo intervento è idoneo ad arrecare
sulle principali matrici ambientali.
Valutazione preliminare cui seguirà poi
quella della competente PA che dovrà essere
condotta in piena autonomia di giudizio
secondo i consueti canoni della
discrezionalità tecnica. Pertanto, nella
elaborazione del SIA non basta limitarsi a
segnalare la sussistenza di un determinato
fenomeno con potenziali effetti
sull’ambiente, dovendosi altresì valutare
-almeno in prima battuta- le relative
conseguenze in termini di impatto negativo.
VIA - Assoggettabilità a
VIA - Presupposto - Possibili effetti
negativi e significativi sull’ambiente.
L’assoggettabilità a VIA è subordinata alla
presenza di possibili (dunque non certi)
effetti negativi e significativi
sull'ambiente (cfr. art. 19, comma 4, del
decreto legislativo n. 152 del 2006).
VIA - Integrazioni
sostanziali del SIA - Riattivazione del
procedimento di VIA - Meccanismi
partecipativi ex art. 24 d.lgs. n. 152/2006.
A fronte di integrazioni sostanziali dello
studio di impatto ambientale, deve ritenersi
necessari ala riattivazione del procedimento
VIA, se non altro per garantire il pieno
rispetto dei meccanismi partecipativi di cui
all’art. 24 del codice ambiente (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 25.05.2011 n. 957 - link
a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esecuzione di opere edilizie
che incidano sulla struttura di un edificio
preesistente e ne comportino il mutamento di
destinazione d’uso va qualificata come
ristrutturazione edilizia non già come
manutenzione straordinaria o risanamento
conservativo, tale dovendosi considerare
anche il caso in cui il risultato
dell’intervento di variazione dell’edificio
preesistente consista nella realizzazione di
nuove unità abitative.
Per costante giurisprudenza, l’esecuzione di
opere edilizie che incidano sulla struttura
di un edificio preesistente e ne comportino
il mutamento di destinazione d’uso va
qualificata come ristrutturazione edilizia
non già come manutenzione straordinaria o
risanamento conservativo (v. TAR Liguria,
Sez. I, 08.02.2006 n. 103), tale dovendosi
considerare anche il caso in cui il
risultato dell’intervento di variazione
dell’edificio preesistente consista nella
realizzazione di nuove unità abitative (v.
TAR Liguria, Sez. I, 18.09.2003 n. 1024).
Con specifico riferimento, poi, all’ipotesi
della trasformazione, con opere, di una
cantina in abitazione –che a differenza
della prima (di natura pertinenziale) si
identifica come unità immobiliare autonoma–,
è stato rilevato che ciò determina l’aumento
del numero delle unità immobiliari,
integrando una vera e propria
ristrutturazione edilizia (v. TAR Toscana,
Sez. III, 20.01.2009 n. 32), e quindi
richiede il permesso di costruire, al pari
di ogni mutamento di destinazione d’uso del
piano interrato da cantina ad abitazione
realizzata con opere che generano in tal
modo un aggravio del carico urbanistico (v.
TAR Lazio, Sez. I, 18.01.2011 n. 381; Sez.
II, 08.04.2010 n. 5889).
Ne desume il Collegio che l’intervento
oggetto della presente controversia, per
consistere –attraverso l’eliminazione di
alcune pareti divisorie e l’apertura e
chiusura di porte e accessi– nella
trasformazione di locali originariamente
destinati a cantina in un’unità abitativa
autonoma, è stato correttamente qualificato
dall’Amministrazione comunale come una
ristrutturazione edilizia senza titolo
abilitativo. Dal che il fondato richiamo
all’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 (“Interventi
di ristrutturazione edilizia in assenza di
permesso di costruire o in totale difformità”)
e alle misure repressive ivi previste, in
piena conformità, del resto, alla disciplina
fissata in ambito regionale dall’art. 26,
comma 5, della legge reg. n. 31 del 2002 (“Il
mutamento di destinazione d’uso con opere è
soggetto al titolo abilitativo previsto per
l’intervento edilizio al quale è connesso”).
Né vi osta la circostanza che l’abuso risale
agli anni Cinquanta e che all’epoca il
mutamento d’uso meramente “funzionale”
sarebbe stata attività libera, quindi
sottratta alla previa acquisizione di un
titolo edilizio. Innanzitutto, non si tratta
di variazione di destinazione d’uso senza
opere, in quanto una significativa modifica
dei locali è intervenuta.
Inoltre, come documentato
dall’Amministrazione locale, all’epoca di
realizzazione dell’abuso vigeva il
regolamento edilizio comunale n. 11 del
09.11.1929, il cui art. 12 (richiamato anche
nella licenza comunale n. 473/1953)
disponeva che “…chiunque intenda
intraprendere nuove fabbriche o apportare
modificazioni alle già esistenti … o variare
opere già approvate … deve farne preventiva
denuncia all’autorità comunale accompagnata
dai disegni e progetti …”, sicché la
trasformazione in alloggio dei locali ad uso
cantina, per comportare una variazione
dell’intervento inizialmente assentito,
avrebbe richiesto l’espletamento della
procedura prevista dalla norma
regolamentare, quale condizione per la
regolare effettuazione dei lavori inerenti
la nuova unità abitativa; è irrilevante,
d’altra parte, che di tale previsione
normativa non vi sia traccia negli atti
impugnati, essendo notorio che la mancata o
erronea indicazione delle norme di legge su
cui si fonda il provvedimento amministrativo
non costituisce ex se ragione di
invalidità dell’atto (v., ex multis,
TAR Campania, Napoli, 26.07.2002 n. 4412),
potendo al più trattarsi di mera
irregolarità, che non influisce in alcun
caso sul contenuto del provvedimento quale
definito dal giudice, il quale, qualificando
i fatti e individuando le norme applicabili,
non integra la motivazione del provvedimento
portato al suo esame, ma applica il
principio iura novit curia (v. Cons.
Stato, Sez. VI, 03.04.2009 n. 2083) (TAR
Emilia Romagna-Parma,
sentenza 25.05.2011 n. 154 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il regime sanzionatorio
applicabile agli abusi edilizi è quello
vigente al momento dell’irrogazione della
sanzione non già quello in vigore all’epoca
di realizzazione dell’abuso, e ciò in
ragione della natura ripristinatoria della
sanzione, non ascrivibile al genus delle
pene afflittive –cui propriamente si
attaglia il divieto di retroattività–, onde
soccorre il principio generale tempus regit
actum per l’individuazione della disciplina
cui deve attenersi l’Amministrazione
comunale che accerti l’abuso.
L’ordine di demolizione, come tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia, è atto vincolato che non richiede
uno specifico apprezzamento delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare.
E’ pur vero che la normativa dell’epoca non
si occupava delle conseguenze dell’abuso,
tuttavia il regime sanzionatorio applicabile
agli abusi edilizi è quello vigente al
momento dell’irrogazione della sanzione non
già quello in vigore all’epoca di
realizzazione dell’abuso, e ciò in ragione
della natura ripristinatoria della sanzione,
non ascrivibile al genus delle pene
afflittive –cui propriamente si attaglia il
divieto di retroattività–, onde soccorre il
principio generale tempus regit actum
per l’individuazione della disciplina cui
deve attenersi l’Amministrazione comunale
che accerti l’abuso (v. TAR Liguria, Sez. I,
21.04.2009 n. 779).
Quanto alla lamentata assenza di motivazione
a proposito di un ordine di ripristino dello
stato dei luoghi intervenuto a notevolissima
distanza di tempo dalla realizzazione
dell’abuso –con conseguente necessità di
valutazione dell’affidamento ingenerato e
della buona fede del privato e di
comparazione dell’interesse pubblico con gli
altri interessi in tal modo sacrificati–, va
richiamato il consolidato orientamento
giurisprudenziale secondo cui l’ordine di
demolizione, come tutti i provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede uno specifico
apprezzamento delle ragioni di interesse
pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, né una motivazione
sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di un
affidamento tutelabile alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (v., ex
multis, Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2011
n. 79) (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 25.05.2011 n. 154 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Lite temeraria, l'accollo delle
spese può diventare punitivo.
Il giudice di pace quando rigetta un ricorso
stradale infondato può condannare
l'automobilista anche al pagamento delle
spese vive sostenute dal comune per
presentarsi in udienza pur senza avvocato.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II
civile, con la sentenza 24.05.2011 n. 11389.
Un automobilista incorso in un banale
divieto di sosta accertato da un ausiliario
del traffico capitolino ha proposto ricorso
al giudice di pace ottenendo il rigetto
dell'istanza e la conseguente condanna al
pagamento delle spese sostenute dal comune
per la vertenza determinate in 100 euro.
Contro questa decisione l'interessato ha
proposto censure alla corte di cassazione
ottenendo un ulteriore aggravio economico
della sua vicenda sanzionatoria.
Il collegio ha infatti rigettato la
doglianza dell'automobilista che riteneva
eccessivo l'importo fissato dal gdp per il
ristoro delle spese vive sostenute dal
comune che si era presentato in giudizio con
un funzionario delegato, senza avvocato.
E ha anche condannato lo sfortunato utente
stradale al pagamento di tutte le ulteriori
spese.
E' ben vero che l'autorità amministrativa
che sta in giudizio con un proprio
funzionario, senza patrocinio, non può
ottenere la condanna dell'opponente, anche
se soccombente, al pagamento degli onorari
da avvocato.
In tal caso spetterà però legittimamente al
comune il rimborso delle spese, diverse da
quelle generali, affrontate per la causa ed
evidenziate in apposita nota.
In buona sostanza se il comune evidenzia
bene con una nota le spese di cancelleria e
quelle impiegate per la materiale
realizzazione del deposito della comparsa di
costituzione e risposta, il giudice di pace
ha ampia discrezionalità nella valutazione
dell'importo dovuto dal temerario
trasgressore (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
la costruzione e l'esercizio di impianti
fotovoltaici per i quali non è necessaria
alcuna autorizzazione è sufficiente la
dichiarazione di inizio attività.
Nella pronuncia in trattazione la società
ricorrente, che esercita attività agricola,
lamenta che il Comune in causa abbia
rilasciato, al proprietario di un’area
vicina a quelle di sua proprietà, un
permesso di costruire per la realizzazione
di un campo fotovoltaico a terra con
relativa cabina elettrica di trasformazione.
Il ricorrente sostiene che il Comune sarebbe
incompetente al rilascio del provvedimento,
in quanto l’articolo 7-bis, della l.r.
1/2004 (come modificata dalla l.r. 5/2008),
coerentemente a quanto consentito
dall’articolo 12, comma 3, del d.lgs.
387/2003, stabilisce che l’autorizzazione
unica per la costruzione e l’esercizio degli
impianti di produzione di energia elettrica
alimentati da fonti rinnovabili <>. Nel
ritenere non condivisibile tale
ricostruzione i giudici del Tribunale
amministrativo di Perugia ricordano che ai
sensi dell’articolo 12, comma 3, del d.lgs.
387/2003 (nella formulazione risultante
dalla legge 244/2007) <>.
La formulazione
dell’articolo 12, spiegano i giudici umbri,
è poco chiara e lascia aperta la questione
della competenza, oltre che del
procedimento, applicabili nelle ipotesi in
cui, non essendo previsto il rilascio di
“alcuna autorizzazione” (“altra”, rispetto a
quelle richieste dalla generale disciplina urbanistico-edilizia -salva l’applicazione
della d.i.a. al di sotto delle soglie di
capacità di generazione richiamate dalla
tabella A- o dalle specifiche discipline di
settore, a tutela dell’ambiente, del
patrimonio culturale, etc.), non occorre
seguire la disciplina della autorizzazione
unica.
Soccorre la disciplina del d.m. 19.02.2007 n. 25336. Secondo l’articolo
5, comma 7, di tale d.m. <>; nell’ambito di
una disciplina complessivamente rivolta a
tal fine, il predetto comma 7 appare
estraneo all’oggetto definito dall’articolo
7, e (peraltro, insieme al comma 8,
concernente i presupposti per la
sottoposizione del progetto alla valutazione
di impatto ambientale, ed al comma 9,
concernente la compatibilità con la
destinazione urbanistica di zona) appare
estraneo anche all’oggetto dell’articolo 5
(<>).
Tuttavia, si tratta di una disciplina
che colma un vuoto, e che non risulta
coinvolta nella presente impugnazione. Ora,
se la formulazione dell’articolo 5, comma 7,
del d.m. 19.02.2007 ha un senso,
questo non può che consistere nello
stabilire che, qualora fosse necessaria
l’acquisizione di un solo provvedimento autorizzativo
(nel caso in esame, in assenza di vincoli
territoriali, il permesso di costruire
comunale), detto titolo sostituisse
l’autorizzazione unica di competenza
regionale o (in forza dell’articolo 7-bis,
della l.r. 1/2004) provinciale.
I giudici perugini aggiungono, in
conclusione, che la disciplina statale è
destinata a cambiare a breve anche a livello
legislativo, in forza dell’attuazione della
delega di cui all’articolo 17, comma 1,
lettera d) della legge 96/2010, per il
recepimento delle Direttive 2011/77/CE e
2003/30/CE (commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Umbria,
sentenza 23.05.2011 n. 145 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessione a terzi di manufatto
abusivo.
L’esecuzione di un sequestro o di un ordine
di demolizione di un immobile abusivamente
realizzato non è preclusa dall’intervenuta
cessione a terzi del manufatto, operando la
demolizione nei confronti di chiunque abbia
la disponibilità di un manufatto che
continui ad arrecare pregiudizio al
territorio (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 19.05.2011 n. 19736 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione strada.
Per la costruzione, l’allargamento o la
modificazione di una strada, anche qualora
l’allargamento o la modificazione avvengano
su una precedente pista o strada, è
necessario il permesso di costruire,
trattandosi di una trasformazione edilizia
del territorio e quando poi la costruzione o
l’allargamento o la modificazione di una
strada avvengono in zona paesisticamente
vincolata, occorre anche l’autorizzazione
paesistica, poiché viene posta in essere una
trasformazione ambientale, che rende
indispensabile l’intervento e la valutazione
delle autorità preposte al controllo del
paesaggio sotto i diversi profili
urbanistico e paesaggistico ambientale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.05.2011 n. 19568 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi, rilevanza
circolari.
La circolare interpretativa è atto interno
alla pubblica amministrazione che si risolve
in un mero ausilio interpretativo e non
esplica alcun effetto vincolante non solo
per il giudice penale, ma anche per gli
stessi destinatari poiché non può comunque
porsi in contrasto con l’evidenza del dato
normativo (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19330 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Spontanea demolizione abuso
edilizio in zona vincolata.
La spontanea demolizione dell’intervento
abusivo in zona vincolata effettuata prima
che venga disposta d'ufficio dall'autorità
amministrativa e, comunque, prima che
intervenga la condanna, comporta
l’estinzione del solo reato paesaggistico di
cui al comma 1 dell’articolo 181 D.Lgs.
42/2004 ma non produce alcun effetto
estintivo delle violazioni edilizie
eventualmente concorrenti, pur potendo
essere oggetto di valutazione da parte del
giudice penale per la determinazione della
pena e relativamente alla mancanza di un
danno penalmente rilevante o alla buona fede
dell’imputato (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19317 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Attività edilizia libera.
La particolare disciplina dell’attività
edilizia libera, contemplata dall’articolo 6
D.P.R. 380/2001 come modificato
dall’articolo 5, comma secondo Legge
73/2010, non è applicabile agli interventi
che, pur rientrando nelle categorie
menzionate da tale disposizione, siano in
contrasto con le prescrizioni degli
strumenti urbanistici (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19316 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sui limiti dell’attività edilizia
‘libera’ dopo la L. n. 73/2010.
DISCIPLINA DELL’ATTIVITA’
EDILIZIA PRIVATA – INTERVENTI NON SOGGETTI A
TITOLI ABILITATIVI EX ART. 6 D.P.R. N.
380/2001 – MODIFICHE INTRODOTTE DALLA L. N.
73/2010 – NON CONTRASTO CON TUTTA LA
NORMATIVA DI SETTORE COMUNQUE INCIDENTE
SULL’ATTIVITA’ EDILIZIA – NECESSARIETA’.
Il peculiare regime di cui all’art. 6,
D.P.R. n. 380/2001, che consente
l’esecuzione di alcune tipologie di opere di
scarso impatto territoriale senza il previo
ottenimento di un particolare titolo
abilitativo, è stato profondamente
modificato ad opera della L. n. 73/2010.
Sono infatti esplicitamente indicati alcuni
limiti comunque imposti alla legittima
realizzazione di tali interventi, enunciati
in maniera non tassativa ma esemplificativa.
Con la conseguenza che deve ritenersi
richiesto il rispetto di tutta la normativa
di settore, ancorché non menzionata, che
abbia comunque rilevanza nell’ambito
dell’attività edilizia.
Dovranno pertanto essere esclusi
dall’applicazione di tale particolare regime
di favore tutti gli interventi eseguiti in
contrasto con le disposizioni precettive
degli strumenti urbanistici comunali ed in
violazione delle altre disposizioni
menzionate. Può quindi affermarsi, in
definitiva, il principio secondo il quale la
particolare disciplina dell’attività
edilizia libera, contemplata dal D.P.R. n.
380 del 2001, art. 6 come modificato dalla
L. n. 73 del 2010, art. 5, comma 2, non è
applicabile agli interventi che, pur
rientrando nelle categorie menzionate da
tale disposizione, siano in contrasto con le
prescrizioni degli strumenti urbanistici
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19316 -
commento tratto e link a
www.amministrazioneincammino.luiss.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sportello unico.
Lo Sportello Unico per l’edilizia previsto
dall’articolo 5 del D.P.R. 380/2001 (testo
unico per l’edilizia) ha unicamente finalità
di semplificazione procedimentale ed
organizzativa, con la conseguenza che la
mancata istituzione da parte
dell’amministrazione comunale non ha alcuna
incidenza sul regime autorizzatorio
dell’attività edilizia e non esonera,
pertanto, dal conseguimento dei necessari
titoli abilitativi (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 17.05.2011 n. 19315 -
link a www.lexambiente.it). |
APPALTI:
PUBBLICITÀ E TRASPARENZA DELLE
OPERAZIONI DI GARA: LA SEZIONE QUINTA
RIMETTE LA QUESTIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA.
A breve distanza di tempo, la questione
relativa alla pubblicità delle sedute di
gara nelle procedure ad evidenza pubblica
torna d’attualità, per effetto della
pronuncia da parte della Sez. V del
Consiglio di Stato dell’ordinanza
17.05.2011 n. 2987, qui
segnalata.
Un’impresa che aveva partecipato ad una
procedura per l’affidamento di un appalto
relativo ad impianti di preselezione e
bio-stabilizzazione a servizio del sistema
di smaltimento di rifiuti solidi urbani
aveva impugnato gli atti del procedimento
prospettando, fra l’altro, la violazione
degli obblighi generali di trasparenza che
gravano sull’Amministrazione, derivante
dall’omessa pubblicità della seduta in cui
la Commissione aveva proceduto all’apertura
delle buste contenenti gli elementi
costitutivi dell’offerta tecnica, al fine di
verificarne la completezza della
documentazione.
Il TAR Sardegna–Cagliari, Sez. I, con
sentenza n. 2299 del 2010 accoglieva tale
censura affermando che il criterio della
pubblicità delle sedute, nel corso delle
quali la Commissione procede ai necessari
adempimenti preordinati alla verifica della
regolarità della documentazione richiesta
dal lex specialis, è indefettibile,
in quanto espressione, sia pure indiretta,
del principio d’imparzialità di rilevanza
costituzionale, posto a presidio degli
interessi, sia pubblici, sia privati, alla
possibilità di verificare la correttezza
dell’attività amministrativa ad evidenza
pubblica.
In questa prospettiva, il TAR riteneva che
l’obbligo di pubblicità delle sedute di gara
si dovesse estendere anche alla fase di
valutazione delle offerte tecniche,
limitatamente alla fase di apertura delle
buste, con la conseguenza che il mancato
rispetto di tale norma principio aveva
inevitabilmente inficiato la legittimità
della procedura.
Negli appelli promossi avverso tale
sentenza, le parti soccombenti in primo
grado contestavano la correttezza della
motivazione resa sul punto richiamando i
precedenti giurisprudenziali, anche del
Consiglio di Stato, secondo il quale non
sarebbe necessaria (e, anzi sarebbe
preclusa) la possibilità di procedere in
seduta pubblica all’apertura delle buste
contenenti l’offerta tecnica.
La Sezione Quinta, nell’ordinanza di
rimessione oggetto di segnalazione
ricostruisce sinteticamente i due diversi
indirizzi invalsi in materia, rilevando come
sussiste un primo orientamento, più
radicale, in virtù del quale l’obbligo di
pubblicità delle sedute delle commissioni di
gara riguarderebbe esclusivamente la fase
dell’apertura dei plichi contenenti la
documentazione e l’offerta economica dei
partecipanti e non anche la fase di apertura
e valutazione delle offerte tecniche (cfr.
Sezione V, 13.10.2010 n. 7470; 16.08.2010 n.
5722; 13.07.2010 n. 4520; 14.10.2009 n.
6311; 04.03.2008 n. 901; 100.01.2007 n. 45;
Sez. IV, 05.04.2003 n. 1787).
Nell’ordinanza di rimessione si richiama
anche il secondo indirizzo
giurisprudenziale, minoritario, a tenore del
quale l’obbligo di pubblicità deve
intendersi esteso anche agli adempimenti
relativi alla verifica dell’integrità dei
plichi contenenti l’offerta, sia che si
tratti di documentazione amministrativa sia
che si tratti di documentazione in materia
di offerta tecnica (cfr. Sezione V,
23.11.2010 n. 8155; 28.10.2008 n. 5386;
Sezione VI, 22.04.2008 n. 1856; Sezione IV,
18.10.2007 n. 5217).
La Sezione rimettente non sembra propendere
per uno dei due orientamenti in particolare,
preoccupandosi piuttosto di mettere in
evidenza i limiti connessi ad entrambi gli
indirizzi appena richiamati.
Ed invero, quanto al primo orientamento,
tendente a restringere la portata
applicativa dell’obbligo di pubblicità delle
sedute, osserva il Consiglio di Stato come “la
necessità che la fase di valutazione delle
offerte tecniche si svolga in seduta
riservata non implica affatto che anche la
fase di apertura delle buste contenenti le
offerte tecniche, attività materiale
logicamente distinta ed in pratica
agevolmente separabile da quella
–necessariamente riservata– di valutazione,
si svolga in seduta riservata, e quindi in
deroga ai princìpi di trasparenza e di
pubblicità”. Conseguentemente, la
Sezione conclude sul punto non ravvisando “ragioni
ostative a che le commissioni di gara
procedano all’apertura delle buste in seduta
pubblica, per poi procedere in seduta
riservata alla valutazione delle relative
offerte tecniche”.
Con riferimento al secondo orientamento,
volto a dilatare l’obbligo di pubblicità
delle sedute di gara, le perplessità
manifestate attengono piuttosto alla
constatazione che, di regola, “la mera
constatazione dell’integrità delle buste,
infatti, non soddisfa che in modo parziale
le esigenze di trasparenza e pubblicità:
essa non consente, infatti, ai concorrenti
presenti di prendere contezza dei documenti
recanti le offerte tecniche, così come
avviene per i documenti amministrativi e per
le offerte economiche”. In altri
termini, un’indagine relativa al solo dato
esteriore della busta contenente l’offerta
tecnica, non accompagnata da una
“ricognizione pubblica del contenuto
documentale delle offerte”, non
costituirebbe sufficiente ed adeguata
garanzia rispetto al “pericolo di
manipolazioni successive delle offerte
proprie e di quelle altrui, eventualmente
dovute ad inserimenti, sottrazioni o
alterazioni di documenti”.
E’ interessante notare, peraltro, come la
Sezione Quinta abbia espressamente respinto
l’argomento difensivo contrario alla tesi
dell’estensione dell’obbligo di pubblicità
delle sedute, fondato sul dettato dell’art.
13, co. 2, lett. c) e co. 3, del d.lgs. n.
163 del 2006. Come noto tali disposizioni
prevedono il differimento del diritto
d’accesso agli atti delle procedure di gara
concernenti anche i verbali della gara.
A tal proposito, il Collegio ha affermato
come tale differimento debba intendersi come
riferito alle sole ipotesi di “accesso
esoprocedimentale (art. 22, legge n.
241/1990)”, ossia proposto da soggetto
che non abbia partecipato alla gara, e non
anche in quelle di ”accesso
endoprocedimentale (art. 10, legge n.
241/1990, e s.m.i.)”, ossia proposto su
istanza di altro operatore economico
partecipante alla procedura (commento tratto
da www.amministrazioneincammino.luiss.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - RIFIUTI - Fanghi
biologici - Regione - Adozione di misure
interdittive al di fuori dei casi previsti
dall’art. 4 del d.lgs. n. 99/92 -
Illegittimità.
Non compete alla Regione l’adozione di
misure interdittive all’utilizzazione dei
fanghi biologici in agricoltura al di fuori
dei casi espressamente previsti dal
legislatore mediante il disposto dell’art. 4
del d.lgs. n. 99/1992, dovendo, invece,
l’amministrazione limitarsi all’esplicazione
dei poteri previsti dall’art. 6 dello stesso
d.lgs., fra i quali è ricompresa la
possibilità di adottare mere limitazioni nel
rispetto dei presupposti espressamente
previsti dalla disposizione normativa.
ACQUA - RIFIUTI - Fanghi
biologici - Art. 127 d.lgs. n. 152/2006 -
Assenza di particolare potenzialità
inquinanti - Riutilizzo.
Ai sensi dell’art. 127 del d.lgs. n.
152/2006, i fanghi biologici devono essere
riutilizzati ogni qualvolta il loro
reimpiego risulti appropriato, ipotesi che
ricorre certamente nei casi in cui non
emerga una particolare potenzialità
inquinante.
ACQUA - RIFIUTI - Fanghi
biologici - Art. 101, c. 10, d.lgs. n.
152/2006 - Stipula di accordi di programma -
Recupero dei fanghi di depurazione.
L’art. 101, comma 10, del codice
dell’ambiente prevede la possibilità da
parte delle autorità competenti di stipulare
accordi di programma con i soggetti
economici interessati, al fine di favorire
il recupero dei fanghi da depurazione e di
fissare limiti in deroga alla disciplina
generale, nel rispetto comunque delle norme
comunitarie e delle misure necessarie al
conseguimento degli obiettivi di qualità.
Risulta, infatti, quanto più opportuna in
materia ambientale l’utilizzazione del
modulo convenzionale che, sulla scia
dell’art. 11 della legge generale sul
procedimento amministrativo, permetta
l’esplicazione della potestà pubblica
secondo modalità flessibili, in relazione
alle complesse situazioni che la stessa si
trova ad affrontare in tale ambito di
attività ed in considerazione della
particolare rilevanza degli interessi
pubblici alla stessa sottesi (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 17.05.2011 n. 1262 -
link a www.ambientediritto.it). |
ESPROPRIAZIONE:
L’acquisizione senza titolo di
suoli privati per pubblica utilità comporta
sempre la necessità di risarcire anche il
danno da occupazione illegittima.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’
PROCEDURA – UTILIZZAZIONE E TRASFORMAZIONE
SENZA TITOLO – DIRITTO DEL PROPRIETARIO DEL
SUOLO AL RISARCIMENTO DEI DANNI SUBITI –
COMPRENDE L’AUTONOMA SORTE DI DANNO DA
OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA.
L’utilizzazione senza titolo di un bene di
proprietà privata comporta, normalmente, due
distinti danni, i quali vanno entrambi
risarciti, anche alla luce dei principi
espressi dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo (CEDU),
relativi alla necessaria integrità del
ristori del pregiudizio derivante da
attività illecita dell’amministrazione
Il primo attiene alla perdita (definitiva)
della proprietà, che avviene nel momento in
cui è adottato il provvedimento di cui
all’articolo 43 del testo unico (norma
dichiarata costituzionalmente illegittima
con sentenza C. Cost. 293/2010) o quando,
come nella specie, il privato “rinuncia”
alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata
utilizzazione del bene (o del suo
corrispondente valore monetario) per il
periodo compreso tra l’inizio della
occupazione senza titolo e la perdita della
proprietà.
Tale seconda voce di danno deve essere
risarcita in modo pieno e completo, ma,
ovviamente, senza determinare duplicazioni o
sovrapposizioni con il ristoro già insito
nel risarcimento calcolato sulla perdita del
bene, opportunamente rivalutato (massima
tratta atto da
www.amministrazioneincammino.luiss.it -
C.G.A.R.S.,
sentenza
02.05.2011 n. 351 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Per il Giudice salentino la
“specificazione” ex art. 940 c.c. è una
ragionevole via d’uscita dopo la
declaratoria d’illegittimità costituzionale
della c.d. “acquisizione sanante”.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’ DELLA
PROCEDURA – SORTE DELL’OPERA PUBBLICA
REALIZZATA SUL SUOLO NON LEGITTIMAMENTE
ACQUISITO – RICOSTRUZIONE DISCIPLINA
APPLICABILE DOPO DECLARATORIA ILLEGITTIMITA’
COSTITUZIONALE ART. 43 D.P.R. 327/2001 –
ACQUISIZIONE A TITOLO ORIGINARIO DEL SUOLO
PER SUA “SPECIFICAZIONE” NELL’OPERA PUBBLICA
AI SENSI DELL’ART. 940 C.C. – CONSEGUENZE.
Dopo la declaratoria d’illegittimità
costituzionale dell’istituto della c.d. “acquisizione
sanante”, di cui all’art. 43 D.P.R. n.
327/2001, per consolidare l’effetto
acquisitivo del suolo alla mano pubblica,
indotto dalla sua ormai irreversibile
trasformazione, può utilizzarsi
un’applicazione estensiva del principio
codificato dall’art. 940 c.c., che
riconnette l’acquisto a titolo originario
della cosa mobile, quale risultante dalla “specificazione”
di un diverso bene.
Per effetto della specificazione del fondo
la proprietà dell’opera pubblica viene
acquistata, a titolo originario, dall’ente
specificatore nel momento in cui l’opera di
specificazione è completata, cioè si è avuta
la specificazione; questo non in conseguenza
di un illecito ma di un istituto che affonda
le sue radici nel diritto romano e
costituisce un fatto che dà diritto ad un
indennizzo non un illecito che dà diritto al
risarcimento del danno. Sull’acquisto non
influisce quanto può essere ritenuto o meno
dal giudice, sicché le norme che
disciplinano il fenomeno sono “precise e
prevedibili”, rispettano le indicazioni
del giudice di Strasburgo.
Le stesse sono anche “accessibili“:
quando l’opera è stata realizzata in
violazione dei termini fissati, la richiesta
indennitaria può essere avanzata nel termine
di dieci anni dalla verificazione del fatto;
se invece l’opera è stata realizzata a
seguito di una procedura successivamente
annullata il termine prescrizionale decorre,
ex art. 2935 c.c., dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere, cioè da
quando è passata in giudicato la pronuncia
che ha annullato gli atti della procedura
(commento tratto da
www.amministrazioneincammino.luiss.it - TAR
Puglia–Lecce, Sez. I,
sentenza 27.04.2011 n. 743 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Il lavoro straordinario svolto
nel corso dell’attività di missione può
essere remunerato solo nella parte eccedente
il normale orario di lavoro ma con
esclusione dei tempi necessari per recarsi
presso la sede di trasferta e per ritornare
presso quella di servizio, che sono già
remunerati con il trattamento di missione.
Il diritto al compenso per lavoro
straordinario può essere riconosciuto solo
in presenza di preventiva e formale
autorizzazione. Questa ha lo scopo precipuo
di controllare, nel rispetto del principio
di buon andamento della pubblica
amministrazione, la sussistenza di effettive
ragioni di interesse pubblico alla
prestazione e di risorse finanziarie a tal
fine destinate. In circostanza straordinarie
l’autorizzazione può intervenire ex post, a
sanatoria, quando lo svolgimento della
prestazione sia dovuto ad eccezionali ed
improcrastinabili esigenze di servizio, ma
comunque non può mai essere esclusa.
La sussistenza di autorizzazione implicita è
stata eccezionalmente riconosciuta in casi
od eventi straordinari in cui la prestazione
sia avvenuta nell’ambito di specifiche ed
individuate attività cui il dipendente
doveva obbligatoriamente partecipare ovvero
nel caso di un servizio indispensabile che
l’amministrazione era obbligata a garantire
trattandosi di compiti irrinunciabili di
assistenza.
Il lavoro straordinario svolto nel corso
dell’attività di missione può essere
remunerato solo nella parte eccedente il
normale orario di lavoro ma con esclusione
dei tempi necessari per recarsi presso la
sede di trasferta e per ritornare presso
quella di servizio, che sono già remunerati
con il trattamento di missione.
Inoltre, “secondo consolidati principi
(ex multis Cons. St. Sez. V n. 844/2009;
Sez. IV n. 2282/2007), il diritto al
compenso per lavoro straordinario può essere
riconosciuto solo in presenza di preventiva
e formale autorizzazione. Questa ha lo scopo
precipuo di controllare, nel rispetto del
principio di buon andamento della pubblica
amministrazione, la sussistenza di effettive
ragioni di interesse pubblico alla
prestazione e di risorse finanziarie a tal
fine destinate.
In circostanza straordinarie
l’autorizzazione può intervenire ex post, a
sanatoria, quando lo svolgimento della
prestazione sia dovuto ad eccezionali ed
improcrastinabili esigenze di servizio, ma
comunque non può mai essere esclusa.
La sussistenza di autorizzazione implicita è
stata eccezionalmente riconosciuta in casi
od eventi straordinari in cui la prestazione
sia avvenuta nell’ambito di specifiche ed
individuate attività cui il dipendente
doveva obbligatoriamente partecipare ovvero
nel caso di un servizio indispensabile che
l’amministrazione era obbligata a garantire
trattandosi di compiti irrinunciabili di
assistenza (Cons. St. Sez. V, n. 3503/2001).
Nel caso in esame, nessun principio di prova
è stato addotto relativamente alla presenza
di autorizzazione alla prestazioni di lavoro
straordinario, sia preventiva che a
sanatoria, né sono stati documentati eventi
che, a causa della loro straordinarietà,
possano ricondursi alla fattispecie
dell’autorizzazione implicita.” (C.S. n.
1370/2010)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 19.04.2011 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Bonifica dei siti inquinanti.
Competenza della Provincia sulle misure per
la messa in sicurezza di emergenza.
Legittimità di un ordine in materia adottato
dopo che è trascorso infruttuosamente il
termine per l’emissione del parere del
Comune interessato.
L’art. 252 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, in
relazione ai siti inquinati di interesse
nazionale, devolve al Ministero
dell’Ambiente la sola competenza in merito
alle procedure di bonifica, lasciando,
invece, inalterata la competenza della
Provincia, desumibile dall’art. 244 dello
stesso d.lgs., ad ordinare l’adozione delle
misure ritenute, in via provvisoria,
necessarie per la messa in sicurezza di
emergenza, in attesa di eventuali ulteriori
interventi di bonifica o di messa in
sicurezza operativa o permanente del sito di
competenza statale (Ha osservato in
particolare la sentenza in rassegna che, sul
piano letterale, la tesi trova riscontro
nell’art. 252, il quale, nel rinviare
all’art. 242, devolve al ministero
dell’Ambiente la sola competenza in
relazione a procedure di bonifica, in
relazione ai siti di interesse nazionale,
senza però menzionare i provvedimenti
espressamente attribuiti alla competenza
provinciale dall’art. 244).
L’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006, il quale
prevede che, la Provincia, "dopo aver
svolto le opportune indagini volte ad
identificare il responsabile dell'evento di
superamento e sentito il comune, diffida con
ordinanza motivata il responsabile della
potenziale contaminazione a provvedere ai
sensi del presente titolo" va letto nel
senso che la Provincia ha il potere di
ordinare al responsabile dell’inquinamento
l’adozione di quelle misure, preventive e di
messa in sicurezza d’emergenza, che il
responsabile stesso, ai sensi dell’art. 242,
commi 1 e 2, avrebbe già dovuto adottare di
sua iniziativa. Tale competenza provinciale
permane anche in presenza di un sito di
interesse nazionale.
Il provvedimento adottato dalla Provincia ai
sensi dell’art. 244 d.lgs. n. 152/2006 ha
natura e presupposti diversi rispetto al
provvedimento, di competenza ministeriale,
che ordina le misure di bonifica e che
presuppone, ai sensi dell’art. 242,
l’analisi di caratterizzazione. Si tratta,
infatti, di un provvedimento di natura
provvisoria, volto a porre rimedio ad una
situazione di emergenza mediante misure di
messa in sicurezza provvisorie, in attesa
del definitivo accertamento, da parte del
Ministero, dei presupposti per disporre le
misure definitive di bonifica e messa in
sicurezza permanente.
E’ legittimo il provvedimento con il quale
una Provincia, dopo aver chiesto al Comune
di espletare le opportune valutazioni
prescritte dall’art. 244, comma 2, del
d.lgs. n. 152/2006, entro un dato termine
che è trascorso infruttuosamente, ha
provveduto autonomamente, atteso che l’art.
244 cit. usa l’espressione "sentito il
Comune" e non già "acquisito il
parere del Comune" (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 12.04.2011 n. 2249 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Selezione interna integralmente
riservata al personale dipendente a tempo
indeterminato del Comune.
E’ illegittima la determinazione
dirigenziale con la quale è stato approvato
il bando di selezione interna per
progressione verticale relativa a posti di
Commissario di Polizia Municipale cat. D3
(posizione economica D3) interamente
riservata al personale dipendente a tempo
indeterminato del Comune, atteso che tale
determinazione confligge con il principio
del pubblico concorso enunciato
dall’articolo 97 della Costituzione e
dall’articolo 35 del D.lgs 165/2001;
quest’ultimo strumento, infatti, costituisce
la regola per l’ammissione ai pubblici
impieghi, mentre la selezione esclusivamente
interna rappresenta solo un’eccezione a cui
ricorrere in presenza di speciali ragioni,
nel caso in questione non ricorrenti (1).
---------------
(1) Nella motivazione della sentenza in
rassegna si rileva, tra l’altro, che
costituisce un principio generale
dell’ordinamento, di rilevo costituzionale,
quello per cui «l’area delle eccezioni»
al concorso deve essere «delimitata in
modo rigoroso» (Corte Cost., sentenza n.
363 del 2006) e che le deroghe sono
legittime solo in presenza di «peculiari
e straordinarie esigenze di interesse
pubblico» idonee a giustificarle (Corte
Cost., sentenza n. 81 del 2006).
Non può, infatti, ritenersi sufficiente, a
tal fine, la semplice circostanza che
determinate categorie di dipendenti abbiano
prestato la propria attività presso
l’amministrazione (Corte Cost., sentenza
11.02.2011 n. 42; Corte Cost., sentenza
15.12.2010 n. 354; Corte Cost., sentenza n.
205 del 2006), né basta la «personale
aspettativa degli aspiranti» ad una
progressione di carriera.
Occorrono invece particolari ragioni
giustificatrici, ricollegabili alla
peculiarità delle funzioni che il personale
da reclutare è chiamato a svolgere, in
particolare relativamente all’esigenza di
consolidare specifiche esperienze
professionali maturate all’interno
dell’amministrazione e non acquisibili
all’esterno, le quali facciano ritenere che
la deroga al principio del concorso pubblico
sia essa stessa funzionale alle esigenze di
buon andamento dell’amministrazione.
La natura comparativa e aperta della
procedura è, pertanto, elemento essenziale
del concorso pubblico. Procedure selettive
riservate, che riducano irragionevolmente o
escludano la possibilità di accesso
dall’esterno, violano il «carattere
pubblico» del concorso (Corte Cost.,
sentenza 13.05.2010 n. 169; Corte Cost.,
sentenza n. 34 del 2004), e,
conseguentemente, i principi di imparzialità
e buon andamento, che esso assicura.
Tali principi di rilievo costituzionale sono
stati recepiti dal legislatore ordinario che
all’articolo 35 del D.lgs 165 del 2001,
applicabile agli enti locali in virtù
dell’esplicito richiamo di cui all’articolo
88 del D.lgs 267 del 2000, ha previsto che
le procedure selettive devono garantire in
misura adeguata l’accesso dall’esterno.
Del resto anche l’articolo 91 del citato
D.lgs 267 del 2000 prevede esplicitamente la
possibilità di effettuare concorsi
interamente riservati al personale
dipendente, solo in relazione a particolari
profili o figure professionali
caratterizzati da una professionalità
acquisita esclusivamente all'interno
dell'ente.
Sul principio v. da ult. Corte cost.,
sentenza 18.02.2011, n. 52 ed ivi ult.
riferimenti (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Emilia-Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 12.04.2011 n. 343 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Ricorso giurisdizionale avverso
una deliberazione del Consiglio comunale
recante indirizzo al Sindaco ed alla Giunta
comunale per l’introduzione e l’integrazione
nel territorio comunale di zone a traffico
limitato.
L’atto di indirizzo è in genere un atto di
natura programmatica proveniente dall’organo
competente ad esprimere la volontà "politica"
dell’ente di riferimento, che si traduce
nell’indicazione di obiettivi, priorità,
criteri all’attività dell’organo cui è
diretto, al fine di orientarne l’azione,
senza produrre effetti giuridici
direttamente vincolanti se non per
quest’ultimo.
E’ inammissibile, per difetto di lesività
del provvedimento impugnato, il ricorso
avverso una deliberazione del Consiglio
comunale recante indirizzo al Sindaco ed
alla Giunta Comunale per l’introduzione e
l’integrazione di zone a traffico limitato,
nonché per l’introduzione di una zona a
traffico limitato con accesso subordinato al
pagamento di una tariffa cosidetta ECOPASS;
infatti, l'art. 7, comma 9, del D.Lgs.
30.04.1992, n. 285, attribuisce
espressamente alla Giunta il compito di
procedere all'istituzione ed
all'individuazione della Zona a Traffico
Limitato, con la conseguenza la suddetta
deliberazione del Consiglio comunale, non
rientrando in alcuno degli atti di indirizzo
tassativamente elencati dall’art. 42, D.Lgs.
n. 267 del 2000 (TUEL), lascia
impregiudicata, persino nell’an, la
sfera discrezionale dell’esecutivo locale
(ovviamente sul piano della validità
giuridica dell’azione), configurandosi non
quale presupposto necessario e vincolante
nell’ambito di un procedimento complesso che
necessita del previo indirizzo consiliare,
ma come mera esortazione, sebbene
analiticamente concepita ed espressa,
all’adozione di decisioni di governo che
competono in via esclusiva alla Giunta; con
l’ulteriore conseguenza del difetto di
lesività della delibera consiliare e
dell’inammissibilità del ricorso
giurisdizionale avverso la stessa (massima
tratta da www.regione.piemonte.it - TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 07.04.2011 n. 264 - link
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APPALTI:
RIPARTO DI COMPETENZE IN MATERIA
DI CONTRATTI PUBBLICI.
Sono incostituzionali le
disposizioni normative, contenute nella
legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n.
11/2009, come modificate dalla legge n.
12/2010, laddove: a) prevedono che, qualora
si applichi il criterio del prezzo più
basso, si darà corso, in ogni caso,
all'applicazione del sistema di esclusione
automatica delle offerte anomale; b) non
prevedono l'applicazione delle forme di
pubblicità stabilite dall'articolo 122 del
Codice; c) prevedono che la procedura
selettiva, per l'affidamento dei servizi di
progettazione, debba svolgersi tra tre e non
tra almeno cinque soggetti.
E' quanto stabilito dalla Corte
Costituzionale, con la
sentenza 07.04.2011 n. 114, nella
quale viene confermata la competenza
statuale, cioè la disciplina del Codice (D.Lgs
n. 163/2006) in materia di contratti
pubblici.
I giudici costituzionali ricordano,
preliminarmente, che, ai sensi dell'articolo
4 della legge costituzionale n. 1/1963, la
potestà legislativa primaria regionale deve
essere esercitata in armonia con la
Costituzione, con i principi generali
dell'ordinamento giuridico della Repubblica,
con le norme fondamentali delle riforme
economico-sociali e con gli obblighi
internazionali dello Stato. Ora, non vi è
dubbio che le disposizioni contenute nel
citato Codice dei contratti pubblici, in
tema di tutela della concorrenza e di
ordinamento civile, devono essere ascritte,
per il loro proprio contenuto d'ordine
generale, all'area delle norme fondamentali
di riforme economico-sociali, nonché delle
norme con le quali lo Stato ha dato
attuazione agli obblighi internazionali
nascenti dalla partecipazione dell'Italia
all'Unione europea.
Al riguardo, la Consulta ricorda che proprio
le Regioni a statuto speciale e le Province
autonome di Trento e di Bolzano devono
rispettare quelle norme del Codice, che
attengono, da un lato, alla scelta del
contraente (alle procedure di affidamento)
e, dall'altro, al perfezionamento del
vincolo negoziale e alla correlata sua
esecuzione (Corte Cost. n. 45/2010). Di
conseguenza, sia le Regioni che le Province
autonome devono rispettare due distinte
tipologie di principi, che si pongono come
ovvio limite alla loro potestà legislativa.
Precisamente:
a) i principi della tutela della
concorrenza, strumentali ad assicurare le
libertà comunitarie e, dunque, le
disposizioni contenute nel Codice dei
contratti pubblici che costituiscono diretta
attuazione delle prescrizioni poste a
livello europeo;
b) i principi dell'ordinamento giuridico
della Repubblica, tra i quali sono
ricompresi anche quelli afferenti la
disciplina di istituti e rapporti
privatistici relativi, soprattutto, alle
fasi di conclusione ed esecuzione del
contratto di appalto, che devono essere
uniformi sull'intero territorio nazionale,
in ragione della esigenza di assicurare il
rispetto del principio di uguaglianza.
Venendo alla concreta vicenda, occorre
rilevare che l'Avvocatura dello Stato aveva
censurato, davanti alla Corte
costituzionale, le disposizioni della legge
della Regione Friuli-Venezia Giulia n.
11/2009, come modificate dalla legge n.
12/2010, prevedenti quanto segue:
1) la possibilità di affidare appalti di
lavori sino ad un milione di euro, mediante
ricerca di mercato, volta ad individuare
operatori economici in possesso dei
necessari requisiti di qualificazione, con
invito ad almeno 15 soggetti;
2) l'obbligo, in caso di appalti di lavori
sino ad un milione di euro, di procedere
all'esclusione automatica delle offerte
anomale, qualora si applichi il criterio del
prezzo più basso;
3) la pubblicazione di esiti di gare per
appalti di lavori sino ad un milione di euro
solo sull'albo pretorio della stazione
appaltante, con contestuale comunicazione
all'Osservatorio regionale (invece di:
pubblicazione G.U. serie speciale dei
contratti pubblici + pubblicazione albo
pretorio Ente appaltante + pubblicazione sul
sito dell'Osservatorio e sul sito del
Ministero delle Infrastrutture +
pubblicazione, per estratto, su un
quotidiano nazionale ed uno locale);
4) possibilità di affidare servizi di
ingegneria-architettura di importo pari od
inferiore ad euro 50.000,00, mediante
procedura selettiva basata sul solo esame
dei curricula di tre soggetti.
Ora, la Corte costituzionale, sulla base
delle predette coordinate interpretative,
procede alle seguenti decisioni:
- La censura sub 1) non viene accolta, in
ragione della genericità dei motivi di
doglianza, fondati su non dettagliati
richiami alle norme codicistiche, senza
congrua indicazione delle asserite
difformità.
- La censura sub 2) viene accolta, in quanto
la disposizione regionale illegittimamente
introduce una disciplina, in tema di offerte
anomale, diversa da quella nazionale, idonea
ad incidere negativamente sul livello della
concorrenza, che deve essere garantito agli
imprenditori operanti nel mercato.
- Anche la censura sub 3) viene accolta, in
quanto le ridotte forme di pubblicità ledono
i minimi livelli di concorrenza, in quanto
l'adozione di adeguate misure di pubblicità
costituisce un elemento imprescindibile a
garanzia della massima conoscenza e della
conseguente partecipazione alle procedure di
gara.
- Infine, viene accolta la censura sub 4),
in quanto la riduzione degli operatori
economici, ammessi a partecipare alla
procedura selettiva, comporta una diversità
di disciplina, rispetto a quella statale,
idonea ad incidere negativamente sul livello
complessivo di tutela della concorrenza nel
particolare segmento di mercato preso in
considerazione.
Come ben si vede, la Corte costituzionale
interviene, con decisione e puntiglio, a
censurare le reali discrasie della normativa
regionale, rispetto a quella codicistica,
sulla base, primariamente, della necessità
di fornire congrua tutela ai primari
principi della concorrenza. Principi, che
possono essere garantiti in modo pieno e su
tutto il territorio nazionale, solo
attraverso il rispetto della disciplina del
Codice, cioè la disciplina statuale (tratto
dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it). |
APPALTI SERVIZI:
ILLUMINAZIONE VOTIVA.
E' del tutto pacifico in
giurisprudenza che l'illuminazione elettrica
votiva di aree cimiteriali da parte del
privato rappresenti oggetto di concessione
di servizio pubblico locale a rilevanza
economica perché richiede che il
concessionario impegni capitali, mezzi,
personale da destinare ad un'attività
economicamente rilevante in quanto
suscettibile, almeno potenzialmente, di
generare un utile di gestione e, quindi, di
riflettersi sull'assetto concorrenziale del
mercato di settore. Ai sensi dell'articolo
30 del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs
n. 163/2006), la disciplina sull'anomalia
delle offerte non si estende alle
concessioni di servizi, a meno che non sia
stato previsto in sede di disciplinare di
gara.
E' quanto affermato dal Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 24.03.2011 n. 1784.
Ora, al di là della conferma di un chiaro
indirizzo giurisprudenziale in tema di
tendenziale inapplicabilità dell'istituto
dell'offerta anomala in sede di concessione
di servizi, ciò che preme evidenziare è che,
ancora una volta, i giudici amministrativi
pongono in essere un'analisi
dell'illuminazione votiva ancora largamente
insoddisfacente. Invero, proprio l'inizio
dell'anno in corso ha registrato un inatteso
e controverso mutamento del tradizionale
orientamento, che può essere così
sintetizzato:
a) Fino al 2010, quasi senza eccezioni, la
giurisprudenza amministrativa inquadrava
l'illuminazione votiva nell'alveo dei
servizi pubblici locali a rilevanza
economica, con conseguente applicazione
della recente disciplina in materia,
rappresentata dall'articolo 23-bis della
legge n. 133/2008 e dal regolamento
attuativo, approvato con Dpr n. 168/2010 (CdS,
sez. V, sentenze n. 1600 e 6049; Tar
Lombardia, sez. Brescia II, n. 1509/2009;
Tar Calabria, sez. Catanzaro I, n.
2.20/2010).
b) Con la sorprendente sentenza del
Consiglio di Stato, sez. V, 26.01.2011, n.
552, si è consumato il primo revirement:
E' stato affermato che è legittima la scelta
del Comune di gestire direttamente il
servizio di illuminazione votiva
cimiteriale, esigente solo l'impegno
periodico di una persona e la spesa annua di
qualche migliaio di euro, laddove l'esborso
sarebbe notoriamente ben maggiore solo per
potersi procedere a tutte le formalità
necessarie per la regolare indizione di una
gara pubblica. Ciò, ovviamente, implica
l'innovativa connotazione di servizio
pubblico locale privo di rilevanza
economica.
c) Tale cambiamento di posizione viene
confermato dalla successiva sentenza del Tar
Lazio, sez. Roma II, 04.02.2011, n. 1.077,
ove viene espressamente affermato che, in
ragione dei ridotti margini di profitto, non
può dubitarsi che il servizio di
illuminazione votiva sia privo di rilevanza
economica.
d) Con la successiva sentenza Tar Lombardia,
sez. Milano I, 11.02.2001, si ritorna alla
vecchia tesi dell'illuminazione votiva quale
servizio pubblico locale a rilevanza
economica.
I movimenti sussultori della giurisprudenza,
a ben vedere, non sembrano essersi arrestati
con la sentenza in esame.
Infatti, se è vero che il CdS conferma la
vecchia tesi della rilevanza economica, è
parimenti vero che pone in essere, al
contempo, un'operazione ermeneutica
assolutamente non chiara, laddove, per
giustificare l'inapplicabilità della
verifica dell'anomalia delle offerte, fa
riferimento alla concessione di servizi.
Ora, tale riferimento, chiaro ed espresso,
non può che significare che l'illuminazione
votiva è una concessione di servizi, quale
disciplinata dall'articolo 30 del Codice dei
contratti. Tuttavia, la concessione di
servizi è un istituto non equivalente ai
servizi pubblici locali a rilevanza
economica! Questo è il punto centrale della
questione ed anche il profilo di maggior
interesse della sentenza in esame, nel senso
che non è chiaro se il CdS confonda i due
istituti, non rilevando fra i due alcuna
differenza, o se ritenga che l'illuminazione
votiva abbia una natura promiscua (un po' di
concessione di servizi ed un po' di servizio
pubblico locale a rilevanza economica!).
Scartata la seconda ipotesi, per la sua
naturale improponibilità, occorre porre
attenzione alle differenze sussistenti fra i
due richiamati istituti, diversità, come
appare, denegate dal Consiglio di Stato.
In linea generale, deve essere osservato che
concessione di servizi e servizio pubblico
locale a rilevanza economica presentano le
seguenti differenze:
a) Differenze di sede di disciplina: la
concessione di servizi è regolamentata
dall'articolo 30 del Codice; il servizio
pubblico locale a rilevanza economica
dall'articolo 23-bis della legge n. 133/2008
e dal Dpr n. 168/2010.
b) Differenze di presupposti applicativi: il
servizio pubblico locale esige la
sussistenza, ai sensi del comma 1°,
dell'articolo 112, del D.Lgs n. 267/2000, di
un'attività che abbia per oggetto produzione
di beni ed attività rivolte a realizzare
fini sociali e a promuovere lo sviluppo
economico e civile delle comunità locali.
Tale impegnativo presupposto manca del tutto
nella concessione di servizi!
c) Differenze in merito alla proprietà delle
reti ed impianti ed alla loro gestione
separata. Infatti, il comma 5°,
dell'articolo 23-bis, della L. n. 133/2008,
stabilisce che ferma restando la proprietà
pubblica delle reti, la loro gestione può
essere affidata a soggetti privati.
Se analizziamo attentamente tale
disposizione normativa, ci accorgeremo che
sono evidenti le diversità con
l'illuminazione votiva. Ed, infatti:
- La proprietà pubblica delle reti ed
impianti costituisce un totem insuperabile
per i servizi pubblici locali, i cui
affidamenti non possono prescinderne.
Viceversa, gli impianti dell'illuminazione
votiva diventano di proprietà comunale solo
al termine della concessione;
- Non esiste, nel settore dell'illuminazione
votiva, alcuna possibilità di separare
l'erogazione del servizio dalla gestione
delle reti;
- Ancor di più, non è pensabile, per
l'illuminazione votiva, una gestione delle
reti e degli impianti da parte dei privati,
per la banale ed ovvia ragione che gli
impianti sono realizzati dal privato
concessionario, da lui gestiti e, solo al
termine della concessione, vengono conferiti
in proprietà al Comune.
Ora, oltre a queste chiare differenze,
occorre tener conto di un recente parere
dell'Autorità di Vigilanza (n. 28 del
09.02.2011), ove, in relazione ad una
fattispecie di affidamento in gestione di
sei asili nido comunali di infanzia,
comprensivo di manutenzione ordinaria e
straordinaria degli immobili concessi in uso
gratuito, è stata posta in essere
un'interessante analisi del complessivo
articolo 30 del Codice, che disciplina la
concessione di servizi.
L'AVCP afferma che il predetto articolo
distingue testualmente, come possibile
oggetto di concessione, tra servizi a terzi
(comma 5°) e diritti speciali o esclusivi ad
esercitare un'attività di servizio pubblico
(comma 6°). In altri termini, ad avviso
dell'Autorità di Vigilanza, occorre
distinguere due casi:
1) Il caso, in cui un'autorità cede ad un
terzo il diritto di svolgere una determinata
attività economica.
2) Altro caso è, invece, costituito dalla
cessione, in favore di un soggetto privato,
di diritti speciali o esclusivi ad
esercitare un'attività di servizio pubblico.
In tale evenienza, l'attività si colora di
particolari connotati pubblicistici, in
quanto costituisce adempimento di una
specifica missione di interesse pubblico.
Dunque, ad avviso dell'Autorità, la
fattispecie sub 1) costituisce la versione
più pura di concessione di servizi a terzi,
in quanto, a differenza della concessione di
servizio pubblico, non contempla mai la
corresponsione, da parte della Pubblica
amministrazione, di un prezzo a favore del
concessionario. Infatti, il 2° comma
dell'articolo 30 del Codice stabilisce che
la remunerazione del concessionario si fonda
in toto sulla gestione del servizio
(tipologia pura o calda di concessione di
servizi, secondo l'AVCP). Viceversa, la
fattispecie sub 2) si riferisce al secondo
capoverso del predetto 2° comma, cioè a
quella che l'Autorità definisce come
concessione di servizio pubblico (o fredda),
in cui la Pubblica amministrazione compensa
l'operatore economico con un prezzo al fine
di mantenere le tariffe al di sotto di un
certo livello o garantire lo standard
qualitativo del servizio politicamente
desiderato.
Dunque, secondo l'analisi dell'Autorità di
Vigilanza, la concessione di servizio
pubblico si connota peculiarmente per la
presenza di un prezzo, che viene corrisposto
dall'ente pubblico in favore del privato.
Ciò, in conseguenza di ragioni
politico-amministrative: qualora al
concessionario venga imposto di praticare
nei confronti degli utenti prezzi inferiori
a quelli corrispondenti alla somma del costo
del servizio e dell'ordinario utile di
impresa, ovvero qualora sia necessario
assicurare al concessionario il
perseguimento dell'equilibrio
economico-finanziario degli investimenti e
della connessa gestione in relazione alla
qualità del servizio da prestare (art. 30,
comma 2°).
Orbene, non può sfuggire, anche in base ad
un'analisi non particolarmente approfondita,
che l'illuminazione votiva non contempla mai
e poi mai la corresponsione dell'illustrato
prezzo dall'ente pubblico in favore
dell'operatore privato vincitore della gara.
Anzi, come dimostrato dalla concreta vicenda
esaminata dal Consiglio di Stato, avviene
precisamente il contrario: è l'operatore
privato, che conferisce alla Pubblica
amministrazione un canone!
Ciò dovrebbe dimostrare, ancora una volta,
che l'attività di illuminazione votiva non
può essere inquadrata nell'alveo dei servizi
pubblici locali, indipendentemente dalla
rilevanza economica dell'attività medesima.
L'attività di illuminazione votiva non
manifesta, per le ragioni sin qui dette,
alcuna contiguità con i servizi pubblici
locali, ma, come correttamente rilevato
dall'Autorità di Vigilanza (parere n.
21097/08/UAG del 15.04.2008), oscilla fra la
concessione di servizi e la concessione di
lavori pubblici (tratto dalla newsletter di
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APPALTI:
PUBBLICITA' SEDUTE DI GARA.
Il principio di
pubblicità, che risponde all'esigenza di
garantire la trasparenza delle operazioni di
gara, opera, indipendentemente dal fatto che
il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in
cui all'aggiudicazione si pervenga
attraverso un'attività di tipo
procedimentale, ancorché semplificata e,
quindi, anche in relazione ai cottimi
fiduciari.
E' quanto affermato dal TAR Sardegna, Sez.
I, con la
sentenza 10.03.2011 n. 212, ove
viene consolidato l'orientamento favorevole
ad una generale applicabilità del principio
di pubblicità delle sedute di gara,
indipendentemente dalla prescelta tipologia
di individuazione del miglior contraente.
Dunque, il cottimo fiduciario, quale
procedura negoziata in economia, risulta
disciplinato dalle disposizioni normative,
contenute nell'articolo 125 medesimo, e dai
principi regolanti l'affidamento e
l'esecuzione del contratto, previsti
dall'articolo 2 del Codice. Ora, fra questi
principi, vi è pure quello di pubblicità.
Tuttavia, come si anticipava, non risulta
del tutto pacifico se, relativamente al
cottimo fiduciario, tale principio comporti
pure la pubblicità delle sedute di gara,
cioè la loro non riservatezza.
In altri termini, si discute se il principio
in questione imponga la pubblicità delle
sedute di gara di cottimo fiduciario, al
pari delle altre procedure di scelta del
contraente. Secondo un primo orientamento,
le sedute di cottimo possono svolgersi anche
in modo riservato:
- Il principio di pubblicità delle gare non
si estende alla procedura avente ad oggetto
l'acquisizione di forniture in economia ed
in cottimo fiduciario, non essendo
l'osservanza di tale principio previsto per
essa dall'articolo 125, del codice dei
contratti pubblici (Tar Piemonte, sez. II,
n. 2243/2009).
- Versandosi in tema di cottimo fiduciario,
l'invocato principio di pubblicità delle
gare non si estende alla procedura avente ad
oggetto l'acquisizione di forniture in
economia, non essendo l'osservanza di tale
principio previsto dall'art. 125 del D.Lgs.
12.04.2006 n. 163 (Tar Friuli, n. 716/2010).
Ad avviso di tale orientamento, assume
importanza il fatto che l'articolo 125, che
disciplina le procedure in economia ed il
cottimo fiduciario, non contempla il
principio di pubblicità. In tal modo, si
sottovaluta completamente il rinvio, che lo
stesso comma 14° dell'articolo 125 compie ai
principi desumibili dal codice e dal
regolamento. Una lettura indubbiamente
restrittiva, che appare preoccupata solo di
valorizzare al massimo le caratteristiche di
semplificazione del cottimo, dimenticando,
in modo non convincente, il rinvio ai
principi.
Viceversa, secondo un altro indirizzo,
proprio l'assetto dei principi generali, cui
anche le procedure in economia debbono
inspirarsi, implica la doverosa pubblicità
delle sedute di gara: Contrariamente a
quanto la resistente amministrazione mostra
di ritenere il principio di pubblicità delle
sedute, che risponde all'esigenza di
garantire la trasparenza delle operazioni di
gara, opera, anche nei riguardi del cottimo
fiduciario ed indipendentemente dal fatto
che il bando lo preveda (Tar Sardegna, sez.
I, n. 85/2011).
Ciò comporta che la fase di apertura dei
plichi, contenenti la documentazione
amministrativa e la verifica della medesima,
nonché quella di apertura delle buste con le
offerte economiche, devono sempre avvenire
in seduta pubblica, così da assicurare a
tutti i partecipanti la possibilità di
assistere alle relative operazioni, a tutela
del corretto svolgimento della procedura. In
precedenza, la pubblicità delle sedute era
stata statuita anche dal Consiglio di Stato
(sez. V, n. 8006/2010), il quale aveva
rilevato che le procedure per
l'aggiudicazione di contratti con la P.A.,
compresa la trattativa privata, debbono
rispettare i principi di trasparenza e di
adeguata pubblicità.
Il Tar Sardegna, nella pronuncia in esame,
aderisce a tale secondo orientamento, sulla
base del seguente e convincente percorso
argomentativo:
a) Il cottimo fiduciario, ai sensi della
richiamata normativa, ha natura di procedura
negoziata.
b) Il Dpr n. 384/2001 (regolamento di
semplificazione dei procedimenti di spese in
economia), cui fa riferimento la difesa
dell'impresa controinteressata, nulla
dispone in ordine alle modalità di
svolgimento delle sedute di gara, per cui
non è idoneo a sorreggere un'interpretazione
restrittiva della portata applicativa del
principio di pubblicità.
c) Diversamente opinando, peraltro, il
regolamento sarebbe da disapplicare, in
quanto contrastante con un principio
operante a livello di norma primaria (art.
2, Codice).
d) Contrariamente a quanto sostenuto dalla
stazione appaltante, nessun rilievo può
essere attribuito al fatto che l'allegato
IX-A al Codice dei contratti pubblici
individui le persone ammesse ad assistere
all'apertura delle offerte solo con riguardo
alle procedure aperte.
e) Infatti, il principio di pubblicità
esplica una valenza generale ed opera, anche
in quanto diretto a garantire la
trasparenza, indipendentemente dal fatto che
il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in
cui all'aggiudicazione si pervenga
attraverso un'attività di tipo
procedimentale, ancorché semplificata e,
quindi, anche in relazione ai cottimi
fiduciari.
Il secondo indirizzo, cui aderisce la
sentenza in esame, appare sicuramente più
convincente, oltre che per le ragioni ora
illustrate, anche per due precise
considerazioni. In primo luogo, deve essere
osservato che il principio di pubblicità
delle sedute di gara trova applicazione
anche nei settori speciali (gas, energia
termica, elettricità, acqua, trasporti,
servizi postali, sfruttamento di area
geografica): Sussiste la necessità
dell'obbligo di seduta pubblica anche nei
settori speciali, come da ultimo più volte
affermato (TAR Lombardia, Sez. I, 23.09.2009
n. 4801, TAR Lombardia, Sez. I 13.10.2008 n.
4757), atteso che le medesime istanze poste
a fondamento del principio di trasparenza,
che hanno indotto la stazione appaltante
all'apertura in seduta pubblica della
documentazione amministrativa, debbano, a
maggior ragione, trovare applicazione anche
in sede di apertura dell'offerta economica (Ord.
Tar Lombardia, sez. Milano, 30.09.2010, n.
1061). Quindi, se il principio trova
applicazione anche nei settori speciali,
contrassegnati da rilevanti peculiarità
anche di disciplina, non si comprende perché
non debba trovare cittadinanza in relazione
al cottimo fiduciario, ricompreso nei
settori ordinari.
In secondo luogo, occorre tener conto anche
dell'oramai imminente disciplina
regolamentare (Dpr n. 207/2010, entrante in
vigore l'08.06.2011). Infatti, il comma 2°,
dell'articolo 120, ricompreso nella Parte II,
disciplinante i settori ordinari, stabilisce
che “in una o più sedute riservate, la
commissione valuta le offerte tecniche e
procede all'assegnazione dei relativi
punteggi applicando, i criteri e le formule
indicati nel bando o nella lettera di
invito. Successivamente, in seduta pubblica,
la commissione dà lettura dei punteggi
attribuiti alle singole offerte tecniche,
procede alla apertura delle buste contenenti
le offerte economiche e, data lettura dei
ribassi espressi in lettere e delle
riduzioni di ciascuna di esse, procede
secondo quanto previsto dall'articolo 121
(calcolo della soglia di anomalia)".
Appare ben chiaro che la seduta pubblica si
impone sempre, a prescindere dalla tipologia
di gara, mentre la seduta riservata viene
confinata alla sola fase di valutazione
delle offerte tecniche (tratto dalla
newsletter di
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- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
1. Inquinamento acustico
- Potere di ordinanza ex art. 9 L. n. 447/1995
- Maggiore ampiezza rispetto alla previsione
generale di cui all'art. 54 d.lgs. n.
267/2000 - Accertamenti tecnici effettuati
dall'ARPA - Minaccia per la salute pubblica.
2. Inquinamento acustico - Ordinanza ex art.
9 L. n. 447/1995 - Competenza del Sindaco.
1. L'art. 9 L. n. 447/1995 attribuisce al
Sindaco poteri di intervento richiesto da
urgente necessità di tutela della salute
pubblica in senso più ampio che non laddove
si dovesse ricorrere ai normali poteri di
cui all'art. 54 D.lgs. 267/2000.
L'uso del
potere di ordinanza contingibile ed urgente,
delineato dall'art. 9 cit., deve pertanto
ritenersi sempre ammesso laddove gli
accertamenti tecnici all'uopo effettuati
dalle competenti Agenzie Regionali di
Protezione Ambientale rivelino la presenza
di un fenomeno di inquinamento acustico,
tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione
dell'art. 2 della stessa Legge n. 447/1995)- rappresenta una minaccia per la salute
pubblica, sia che la Legge quadro
sull'inquinamento acustico non configura
alcun potere di intervento amministrativo
"ordinario" che consenta di ottenere il
risultato dell'immediato abbattimento delle
emissioni sonore inquinanti.
2.
Le ordinanze ex art. 9 L. n. 447/1995, in
materia di inquinamento acustico, sono
attribuite alla competenza del Sindaco (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza
31.01.2011 n.
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EDILIZIA PRIVATA:
1. Contributi e oneri concessori
- Mutamenti di destinazione d'uso -
Necessità.
2. Contributi e
oneri concessori - Previsione di distinte
sottocategorie di destinazioni d'uso con
diversi importi dei contributi concessori -
Legittimità.
1. La necessità di corrispondere i
contributi concessori anche per i mutamenti
di destinazione d'uso è principio
enucleabile dall'art. 10, ultimo comma,
della Legge n. 10 del 1977, al fine di
evitare che, quando la nuova tipologia
assegnata all'immobile avrebbe comportato
all'origine un più oneroso regime
contributivo urbanistico, attraverso la
modifica della destinazione il contributo
possa essere evaso in tutto o in parte a
vantaggio del richiedente e, di contro, con
l'aggravio urbanistico già valutato in sede
di fissazione di quel regime contributivo.
2. Deve ritenersi legittima la suddivisione
delle categorie di destinazione d'uso in più
sottocategorie o sottofunzioni, con diversa
onerosità dal punto di vista dei contributi
di costruzione, laddove ciò sia giustificato
da significative diversità del carico
urbanistico implicato dall'una o dall'altra
di esse, tale da giustificare diverse
modulazioni di calcolo del contributo concessorio (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza
26.01.2011 n.
240 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Acqua e corsi d'acqua -
Vincolo di rispetto fluviale - Art. 39 L.r.
Lombardia n. 51/1975 - Opere edilizie
preordinate all'esercizio dell'agricoltura -
Esclusione dal vincolo - Disciplina
urbanistica comunale - Previsione di norme
più restrittive - Legittimità.
L'art. 39 della L.R. Lombardia 15.04.1975,
n. 51, nella parte in cui esclude le opere
edilizie preordinate all'esercizio
dell'agricoltura, dal vincolo di rispetto
fluviale stabilito dalla legge, non
costituisce un limite alla successiva
potestà urbanistica comunale.
Il vincolo legale temporaneo introdotto
dalla legge regionale non costituisce
infatti oggetto necessario della successiva
disciplina urbanistica comunale, la quale
resta libera di dettare norme diverse, anche
più restrittive, come si desume dalla
previsione dello scopo "di migliorare le
condizioni di tutela del patrimonio naturale
e paesaggistico" e dalla previsione che
la disciplina urbanistica deve
obbligatoriamente ridefinire le condizioni
del vincolo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza
26.01.2011 n.
239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Responsabilità della
pubblica amministrazione - Presupposto colpa
- Illegittimità dell'atto - Sufficienza.
Non è richiesto al privato danneggiato da
un provvedimento amministrativo illegittimo
un particolare impegno probatorio per
dimostrare la colpa della P.A., potendo
limitarsi ad invocare l'illegittimità
dell'atto quale indice presuntivo di colpa.
Spetta all'Amministrazione dimostrare che si
è trattato di un errore scusabile,
configurabile in caso di contrasti
giurisprudenziali sull'interpretazione di
una norma, di formulazione incerta di norme
da poco entrate in vigore, di rilevante
complessità del fatto, di influenza
determinante di comportamenti di altri
soggetti, di illegittimità derivante da una
successiva dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza
19.01.2011 n.
138 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Istanza di condono
successiva all'ordinanza di demolizione -
Impugnazione - Improcedibilità.
La presentazione di una istanza di
condono edilizio successivamente
all'ordinanza di demolizione del manufatto
abusivo produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione del medesimo
ordine di demolizione, per sopravvenuta
carenza di interesse, in quanto il riesame
dell'abusività dell'opera, sia pure al fine
di verificarne l'eventuale sanabilità,
provocato dall'istanza di condono, comporta
la necessaria formazione di un nuovo
provvedimento che vale comunque a superare
il provvedimento sanzionatorio oggetto
dell'impugnativa (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza
18.01.2011 n.
133 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione - Ex art. 43 del
D.P.R. 327/2001 - Intervenuta illegittimità
costituzionale - Rileva.
E' accolto il ricorso avverso il decreto con
il quale il Dirigente del Servizio
Valutazioni Immobiliari ed Espropri del
Comune di Milano ha disposto l'acquisizione,
ai sensi dell'art. 43 del D.P.R. 08.06.2001
n. 327, al patrimonio del Comune di Milano
dell'immobile di proprietà dei ricorrenti.
Si tratta in particolare dell'acquisizione
al patrimonio indisponibile dell'Ente di
un'area di proprietà delle ricorrenti ex
art. 43 che la Corte Costituzionale ha
successivamente dichiarato l'illegittimità
costituzionale del citato art. 43 in quanto
ritenuto in contrasto con l'art. 76 della
Costituzione.
Per giurisprudenza costante del giudice
amministrativo -inaugurata con la
fondamentale pronuncia dell'adunanza
plenaria del Consiglio di Stato 08.04.1963
n. 8- la dichiarazione di illegittimità
costituzionale di una norma che disciplina
il potere esercitato dall'amministrazione
rende il provvedimento adottato in
applicazione di quella norma non già nullo o
inesistente ma illegittimo.
La giurisprudenza -al fine di confutare una
tesi autorevolmente sostenuta, secondo la
quale l'atto emanato sulla base di una norma
dichiarata incostituzionale va considerato
nullo perlomeno quando la norma stessa è
quella che non si limita a disciplinare le
modalità di esercizio, ma fonda il potere
amministrativo,- ha affermato, da un lato,
che il potere esercitato
dall'amministrazione si radica pur sempre su
una disposizione legislativa vigente al
momento dell'adozione del provvedimento, e
quindi efficace in quel momento (ancorché
illegittima per contrasto a Costituzione);
e, da altro lato, che fra provvedimento
amministrativo e norma che ne costituisce il
presupposto legislativo non intercorre un
legame di stretta interdipendenza
paragonabile a quello che si instaura fra
atto endoprocedimentale e provvedimento
finale, ma che al contrario i due atti
godono di un certo grado di autonomia che
permette al provvedimento di continuare ad
esistere nonostante l'intervenuta
inefficacia della legge contraria a
Costituzione.
Per conseguenza l'atto amministrativo, una
volta intervenuta la pronuncia della Corte
Costituzionale, continua a produrre i propri
effetti sino a che non venga rimosso
dall'ordinamento attraverso l'esercizio del
potere amministrativo di autotutela ovvero
attraverso una sentenza di annullamento
emessa dal giudice amministrativo (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
III,
sentenza 29.12.2010 n.
7741 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Reiterazione vincoli
urbanistici - Motivazione - Necessità
interesse pubblico.
Se non è richiesto che la motivazione
della reiterazione dei vincoli urbanistici a
contenuto di esproprio sia specifica in
relazione alla destinazione di zone delle
singole aree, è comunque necessario che essa
evidenzi la sussistenza della attualità e
della persistenza delle esigenze
urbanistiche in quel senso. È necessario
evidenziare l'attualità dell'interesse
pubblico da soddisfare, in quanto si tratta
di atti che incidono sulla sfera di un
proprietario che già per cinque anni è stato
titolare di un bene suscettibile di
dichiarazione di pubblica utilità e
successivamente di esproprio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 27.12.2010 n.
7707 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Piano regolatore generale -
Impugnare la delibera di adozione -
Facoltativo.
2. Disciplina urbanistica - Vincolo
espropriativo - Dovere di motivazione - Non
sussiste - Reiterazione sull'area - Difetto
di motivazione - Non sussiste.
3. Piano regolatore - Partecipazione alla
formazione.
4. Piano regolatore - Varianti -
Approvazione - Contestazione sulle
prescrizioni - Generica.
5. Piano regolatore - Variante - Piano di
servizi - Non necessita.
6. Piano regolatore - Piano finanziario -
Espropriazioni .
1. E' respinto il ricorso avverso la
deliberazione del Consiglio comunale di
adozione del piano regolatore e della Giunta
regionale di approvazione con prescrizioni
dello stesso piano.
Per costante
giurisprudenza, l'impugnazione della
delibera di adozione del piano regolatore,
qualora sia immediatamente lesiva,
costituisce solo una facoltà, in quanto i
vizi ad essa riferibili possono essere
dedotti in sede di impugnazione della
deliberazione: anche i vizi riferibili ad
atti intermedi, come la valutazione delle
controdeduzioni, possono essere -per
giurisprudenza consolidata- dedotti in sede
di impugnativa del provvedimento finale di
approvazione (cfr. Tar Lombardia Milano,
sez. II, 29.01.2009, n. 989).
2. Infondato è anche il motivo sul difetto
di motivazione circa la reiterazione sull'
area di proprietà dei ricorrenti: emerge che
le aree di cui si tratta sono sottoposte ad
una disciplina che non consiste
nell'assoggettamento ad un vincolo
espropriativo, con conseguente insussistenza
di un dovere di puntuale motivazione, atteso
che la nuova disciplina urbanistica, posta
in essere con gli atti impugnati, non ha
comportato alcune reiterazione di vincoli
espropriativi.
In particolare,
l'individuazione, in sede di pianificazione
urbanistica, delle aree soggette a tale
regime non comporta alcuna reiterazione di
vincoli espropriativi e non impone un
particolare onere motivazionale.
3. Sull'inosservanza delle formalità di
carattere informativo previste dalla l.r.
n. 1/2010 per assicurare la partecipazione
della cittadinanza, nonché della regione e
della provincia al processo di formazione
del piano regolatore, si ribadisce che le
formalità pubblicitarie previste dal comma
14, lett. a), si collocano nella fase
preliminare di redazione del piano, anzi
precedono l'avvio del procedimento di
formazione dello strumento urbanistico; si
tratta dunque di adempimenti che non possono
pretendersi laddove questa fase sia già
esaurita. In tema di formazione del piano
regolatore generale, l'art. 8 della l. n.
1150/1942 identifica il momento iniziale del
procedimento con la deliberazione con la
quale il consiglio comunale decide di
procedere alla formazione del piano e alla
nomina dei progettisti.
4. E' generica la contestazione sulle
prescrizioni apposte dalla regione in sede
di approvazione della variante, e infatti il
ricorrente non ne identifica alcuna che
riguardi specificamente la situazione
giuridica soggettiva di cui è titolare, a
tutela della quale agisce in questa sede e
che arrechi alla medesima un vulnus
specifico privandolo di una qualche utilità
o aspettativa: non è dato comprendere quale
lesione ne sia derivata al ricorrente, posto
che nessuna delle prescrizioni apposte dalla
regione è riferibile alla situazione delle
proprie aree.
5. Sulla variante adottata dopo l'entrata in
vigore della l.r. n. 1/2001, che prevede il
piano di servizi, si ribadisce che la stessa
non doveva essere obbligatoriamente
corredata dal piano servizi, secondo quanto
già evidenziato dal Tribunale su analoga
questione (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. II, 29.01.2009, n. 989, nonché Tar
Lombardia Milano, sez. II, 15.07.2008 n.
2921).
Infatti, il piano dei servizi è
previsto dall'art. 22 della l.r. n. 51/1975
(disciplina urbanistica del territorio
regionale), nel testo sostituito dall'art. 7
della l. r. n. 1/2001 (norme per la
dotazione di aree per attrezzature pubbliche
e di uso pubblico).
6. Il piano finanziario di cui all'art. 30
della l.r. urbanistica (cioè la relazione
previsionale di massima delle spese
occorrenti) non deve riferirsi
indiscriminatamente a tutte le
espropriazioni, bensì solo a quelle fondate
sull'art. 18 della l. n. 1150/1942, cioè
agli immobili (aree inedificate o
costruzioni) da espropriare "entro le zone
di espansione dell'aggregato urbano di cui
al n. 2 dell'art. 7" (cfr. TAR Lombardia
Milano, sez. II, 16.05.2007 n. 4139 e n.
4141, nonché 31.05.2007, n. 4737).
In
ogni caso, la relazione
economico-finanziaria richiesta dall'art. 30
non costituisce elemento essenziale del
piano regolatore generale, potendo
sopravvenire in un momento successivo,
allorché il Comune deliberi l'espropriazione
delle aree private interessate dal vincolo
(Consiglio di Stato, sez. IV, 18.10.2002) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
III,
sentenza 21.12.2010 n.
7636 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piano regolatore
generale - Adozione - Impugnazione -
Facoltà.
La delibera di adozione del Piano
regolatore generale [o di una sua variante]
può formare oggetto di immediata
impugnazione, ma ciò non costituisce un
onere ma una semplice facoltà, con la
conseguenza che il suo mancato esercizio non
comporta alcuna preclusione circa
l'impugnazione della successiva approvazione
del piano. Quindi, la conoscenza dell'atto
di adozione comunale non è idonea a far
decorrere il termine per l'impugnazione nei
confronti del ricorrente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 20.12.2010 n.
7623 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Legittimità e illegittimità - Violazioni
-Annullamento in s.g - Art. 21-octies L.
241/1990 - Limiti.
Ai sensi dell'art. 21-octies della Legge n.
241 del 1990, non è annullabile il
provvedimento adottato in violazione di
norme sul procedimento o sulla forma degli
atti qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto
essere diverso da quello in concreto
adottato (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 20.12.2010 n.
7622 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cambio di destinazione senza
opere - Non determina mutamento urbanistico-edilizio del territorio
comunale.
A seguito della sentenza della Corte
costituzionale n. 73/1991, per principio
generale, il semplice cambio di destinazione
attuato senza opere non costituisce
mutamento urbanistico-edilizio del
territorio comunale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 14.12.2010 n.
7562 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Inquinamento acustico -
Zonizzazione acustica e urbanistica -
Corrispondenza - Esclusione.
Non esiste piena corrispondenza tra
zonizzazione urbanistica ed acustica: la
finalità principale del Piano di
zonizzazione acustica è infatti quella della
tutela della salute umana in relazione
all'inquinamento acustico e deve pertanto
ritenersi differente dagli scopi propri
della pianificazione urbanistica, con la
conseguenza che la classificazione ai fini
urbanistici non deve corrispondere
pienamente con quella acustica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 13.12.2010 n.
7545 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione edilizia -
Costruzione - Modifica dello stato dei
luoghi.
La nozione di costruzione, ai fini del
rilascio della concessione edilizia, si
configura in presenza di opere che attuino
una trasformazione urbanistico - edilizia
del territorio, con perdurante modifica
dello stato dei luoghi, a prescindere dal
fatto che essa avvenga mediante
realizzazione di opere muraria; infatti è
irrilevante che le dette opere siano
realizzate in metallo, in laminati di
plastica, in legno o altro materiale,
laddove comportino la trasformazione del
tessuto urbanistico ed edilizio (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 10.12.2010 n.
7497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere
condonabili - Criterio del completamento
funzionale dell'opera.
In tema di ultimazione delle opere
condonabili, gli articoli 31, comma 2 e 43,
comma 5 della Legge n. 47/1985 dettano -in
alternativa al criterio della esecuzione al
rustico e completamento della copertura
dell'edificio- il criterio del
completamento funzionale dell'opera, secondo
il quale, per i mutamenti di destinazione
d'uso di edifici non residenziali, è
condonabile la struttura in cui le opere,
pur se non perfette fin nelle finiture,
possono dirsi individuabili nei loro
elementi strutturali con le caratteristiche
necessarie e sufficienti ad assolvere la
funzione cui sono destinate, in quanto i
lavori di completamento di un edificio
abusivamente iniziato, non preclusivi della
sanatoria, sono quelli che servono a rendere
funzionale il rustico di per sé già
ultimato, senza intervenire sulla
conformazione strutturale del manufatto, che
deve rimanere intatto nella sua originaria
consistenza.
Non possono, diversamente,
considerarsi opere di completamento
funzionale quelle che si traducono nella
creazione di un quid novi rispetto alla
consistenza strutturale e tipologica del
manufatto già realizzato e che attribuiscono
una diversa caratterizzazione funzionale
allo stesso (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 10.12.2010 n.
7497 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Piano regolatore - Motivazione
dettagliata delle scelte urbanistiche - Non
sempre necessaria.
2. Piano regolatore
- Area agricola - Utilizzo culture tipiche -
Non necessario.
1. L'obbligo di una più puntuale motivazione
delle scelte urbanistiche adottate
dall'Amministrazione sussiste solo in
specifiche evenienze, quali il superamento
degli standards minimi, l'esistenza in
favore del privato di giudicati favorevoli
ovvero la presenza di accordi con l'Ente
locale, quali le convenzioni di
lottizzazione.
Tali ipotesi non ricorrono
nel caso in cui non esiste alcun atto o
provvedimento dell'Amministrazione comunale
dal quale si possa ragionevolmente desumersi
l'esistenza in favore dei ricorrenti di un
affidamento qualificato.
2.
La destinazione a zona agricola di una
determinata area non presuppone
necessariamente che essa sia utilizzata per
culture tipiche o possegga le
caratteristiche per una simile
utilizzazione, trattandosi di una scelta,
tipicamente e ampiamente discrezionale, con
la quale l'Amministrazione comunale ben può
avere l'interesse a tutelare e salvaguardare
il paesaggio o a conservare valori
naturalistici ovvero a decongestionare o
contenere l'espansione dell'aggregato urbano (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 25.11.2010 n.
7362 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Controversie in materia di
appalto pubblico - Giurisdizione.
Ai fini del riparto della giurisdizione tra
g.o. e g.a., rileva non tanto la
prospettazione compiuta dalle parti, quanto
il "petitum" sostanziale, che va
identificato soprattutto in funzione della "causa
petendi", ossia dell'intrinseca natura
della posizione dedotta in giudizio,
(Cassazione civile, sez. un., 25.06.2010 n.
15323), ne consegue che, qualora il
petitum sostanziale azionato sia una
domanda diretta ad accertare la corretta
esecuzione del contratto di appalto,
l'illegittimità dell'atto di risoluzione e
la persistente vigenza delle obbligazioni
reciprocamente assunte, l'oggetto della
controversia, concentrandosi inequivocamente
sulla disposta risoluzione del contratto,
rientra nella sfera di cognizione del
giudice ordinario.
È pacifica, infatti, l'appartenenza alla
giurisdizione del giudice ordinario delle
controversie in tema di appalto pubblico,
aventi ad oggetto la risoluzione del
contratto con l'appaltatore e l'accertamento
del diritto di quest'ultimo a proseguire il
rapporto con l'Amministrazione committente,
ancorché l'atto rescissorio della P.A. sia
rivestito dalla forma dell'atto
amministrativo, perché è al giudice
ordinario che spetta verificare la
conformità alla normativa positiva delle
regole attraverso cui i contraenti hanno
disciplinato i loro contrapposti interessi e
delle relative condotte attuative (ex
plurimis, TAR Campania Napoli, sez. VII,
05.06.2009 n. 3110; TAR Abruzzo Pescara,
sez. I, 14.07.2009 n. 511; Consiglio Stato,
sez. V, 17.10.2008 n. 5071; Consiglio Stato,
sez. V, 28.12.2006 n. 8070) (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
III,
sentenza 24.11.2010 n.
7346 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1. Atto amministrativo -
Motivazione - Finalità.
2. Procedimento amministrativo -
Comunicazione di avvio - Necessità.
1. In un atto amministrativo la motivazione
è finalizzata ad esternare i presupposti di
fatto e le ragioni giuridiche che hanno
indotto ad adottare una determinata
decisione, sia al fine di rendere edotti i
destinatari dell'attività amministrativa del
percorso seguito per giungere alla predetta
decisione, sia per consentire al giudice,
eventualmente investito della questione, di
sindacarne lo svolgimento e l'esito finale.
2. La comunicazione di avvio del
procedimento deve ritenersi tanto più
necessaria allorquando venga avviato un
procedimento volto all'adozione di un
provvedimento di revoca di un atto ampliativo della sfera giuridica del
destinatario, dovendo quest'ultimo essere
posto in grado di interloquire sulla
(presunta) mancanza dei presupposti a
fondamento della revoca (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 17.11.2010 n.
7284 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di ristrutturazione su
immobili abusivi - Effetto preclusivo sulla
potestà demolitoria - Esclusione.
Non possono svolgersi opere di
ristrutturazione o di manutenzione
straordinaria su un manufatto abusivo e mai
oggetto di sanatoria edilizia: tale
ulteriore attività costruttiva non può
spiegare alcun effetto preclusivo sulla
potestà di reprimere l'opera abusiva nella
sua interezza. Ne consegue che non può
invocare il regime sanzionatorio più
favorevole previsto per il recupero del
patrimonio edilizio esistente legittimamente
realizzato, colui che ha svolto opere
edilizie su immobili abusivi, le quali
assumono la stessa qualificazione giuridica
dell'immobile abusivamente realizzato.
In
caso contrario, infatti, l'abuso minore
successivo in sostanza giustificherebbe
l'applicazione di una sanzione minore,
addirittura non demolitoria, estinguendo la
potestà sanzionatoria nei confronti
dell'abuso maggiore precedente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV,
sentenza 08.11.2010 n.
7206 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Finte trasferte del sindaco,
condanna per truffa.
Rischia una condanna
per truffa il sindaco o l'assessore che
spaccia dei viaggi personali con la moglie
per occasioni ufficiali e istituzionali,
accollando all'ente locale tutte le spese.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione
che, con la
sentenza 12.05.2010 n. 18071, ha
dichiarato estinto per prescrizione il reato
di truffa contestato a un sindaco e ad
alcuni amministratori che si erano fatti
rimborsare soggiorni e vacanze dal comune,
spacciandoli per occasioni ufficiali.
Insomma dal Palazzaccio non è arrivata
un'assoluzione piena.
Ciò perché, ha motivato la quinta sezione
penale, i funzionari comunali che chiedono
le indennità e il rimborso spese in
relazione a una missione «asseritamente
svolta nell'interesse del comune, ma in
realtà organizzata per motivi personali,
commettono i reati di falso e truffa».
Il caso a San Giovanni Rotondo dove sindaco
e assessori andavano in giro per tutta
l'Italia in compagnia e si facevano
rimborsare anche le spese di mogli e
fidanzate la cui presenza non veniva
dichiarata ma venivano maggiorate le fatture
facendo così pagare con soldi pubblici le
spese per di viaggio e soggiorno. Per questo
il Tribunale di Foggia aveva condannato il
primo cittadino e alcuni amministratori per
truffa e falso ideologico.
Nel 2009 la Corte d'appello di Bari aveva
confermato la misura. Contro questa
decisione i sette imputati hanno presentato
ricorso in Cassazione. Per sei di loro la
Suprema corte ha dovuto dichiarare la
prescrizione ma non li ha assolti
pienamente.
Sulle responsabilità degli imputati la
quinta sezione penale si è limitata a
constatarne la sussistenza, nonostante
l'assoluzione per gli stessi fatti dal reato
di peculato, e che «non sussistono elementi
dai quali possa ritenersi scaturisca
evidente la dimostrazione che il fatto non
sussiste o che gli imputati non lo abbiano
commesso, atteso che la sentenza impugnata
dà conto della ragioni della decisione con
motivazione ragionevole e condivisibile,
fondando il giudizio di responsabilità degli
imputati su prove documentali e
testimoniali, la cui valenza probatoria
risulta ampiamente scrutinata» (articolo
ItaliaOggi del 13.05.2010). |
I.C.I.:
E la destinazione urbanistica non
basta per l'esenzione Ici.
Ai fini dell'esenzione dall'Ici, il
certificato di destinazione urbanistica, non
è sufficiente a qualificare la natura
agricola di un fabbricato. Occorre difatti
conoscerne l'esatto classamento.
È quanto ha puntualizzato la Corte di
Cassazione con sentenza 24.03.2010 n.
7104, dovendo accertare la sussistenza
del requisito della ruralità in capo ad un
fabbricato strumentale all'esercizio
dell'attività agricola, di proprietà di un
coltivatore diretto.
Il fatto.
Il comune di Basano (Mi), a seguito di un
controllo, emetteva avviso di accertamento
per omesso versamento dell'Ici nei confronti
di un agricoltore, in quanto il fabbricato
da questi utilizzato per l'esercizio dell'
attività avicola, ancorché compreso in area
considerata agricola, difettava del
requisito di ruralità.
Interveniva in primo grado la Ctp,
osservando che, se correttamente,
l'appellante negava che un certificato di
destinazione urbanistica, potesse dimostrare
la strumentalità del fabbricato rispetto
all'impresa agricola, in ogni caso,
all'attività avicola in specie, doveva
riconoscersi natura agricola, e di
conseguenza anche al fabbricato utilizzato
per l'esercizio dell'attività agricola. A
sostegno di ciò, ribadiva che la qualità di
coltivatore diretto, con qualifica Iap,
integrava la dimostrazione diretta dei
requisiti soggettivi, e indirettamente di
quelli oggettivi, ai fini dell'esenzione
dall'Ici.
Il Comune a sua volta proponeva ricorso per
Cassazione, sostenendo che la Ctp aveva
tralasciato di considerare che la qualifica
ai fini fiscali della ruralità, è
disciplinata dall'art. 9, commi 3 e 3-bis
del dl n. 557/1993 convertito in legge n.
133/1994. Che non poteva essere ignorato.
La pronuncia.
La Cassazione, dopo aver ripercorso
l'originario impianto normativo istitutivo
dell'Ici (dlgs n. 504/1992), focalizzando
l'attenzione sul presupposto dello stesso
tributo, e tenuto conto dell'evoluzione
della materia in relazione ai fabbricati
rurali, ha osservato che il più recente
intervento legislativo, incidente nella
materia, è rappresentato dall'art. 23, comma
1, del dl n. 207 del 2008, convertito con
modificazioni, in legge n. 14 del 2009.
Tale articolo, intervenendo dopo tante
incertezze su una materia complessa, ha
chiarito definitivamente, con
interpretazione autentica (ossia con
retroattività), che i fabbricati rurali non
sono soggetti ad Ici, con ciò stabilendo un
diretto collegamento tra riconoscimento
della ruralità e normativa Ici.
La suprema corte, accogliendo il ricorso del
Comune, ha rimandato tuttavia ad altra
Sezione della medesima Ctr, per un nuovo
esame, alla luce dei riferiti principi,
dovendosi verificare il classamento
dell'immobile in lite. La sentenza in
argomento è importante in quanto solleva
ancora una volta l'annoso problema del
classamento dei fabbricati rurali, e di
conseguenza del riconoscimento della
ruralità in capo ad essi qualora ne
ricorressero i presupposti.
A tal riguardo, si segnala che sul tema si è
pronunciata di recente l'Agenzia del
Territorio, con una nota del 26/2/2010,
dichiarando che un immobile è considerato
rurale indipendentemente dalla categoria
catastale di appartenenza, purché vengano
soddisfatti i requisiti di ruralità previsti
dall'art. 9 del dl n. 557/1993.
Tuttavia, se è vero che il fabbricato
rurale, se in possesso dei requisiti
suindicati, è escluso dall'area di
imponibilità ai fini Ici, a prescindere dal
classamento, come puntualizzato dal
Territorio, è altrettanto vero che lo stesso
fabbricato deve essere dichiarato al
Catasto. Difatti, gli immobili che non
risultano dichiarati in tutto o in parte,
devono essere accatastati, per obbligo
normativo, ai fini del classamento e
dell'attribuzione della rendita. Salvo i
fabbricati iscritti al Catasto terreni
(articolo ItaliaOggi dell'08.05.2010). |
AGGIORNAMENTO AL 13.06.2011 |
ã |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO: Ente
provincia di Bergamo: la costituzione dei
fondi per le risorse decentrate in un ente
con dirigenza
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 08.06.2011). |
AUTORITA'
VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI |
APPALTI:
Seminario on-line - Nuovi obblighi di
tracciabilità finanziaria nei contratti
pubblici: istruzioni per l'uso.
L’Avcp in collaborazione con il FORUM PA
propone un seminario on-line dedicato a
tutti i soggetti interessati ai nuovi
obblighi in materia di tracciabilità dei
flussi finanziari.
Il seminario fruibile dal web è gratuito
ed avrà inizio alle ore 12.30 di venerdì
17.06.2011. La piattaforma permette
l'ingresso di massimo 500 utenti in
contemporanea che avranno a disposizione un
totorial per le modalità di
iscrizione, accesso e partecipazione. ...
(link a www.autoritalavoripubblici.it). |
APPALTI:
Comunicazioni relative ai Certificati di
esecuzione dei lavori pubblici - evoluzione
della procedura informatica di rilascio ai
sensi del DPR 207/2010 (comunicato
del Presidente 08.06.2011 - link
a www.autoritalavoripubblici.it). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica
semplificata: scheda di confronto con
l'autorizzazione ordinaria.
E' disponibile una
scheda di raffronto della
autorizzazione paesaggistica semplificata
rispetto all'autorizzazione ordinaria,
aggiornata al d.l. 70/2011 (cd. Decreto
Sviluppo). La scheda é stata redatta
dall'Avv. Ileana Pisani (link a
www.studiospallino.it). |
APPALTI:
Decreto Legge 13.05.2011 n. 70 - Le
importanti novità per il settore dei lavori
pubblici (ANCE,
nota
maggio 2011). |
VARI: Guida
allo “spesometro”: soggetti
obbligati, elementi da indicare, termini e
sanzioni.
Il Decreto Legge 78/2010, al fine di
individuare la reale capacità contributiva
delle persone fisiche e contrastare
l'evasione fiscale, ha introdotto l'obbligo
di comunicazione telematica delle operazioni
rilevanti ai fini IVA, di importo pari o
maggiore a 3.000 euro (il cosiddetto “Spesometro").
L'Agenzia delle Entrate con la
circolare 30.05.2011 n. 24/E
fornisce chiarimenti sulle modalità di
applicazione del nuovo adempimento. ...
(news 09.06.2011 - link a www.acca.it). |
VARI:
Come richiedere gli incentivi per impianti
fotovoltaici al GSE.
Il GSE (Gestore Servizi Energetici) informa
che è operativa la sezione del sito internet
per la richiesta delle tariffe incentivanti
previste dal quarto Conto Energia (D.M.
05.05.2011).
Possono accedere agli incentivi gli impianti
che entrano in esercizio dal primo giugno
2011 a seguito di interventi di nuova
costruzione, rifacimento totale o
potenziamento, appartenenti alle seguenti
categorie specifiche:
- impianti “su edifici” o “altri
impianti” (di cui al Titolo 2);
- impianti fotovoltaici integrati con
caratteristiche innovative (di cui al Titolo
3);
- impianti fotovoltaici a concentrazione (di
cui al Titolo 4).
Per la richiesta degli incentivi i “Soggetti
Responsabili” degli impianti o i “Referenti
Tecnici” delegati sono tenuti a
utilizzare il portale internet del GSE.
In allegato riportiamo i modelli in formato
PDF con campi editabili da utilizzare per la
richiesta di incentivazione.
Si ricorda che l'invio delle richieste di
incentivazione deve avvenire esclusivamente
per via telematica (news 09.06.2011 - link a
www.acca.it). |
SICUREZZA LAVORO:
Lavorare sui cantieri nei giorni di “canicola”:
dal SUVA la check list per la valutazione
del rischio “caldo”.
Canicola, raggi UV e ozono sono fattori di
rischio da non sottovalutare, soprattutto
per i lavoratori in cantiere.
La canicola rappresenta il periodo di caldo
afoso e opprimente delle ore centrali della
giornata, caratterizzato da alti valori di
temperatura e umidità e assenza di vento. In
tali circostanze l’organismo è fortemente
sollecitato, soprattutto se l’umidità
atmosferica è molto elevata. A soffrirne
maggiormente è l’apparato circolatorio. Le
temperature molto elevate possono causare
crampi, esaurimento fisico o, nella peggiore
delle ipotesi, un colpo di calore.
I raggi ultravioletti, invisibili e
impercettibili, ci raggiungono ogni giorno
tramite l’irraggiamento solare. In estate i
valori massimi giornalieri si registrano tra
le 11:00 e le 15:00. A partire da una
determinata intensità i raggi UV possono
provocare tumori della pelle e/o lesioni
oculari.
L’ozono si forma quando l’irraggiamento
solare risulta molto intenso. I valori
massimi giornalieri si registrano nel tardo
pomeriggio (all’incirca tra le 16:00 e le
18:00). L’ozono che si forma in prossimità
del suolo (ozono troposferico) ha l’effetto
di un gas irritante. Una prolungata
esposizione ad elevate concentrazioni di
ozono può provocare bruciore agli occhi,
irritazioni della gola e della faringe,
insufficienza respiratoria e mal di testa.
Il SUVA (INAIL svizzero) ha reso disponibile
una check-list da utilizzare in cantiere al
fine di poter valutare se i lavoratori sono
realmente al sicuro da tali pericoli (news
09.06.2011 - link a www.acca.it). |
VARI:
Finalmente la guida
completa sulla Cedolare Secca dell'Agenzia
delle Entrate.
Il Decreto Legislativo 14.03.2011, n. 23 (“Disposizioni
in materia di Federalismo Fiscale Municipale”)
ha introdotto la “cedolare secca” per
la tassazione sulla locazione di immobili ad
uso abitativo.
Ricordiamo che il nuovo regime di tassazione
si applica alle persone fisiche e
costituisce un regime tassativo alternativo
a quello IRPEF per la tassazione sui redditi
derivanti dalla locazione degli immobili ad
uso abitativo.
L'Agenzia delle Entrate, con la
circolare 01.06.2011 n. 26/E, ha
fornito le tanto attese indicazioni per la
corretta applicazione della nuova imposta
sostitutiva.
Particolare attenzione è riservata
all'ambito applicativo e agli immobili
esclusi dal nuovo regime di tassazione. ...
(news 09.06.2011 - link a www.acca.it). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
10.06.2011, "Aggiornamento Albo Regionale
delle imprese boschive - Art. 57 legge
regionale n. 31 del 05.12.2008 – Iscrizione
nuove ditte"
(decreto
D.S. 27.05.2011 n. 4842). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U.
08.06.2011 n. 131 "Regolamento per la
gestione degli pneumatici fuori uso (PFU),
ai sensi dell’articolo 228 del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152 e successive
modificazioni e integrazioni, recante
disposizioni in materia ambientale"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 11.04.2011 n. 82). |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
07.06.2011, "Approvazione nuovo modello
di attestato di certificazione energetica
degli edifici"
(deliberazione G.R.
31.05.2011 n. 1811). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del
07.06.2011, "Modalità per il sostegno
finanziario degli enti locali e degli enti
gestori delle aree regionali protette per
l’esercizio delle funzioni paesaggistiche
loro attribuite (art. 79, comma 1, lett. b),
l.r. 12/2005)"
(deliberazione G.R.
31.05.2011 n. 1802). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
APPALTI SERVIZI:
A. Barbiero,
Quadro
delle competenze in ordine agli atti per la
definizione del percorso di affidamento di
un servizio pubblico locale
(29.05.2011 - tratto da
www.albertobarbiero.net). |
APPALTI SERVIZI:
A. Barbiero,
Quadro delle competenze in ordine agli atti
per la definizione del percorso di
affidamento di un servizio pubblico locale
(link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI SERVIZI:
L. Manassero,
Il Servizio Idrico Integrato -e gli altri
Servizi Pubblici Locali- ed il Referendum
2011: alle soglie di una (contro)
rivoluzione? (link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
A. L. De Cesaris,
Alcune riflessioni sulle terre da riporto
nei procedimenti di bonifica dei siti
contaminati (link a
www.ambientediritto.it). |
SICUREZZA LAVORO:
M. Lai,
Appalti e sicurezza del lavoro: indicazioni
dal Minlavoro (link a
www.ipsoa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
G. Bertagna,
QUESTIONI VARIE SUL SALARIO
ACCESSORIO DEI DIPENDENTI DEGLI ENTI LOCALI
(tratto
dalla newsletter di www.publika.it n. 42 -
giugno 2011). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE -
PUBBLICO IMPIEGO:
Richiesta di parere in merito al
trattamento economico dei dipendenti
pubblici fissato dall'art. 9, comma 1, D.L.
n. 78/2010 i seguenti: 1) compensi legati a
spese di progettazione, condono ICI, condono
edilizio; 2) salario accessorio legato a
specifici progetti; 3) differenze
retributive connesse all'aumento dell'orario
di lavoro nel contratto part-time.
-
I
compensi legati all’attività di
progettazione, potendo rientrare per le loro
finalità tra le spese per gli investimenti,
non devono essere imputati alle spese di
personale di cui all’art. 1, commi 557 e
562, della legge n. 296 /2006.
-
La spesa per i compensi incentivanti legati
ai condoni edilizi non deve essere computata
ai fini del rispetto del limite della spesa
del personale, trattandosi di compensi
corrisposti con fondi che si autoalimentano
e che, di conseguenza, non comportano un
effettivo aumento di spesa. Inoltre si può
certamente ipotizzare che la relativa
attività possa essere svolta in tutto o in
parte fuori dall’orario di lavoro ovvero
mediante incarico esterno.
Circa i
compensi legati all’attività di
progettazione (cfr. art. 92 D.lgs. n.
163/2006) la Sezione delle Autonomie di
questa Corte ha affermato (del. n. 16 del
13.11.2009) che essi, potendo rientrare per
le loro finalità tra le spese per gli
investimenti, non devono essere imputati
alle spese di personale di cui all’art. 1,
commi 557 e 562, della legge n. 296 /2006.
Quanto alla spesa per compensi incentivanti
legati ai condoni edilizi (cfr. art. 32,
comma 40, L. n. 326/2003) si è ritenuto che
essa non debba essere computata ai fini del
rispetto del limite della spesa del
personale (cfr. Sez. reg. controllo per il
Veneto par. n. 57 dell'01.06.2010),
trattandosi di compensi corrisposti con
fondi che si autoalimentano e che, di
conseguenza, non comportano un effettivo
aumento di spesa. Inoltre si può certamente
ipotizzare che la relativa attività possa
essere svolta in tutto o in parte fuori
dall’orario di lavoro ovvero mediante
incarico esterno.
Altrettanto può dirsi per i compensi
incentivanti il recupero dell’ICI (cfr. art.
3, comma 57, L. n. 662/1996 e art. 59, comma
1, lett. p), D.lgs. n. 446/1997). Analoghe
considerazioni possono valere con
riferimento al limite in questione, posto al
trattamento complessivo dei dipendenti
pubblici per il triennio 2011-2013 e dato
dal “trattamento ordinariamente spettante”.
In altri termini, i corrispettivi di cui
trattasi, per il loro carattere eventuale e
per la provenienza dai frutti dell’attività
svolta dai dipendenti (c.d. auto
alimentazione), non sono riconducibili alla
ordinaria dinamica retributiva e, dunque,
sfuggono al limite di cui sopra.
Quanto alle variazioni della retribuzione
conseguenti a mutamenti della prestazione
dedotta nel rapporto di lavoro, come nel
caso di aumento di orario nel contratto
part-time, esse conseguono ad un incremento
quantitativo dell’attività lavorativa, che
può anche costituire un diritto del
lavoratore (come nel caso della
ritrasformazione, prevista dalla
contrattazione collettiva, del rapporto
part-time in rapporto full-time). Tali
variazioni non appaiono, alla luce di quanto
sopra esposto, afferire alla dinamica
retributiva cui l’art. 9, comma 1, D.L. n.
78 cit. ha inteso porre un freno, fermo
restando che esse vanno conteggiate nelle
spese generali di personale dell’ente, le
quali soggiacciono alle relative limitazioni
(cfr., in proposito, questa Sezione par. n.
29 del 25.02.2011).
Rientrano invece nella predetta dinamica i
trattamenti accessori del personale,
espressamente contemplati dal comma 1 (che
riguarda i trattamenti, anche accessori, dei
singoli dipendenti) e dal comma 2-bis (che
riguarda l’ammontare complessivo delle
risorse destinate annualmente al trattamento
accessorio del personale) dell’articolo 9
D.L. n. 78 cit. In altri termini, la parte
variabile della retribuzione può essere
riconosciuta solo se correlata al
raggiungimento di specifici obiettivi, che
giustificano appunto un compenso aggiuntivo
e dedicato, ma ciò non esclude la verifica
della compatibilità della spesa medesima con
i vincoli di finanza pubblica recati dalla
normativa in discorso
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte,
parere 31.05.2011 n.
57). |
ENTI LOCALI:
Non c'è obbligo per il Comune di
accollarsi i debiti di una partecipata.
Nel caso di società partecipate, anche
laddove il Comune eserciti sulla stessa un
controllo analogo a quello esercitato sui
propri servizi, non sussiste un obbligo per
l’Ente di assumere a carico del proprio
bilancio i debiti societari rimasti
insoddisfatti all’esito della procedura di
liquidazione della società. Qualora l’Ente,
con una scelta del tutto discrezionale, che
va adeguatamente motivata, decide di
rinunziare al limite legale della
responsabilità patrimoniale per debiti,
occorre che si individui lo schema causale
di contratto al quale ricondurre
l’operazione di assunzione del debito, che
si dia conto delle ragioni di vantaggio e di
utilità evidente per l’Ente che la
giustificano e che si verifichi se le
condizioni finanziare dell’Ente la
permettono. Escluso il ricorso al
riconoscimento del debito fuori bilancio, al
Comune non resta altra possibilità, per
assumere impegni o effettuare spese a
soddisfazione dei creditori rimasti
insoddisfatti all’esito della procedura
liquidatoria di società partecipate, che
agire contabilmente secondo le procedure
ordinarie disciplinate dall’art. 191 TUEL.
La possibilità di avvalersi dei proventi
derivanti dalla vendita del patrimonio
immobiliare disponibile per spese diverse
dagli investimenti, sussiste,
eccezionalmente, solo nel caso in cui
occorra provvedere al mantenimento degli
equilibri di bilancio ex art. 193, 2° e 3°
c., TUEL. Se trattasi di proventi rivenienti
da alienazione di beni patrimoniali aventi
specifica destinazione per legge, il Comune
ha facoltà di utilizzarli, oltre i vincoli
di legge, ex comma 28 dell’art. 3 della
legge n. 350/2003, nei limiti del plusvalore
realizzato, quando occorre sostenere spese
connesse alle finalità di cui all'articolo
187, comma 2, del TUEL.
Con il
parere
17.05.2011 n. 28 la Corte dei Conti,
Sez. regionale di controllo per la Regione
Basilicata, ha fornito un interessante
parere che merita una analisi, in una
situazione economica come quella attuale,
dove la crisi, potrebbe colpire anche un
ente locale che possiede società
partecipate.
I giudici contabili affermano
sostanzialmente che non c’è nessun obbligo
per un ente locale di assumersi nel proprio
bilancio i debiti non “saldati” dalla
procedura di liquidazione della società
partecipata costituita “in house”
dall’ente locale stesso.
In particolare la vicenda posta
all’attenzione dei giudici contabili nasce a
seguito di una istanza di un Sindaco; la
situazione rappresentata è quella che nel
2009 è stata posta in liquidazione una SRL a
capitale interamente pubblico, costituita
nel 2005 ai sensi del comma 5, lett. c),
dell’art. 113, del D.Lgs. 276/2000 (nel
testo allora vigente), al fine di conferirle
direttamente (in house providing) la
titolarità di servizi pubblici locali a
rilevanza economica. La SRL è tuttora in
liquidazione e il Commissario liquidatore ha
quantificato la perdita della società e
l’ammontare complessivo dei debiti presunti
accumulati.
Il sindaco si chiede nell’ipotesi in cui, al
termine delle operazioni di liquidazione, la
massa attiva (i “fondi disponibili”
ex art. 2491 C.C.) dovesse risultare
incapiente rispetto ai debiti sociali e,
dunque, insufficiente a soddisfare i
creditori della società, tra i quali anche
lo stesso socio pubblico per la quota
sottoscritta e versata, quale sia il
comportamento corretto da tenere. Le
possibili soluzione avanzate dal Sindaco ai
giudici contabili sono le seguenti:
a) riconoscere, quale debito fuori bilancio
a carico del Comune, ai sensi dell’art. 194
TUEL, il disavanzo di liquidazione;
b) in alternativa, se sia possibile
l’assunzione del debito con procedura
ordinaria di iscrizione in bilancio
attraverso il reperimento di risorse
ordinarie, vuoi in sede di approvazione del
bilancio di previsione, vuoi in sede di
riequilibrio, ovvero in fase di
assestamento;
c) nel caso di risposta positiva (sub. b),
non trattandosi di spesa di investimento, se
possa essere finanziata con i proventi
derivanti dall’alienazione di beni
patrimoniali disponibili e nell’ipotesi
affermativa se le risorse utilizzabili siano
quelle pari al valore complessivo della
cessione dell’immobile, ovvero la sola
plusvalenza.
La risposta della Corte dei
conti.
Per la Corte dei Conti è ferma volontà del
legislatore di applicare alle società
pubbliche gli stessi istituti previsti dal
diritto comune in materia; tali criteri
possono essere riscontrati sia dall’art. 6,
comma 19, del D.L. n. 78/2010, per quanto
riguarda le operazioni sul capitale e i
finanziamenti a dette società, sia dall’art.
14, comma 32 dello stesso decreto legge, per
quanto riguarda le società partecipate dagli
enti locali, la loro liquidazione e la
stessa capacità di costituirle.
E’, quindi, da escludersi che si possano
ipotizzare diversi e ulteriori casi di
responsabilità dell’ente locale per i debiti
delle società da esso partecipate, al di
fuori di quelli espressamente previsti dal
codice civile o dalle leggi speciali in
materia. Una particolare riflessione si
impone per quei casi in cui proprio la
mancanza di (sostanziale) autonomia tra
Comune e società giustifica la deroga alle
disposizioni comunitarie in materia di
conferimento della gestione di servizi
pubblici. È questo il caso delle società di
capitali, interamente partecipate da enti
pubblici locali, come appunto il Comune,
costituite per la gestione c.d. “in house”
di servizi pubblici locali, secondo le
modalità di cui all’art. 113 del D.Lgs.
267/2000 (nel testo tempo per tempo
vigente), ovvero secondo l’art. 23-bis,
3°comma , del D.L. n. 112/2008 (conv. L. n.
133/2008).
Per i giudici contabili non sussiste un
obbligo per il Comune di assumere a carico
del proprio bilancio i debiti societari
rimasti insoddisfatti all’esito della
procedura di liquidazione. Sussistendone le
condizioni, infatti, spetta di regola al
creditore agire affinché il Comune sia
chiamato a rispondere dei debiti della
società partecipata.
Si tratta, tuttavia, di una scelta del tutto
discrezionale che va adeguatamente motivata,
poiché, con essa, il Comune decide di
rinunziare al limite legale della
responsabilità patrimoniale per debiti. Si
tratta, in ogni caso, di scelte gestionali
sulle quali i giudici contabili non possono, né potrebbero, esprimere parere alcuno per
non interferire sia con l’attività degli
organi di gestione sia con eventuali
iniziative giudiziarie di altri Uffici della
Corte dei conti o di altre magistrature.
L’ente locale chiede, in primo luogo, se sia
corretto riconoscere il “disavanzo di
liquidazione” quale debito fuori
bilancio con la procedura dell’art. 194 del
TUEL. Per la Corte dei Conti la risposta non
può che essere negativa.
La disposizione citata prevede che, con
deliberazione consiliare di cui all'articolo
193, comma 2, o con diversa periodicità
stabilita dai regolamenti di contabilità, si
provveda al riconoscimento della legittimità
dei debiti fuori bilancio derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di
aziende speciali e di istituzioni, nei
limiti degli obblighi derivanti da statuto,
convenzione o atti costitutivi, purché sia
stato rispettato l'obbligo di pareggio del
bilancio di cui all'articolo 114 ed il
disavanzo derivi da fatti di gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle
forme previste dal codice civile o da norme
speciali, di società di capitali costituite
per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione
d'urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in
violazione degli obblighi di cui ai commi 1,
2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli
accertati e dimostrati utilità ed
arricchimento per l'ente, nell'ambito
dell'espletamento di pubbliche funzioni e
servizi di competenza.
Escluso il ricorso al riconoscimento del
debito fuori bilancio, al Comune non resta
altra possibilità, per assumere impegni o
effettuare spese a soddisfazione dei
creditori rimasti insoddisfatti all’esito
della procedura liquidatoria di società
partecipate, che agire contabilmente secondo
le procedure ordinarie disciplinate
dall’art. 191 del D.Lgs. 276/2000.
Ciò comporta che si provveda al previo
stanziamento in bilancio, che assume valenza
autorizzatoria. I giudici contabili
evidenziano che il Comune pone un quesito
anche in ordine alla natura delle risorse
dalle quali attingere la provvista
finanziaria per assumere l’impegno e
effettuare il pagamento, secondo l’ordinaria
procedura ex art. 191 del D.Lgs. 267/2000.
In particolare, nell’istanza è chiesto se
possano essere utilizzati i proventi
derivanti dalla vendita del patrimonio
immobiliare disponibile.
La questione non rileva sul piano della
legittimità della procedura contabile,
quanto, piuttosto, sul piano della sana
gestione e del mantenimento degli equilibri
finanziari.
Come correttamente osserva lo stesso Ente
istante, la spesa in argomento non è di
investimento e, dunque, non dovrebbe essere
finanziata con risorse destinate a
investimenti, ovvero che discendano dal
realizzo del patrimonio comunale.
Particolare attenzione merita, a questo
proposito, il ricavato dalla vendita di beni
immobili, dovendosi tenere conto della
diversa natura che il bene oggetto di
cessione può avere, soprattutto con riguardo
agli eventuali vincoli di destinazione che
l’ordinamento pone al loro realizzo. In
generale, i “proventi derivanti da
alienazione di beni patrimoniali disponibili”
possono essere utilizzati, eccezionalmente,
per spese diverse dagli investimenti solo
nel caso in cui occorra provvedere al
mantenimento degli equilibri di bilancio ex
art. 193, 2° e 3° comma del D.Lgs. 267/2000.
Tuttavia l’assunzione dei debiti della
società a carico del bilancio comunale
presuppone che se ne sia già riscontrata la
sostenibilità.
D’altra parte, si deve osservare che il
legislatore, con la disposizione contenuta
nel comma 28 dell’art. 3 della legge n.
350/2003, ha stabilito che gli enti locali “hanno
facoltà di utilizzare le entrate derivanti
dal plusvalore realizzato con l'alienazione
di beni patrimoniali, inclusi i beni
immobili, per spese, aventi carattere non
permanente”, connesse alle finalità di
cui all'articolo 187, comma 2, del D. Lgs.
267/2000.
Quelle in discussione sono, quindi, risorse
che il Comune ha facoltà di utilizzare,
oltre i vincoli di legge, che non risultano
essere stati abrogati, nei limiti del
plusvalore realizzato, quando occorre
sostenere spese connesse alle finalità di
cui all'articolo 187, comma 2, del D.Lgs.
267/2000 .
Tuttavia, anche in questo caso per i giudici
contabili , vale ribadire che l’operazione
di accollo del debito non può prescindere
dalla previa valutazione di sostenibilità
finanziaria per l’Ente (commento tratto da
www.ipsoa.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Esonero,
o meno, dal contributo di costruzione e di
scomputo degli oneri di urbanizzazione
secondaria per una residenza sanitaria per
anziani e inabili.
Il caso in esame non rientra nell’ambito di
applicazione della prima fattispecie
prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c) del
D.P.R. n. 380/2001 (“gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti”), e, quindi,
la progettata residenza sanitaria per
anziani e inabili non può beneficiare
dell’esonero dal contributo di costruzione e
dello scomputo degli oneri di urbanizzazione
secondaria previsti dalla legge.
L’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n.
380/2001 dispone che “il contributo di
costruzione non è dovuto per gli impianti,
le attrezzature, le opere pubbliche o di
interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le
opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti
urbanistici”.
Vengono, cioè, previste due fattispecie
riguardanti rispettivamente: 1) “gli
impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti”;
2) “le opere di urbanizzazione, eseguite
anche da privati, in attuazione di strumenti
urbanistici”.
Con riferimento alla prima ipotesi, la norma
enuncia due requisiti che devono entrambi
concorrere per fondare lo speciale regime di
esonero dal contributo di costruzione, l’uno
di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo. Per effetto del primo,
la costruzione deve riguardare “opere
pubbliche o d’interesse generale”. Per
effetto del secondo, le opere devono essere
eseguite da “un ente istituzionalmente
competente”.
In particolare, il primo requisito è stato
esplicitato nel senso che deve trattarsi di
opere che, quantunque non destinate
direttamente a scopi propri della P.A.,
siano comunque idonee a soddisfare i bisogni
della collettività, di per se stesse –poiché
destinate ad uso pubblico o collettivo– o in
quanto strumentali rispetto ad opere
pubbliche o comunque perché immediatamente
collegate con le funzioni di pubblico
servizio espletate dall’ente (cfr. in tal
senso ex plurimis: C.d.S., sez. IV,
10.05.2005, n. 2226; C.d.S., sez. V,
06.05.2003 n. 5315; C.d.S., sez. V,
25.06.2002, n. 6618).
Con riferimento all’altro requisito
(soggettivo), la giurisprudenza
amministrativa ha più volte chiarito che la
dizione deve riferirsi, oltre che agli enti
pubblici in senso proprio, anche ai soggetti
che agiscono per conto di enti pubblici,
ricomprendendo, pertanto, “i
concessionari di opere pubbliche o analoghe
figure organizzatorie, caratterizzate da un
vincolo tra il soggetto abilitato ad operare
nell’interesse pubblico ed il materiale
esecutore della costruzione, in modo tale
che l’attività edilizia sia compiuta da un
soggetto che curi istituzionalmente la
realizzazione di opere d’interesse generale
per il perseguimento delle specifiche
finalità cui le opere stesse sono destinate”
(in tal senso cfr. fra tutte C.d.S. , sez.
VI, 09.09.2008, n. 4296; sez. V, 11.01.2006,
n. 51; sez. IV, 10.05.2005, n. 2226).
La ratio della norma contenuta
nell’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 è
duplice. Da un lato, è sicuramente quella
d’incentivare l’esecuzione di opere da cui
la collettività possa trarre utilità.
Dall’altro lato, è anche quella di
assicurare una ricaduta dello sgravio a
vantaggio della collettività, posto che
l’esonero dal contributo si traduce in un
abbattimento dei costi, cui corrisponde, in
definitiva, un minore aggravio di oneri per
il contribuente.
In altri termini, l'imposizione del
contributo di costruzione ai soggetti che
agiscono nell'istituzionale attuazione del
pubblico interesse sarebbe altrimenti
intimamente contraddittoria, poiché verrebbe
a gravare, sia pure indirettamente, sulla
stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi
del pagamento di esso.
Sotto tale profilo la giurisprudenza
amministrativa ha generalmente accolto
un’interpretazione che ricomprende,
nell’ambito di applicabilità della norma,
oltre agli enti pubblici in senso proprio,
anche “quelle figure soggettive che non
agiscono per esclusivo scopo lucrativo
ovvero che accompagnano al lucro un
collegamento giuridicamente rilevante con
l'amministrazione, sì da rafforzare il
legame istituzionale con l'azione del
soggetto pubblico per la cura degli
interessi della collettività” (si vedano
ex plurimis: C.d.S., sez. V,
20.10.2004, n. 6818; C.d.S., sez. IV,
12.07.2005, n. 3744).
Con riguardo alla seconda fattispecie
prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c),
del D.P.R. n. 380/2001, secondo cui
l’esonero dal contributo di costruzione
opera anche nei riguardi di "opere di
urbanizzazione eseguite in attuazione di
strumenti urbanistici", secondo una
consolidata giurisprudenza amministrativa
non è assolutamente sufficiente che l’opera
sia solamente conforme agli strumenti
urbanistici, ma essa deve essere
espressamente contemplata come tale nello
strumento urbanistico medesimo (in tal senso
C.d.S., sez. V, 10.05.1999, n. 536; C.d.S.,
sez. V, 21.01.1997, n. 69; C.d.S., sez. V,
01.06.1992, n. 489).
In sostanza, la disposizione beneficia solo
il privato che dia immediata esecuzione alla
previsione di piano relativa ad una
specifica opera di urbanizzazione. Solo in
questo caso, infatti, sarebbe
contraddittoria ed irragionevole la
richiesta al privato del pagamento di un
contributo commisurato anche alle "spese
di urbanizzazione", che di regola sono
sopportate dall'ente pubblico.
Venendo al quesito posto dal comune di
Ghisalba, si tratta di verificare se la
fattispecie riguardante la progettata casa
di ricovero per anziani e inabili possa
essere ricompresa nell’ambito di
applicazione di almeno una delle due ipotesi
di esonero da contributo di costruzione
previste dall’art. 17, comma 3, lett. c) del
D.P.R. n. 380/2001. In particolare, con
riferimento alla prima fattispecie delineata
dalla norma (impianti, attrezzature, opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti), va
verificata, come si è detto, la sussistenza
di entrambi i requisiti, oggettivo e
soggettivo, sopra illustrati.
Quanto al requisito oggettivo, non può
disconoscersi che l’opera di costruzione
della casa di ricovero per anziani e inabili
di riposo sia collegata senz’altro ad una
finalità di interesse pubblico generale,
stante la prevista convenzione con il comune
circa la riserva dei posti letto con retta
giornaliera a prezzo calmierato (21 posti
per euro 95 al giorno), e stante la
possibilità di ottenere l’accreditamento
regionale quanto a erogazione di servizi
socio-assistenziali.
Con riferimento al requisito soggettivo,
invece, appare opportuno effettuare
considerazioni più articolate. Si è detto
sopra dell’orientamento della giurisprudenza
amministrativa che, da un lato, ha
interpretato estensivamente la dizione “enti
istituzionalmente competenti”,
ricomprendendovi, oltre agli enti pubblici
in senso proprio, anche altre “figure
organizzatorie” che “curino
istituzionalmente la realizzazione di opere
d’interesse generale per il perseguimento
delle specifiche finalità cui le opere
stesse sono destinate”; dall’altro lato,
ha ricondotto tale espressione
prevalentemente alla figura del
concessionario. Ciò in ragione della
considerazione che gli elementi che
connotano l’instaurazione e lo svolgimento
del rapporto di concessione sono in grado di
garantire di per sé quell’immediato legame
istituzionale con l’azione
dell’amministrazione per la cura degli
interessi della collettività, che si ritiene
presupposto indefettibile per l’applicazione
dell’esonero contributivo.
In quest’ottica, è stata esclusa
l’applicabilità della norma in questione a
soggetti privati che esercitino un’attività
lucrativa di impresa indipendentemente dalla
rilevanza sociale dell’attività stessa (cfr.
C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69); nonché a
soggetti privati che, seppur non perseguenti
fini di lucro, realizzino opere destinate a
rimanere nella piena disponibilità del
privati esecutori in quanto non vincolate in
alcun modo al mantenimento della finalità
pubblica (cfr. C.d.S., sez. V, 11.01.2006,
n. 51).
Peraltro, questa Corte ritiene opportuno non
tralasciare la considerazione dell’attuale
sviluppo dell’ordinamento della Repubblica e
delle modalità di svolgimento dell’azione
amministrativa.
Infatti, da un lato, la riforma del Titolo V
della Costituzione, operata con la Legge
costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha inserito
espressamente il principio di sussidiarietà,
cosiddetto “orizzontale”, nell’ambito
delle regole di organizzazione e di
esercizio delle funzioni pubbliche,
prevedendo all’art. 118, ultimo comma, che “Stato,
Regioni, Città metropolitane, Province e
Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo
svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di
sussidiarietà”.
Dall’altro lato, anche a causa
dell'influenza del diritto comunitario, sono
sempre più frequenti le forme di
collaborazione tra soggetto pubblico e
soggetto privato, nonché i casi in cui al
soggetto privato sono affidati obiettivi di
interesse pubblico.
In sostanza si assiste al passaggio da una
configurazione della distribuzione del
potere pubblico essenzialmente in via
gerarchica ed in via autoritativa ad una
distribuzione per così dire “a rete”,
estesa anche ad altri soggetti
dell’ordinamento che non sono enti pubblici
in senso proprio, con la conseguenza che le
funzioni pubbliche non necessariamente
vengono esercitate mediante esplicazione di
poteri autoritativi, ben potendo svolgersi
attraverso forme e moduli procedimentali di
tipo privatistico.
In quest’ottica si rende opportuna, a parere
di questa Sezione, un’interpretazione
evolutiva e teleologicamente orientata del
concetto di “ente istituzionalmente
competente” previsto all'art. 17 del
D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle
figure dei concessionari), nell’ambito del
quale è possibile ricomprendere anche il
caso di specie.
Tuttavia, dal contesto del parere appare
assai dubbia la persistenza del requisito
soggettivo secondo il quale la progettata
residenza per il ricovero di persone anziane
o inabili sia stabilmente partecipe della
funzione pubblica di assistenza
socio-sanitaria. Innanzitutto, perché la
stessa amministrazione comunale revoca in
dubbio gli accordi già intercorsi con la
società Palladio, preferendo alla residenza
sanitaria la realizzazione di una nuova
scuola dell’infanzia. In secondo luogo,
poiché non è specificato, ad eccezione della
riserva dei posti letto previsti a favore
dei cittadini ghisalbesi, che la struttura
sanitaria agisca per uno scopo non
lucrativo. Né, infine, appare scrutinabile
con quale assetto e forma giuridica verrà
gestita la struttura di assistenza, ovvero
se con essa s’intenda perseguire
esclusivamente finalità di solidarietà
sociale nel settore dell’assistenza
socio-sanitaria.
Poste le superiori osservazioni, non si può
attualmente riconoscere che la citata
struttura socio-assistenziale presenti un
collegamento giuridico stringente con
l’amministrazione comunale, né che sia già
programmato il necessario accreditamento
regionale che la assimilerebbe
sostanzialmente alle strutture pubbliche (in
quanto il rapporto di accreditamento integra
un rapporto di concessione di pubblico
servizio C.d.S., sez. V, 23.07.2009, n.
4595; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
28.05.2008, n. 582).
Alla luce delle considerazioni sopra
esposte, deve ritenersi, a parere di questo
Collegio, che il caso in esame non rientri
nell’ambito di applicazione della prima
fattispecie prevista dall’art. 17, comma 3,
lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 (“gli
impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate
dagli enti istituzionalmente competenti”),
e che, quindi, la progettata residenza
sanitaria per anziani e inabili non possa
beneficiare dell’esonero dal contributo di
costruzione e dello scomputo degli oneri di
urbanizzazione secondaria previsti dalla
legge.
L’ipotesi formulata nel quesito non appare
rientrare nemmeno nell’ambito della seconda
fattispecie disciplinata dall’art. 17, comma
3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001 (opere
di urbanizzazione, eseguite anche da privati
in attuazione di strumenti urbanistici),
poiché nel contesto del parere non è dato
alcun cenno circa l’inserimento dell’opera
da realizzarsi in attuazione di un più ampio
intervento urbanistico comunale.
Anche sotto quest’ultimo profilo, non si
ritiene che la menzionata residenza
sanitaria possa usufruire del regime di
esonero dai contributi di costruzione e
dagli oneri di urbanizzazione secondaria
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 21.02.2011 n.
91). |
NEWS |
ENTI LOCALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consorzi senza indennità. Divieto
esteso a tutte le forme associative tra
enti. Il dl 78/2010 fa un'eccezione solo per gli
amministratori di comuni e province.
I componenti degli
organi dei consorzi hanno ancora diritto a
una indennità?
L'art. 5, comma 7, del dl n. 78/2010
stabilisce che «agli amministratori di
forme associative di enti locali aventi per
oggetto la gestione dei servizi e funzioni
pubbliche non possono essere attribuite
retribuzioni, gettoni, e indennità o
emolumenti in qualsiasi forma siano essi
percepiti».
Poiché l'art. 31 del decreto legislativo n.
267/2000, disciplinante i consorzi degli
enti locali, è compreso nel capo V del
titolo II del medesimo decreto, dedicato
alle forme associative, il divieto riguarda
in generale anche i componenti degli organi
dei consorzi fra enti locali.
Il tenore letterale della norma in questione
appare, infatti, indicativo di una precisa
volontà del legislatore, nel senso di
escludere qualsiasi forma retributiva per
gli amministratori di comunità montane,
unioni e altre forme associative, ivi
compresi i consorzi degli enti locali.
La norma recata dal comma 7 del dl n. 78/2010
interviene in termini generali su tutto il
panorama degli amministratori locali,
attraverso una duplice direttrice: da un
lato, prevedendo che attraverso apposito
decreto interministeriale siano fissate le
entità retributive degli amministratori di
province e comuni, con riduzioni percentuali
rispetto ai valori attualmente vigenti;
dall'altro, escludendo che gli
amministratori degli altri enti locali
possano essere a qualsiasi titolo
remunerati.
Pertanto, dalla data di entrata in vigore di
tale norma, gli amministratori interessati
non hanno diritto al percepimento di alcun
compenso per le predette cariche
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consigliere presidente di SPA.
Sussiste una causa di incompatibilità per un
consigliere comunale presidente di una
società per azioni a capitale interamente
pubblico, nella quale il comune ha una
partecipazione inferiore al 20%?
Qualora con l'espressione «presidente di
una società di capitali» si faccia
riferimento al presidente dell'assemblea dei
soci, la normativa sulle incompatibilità
appare senz'altro inapplicabile, in quanto
la stessa è rivolta specificatamente a
limitare la posizione dell'amministratore
locale che sia anche amministratore (cioè
componente del consiglio di amministrazione)
di una società.
Viceversa, qualora l'espressione abbia
voluto indicare il presidente del consiglio
di amministrazione di una società di
capitali, è inapplicabile al caso in esame
l'ipotesi dell' incompatibilità di cui al
comma 1, n. 1, dell'art. 63 del dlgs n.
267/2000, in virtù della partecipazione del
comune al capitale sociale in misura
inferiore al 20%, limite posto
all'operatività della norma dal decreto
legge 30.06.2005, n. 115, convertito in
legge 17.08.2005, n. 168.
La materia delle ineleggibilità e delle
incompatibilità rientra, ai sensi dell'art.
117, lett. p), della Costituzione, tra
quelle di competenza esclusiva statale,
pertanto, in via generale, lo statuto
comunale può in tale ambito contenere solo
norme che siano compatibili con la
disciplina prevista dagli artt. 63 e
seguenti del dlgs n. 267/2000. La
disposizione statutaria che recasse una
preclusione assoluta, per i consiglieri
comunali, alla partecipazione ai consigli di
amministrazione delle società di capitali
non sarebbe, quindi, in linea con quanto
stabilito dal legislatore statale.
Se, nel caso di specie, l'oggetto sociale
della società comprende esclusivamente
attività di gestione di servizi locali,
occorre esaminare se non sia riscontrabile
la fattispecie di cui al n. 2 del comma 1
del citato art. 63, sempre che l'ente
comunale abbia stipulato un contratto di
servizio o di appalto con la società in cui
il consigliere è amministratore.
In tal caso, infatti, ricorrerebbe il
divieto a ricoprire cariche elettive locali
per l'amministratore «che abbia parte in
servizi, esazioni di diritti,
somministrazioni o appalti nell'interesse
del comune» (art. 63, comma 1, n. 2).
Sarà cura del comune verificare se sussista
un rapporto contrattuale di tale natura tra
la società in questione e l'ente stesso, nel
qual caso, in conformità al principio
generale che ogni organo collegiale deve
deliberare innanzitutto sulla regolarità dei
titoli di appartenenza dei propri
componenti, la contestazione della causa
ostativa all'espletamento del mandato è
compiuta con la procedura consiliare
prevista dall'art.69 del Tuel, che
garantisce il corretto contraddittorio tra
organo e amministratore, assicurando a
quest'ultimo l'esercizio del diritto di
difesa e la possibilità di rimuovere entro
un congruo termine la causa
d'incompatibilità contestata
(articolo ItaliaOggi del 10.06.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO: Congedi e permessi al restyling.
Assistenza anche se il disabile è ricoverato
a tempo pieno. Via libera definitivo dal
consiglio dei ministri al decreto di riforma
previsto dal collegato lavoro.
Via libera al riordino della disciplina in
materia di congedi, aspettative e permessi
dei lavoratori del settore pubblico e
privato. La lavoratrice in congedo di
maternità (ex astensione obbligatoria) ha
facoltà di rientrare in anticipo al lavoro
in caso di aborto o morte prematura del
bimbo.
Al fine di garantire una tutela reale,
inoltre, il congedo straordinario per
l'assistenza a disabili (due anni nella vita
lavorativa) può essere fruito anche se il
disabile è ricoverato a tempo pieno. Infine,
il pubblico dipendente che fruisce
dell'aspettativa per motivi di studio, se
nei due anni successivi interrompe il
rapporto di lavoro, deve restituire la
retribuzione percepita durante il congedo.
Queste alcune delle novità previste dallo
schema di dlgs di attuazione dell'articolo
23 della legge n. 183/2010 (collegato
lavoro), approvato ieri in via definitiva
dal consiglio dei ministri.
Congedo maternità.
Una prima novità riguarda il congedo di
maternità. Nei casi di interruzione
spontanea o terapeutica della gravidanza,
successivamente al 180° giorno dalla
gestazione, viene prevista la facoltà per la
lavoratrice di riprendere in qualunque
momento l'attività lavorativa. A tal fine, è
necessario tuttavia che un medico
specialista (Ssn o in convenzione) e il
medico competente (per la sicurezza lavoro)
attestino che il rientro anticipato non
arreca pregiudizio al suo stato di salute.
Congedo straordinario.
Diverse le novità in merito al congedo
straordinario per assistenza a portatori di
handicap grave (la cui durata complessiva è
pari a due anni nell'arco della vita
lavorativa). Innanzitutto viene riscritta la
platea dei soggetti legittimati a fruire del
congedo, con ordine di priorità recependo le
indicazioni della Corte costituzionale. Ha
diritto al congedo, prima di tutto, il
coniuge convivente della persona disabile.
In caso di mancanza, decesso o in presenza
di patologie invalidanti del coniuge, ha
diritto a fruirne il padre o la madre anche
se adottivi. In caso di decesso, mancanza o
in presenza di patologie invalidanti del
padre o della madre, anche se adottivi, il
diritto passa a uno dei figli conviventi. In
caso di mancanza, decesso o in presenza di
patologie invalidanti dei figli, infine, il
congedo spetta a uno dei fratelli o delle
sorelle conviventi.
Altra novità è la
previsione, allo scopo di consentire una
reale assistenza, che il congedo possa
essere fruito anche se la persona disabile è
ricoverata a tempo pieno e qualora i
sanitari della struttura ne attestino
l'esigenza.
Aspettativa per studio.
Il dlgs approvato ieri, ancora, disciplina
il congedo straordinario per motivi di
studio dei pubblici dipendente ammessi ai
corsi di dottorato di ricerca. Prevede la
discrezionalità dell'amministrazione a
concedere il congedo anche ai dipendenti
contrattualizzati; mentre la fruizione viene
comunque esclusa per i dipendenti che
abbiano già il titolo di dottore di ricerca
e per quelli che abbiano fruito del congedo
con l'iscrizione ai corsi di dottorato per
almeno un anno accademico. Il dipendente che
interrompe il rapporto di lavoro, nei due
anni successivi al periodo di aspettativa,
infine, è tenuto a restituire gli emolumenti
percepiti durante il congedo.
Congedo per cure agli
invalidi.
Ai lavoratori mutilati e agli invalidi
civili, cui sia stata riconosciuta una
riduzione della capacità lavorativa
superiore al 50%, è data la possibilità di
fruire, ogni anno, e anche in maniera
frazionata, un congedo per cure per un
periodo complessivo non superiore a 30
giorni. La novità, in tal caso, è la
previsione della retribuzione del congedo.
Infatti, durante tale periodo di congedo, il
dipendente ha diritto a percepire il
trattamento economico secondo il regime
delle assenze per malattia.
In tal caso, inoltre, il datore di lavoro
non è tenuto a richiedere l'accertamento
mediante la normale visita di controllo, ma
il lavoratore è tenuto a documentare in
maniera idonea l'avvenuta sottoposizione a
cure
(articolo ItaliaOggi del
10.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Pneumatici,
via al sistema di raccolta.
Via al sistema nazionale di gestione di
pneumatici fuori uso (Pfu): l'Italia punta a
una raccolta pari 100%.
È stato pubblicato
in Gazzetta Ufficiale il decreto
ministeriale n. 82 dell'11.04.2011, che
attribuisce ai produttori/importatori di
pneumatici la responsabilità della raccolta
e recupero di questo prezioso materiale. Gli
obiettivi alla base del provvedimento, sono
in linea con gli indirizzi Ue: evitare la
dispersione, sviluppare impieghi nuovi ed
esistenti del materiale, ottimizzare il
sistema.
A effettuare la raccolta sarà Ecopneus, la società consortile per azioni
costituita ad inizio 2009 dalle principali
aziende produttrici o importatrici di
pneumatici in Italia. E cioè: Bridgestone,
Continental, Goodyear-Dunlop, Marangoni,
Michelin e Pirelli. Ecopneus effettuerà
raccolta, valorizzazione e monitoraggio dei
Pfu pari ai quantitativi di immesso nel
mercato del ricambio dai principali
produttori/importatori in Italia. Gli
obiettivi da raggiungere?
• Entro il 2011: 25% di recupero rispetto al
quantitativo immesso nel 2010.
• Entro il 2012: 80% di recupero rispetto al
quantitativo immesso nell'anno solare
precedente.
• Dal 2013: 100% di recupero rispetto al
quantitativo immesso nell'anno solare
precedente
(articolo ItaliaOggi del
10.06.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Contratti
decentrati in un circolo vizioso. La Corte
conti stoppa la nota Rgs.
L'adozione dei fondi per la contrattazione
decentrata integrativa nei singoli enti
locali è praticamente impossibile perché
mancano le istruzioni sull'applicazione del
tetto non superiore al 2010 e sulla
riduzione in caso di diminuzione del numero
dei dipendenti in servizio. Tale ritardo
mette in dubbio la stessa possibilità di
stipulare i contratti decentrati integrativi
per l'anno 2011.
L'annunciata circolare
della Ragioneria generale dello stato tarda
infatti a essere emanata e anzi sembra
difficile che ciò possa avvenire in tempi
brevi: se infatti sarà confermata
l'indiscrezione per cui sul suo testo la
Corte dei conti ha formulato osservazioni,
ci vorrà parecchio tempo per avere una base
di riferimento.
Alle singole amministrazioni, per evitare di
trovarsi in una condizione di impasse, che
potrebbe determinare effetti pesanti sulla
quantificazione delle risorse destinate alla
contrattazione, appare utile avanzare la
proposta di definire un contratto ponte con
le organizzazioni sindacali, così da
destinare le risorse necessarie per il
pagamento delle indennità vincolate dal
contratto nazionale, di dettare i principi
per la ripartizione dei compensi collegati
alla contrattazione decentrata e di adottare
gli obiettivi necessari per l'assegnazione
della produttività.
La circolare 40/2010 della Ragioneria
generale dello stato ha chiarito che la
retribuzione individuale di anzianità, e
implicitamente gli assegni ad personam,
in godimento da parte dei dipendenti cessati
dal servizio non possono andare a integrare
la parte stabile del fondo per le risorse
decentrate.
Non è chiaro se nel fondo possono confluire
le economie derivanti dalla mancata
utilizzazione integrale del fondo del 2010
che eccedono l'analoga cifra derivante dai
risparmi 2009 confluita nel fondo 2010. In
senso negativo si è espressa la sezione
regionale di controllo della Corte del
Veneto con il parere n. 285/2011.
Lo stesso parere ha esteso tale
interpretazione anche ai risparmi derivanti
dalla mancata integrale utilizzazione del
fondo per il lavoro straordinario. Il parere
vieta anche l'inserimento in aumento
rispetto all'anno 2010 delle risorse
derivanti dalla incentivazione della
realizzazione di opere pubbliche, dai
maggiori incassi Ici e dalle vittorie in
sede processuale.
La sezione regionale di controllo della
Corte dei conti del Piemonte, parere n.
5/2011, applica tale principio anche alla
incentivazione dei vigili urbani tramite una
quota dei proventi derivanti dalle sanzioni
per l'inosservanza del codice della strada,
con ciò rendendo di fatto inutilizzabile nel
triennio 2011/2013 tale istituto.
Non è in alcun modo chiaro se la riduzione
del fondo per le diminuzioni di personale
debba essere effettuata sulla base del saldo
2010 tra assunzioni e cessazioni ovvero se
tale operazione debba essere effettuata con
il saldo 2011. Se si opta per la seconda
soluzione si pone il problema di come tenere
conto del periodo del 2011 in cui tali unità
di dipendenti continuano ad essere in
servizio.
Per qualunque delle due soluzioni si opti si
deve chiarire se le assunzioni che, in modo
parziale negli enti soggetti al patto di
stabilità ed in modo integrale negli enti
non soggetti, possono essere effettuate
nell'anno successivo, vadano a incidere
sulla diminuzione del fondo.
Si può considerare acquisito che il taglio
non deve essere fatto avendo come base il
trattamento economico accessorio in
godimento da parte dei cessati, ma in modo
proporzionale, cioè togliendo dal fondo
risorse pari alla incidenza percentuale
delle cessazioni sul numero dei dipendenti
in servizio a tempo indeterminato. È
opportuno rilevare, a latere, che la
circolare della funzione pubblica 22.02.2011, avallata dalla ragioneria
generale dello stato, sembra consentire alle
amministrazioni di conteggiare nei risparmi
derivanti dalle cessazioni anche la quota di
diminuzione del fondo che matura.
In queste condizioni costituire il fondo
deve essere definito come un azzardo, ma si
deve anche tenere conto del fatto che
difficilmente nel 2012 potranno essere
riportate le eventuali economie del fondo
2011, per cui è bene che tali risorse siano
utilizzate. La soluzione migliore è quella
di stipulare un contratto decentrato
integrativo «ponte» per il 2011, che in
attesa della costituzione del fondo consenta
la ripartizione di una buona parte delle sue
risorse, diciamo prudenzialmente nell'ordine
dello 80/90%.
Esse andrebbero destinate al finanziamento
delle indennità disciplinate interamente dai
Ccnl (turno, reperibili, compensi per
giornate festive) e di quelle disciplinate
dal Ccdi (produttività, specifiche
responsabilità etc). Per la produttività ci
si potrebbe riservare la integrazione al
momento della definizione del fondo le
amministrazioni dovrebbero definire gli
obiettivi ed i criteri di valutazione, così
da renderne possibile la erogazione
(articolo ItaliaOggi del
10.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Restyling
appalti via. I collaudi sono affidabili a
terzi solo cori gara.
Al via il performance
bond nei lavori oltre 75 milioni, nuovi e
maggiori oneri per la verifica dei progetti,
affidabile anche a professionisti e società
se non svolta all'interno della stazione
appaltante; i collaudi saranno affidabili a
terzi solo con gara, più qualità nei livelli
progettuali e negli studi di fattibilità,
nuove classifiche di qualificazione per
piccoli lavori, limiti ai ribassi nelle gare
di progettazione, sanzioni per imprese e Soa
per certificati falsi.
Sono questi alcuni dei punti innovativi del
dpr 05.10.2010, n. 207 che entra in vigore
oggi e che sostituirà molti regolamenti fino
a oggi vigenti (dal dpr 554/1999, il
regolamento della legge Merloni, al dpr
34/2000 sulla qualificazione delle imprese
di costruzioni).
Fra le norme di maggiore impatto,
applicabili a tutti i bandi pubblicati a
partire da oggi, si segnalano quelle sulla
verifica dei progetti dove peraltro si apre
un nuovo mercato per professionisti e
società di ingegneria e di professionisti,
che potranno già da domani verificare
progetti fino a 20 milioni di importo di
lavori, nel rispetto di una serie di limiti
di incompatibilità e separatezza
dell'attività progettuale rispetto a quella
di verifica. Il regolamento definisce nel
dettaglio il contenuto dell'attività di
verifica che, diversamente da oggi, dovrà
essere contestuale allo svolgimento della
progettazione.
Diverse modifiche sono previste anche per il
responsabile del procedimento che potrà
svolgere le funzioni di progettista e di
direttore dei lavori negli interventi ...
(articolo
ItaliaOggi del 08.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Verifiche
differenziate in base agli importi.
Ai nastri di partenza del regolamento
appalti non ci saranno alcune norme che
(ricadendo nel regime transitorio
dell'articolo 357 del Dpr 207/2010)
diverranno concretamente applicabili solo
fra qualche tempo.
Attesa prolungata, innanzitutto, per le
strutture che potranno compiere la verifica
della progettazione, nel caso in cui la
stazione appaltante decida di provvedere in
proprio, senza rivolgersi al mercato privato
specializzato. Per i lavori di importo
superiore a 20 milioni di euro, infatti,
l'articolo 47 del regolamento ha stabilito
che il soggetto abilitato alla verifica sia
rappresentato dall'unità tecnica della
stazione appaltante accreditata, in base
alla norma europea Uni Cei En Iso/Iec, quale
organismo di ispezione di tipo B.
Trattandosi, dunque, di un soggetto
accreditato come organismo di ispezione,
prima che la disposizione diventi operativa,
bisognerà attendere la pubblicazione di un
decreto delle Infrastrutture, che dovrà
essere adottato entro sei mesi da oggi e che
conterrà la disciplina delle modalità e
delle procedure di accreditamento per tali
tipi di organismi. Tuttavia, fino a 180
giorni dopo la pubblicazione del decreto,
sarà possibile per le stazioni appaltanti
validare i progetti oltre i 20 milioni,
tramite gli uffici tecnici.
Per i progetti al di sotto dei 20 milioni di
euro, l'attività di verifica potrà essere
svolta, oltre che dalla medesima unità
tecnica accreditata, anche dagli uffici
tecnici delle stazioni appaltanti, dotate di
un sistema interno di controllo di qualità.
Anche in questo caso, in attesa
dell'adeguamento delle amministrazioni, la
norma transitoria ha stabilito che, per
altri 3 anni (fino al 07.06.2014), gli
uffici tecnici delle stazioni appaltanti
potranno essere esentati dal possesso del
sistema di controllo interno e provvedere,
di conseguenza, alla relativa attività di
verifica.
Al regolamento era legata la possibilità di
ottenere l'attestato "Soa" per l'accesso ai
lavori pubblici mediante avvalimento, ovvero
con il prestito dei requisiti necessari da
parte di un'altra impresa. Ma, l'articolo
357 ha rinviato di 180 giorni (ulteriormente
prorogati di altri 180 dal decreto legge
70/2011) la predisposizione di bandi,
avvisi, nonché di inviti a presentare
offerte, nell'ambito dei quali sarà
possibile richiedere la qualificazione Soa
ottenuta con il prestito dei requisiti di
un'altra impresa legata al concorrente da
rapporti societari.
Le norme transitorie fanno slittare di un
anno anche la garanzia globale di
esecuzione, il nuovo sistema di garanzie che
diverrà obbligatorio per gli appalti di
progettazione esecutiva ed esecuzione di
lavori di ammontare a base d'asta superiore
a 75 milioni di euro, per gli affidamenti a
contraente generale e, facoltativo anche per
i soli lavori oltre i 100 milioni di euro.
Dunque, il nuovo soggetto garante
(assicurazioni soprattutto) farà la sua
comparsa solamente nei contratti i cui bandi
o avvisi di indizione della gara saranno
pubblicati a partire dall'08.06.2012.
C'è ancora tempo, dunque, per cercare un
soggetto che assuma non solo l'obbligo di
pagare alla stazione appaltante quanto
dovuto dall'appaltatore a titolo di cauzione
definitiva, ma che si accolli anche
l'obbligo di far subentrare un sostituto
nella esecuzione o nel completamento dei
lavori, qualora dovesse verificarsi una
risoluzione contrattuale per reati
accertati, per decadenza dell'attestazione
di qualificazione o, ancora, per grave
inadempimento, grave irregolarità e grave
ritardo
(articolo Il Sole 24
Ore del 08.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Progetti senza massimo ribasso. Oltre al
prezzo vantaggioso si terrà conto di qualità
e tempi di esecuzione.
Appalti. In vigore da oggi –dopo 6 mesi di attesa–
il regolamento sulle procedure per lavori
pubblici, servizi e forniture.
Da oggi nuova scossa agli appalti. Entra,
infatti, in vigore il regolamento degli
appalti. Si conclude così la lunga vacatio
legis di 6 mesi che ha sospeso finora il Dpr
207/2010 di attuazione del codice degli
appalti.
Solo due norme infatti –quelle con le
sanzioni per le imprese e le società di
qualificazione– erano entrate in vigore il
25.12.2010, 15 giorni dopo la pubblicazione
del decreto. Tutto il resto –ovvero le
procedure per programmare, bandire ed
eseguire i contratti di appalto pubblici–
era rinviato all'8 giugno.
Questa sospensione dovrebbe aver consentito
alle amministrazioni e ai fornitori della Pa
di prendere confidenza con tutte le nuove
procedure. Che hanno un impatto non solo sui
lavori pubblici, ma anche sui contratti di
servizi (con il debutto del finanziamento
privato e delle forniture e con la nuova
figura del direttore dell'esecuzione).
Il regolamento non comporta un cambiamento
radicale nella gestione dell'appalto, ma
contiene disposizioni e procedure che
incidono sulla quotidianità degli operatori.
L'impatto più forte è per le gare di
progettazione di opere pubbliche. Il
regolamento prova a sperimentare la
cancellazione del massimo ribasso. Per
acquisire un progetto l'unico sistema di
scelta sarà quello dell'offerta
economicamente più vantaggiosa, nel quale il
prezzo proposto dal progettista è solo uno
degli elementi di giudizio, accanto a
qualità e tempi di esecuzione. Una
particolare formula di aggiudicazione, poi,
(contenuta nell'allegato M) penalizza ancora
di più i ribassi elevati nella classifica
finale. Con queste modifiche i progettisti
hanno ottenuto una disciplina derogatoria:
le direttive comunitarie prevedono la piena
equivalenza dei criteri di aggiudicazione
del massimo ribasso e dell'offerta più
vantaggiosa. Così, ingegneri e architetti
tentano di combattere il fenomeno dei maxi
ribassi che nella progettazione hanno
raggiunto punte anche del 70% dopo
l'abolizione della tariffe minime.
Scatta da oggi l'obbligo di validare tutti i
progetti, nei tre stadi di sviluppo, dal
preliminare all'esecutivo. Con questo
controllo terzo, affidato a organismi
indipendenti (comprese le strutture ad hoc
delle amministrazioni o per le piccole opere
gli studi dei progettisti) si vogliono
correggere in corsa gli errori di
progettazione per portare in gara un
progetto "senza sorprese".
In questa chiave
va letta anche la norma del Dl sviluppo che
ha escluso la possibilità per l'appaltatore
di prevedere riserve sui progetti già
validati. Con l'arrivo del regolamento
cambiano anche i bandi di gara. Per i lavori
pubblici, ad esempio, aumentano le categorie
di lavori in cui può essere scomposta
un'opera e per le Pmi arrivano due nuove
fasce sui bandi: la III (da 1,033 a 1,5
milioni) e la IV–bis (da 2,5 a 3,5
milioni). Con l'ingresso nel regolamento
degli appalti di forniture e servizi (in
attuazione del codice appalti che già li
aveva unificati) molti istituti propri
finora dei lavori vengono estesi anche a
questi altri due tipi di contratti.
È il
caso della nuova figura obbligatoria del
direttore di esecuzione, che solo per
contratti sotto i 500mila euro coincide con
il responsabile del procedimento. Il
regolamento detta poi disposizioni uniformi
su tutta la fase di esecuzione di questi
contratti, dalla contabilità alle varianti,
dalla sospensione delle prestazioni al
certificato di ultimazione. Come la
sperimentazione sul project financing
esteso anche a servizi e forniture. Banchi o
le lavagne con il marchio dello sponsor
diventano una possibilità reale
(articolo Il Sole 24
Ore del 08.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
APPALTI: Il
debito blocca il Durc. Il certificato è
negato anche per l'inadempienza di un solo
mese.
La mancata presentazione del documento unico
di regolarità contributiva (Durc) previsto
dalle leggi regionali per la validità delle
autorizzazioni edilizie non è una violazione
penalmente rilevante. È sufficiente, però,
che non sia pagato un solo mese di
contributi perché l'azienda possa essere
esclusa da una gara di appalto.
Sono questi i principi che emergono dalla
giurisprudenza più recente sui criteri
applicativi del documento unico di
regolarità contributiva (si veda la sentenza
della Cassazione, sezione penale 21780/2011,
illustrata sul Sole 24 Ore del 1° giugno, e
quella del Consiglio di Stato 2100/2011).
Il Durc nasce come un documento che
certifica la regolarità contributiva e
assicurativa del datore di lavoro e nel
tempo ha acquistato sempre più importanza
nelle dinamiche gestionali delle aziende. Le
modalità di rilascio del documento sono
fissate nel decreto del ministero del Lavoro
del 24.10.2007 (pubblicato sulla
«Gazzetta ufficiale» 279 del 2007), in base
a quanto previsto dall'articolo 1, comma
1176, della legge 296/2006.
Le aziende devono essere in possesso del
Durc per le seguenti finalità:
- fruizione dei benefici normativi e
contributivi in materia di lavoro e
legislazione sociale previsti
dall'ordinamento italiano;
- fruizione di benefici e sovvenzioni
previsti dalla disciplina comunitaria;
- nell'ambito delle procedure di appalto di
opere, servizi e forniture pubblici e nei
lavori privati dell'edilizia.
In realtà, tenuto conto delle normativa
sulla responsabilità solidale delle imprese
che opera in ambito contributivo,
assicurativo e fiscale, il Durc è richiesto
anche nell'ambito di appalti che avvengono
tra privati.
Molte leggi regionali hanno subordinato la
validità della concessione edilizia per
costruire alla presentazione del Durc da
parte del costruttore.
Opportunamente, la Cassazione (sentenza
21780/2011), ha confermato che la mancata
presentazione del documento di regolarità
non può mai integrare i presupposti di un
reato ma può produrre effetti sanzionatori
solo sul piano amministrativo.
La Cassazione spiega che il legislatore non
ha mai inteso introdurre sanzioni penali in
questo ambito. Queste, dunque, non possono
neanche essere introdotte surrettiziamente.
La richiesta del documento di regolarità
deve essere fatta dalle aziende per via
telematica sul sito dell'Inps, dell'Inail
oppure sul sito
www.sportellounicoprevidenziale.it: il
documento va rilasciato entro il termine
massimo di trenta giorni, salva la
formazione del silenzio assenso.
Nell'ambito delle procedure di appalto, il
Durc relativo al soggetto appaltatore o
subappaltatore può essere richiesto dalle
amministrazioni pubbliche o dai soggetti
privati a rilevanza pubblica appaltanti e
dalle società di attestazione e
qualificazione delle aziende (Soa).
Se l'Istituto previdenziale che rilascia il
Durc è lo stesso soggetto che ammette il
richiedente a fruire del beneficio
contributivo o agisce in qualità di stazione
appaltante, l'Istituto stesso provvede alla
verifica dei presupposti per il suo
rilascio, senza emettere il Durc.
Anche se su questa previsione si registrano
diversi casi in cui gli Enti previdenziali
continuano a richiedere alle aziende
appaltatrici di servizi la presentazione del
Durc prima di procedere al pagamento dei
servizi.
Per la fruizione delle agevolazioni
normative e contributive, il Durc ha
validità mensile. Nel solo settore degli
appalti privati il Durc ha validità
trimestrale.
In mancanza dei requisiti, prima
dell'emissione del Durc negativo, i soggetti
competenti al rilascio devono invitare
l'interessato a regolarizzare la propria
posizione entro un termine non superiore a
quindici giorni.
Con una recente interpretazione, il
ministero del Lavoro ha stabilito che la
violazione dei tetti previsti dal contratto
collettivo nazionale di lavoro dell'edilizia
sul numero massimo di lavoratori part-time
che possono essere presenti in azienda,
determina una irregolarità contributiva e il
mancato rilascio del Durc.
Anche in presenza di un debito, l'azienda ha
diritto al rilascio del Durc positivo:
- in pendenza di contenzioso amministrativo,
la regolarità può essere dichiarata sino
alla decisione che respinge il ricorso;
- in pendenza di contenzioso giudiziario, la
regolarità è dichiarata sino al passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, salvo
l'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria
abbia adottato un provvedimento esecutivo
che consente l'iscrizione a ruolo delle
somme oggetto del giudizio.
In questi casi, è opportuno che il datore di
lavoro notifichi agli uffici competenti
l'instaurazione del contenzioso poiché
spesso, per mancanza di comunicazione
interna, gli uffici competenti al rilascio
del Durc non ne sono a conoscenza
(articolo Il Sole 24
Ore del 08.06.2011). |
ENTI LOCALI:
Vincoli di spesa, incerta
l'inclusione delle partecipate.
LA DELIBERA - Dalle sezioni riunite
un'interpretazione restrittiva della norma
porta a escludere i costi degli organismi
esterni.
La spesa di personale rilevante ai fini del
rispetto dei regimi vincolistici in materia
di finanza pubblica sembrerebbe doversi
calcolare al lordo delle voci già escluse
nella determinazione dell'aggregato da
considerare per il confronto della serie
storica.
Se, dunque, lo stanziamento iscritto al
titolo I intervento 01 del bilancio locale
non completa il novero di voci da inserire
nel calcolo del rapporto fra spesa di
personale e spesa corrente dell'ente,
diventa difficile determinare il perimetro
di consolidamento entro il quale effettuare
la verifica del rispetto della percentuale
del 40%.
La
delibera 12.05.2011
n. 27 delle sezioni riunite della
Corte dei Conti, che fornisce
un'interpretazione restrittiva della
normativa pubblicistica in materia,
ponendosi in contrasto con orientamenti
giurisprudenziali consolidati di alcune
sezioni regionali, reca un riferimento al
concetto di organismi esterni all'ente
locale, auspicando, ai fini della verifica
della rigidità del bilancio, un'impostazione
contabile basata sulle disposizioni di cui
al primo comma dell'articolo 76 della legge
n. 133/2008.
In base a questa norma, costituiscono spese
di personale anche quelle sostenute per i
rapporti di collaborazione continuata e
continuativa, per la somministrazione di
lavoro, per il personale di cui all'articolo
110 del Dlgs 18.08.2000, n. 267, nonché per
tutti i soggetti a vario titolo utilizzati,
senza estinzione del rapporto di pubblico
impiego, in strutture e organismi variamente
denominati partecipati o comunque facenti
capo all'ente.
In sostanza, la spesa di personale da
comprendere nella locuzione di organismi
esterni è ricavabile da un'interpretazione
logico-sistematica che escluderebbe
l'estensione alle società partecipate.
La giurisprudenza tuttavia non sempre è
stata concorde. Già con la delibera n.
2/2007, la sezione di controllo della Corte
dei conti della Lombardia sosteneva la
natura pubblicistica di società a
partecipazione locale totalitaria o
maggioritaria che utilizzassero risorse
pubbliche per il raggiungimento degli scopi
statutari. Successivamente altre sezioni di
controllo hanno individuato la necessità di
definire a livello aggregato i costi delle
partecipate.
L'articolo 18, comma 2-bis, della legge n.
133/2008 (introdotto dall'articolo 19 Dl
78/2009) nello stabilire che i divieti o
limitazioni alle assunzioni di personale si
applicano, in relazione al regime previsto
per l'amministrazione controllante, anche
alle società a partecipazione pubblica
locale totale o di controllo che siano
titolari di affidamenti diretti di servizi
pubblici locali senza gara, sembrerebbe
definire i principi cui riferirsi anche per
una prima individuazione del perimetro di
calcolo della spesa.
L'assenza di asseverati principi di
consolidamento fra dati economici (costi e
ricavi) e valori finanziari (impegni e
accertamenti) rischia tuttavia di rendere
arbitraria la verifica del rispetto dei
vincoli di finanza pubblica (articolo Il
Sole 24 Ore del 06.06.2011
- tratto da ecostampa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI:
Criteri dettagliati per beni e
servizi.
Le gare di appalto per
l'acquisto di beni e servizi vanno impostate
con un quadro dettagliato dei criteri e con
la specificazione delle modalità di
attribuzione dei punteggi, mentre per le
prestazioni eseguite è d'obbligo la
verifica. Il Dpr 207/2010 introduce nella
normativa per la selezione dei fornitori e
dei prestatori di servizi importanti novità.
Ogni appalto deve essere progettato
(articolo 279); quindi le amministrazioni,
prima dell'avvio delle procedure selettive,
devono definire la relazione di contesto, il
quadro economico, il Duvri, il capitolato
prestazionale e lo schema di contratto. Il
progetto deve essere formalizzato con
l'approvazione. La sua struttura molto
flessibile permette peraltro di
differenziarne i contenuti descrittivi a
seconda della tipologia di affidamento e
della complessità dell'appalto.
Le stazioni appaltanti sono tenute a
specificare nel bando (e nel disciplinare di
gara) i criteri di valutazione, i relativi
sub-criteri, i pesi ponderali, ma anche le
modalità di attribuzione dei punteggi
(articolo 283, comma 2). Per regolare questo
delicatissimo aspetto, le amministrazioni
devono fare riferimento all'allegato P del
Dpr 207/2010.
Nell'impostazione di bandi e disciplinari di
gara le stazioni appaltanti devono inserire
le regole derivanti dalle norme del
regolamento attuativo sulla specificazione
delle attività principali e di quelle
complementari comprese nell'appalto, nonché
sulla distribuzione dei requisiti (e delle
relative quote di attività) tra i soggetti
partecipanti in raggruppamento temporaneo
(articolo 275, collegato all'articolo 37,
comma 4 del codice).
L'incidenza del regolamento attuativo nella
gestione delle procedure selettive per
appalti di beni e servizi si rileva anche
nella disciplina innovativa (articolo 283)
di alcune operazioni di gara e del percorso
per la verifica delle offerte anomale (con
rinvio all'articolo 121), destinato a
concludersi con una seduta pubblica di
proclamazione dei risultati e
dell'aggiudicazione provvisoria.
Una vera rivoluzione riguarda invece la fase
di esecuzione dell'appalto, per la quale il
Dpr 207/2010 prevede (per la prima volta
nell'ordinamento della contrattualistica
pubblica) una disciplina specifica che ha
molti punti in comune con quella dei lavori
pubblici. Sotto il profilo organizzativo, le
amministrazioni devono formalizzare i ruoli
del responsabile del procedimento (articoli
272-273) e del direttore dell'esecuzione
(articolo 300), da nominare specificamente
(anche se per appalti entro i 500mila euro
possono coincidere). Sul piano procedurale,
l'aspetto più rilevante è la
regolamentazione delle varianti (articolo
311), in base alla quale le stazioni
appaltanti potranno chiedere adeguamenti
quantitativi al contratto solo per
circostanze determinate: viene pertanto meno
la possibilità di usare "liberamente" il
cosiddetto quinto d'obbligo.
Lo sviluppo delle prestazioni deve essere
verificato secondo lo schema dei protocolli
delineati dal regolamento (articoli
312-325). Le amministrazioni devono pertanto
definire i ruoli, nonché organizzare le
verifiche e la loro formalizzazione, tenendo
conto che sono finalizzate alla produzione
dei certificati e delle attestazioni di
conformità (articolo
Il Sole 24 Ore del 06.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Progettazione lavori: il
regolamento impone il restyling. Cambiamenti
rilevanti anche sulla verifica per la
validazione.
Le stazioni appaltanti
devono riorganizzare le attività relative
alla progettazione dei lavori pubblici,
nonché adeguare bandi e capitolati al
regolamento attuativo del codice dei
contratti, per tutti gli appalti che
avvieranno a partire da mercoledì
08.06.2011.
L'entrata in vigore del Dpr 207/2010 ha
molte implicazioni nella gestione operativa
del ciclo realizzativo delle opere
pubbliche. Le novità con maggiore impatto
procedurale e organizzativo sono rilevabili
dalle disposizioni del regolamento che
disciplinano la fase della progettazione
(articoli 14-43) e della verifica ai fini
della validazione (articoli 44-59).
Il percorso prevede ora la necessaria
redazione dello studio di fattibilità come
passaggio-chiave per la definizione delle
scelte da programmare. Il progetto
preliminare e quello definitivo sono molto
più articolati e specifici rispetto al
quadro precedentemente regolato dal Dpr
554/1999, quindi le stazioni appaltanti
devono verificare l'adeguatezza delle
competenze delle risorse umane interne per
una redazione ottimale.
Il maggiore dettaglio del progetto
preliminare rende necessaria una particolare
attenzione anche da parte degli
amministratori locali, in quanto richiede la
definizione di scelte (confluenti nella
programmazione) non più facilmente
adattabili nelle successive fasi.
Il Dpr 207/2010 prevede un'altra grande
novità riferita a questa fase: ogni livello
di progettazione dev'essere sottoposto a
verifica ai fini della validazione.
Le attività di controllo dei profili
sostanziali e documentali dei progetti
devono essere realizzate per quelli
elaborati sia da tecnici della stazione
appaltante sia da professionisti esterni. Le
amministrazioni, perciò, devono definire
soluzioni organizzative che permettano di
svolgere le verifiche mediante gli uffici
tecnici e, per lavori di minor rilievo, per
mezzo dei responsabili di procedimento,
considerando anche che il soggetto
verificatore non può svolgere l'attività di
progettista.
Sul piano procedurale le disposizioni (in
particolare l'articolo 55) evidenziano
l'importanza della validazione, che deve
essere tradotta in un provvedimento
specifico del Rup.
La terza grande novità è determinata dalla
disciplina specifica per gli appalti
integrati, contenuta principalmente negli
articoli 168 e 169, nonché in un'ampia serie
di disposizioni, illustrative dei contenuti
ulteriori che devono avere i progetti quando
la gara comporti l'affidamento della
progettazione e dell'esecuzione
dell'appalto. In relazione all'affidamento
degli appalti, nella predisposizione dei
bandi le amministrazioni devono tener conto
dell'innovato quadro delle categorie
generali e specialistiche, delle
precisazioni in ordine alle lavorazioni
prevalenti, scorporabili e subappaltabili
(articolo 109), nonché dell'inserimento di
due classifiche intermedie. Particolare
attenzione dovrà essere posta al regime
transitorio (regolato dall'articolo 357 del
regolamento attuativo), in base al quale le
vecchie attestazioni Soa scadono per molte
categorie al loro termine naturale, mentre
per altre l'adeguamento è sviluppato entro
un periodo ulteriore di un anno dall'entrata
in vigore del Dpr 207/2010 (scadenza
allungata dal Dl 70/2010).
Rispetto al passato, le stazioni appaltanti
potranno utilizzare per l'affidamento dei
lavori di manutenzione (oltre alle procedure
ordinarie) gli accordi quadro e partire da
progetti definitivi (articolo 105), mentre
non potranno più ricorrere ai contratti
aperti.
Tra le principali novità è rilevabile la
precisazione delle disposizioni sulla
polizza di assicurazione per danni di
esecuzione (la cosiddetta "car"), per
le quali ora il bando di gara deve prevedere
che l'importo della somma assicurata
corrisponda a quello del contratto oppure,
dandone specifica motivazione, che lo
superi.
Norme più chiare sono rilevabili anche in
relazione alle varianti (articoli 161-163) e
alle sospensioni (articoli 158-160), per le
quali risulta chiaro che, quando siano
legittime (determinate dal direttore lavori
per cause di forza maggiore o dal Rup per
motivi di interesse pubblico), non
comportano il versamento di alcun indennizzo
all'appaltatore (situazione che si verifica,
invece, quando la sospensione non sia
giustificata e, pertanto, illegittima).
Molte disposizioni replicano quelle del Dpr
554/1999 e del Dm 145/2000, ma è comunque
necessario che le stazioni appaltanti
adeguino bandi, capitolati e schemi di
contratto in uso (articolo
Il Sole 24 Ore del 06.06.2011
- tratto da
www.corteconti.it). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Il bando di gara non può imporre
al concorrente che la polizza fideiussoria
da esso prodotta riporti espressamente
l’impegno di versare l’importo della
cauzione ad un soggetto individuato della
stazione appaltante.
Le disposizioni di riferimento non prevedono
che possa essere inserita, nel bando e/o nel
disciplinare di gara, una clausola che
preveda, in caso di escussione della polizza
a prima richiesta, l’importo del fideiussore
a versare l’importo della cauzione nei
confronti di un soggetto ben individuato.
Una corretta interpretazione di tali norme
induce a ritenere, anche alla stregua dei
principi comunitari di trasparenza e massima
partecipazione alle procedure volte
all’affidamento di commesse pubbliche, che
l’esclusione dalla selezione possa essere
legittimamente prevista dall’Amministrazione
appaltante nella lex specialis
soltanto quando ricorrano motivi specifici e
ben esplicitati (massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 09.06.2011 n. 1446 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
violazione dell'art. 7, l. n. 241 del 1990
non produce ex se l'illegittimità del
provvedimento terminale, dovendo la
disposizione essere interpretata alla luce
del successivo art. 21-octies, comma 2, che
impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento, e quindi di
non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo.
Il privato, pertanto, non può limitarsi a
dolersi della mera circostanza della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche
indicare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione.
La
giurisprudenza ha sempre affermato che la
violazione dell'art. 7, l. n. 241 del 1990
non produce ex se l'illegittimità del
provvedimento terminale, dovendo la
disposizione essere interpretata alla luce
del successivo art. 21-octies, comma 2, che
impone al giudice di valutare il contenuto
sostanziale del provvedimento, e quindi di
non annullare l'atto nel caso in cui le
violazioni formali non abbiano inciso sulla
legittimità sostanziale del medesimo.
Il privato, pertanto, non può limitarsi a
dolersi della mera circostanza della mancata
comunicazione di avvio, ma deve anche
indicare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove
avesse ricevuto la comunicazione.
Ne consegue che, ove il privato si limiti a
contestare la mancata comunicazione di
avvio, senza nemmeno allegare le circostanze
che intendeva sottoporre
all'amministrazione, il motivo con cui si
lamenta la mancata comunicazione deve
intendersi inammissibile per assoluta
genericità (cfr. Consiglio Stato, sez. VI,
29.07.2008, n. 3786; idem sez. V,
19.03.2007, n. 1307)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3508 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio del permesso di costruire avviene
nell'ambito del rapporto pubblicistico, e
non si estende ai rapporti tra privati, in
quanto la lesione di diritti dei terzi non
discende direttamente dal rilascio del
titolo, ma solo dalla fisica realizzazione
dell’opera contro la quale può chiedersi
tutela davanti al giudice civile.
---------------
Deve escludersi un obbligo del Comune di
effettuare complessi accertamenti diretti a
ricostruire tutte le vicende riguardanti la
titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare
le limitazioni negoziali al diritto di
costruire. Tuttavia, secondo le regole
generali, l'Amministrazione comunale, nel
corso dell'istruttoria sul rilascio del
permesso di costruire deve verificare “…le
condizioni di ammissibilità, i requisiti di
legittimazione ed i presupposti rilevanti …”
per l’adozione del provvedimento finale.
---------------
Nel caso di
lotto intercluso, il difetto del possesso
dei titoli reali relativi ai diritti di
passaggio veicolare attraverso il cortile
altrui costituisce un elemento
procedimentalmente ostativo, per il quale
legittimamente si nega il rilascio del
permesso di costruire.
In linea teorica è esatto il richiamo della
sentenza appellata all’orientamento
giurisprudenziale per cui il rilascio del
permesso di costruire avviene nell'ambito
del rapporto pubblicistico, e non si estende
ai rapporti tra privati, in quanto la
lesione di diritti dei terzi non discende
direttamente dal rilascio del titolo, ma
solo dalla fisica realizzazione dell’opera
contro la quale può chiedersi tutela davanti
al giudice civile (cfr. Consiglio Stato,
sez. IV, 10.12.2007, n. 6332).
In quanto atto amministrativo che legittima
l'attività edilizia nell'ordinamento
pubblicistico, il permesso non attribuisce
però alcun diritto soggettivo alla stregua
del diritto comune a favore di tale
soggetto. La rilevanza giuridica della
licenza edilizia va circoscritta, infatti,
ai rapporti tra p.a. e costruttore ed ai
possibili riflessi sulle correlate posizioni
di interesse legittimo dei terzi, ma
comunque presuppone pur sempre il necessario
ed ineludibile possesso dei titoli
proprietari da parte del richiedente .
Il primo comma dell’art. 11, d.P.R.
06.06.2001 n. 380, infatti, prevede
espressamente che il permesso di costruire è
“rilasciato al proprietario dell'immobile
o a chi abbia titolo per richiederlo”.
La legge specificamente impone, tra i
requisiti di legittimazione, il possesso dei
titoli reali per poter intervenire
sull'immobile per il quale è chiesta la
concessione edilizia (cfr. Consiglio Stato,
sez. V, 07.09.2009, n. 5223; Consiglio
Stato, sez. IV, 07.09.2007 n.4703; idem
07.07.2005 n. 3730).
Certamente deve escludersi un obbligo del
Comune di effettuare complessi accertamenti
diretti a ricostruire tutte le vicende
riguardanti la titolarità dell'immobile,
ovvero a ricercare le limitazioni negoziali
al diritto di costruire (cfr. Consiglio
Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6332).
Tuttavia, secondo le regole generali,
l'Amministrazione comunale, nel corso
dell'istruttoria sul rilascio del permesso
di costruire, ai sensi dell’art. 6, I° co.
lett. a) della L. n. 241/1990 e s.m.i. deve
verificare “…le condizioni di
ammissibilità, i requisiti di legittimazione
ed i presupposti rilevanti …” per
l’adozione del provvedimento finale.
La proprietà, o comunque il possesso dei
titoli civilisticamente idonei a legittimare
la situazione giuridica del richiedente, per
tutte le aree direttamente interessate
dall’intervento, costituisce dunque un
requisito di legittimazione dell’istanza che
deve essere procedimentalmente dimostrato ai
fini dell’ammissibilità stessa della
domanda.
I titoli per l'esercizio dello "ius
aedificandi" costituiscono un
presupposto legale la cui mancanza impedisce
infatti all'amministrazione di procedere
oltre nell'esame del progetto (cfr.
Consiglio Stato, sez. V, 12.05.2003, n.
2506).
Nel caso, quindi, l’interclusione del fondo
oggetto della richiesta di intervento non
attiene ai generici rapporti civilistici del
richiedente con i terzi alle quali
l’amministrazione è del tutto estranea -come
erroneamente affermato dal TAR- ma invece
concerne propriamente un presupposto
necessario di legittimazione della società
richiedente, ai sensi del cit. art. 11,
primo co., del d.lgs. n. 380, la quale
avrebbe quindi dovuto allegare all’istanza
tutti i titoli di servitù di transito
veicolare sulla proprietà altrui.
Il difetto del possesso dei titoli reali
relativi ai diritti di passaggio veicolare
attraverso il cortile altrui costituisce un
elemento procedimentalmente ostativo, per il
quale legittimamente si nega il rilascio del
permesso di costruire
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3508 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se nel procedimento di rilascio
del permesso di costruire l’amministrazione
ha il potere-dovere di verificare
l’esistenza in capo al richiedente di un
idoneo titolo di godimento dell’immobile
interessato dal progetto di trasformazione
urbanistica, è pur vero che l’attività
istruttoria condotta a tal fine deve
ritenersi adeguata allorquando siano stati
acquisiti tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato
collegamento soggettivo tra chi propone
l’istanza ed il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione.
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E' illegittimo il permesso di costruire
rilasciato ove, in fase istruttoria, non si
abbia in concreto riscontrato l’esistenza di
un rischio per la staticità dell’immobile
esistente.
Le attribuzioni del Comune in tema di
autorizzazione degli interventi edilizi
comprendono espressamente gli obblighi di
valutare i profili di sicurezza delle
costruzioni, come si evince dalla lettura
degli artt. 2, comma 4, e 4 del testo unico
sull’edilizia. Tali obblighi istruttori,
appartenendo alle attribuzioni istituzionali
dell’ente pubblico, non sono condizionati
dalle valutazioni delle parti coinvolte, ma
devono essere esperiti in ogni caso e, si
noti, anche qualora vi fosse stato accordo
delle parti private coinvolte.
Se è certamente vero che l’azione
amministrativa non può addentrarsi oltre i
limiti indicati in sentenza nella
valutazione degli assetti proprietari
dell’immobile, è del pari vero che le
questioni attinenti alla statica ed alla
sicurezza dell’immobile non rientrano in
questo ambito, dovendo essere invece oggetto
di ponderazione autonoma ed ineludibile.
Come correttamente afferma il TAR, “se
infatti nel procedimento di rilascio del
permesso di costruire l’amministrazione ha
il potere-dovere di verificare l’esistenza
in capo al richiedente di un idoneo titolo
di godimento dell’immobile interessato dal
progetto di trasformazione urbanistica, è
pur vero che l’attività istruttoria condotta
a tal fine deve ritenersi adeguata
allorquando siano stati acquisiti tutti gli
elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi propone l’istanza ed il
bene giuridico oggetto dell’autorizzazione”.
E ciò nella considerazione che nel nostro
ordinamento l’unico soggetto deputato ad
accertare i rapporti proprietari è il
giudice civile, per cui all’amministrazione
va riconosciuto unicamente un ruolo minore,
esattamente nei termini indicati dal giudice
di prime cure.
Tuttavia, dalla lettura degli atti e dalle
difese delle parti, emerge che, in disparte
la questione proprietaria, i rilievi e le
censure maggiori si accentrano sulla
circostanza che il Comune avrebbe
autorizzato interventi attinenti la
staticità dell’immobile e tendenzialmente
idonei a pregiudicarla, in assenza di una
corretta valutazione del progetto presentato
ed anzi in assenza di un effettivo riscontro
sulla correttezza tra la documentazione
ricevuta e lo stato di fatto.
Questo aspetto, che è apparso alla Sezione
prioritario, tanto da fondare l’accoglimento
della domanda cautelare proposta ed accolta
con ordinanza n. 1108/2010 proprio in
ragione dei profili di rischio per la
staticità dell’immobile, è stata messo in
ombra nella sentenza.
Occorre invece sottolineare che le
attribuzioni del Comune in tema di
autorizzazione degli interventi edilizi
comprendono espressamente gli obblighi di
valutare i profili di sicurezza delle
costruzioni, come si evince dalla lettura
degli artt. 2, comma 4, e 4 del testo unico
sull’edilizia. Tali obblighi istruttori,
appartenendo alle attribuzioni istituzionali
dell’ente pubblico, non sono condizionati
dalle valutazioni delle parti coinvolte, ma
devono essere esperiti in ogni caso e, si
noti, anche qualora vi fosse stato accordo
delle parti private coinvolte. Infatti, gli
interessi tutelati dalla normativa,
coinvolgendo profili di sicurezza privata e
pubblica, non sono disponibili dalle parti
ed ineriscono ai compiti tipici
dell’amministrazione.
È, quindi, compito proprio del Comune, e
come tale non soggetto ad alcun impulso di
parte, procedere autonomamente alla
valutazione del progetto edilizio presentato
dal punto di vista del rispetto dei
regolamenti edilizi, non vertendosi in
questo caso in nessuna situazione soggetta a
disponibilità della parte privata.
Pertanto, se è certamente vero che l’azione
amministrativa non può addentrarsi oltre i
limiti indicati in sentenza nella
valutazione degli assetti proprietari
dell’immobile, è del pari vero che le
questioni attinenti alla statica ed alla
sicurezza dell’immobile non rientrano in
questo ambito, dovendo essere invece oggetto
di ponderazione autonoma ed ineludibile.
Sulla scorta di tale presupposto, fondato
prima ancora che sulla lettura della legge
dalle considerazioni in tema di completezza
ed esaustività dell’istruttoria
amministrativa, non può non notarsi come nel
caso in specie tale azione sia mancata e il
Comune di Termoli abbia rilasciato i titoli
abilitativi impugnati non avendo in concreto
riscontrato l’esistenza di un rischio per la
staticità dell’immobile.
Infatti, dalla completa ricostruzione in
fatto operata nel corso del giudizio di
primo grado, anche tramite una verificazione
ed una consulenza tecnica d’ufficio, ed in
special modo dalla relazione del
Provveditorato interregionale per le opere
pubbliche Campania–Molise, è emerso come
effettivamente gli interventi autorizzati
abbiano influito sulla rigidezza strutturale
e sulla stabilità dell’intero complesso, e
ciò in assenza di una completa valutazione
di tali profili da parte del Comune di
Termoli.
Si tratta quindi di un complesso di
violazioni, di carattere non formale o
procedurale, e quindi superabili con la
successiva produzione documentale, ma
riguardanti il contenuto stesso
dell’intervento edilizio, che ben avrebbero
dovuto condurre il Comune ad esaminare nel
dettaglio i progetti presentati, senza
arrestare la propria valutazione al solo
dato proprietario
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.06.2011 n. 3505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
commissione di gara presieduta dal Dirigente
responsabile del settore Urbanistica del
Comune e composta dal Vice-dirigente
dell’Ufficio tecnico e da una impiegata
amministrativa dello stesso Ufficio risulta
avere le professionalità adeguate alle
valutazioni tecniche che sono state chiamate
ad effettuare, svolgendo i suddetti
componenti della Commissione attività
proprie dello specifico settore cui si
riferiva l'oggetto del contratto, dal
momento che l’avviso pubblico riguardava un
avviso di selezione per l’affidamento
dell’incarico professionale per la redazione
del Piano degli interventi relativo al Piano
di assetto del Territorio.
Osserva al riguardo il Collegio che l’art.
84, comma 2, 3, 4, 5 e 6, del d.lgs. n.
163/2006 stabilisce che “2. La
commissione, nominata dall'organo della
stazione appaltante competente ad effettuare
la scelta del soggetto affidatario del
contratto, è composta da un numero dispari
di componenti, in numero massimo di cinque,
esperti nello specifico settore cui si
riferisce l'oggetto del contratto.
3. La commissione è presieduta da un
dirigente della stazione appaltante,
nominato dall'organo competente.
4. I commissari diversi dal Presidente non
devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta.
5. Coloro che nel biennio precedente hanno
rivestito cariche di pubblico amministratore
non possono essere nominati commissari
relativamente a contratti affidati dalle
amministrazioni presso le quali hanno
prestato servizio.
6. Sono esclusi da successivi incarichi di
commissario coloro che, in qualità di membri
delle commissioni giudicatrici, abbiano
concorso, con dolo o colpa grave accertati
in sede giurisdizionale con sentenza non
sospesa, all'approvazione di atti dichiarati
illegittimi.”
Il seguente comma 8 stabilisce che i
commissari diversi dal presidente sono
selezionati tra i funzionari delle stazioni
appaltanti e che solo in caso di accertata
carenza in organico di adeguate
professionalità, nonché negli altri casi
previsti dal regolamento essi sono scelti
con un criterio di rotazione tra
professionisti e professori universitari di
ruolo.
Il TAR ha accolto il primo motivo del
ricorso introduttivo del giudizio
nell’assunto che la composizione della
Commissione giudicatrice, con specifico
riguardo alle competenze tecniche dei
componenti, non risultava conforme alle
sopra citate disposizioni, tenuto conto
della peculiarità delle valutazioni tecniche
da effettuare per la scelta della migliore
offerta.
La Commissione di cui trattasi era
presieduta dal Dirigente responsabile del
settore Urbanistica del Comune e composta
dal Vice-dirigente dell’Ufficio tecnico e da
una impiegata amministrativa dello stesso
Ufficio.
Dette professionalità appaiono al Collegio
adeguate alle valutazioni tecniche che sono
state chiamate ad effettuare, svolgendo i
suddetti componenti della Commissione
attività proprie dello specifico settore cui
si riferiva l'oggetto del contratto, dal
momento che l’avviso pubblico riguardava un
avviso di selezione per l’affidamento
dell’incarico professionale per la redazione
del Piano degli interventi relativo al Piano
di assetto del Territorio adottato dal
Comune di Cerea
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 08.06.2011 n. 3479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
illegittima la concessione edilizia per la
costruzione di una autorimessa posta a 5,00
mt. dalla parete finestrata del fabbricato
dei ricorrenti.
L'art. 15.2.7 delle N.T.A. del Comune,
essendo in contrasto con la previsione
dell’art. 9 D.M. 1444/1968, deve ritenersi
sostituito ope legis dal precetto contenuto
in questa norma di diretta applicazione
secondo il principio di gerarchia delle
fonti che si applica nel caso di contrasto
apparente tra le norme.
La difesa dei ricorrenti ha prodotto la
sentenza del Tribunale di Como che aveva
deciso la controversia tra i ricorrenti
medesimi e i controinteressati e nella
quale, per quanto di interesse nel presente
giudizio, era stata negata la diretta
applicabilità nei rapporti tra privati
dell’art. 9 D.M. 1444/1968 anche superando
la normativa urbanistica comunale vigente.
L’interpretazione offerta dal Tribunale di
Como è in linea con l’orientamento espresso
dalla Suprema Corte in alcune sentenze pure
richiamate dalla decisione del giudice
lariano (Cass. 3771/2001, 5889/1997), che
però ha sempre sostenuto come la norma
contenuta nell’art. 9 D.M. 1444/1968 dovesse
ritenersi cogente per l’amministrazione
locale superando anche la previsione di
norme urbanistiche locali difformi.
In merito all’unico motivo di ricorso non
può che ribadirsi un recente orientamento
espresso da questa stessa sezione nella
sentenza 1282/2011 che in merito ha
affermato: “L’art. 9 del D.M. 1444/1968
misura le distanze con riferimento alle
pareti finestrate con riferimento a: 2)
Nuovi edifici ricadenti zone diverse dalla
zona A: è prescritta in tutti i casi la
distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti;
Zone C): è altresì prescritta, tra pareti
finestrate di edifici antistanti, la
distanza minima pari all'altezza del
fabbricato più alto.
La giurisprudenza ha costantemente affermato
che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in
virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del
1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l.
06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete
dal rango di fonte primaria della norma
delegante la forza di legge, suscettibile di
integrare con efficacia precettiva il regime
delle distanze dalle costruzioni di cui
all'art. 872 c.c.: la regola della distanza
di 10 metri tra pareti finestrate e pareti
di edifici antistanti vincola anche i comuni
in sede di formazione e di revisione degli
strumenti urbanistici, con la conseguenza
che ogni previsione regolamentare in
contrasto con l'anzidetto limite minimo è
illegittima e va disapplicata, essendo
consentita alle amministrazioni locali solo
la fissazione di distanze superiori (TAR
Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n.
832).
Con riferimento alla nozione di pareti
finestrate la giurisprudenza afferma che
"per "pareti finestrate", ai sensi dell'art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei
regolamenti edilizi locali che ad esso si
richiamano, devono intendersi, non
(soltanto) le pareti munite di "vedute", ma
più in generale tutte le pareti munite di
aperture di qualsiasi genere verso
l'esterno, quali porte, balconi, finestre di
ogni tipo (di veduta o di luce)" (Corte
d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato
altresì che basta che sia finestrata anche
una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez.
III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte,
10/10/2008 n. 2565).”.
Orbene nel caso di specie non vi è dubbio
che l’autorimessa di cui alla concessione
impugnata sia posta a cinque metri dalla
parete finestrata del fabbricato dei
ricorrenti.
Ciò comporta l’illegittimità della
concessione impugnata in quanto l’art.
15.2.7 delle N.T.A. del Comune, essendo in
contrasto con la previsione dell’art. 9 D.M.
1444/1968, deve ritenersi sostituita ope
legis dal precetto contenuto in questa
norma di diretta applicazione secondo il
principio di gerarchia delle fonti che si
applica nel caso di contrasto apparente tra
le norme
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’ordine
di smaltimento presuppone l’accertamento di
una responsabilità a titolo quantomeno di
colpa in capo all’autore dell’abbandono dei
rifiuti, e lo stesso vale per il
proprietario o titolare di altro diritto
reale o personale sull’area interessata, che
venga chiamato a rispondere in solido
dell’illecito.
Secondo l’art. 192 del D.Lgs. 152/2006
l’ordine di smaltimento presuppone
l’accertamento di una responsabilità a
titolo quantomeno di colpa in capo
all’autore dell’abbandono dei rifiuti, e lo
stesso vale per il proprietario o titolare
di altro diritto reale o personale sull’area
interessata, che venga chiamato a rispondere
in solido dell’illecito (TAR Toscana Sez. II
sent. 1447 del 17.09.2009)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1408 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Il
provvedimento di annullamento in autotutela
costituisce manifestazione della
discrezionalità dell’Amministrazione, nel
senso che essa non è obbligata a ritirare
gli atti illegittimi o inopportuni in quanto
tali, ma deve valutare, di volta in volta,
se esista un interesse pubblico alla loro
eliminazione diverso dal semplice
ristabilimento della legalità violata.
Nell’ordinamento vige “la regola secondo
la quale il provvedimento di annullamento in
autotutela costituisce manifestazione della
discrezionalità dell’Amministrazione, nel
senso che essa non è obbligata a ritirare
gli atti illegittimi o inopportuni in quanto
tali, ma deve valutare, di volta in volta,
se esista un interesse pubblico alla loro
eliminazione diverso dal semplice
ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non viene
esplicitato a priori dalla norma, ma deve
essere ricavato dalla stessa
Amministrazione, caso per caso, attraverso
un’attività di “comparazione tra l’interesse
pubblico al ripristino della legalità e gli
interessi dei destinatari del provvedimento
e dei controinteressati”; il tutto, tenendo
nella debita considerazione anche la
circostanza che il provvedimento da
annullare possa avere prodotto effetti
favorevoli, valutandone la rilevanza, e che
sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo
(fattore di stabilizzazione) dal momento
della sua emissione. (…) Tali elementi,
infatti, integrano la nozione di “stabilità
della situazione venutasi a creare per
effetto del provvedimento favorevole” e
rappresentano, in quanto tali, un limite
all’esercizio del potere di autoannullamento.
Pertanto, nella comparazione tra le esigenze
sottese a un intempestivo e pregiudizievole
annullamento in autotutela dell’atto e
quelle sottese alla conservazione di
quest’ultimo, l’Amministrazione, in forza
del citato art. 21-nonies [della legge n.
241 del 1990], è tenuta a optare per la
soluzione che meglio contemperi la necessità
del ripristino della legittimità e la
salvezza degli altri interessi concorrenti”
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1407 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
trascorrere del tempo (30 gg.) previsto
prima dell’inizio dei lavori della DIA
presentata pur non facendo venir meno i
poteri di autotutela in capo
all’Amministrazione, né con riferimento ai
poteri di vigilanza e sanzionatori, né con
riferimento ai poteri espressione
dell’esercizio di una attività di secondo
grado estrinsecantesi nell’annullamento
d’ufficio e nella revoca, postula comunque
il rispetto del principio di reciproca
lealtà e certezza dei rapporti giuridici.
In data 20.10.2000 il ricorrente
Condominio ha presentato presso gli uffici
comunali una denuncia di inizio attività per
la realizzazione di un muretto in
calcestruzzo per dividere la proprietà
privata dalla strada pubblica, per
l’installazione di un cancello automatico
per accedere ai box interrati e per la
predisposizione di una piazzola per
collocarvi un cassonetto porta rifiuti.
Trascorsi i 20 giorni –secondo il disposto
dell’allora vigente art. 4, comma 11, del
decreto legge n. 398 del 1993, convertito in
legge n. 493 del 1993– le opere sono state
iniziate e soltanto in data 04.01.2001 il
Comune ha emanato un provvedimento con cui è
stato negato quanto previsto in sede di
denuncia di inizio attività, con la
conseguente inibizione dei relativi lavori
(peraltro quasi già terminati).
Tuttavia, il trascorrere del tempo previsto
prima dell’inizio dei lavori –nel caso di
specie, 20 giorni– pur non facendo venir
meno i poteri di autotutela in capo
all’Amministrazione, né con riferimento ai
poteri di vigilanza e sanzionatori, né con
riferimento ai poteri espressione
dell’esercizio di una attività di secondo
grado estrinsecantesi nell’annullamento
d’ufficio e nella revoca, postula comunque
il rispetto del principio di reciproca
lealtà e certezza dei rapporti giuridici
(Consiglio di Stato, IV, 12.03.2009, n.
1474)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
carente di motivazione il diniego di
concessione edilizia fondato su un generico
contrasto dell’opera con leggi o regolamenti
in materia edilizia, dovendo invece il
diniego stesso soffermarsi sulle
disposizioni che si assumano ostative al
rilascio del titolo e sulle previsioni di
riferimento contenute negli strumenti
urbanistici, in modo da consentire
all’interessato da un lato di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla
regolarizzazione ed al mantenimento
dell’opera, dall’altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole
ed esaustiva, la legittimità del
provvedimento impugnato.
La giurisprudenza è consolidata
nell’affermare che “è carente di
motivazione il diniego di concessione (…)
fondato su un generico contrasto dell’opera
con leggi o regolamenti in materia edilizia,
dovendo invece il diniego stesso soffermarsi
sulle disposizioni che si assumano ostative
al rilascio del titolo e sulle previsioni di
riferimento contenute negli strumenti
urbanistici, in modo da consentire
all’interessato da un lato di rendersi conto
degli impedimenti che si frappongono alla
regolarizzazione ed al mantenimento
dell’opera (…), dall’altro di confutare in
giudizio, in maniera pienamente consapevole
ed esaustiva, la legittimità del
provvedimento impugnato” (TAR Toscana,
Firenze, III, 09.04.2009, n. 605)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 07.06.2011 n. 1405 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
L'affidamento del servizio di
tesoreria si sostanzia in una concessione di
servizi che, in linea di principio, resta
assoggettato alla disciplina del Codice
degli Appalti (D.Lgs. n. 163/2006) solo nei
limiti specificati dall'art. 30 del medesimo
decreto.
Si è in presenza di una concessione di
servizi allorquando le modalità di
remunerazione pattuite consistono nel
diritto del prestatore di sfruttare la
propria prestazione ed implicano che
quest'ultimo assuma il rischio legato alla
gestione dei servizi in questione, mentre in
caso di assenza di trasferimento al
prestatore del rischio legato alla
prestazione, l'operazione rappresenta un
appalto di servizi.
Nel caso di specie, dunque, la gara rientra
tra quelle in cui "la controprestazione a
favore del concessionario consiste
unicamente nel diritto di gestire
funzionalmente e di sfruttare economicamente
il servizio", e, per ciò solo, tra le
concessioni di servizi, ai sensi dell'art.
30, 2° c., del D.Lgs 163/2006. Infatti, la
richiamata normativa "non significa che
il concessionario non può trarre alcuna
utilità economicamente apprezzabile dallo
svolgimento del servizio (se così fosse, ben
difficilmente si troverebbero concorrenti
per le gare di tesoreria) ma solo che la
gara non deve prevedere un prezzo che
remuneri il servizio, a carico della
Stazione Appaltante; in altre parole, la
concessione di servizi prevede il
trasferimento in capo al concessionario
della responsabilità della gestione, da
intendersi come assunzione del rischio, che
dipende direttamente dai proventi che il
concessionario può trarre dalla
utilizzazione economica del servizio".
Pertanto, l'affidamento del servizio di
tesoreria si sostanzia in una concessione di
servizi che, in linea di principio, resta
assoggettato alla disciplina del Codice
degli Appalti (D.Lgs. n. 163/2006) solo nei
limiti specificati dall'art. 30 che, per
quanto qui interessa, non pone di certo
l'obbligo di prestare la cauzione definitiva
di cui all'art. 75 del citato D. Lgs n.
163/2006 (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.06.2011 n. 3377 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'annotazione nel casellario
informatico tenuto dall'Autorità di
Vigilanza sui contratti pubblici.
Nel nostro ordinamento, l'aver reso false
dichiarazioni alla stazione appaltante su
circostanze rilevanti ai fini della
assegnazione dell'appalto assurge a causa
autonoma di non ammissione alle gare per
l'affidamento dei contratti pubblici (art.
38, c. 1, lett. h, del D.Lgs. 163/2006), a
prescindere da ogni accertamento sul profilo
psicologico del dichiarante.
La disposizione richiamata pone l'accento,
come d'altra parte l'art. 27 del d.P.R. n.
34 del 2000 ai fini della iscrizione nel
casellario informatico (analoga scelta si
rinviene nell'art. 8 del nuovo regolamento
esecutivo del Codice dei contratti pubblici,
approvato con d.P.R. n.207 del 2010), sul
carattere rilevante, per la partecipazione
alle gare, dei requisiti o delle condizioni
oggetto della falsa dichiarazione.
Pertanto, la valutazione cui è tenuta l'AVCP
ai fini della iscrizione della notizia nel
casellario informatico è quella della
pertinenza della notizia segnalata dalle
stazioni appaltanti con condizioni o
requisiti rilevanti ai fini partecipativi,
ad evitare che possa formare oggetto di
iscrizione anche il cosiddetto falso
innocuo, cioè la falsa dichiarazione su
fatti e circostanze irrilevanti ai fini
della assegnazione della gara (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n. 3361 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Nel
nostro ordinamento, l’aver reso false
dichiarazioni alla stazione appaltante su
circostanze rilevanti ai fini della
assegnazione dell’appalto assurge a causa
autonoma di non ammissione alle gare per
l’affidamento dei contratti pubblici (art.
38, comma 1, lett. h), a prescindere da ogni
accertamento sul profilo psicologico del
dichiarante.
La disposizione richiamata pone l’accento,
come d’altra parte l’art. 27 del d.P.R. n.
34 del 2000 ai fini della iscrizione nel
casellario informatico (analoga scelta si
rinviene nell’art. 8 del nuovo regolamento
esecutivo del Codice dei contratti pubblici,
approvato con d.P.R. n. 207 del 2010), sul
carattere rilevante, per la partecipazione
alle gare, dei requisiti o delle condizioni
oggetto della falsa dichiarazione.
Pertanto la valutazione cui è tenuta l’AVCP
ai fini della iscrizione della notizia nel
casellario informatico è quella della
pertinenza della notizia segnalata dalle
stazioni appaltanti con condizioni o
requisiti rilevanti ai fini partecipativi,
ad evitare che possa formare oggetto di
iscrizione anche il cosiddetto falso
innocuo, cioè la falsa dichiarazione su
fatti e circostanze irrilevanti ai fini
della assegnazione della gara.
Nel nostro ordinamento, l’aver reso false
dichiarazioni alla stazione appaltante su
circostanze rilevanti ai fini della
assegnazione dell’appalto assurge a causa
autonoma di non ammissione alle gare per
l’affidamento dei contratti pubblici (art.
38, comma 1, lett. h), a prescindere da ogni
accertamento sul profilo psicologico del
dichiarante.
La disposizione richiamata pone l’accento,
come d’altra parte l’art. 27 del d.P.R. n.
34 del 2000 ai fini della iscrizione nel
casellario informatico (analoga scelta si
rinviene nell’art. 8 del nuovo regolamento
esecutivo del Codice dei contratti pubblici,
approvato con d.P.R. n. 207 del 2010), sul
carattere rilevante, per la partecipazione
alle gare, dei requisiti o delle condizioni
oggetto della falsa dichiarazione.
Pertanto la valutazione cui è tenuta l’AVCP
ai fini della iscrizione della notizia nel
casellario informatico è quella della
pertinenza della notizia segnalata dalle
stazioni appaltanti con condizioni o
requisiti rilevanti ai fini partecipativi,
ad evitare che possa formare oggetto di
iscrizione anche il cosiddetto falso
innocuo, cioè la falsa dichiarazione su
fatti e circostanze irrilevanti ai fini
della assegnazione della gara.
Nel caso di specie tuttavia non può
dubitarsi della rilevanza della notizia
oggetto di segnalazione da parte della
stazione appaltante (Multiservizi spa) alla
odierna Autorità appellante e, per
conseguenza, della doverosa annotazione nel
casellario informatico ad opera di
quest’ultima; la falsa dichiarazione
negativa resa dall’odierno appellato
riguardava infatti una circostanza (l’aver
riportato una condanna penale) di per sé
rilevante (ai sensi del citato art. 27
d.P.R. n. 34 del 2000, oggi art. 8 del
d.P.R. n. 207 del 2010) ai fini della
annotazione nel casellario, a prescindere
dalla natura non ostativa della condanna in
concreto riportata dall’odierno appellato
(desumibile dalla mancata ricomprensione del
titolo di reato oggetto della sentenza di
condanna nelle categorie individuate
dall’art. 38, comma 1°, lett. c)).
Ed invero, la falsa dichiarazione afferiva
ad una condanna penale subita dal
concorrente proprio nell’esercizio
dell’attività professionale, di tal che la
falsa dichiarazione ha impedito alla
stazione appaltante di apprezzare il
medesimo fatto di reato accertato nella sede
penale alla stregua di fatto incidente,
oltre che sulla moralità professionale del
candidato, anche sulla sua stessa
professionalità: atteso che, ai sensi del
medesimo art. 38, comma 1, lett. f), l’aver
commesso un grave errore professionale
costituisce causa autonoma di non ammissione
alle gare pubbliche.
Non par dubbio pertanto che si trattava di
un fatto (potenzialmente) incidente sulla
professionalità del candidato, come tale
destinato a rientrare nella valutazione
relativa al possesso dei requisiti generali,
da parte del concorrente. Ora, riconosciuta
la sicura rilevanza della notizia ai fini
della partecipazione alle gare,
correttamente la AVCP, destinataria della
segnalazione della falsità nella
dichiarazione e della conseguente revoca
della aggiudicazione in danno dell’odierno
appellato, ha fatto luogo alla annotazione
della notizia nel casellario informatico.
Né appare pertinente, nel caso di specie, il
richiamo operato dal Tar alla delibera della
Autorità n.1 del 2008 laddove, nel tracciare
le modalità operative delle annotazioni nel
casellario informatico, viene precisato che
l’AVCP procede alla puntuale e completa
annotazione dei relativi contenuti nel
casellario informatico, “salvo il caso
che consti l’inesistenza in punto di fatto
dei presupposti o comunque l’inconferenza
della notizia comunicata dalla stazione
appaltante”.
Si è già detto, infatti, che nella
fattispecie in esame è conclamata sia la
falsità della dichiarazione resa dal
concorrente sia l’oggettività della condanna
penale, di tal che non è certo questo il
caso in cui potrebbe parlarsi di “inconferenza
della notizia” ovvero di “inesistenza
in punto di fatto dei suoi presupposti”.
Quanto poi alla previsione, contenuta nella
nuova delibera AVCP n. 1 del 2010, riguardo
alla necessità di un autonomo apprezzamento
da parte della Autorità circa la rilevanza
della notizia segnalata, il Collegio ritiene
che nessun elemento acquisito agli atti del
giudizio possa condurre a ritenere che
l’Autorità nella specie non abbia compiuto
tale autonoma valutazione del fatto prima di
addivenire alla condivisibile determinazione
di annotare la notizia nel casellario
informatico.
Da ultimo non rileva, come sostiene il Tar,
che sia probabilmente mancato il dolo o la
colpa nel dichiarante, ovvero che la falsa
dichiarazione sia da attribuire a
dimenticanza o a disguido; a parte la dubbia
sostenibilità nella specie di una tale
ricostruzione ( la dimenticanza si collega
generalmente a fattispecie omissive pure,
essendo al contrario di più difficile
configurazione in quelle omissive mediante
commissione), si è già detto che nel nostro
ordinamento le false dichiarazioni in sede
di gara, purché afferenti a requisiti o
condizioni rilevanti, producono ex se
l’effetto decadenziale sulla intervenuta
aggiudicazione, nonché la obbligatoria
segnalazione da parte della stazione
appaltante alla AVCP per la annotazione
della notizia nel casellario informatico.
Né potrebbe dubitarsi della compatibilità
comunitaria di una tale opzione normativa
nazionale, focalizzata sulla rilevanza
oggettiva della dichiarazione falsa (e
quindi con esclusione del solo falso
innocuo), e non piuttosto sullo stato
psicologico del dichiarante (cfr., sul
punto, la ordinanza cautelare di questa
Sezione del 15.09.2010 n. 4261), in rapporto
alla diversa scelta del legislatore
comunitario (art. 45, secondo comma, lett.
g) della direttiva CE 2004/18), ove la
possibilità che un operatore economico sia
escluso dalla partecipazione all’appalto è
correlata al fatto che egli si sia reso
gravemente colpevole di false dichiarazioni
nel fornire le informazioni che possono
essere richieste a norma della stessa
direttiva.
Vero è che, sembra di poter concludere,
nella prospettiva comunitaria, le false
dichiarazioni del concorrente producono un
effetto espulsivo alla ricorrenza di un
duplice presupposto: a) che ricadano su
circostanze rilevanti ai fini della
partecipazione alla gara; b) che sia
predicabile un rimprovero al dichiarante,
nel senso che la dichiarazione falsa deve
essergli ascritta quantomeno a titolo di
colpa grave.
Osserva tuttavia il Collegio che la scelta
del legislatore nazionale di richiedere
soltanto, quale requisito per la (non)
ammissione alle gare pubbliche e per la
iscrizione nel casellario di chi vi sia
incorso, la rilevanza oggettiva della
dichiarazione falsa, non appare
incompatibile con il diritto comunitario,
trattandosi in sostanza della legittima
adozione di una frontiera più avanzata di
tutela dell’Amministrazione contro i
possibili abusi dei partecipanti alle gare
pubbliche.
Inoltre, si tratta di scelta giustificata
dall’esigenza di assicurare la speditezza
dei procedimenti selettivi finalizzati ad
individuare i contraenti pubblici, che
sarebbe seriamente compromessa ove dovessero
svolgersi non facili indagini in ordine
all’elemento psicologico del soggetto che
abbia dichiarato il falso in ordine a
circostanze rilevanti ai fini di gara; oltre
che di evitare che possa alimentarsi un
contenzioso indotto dalle incertezze e dai
dubbi interpretativi che potrebbero
insorgere in ordine a tale questione.
Di qui la ragionevolezza della scelta
legislativa nazionale di ancorare alla sola
rilevanza oggettiva del falso gli effetti
espulsivi e interdittivi dei partecipanti
alle gare pubbliche, coerente con un sistema
in cui il principio della leale
collaborazione tra cittadini e pubblica
amministrazione non deve spingersi fino al
punto di onerare le stazioni appaltanti di
defatiganti indagini sul profilo soggettivo
di chi abbia dichiarato il falso al fine di
stabilirne, caso per caso, il regime
sanzionatorio,con ricadute negative anche
sulla par condicio competitorum.
Da ultimo va osservato che a conclusioni non
diverse, in ordine alla piena legittimità
della annotazione, conduce l’esame dei
motivi di primo grado (rimasti assorbiti
nella impugnata decisione) riguardanti la
pretesa violazione del principio di
partecipazione procedimentale oltre che
della completezza della istruttoria. Ed
invero, a fronte della conclamata
sussistenza di una condanna penale per un
fatto incidente sulla professionalità del
concorrente, per un verso non può dirsi
sussistere l’ipotizzato difetto di
istruttoria e, per altro verso, deve altresì
ritenersi (nell’ottica della proficuità
della partecipazione procedimentale
desumibile dall’art. 21-octies della legge
n. 241 del 1990) che il coinvolgimento
dell’appellato nel procedimento teso alla
annotazione della notizia nel casellario
informatico non avrebbe potuto sortire
risultati diversi da quelli in concreto
raggiunti – i.e., la iscrizione della
notizia-, vieppiù in considerazione della
già rilevata ininfluenza dello stato
psicologico del dichiarante ( e ciò anche ad
ammettere, a tutto concedere, che possa
ritenersi esente da grave colpa il
professionista che, in una gara funzionale
al conferimento di un incarico di
progettazione, dichiara falsamente di non
essere incorso in condanne penali, laddove
la condanna penale invece sussisteva ed
afferiva proprio all’esercizio della
professione) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n. 3361 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Imposizione del vincolo
indiretto e continuità dell’area.
Ai fini dell'imposizione del vincolo
indiretto la continuità dell'area non deve
essere intesa in senso solo fisico, né
richiedere necessariamente una continuità
stilistica o estetica fra le aree, ma può
essere invocata anche a tutela della
continuità storica fra i monumenti e gli
insediamenti circostanti; pertanto, nel caso
di una vasta porzione di territorio, di
interesse paesistico, archeologico o
culturale, riconducibile alla più ampia
accezione di parco archeologico, non rileva
il mero rapporto di continuità fisica dei
terreni ai fini della loro inclusione
nell'area vincolata e il potere
discrezionale di cui l'Amministrazione
dispone nel fissare l'ampiezza del vincolo
indiretto finalizzato a costituire una
fascia di rispetto attorno al bene
archeologico oggetto di tutela diretta è
sindacabile in sede di legittimità solo per
macroscopica incongruenza ed illogicità.
Il Collegio ribadisce la propria convinta
adesione al tradizionale orientamento della
pacifica giurisprudenza e della dottrina
(ben tenuto presente dal primo giudice)
secondo cui la determinazione vincolistica “indiretta”
costituisce espressione della
discrezionalità tecnica della p.a.,
sindacabile in sede giurisdizionale quando
l'istruttoria si riveli insufficiente o
errata o la motivazione risulti inadeguata o
presenti manifeste incongruenze o
illogicità, e si basa sull'esigenza che il
bene sottoposto al vincolo diretto sia
valorizzato nella sua complessiva e
prospettica cornice ambientale.
Deve in proposito rammentarsi che
l’appellata amministrazione ha applicato
l’art. 45 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 che
così dispone: “Il Ministero ha facoltà di
prescrivere le distanze, le misure e le
altre norme dirette ad evitare che sia messa
in pericolo l'integrità dei beni culturali
immobili, ne sia danneggiata la prospettiva
o la luce o ne siano alterate le condizioni
di ambiente e di decoro. Le prescrizioni di
cui al comma 1, adottate e notificate ai
sensi degli articoli 46 e 47, sono
immediatamente precettive. Gli enti pubblici
territoriali interessati recepiscono le
prescrizioni medesime nei regolamenti
edilizi e negli strumenti urbanistici.”.
Non è superfluo rammentare che tale forma di
determinazione vincolistica, che coinvolge
l'ambito costituente la "fascia di
rispetto" (che non coincide con l'ambito
materiale dei confini perimetrali dei
singoli immobili, ma va stabilita in
rapporto alla consistenza della c.d. "cornice
ambientale") è sempre stata valutata in
termini restrittivi dalla giurisprudenza
che, preoccupata di un possibile ampliamento
eccessivo del perimetro applicativo di tale
strumento di tutela ha escluso che esso
possa essere utilizzato per proteggere
interessi paesaggistici ed ha preteso che
esso si rapporti, secondo un criterio
felicemente definito di “contiguità
spaziale” con il bene protetto (ex
multis Cons. St., sez. VI, 29.04.2008,
n. 1939): ciò comporta che il vincolo
indiretto può essere imposto sull'area che
si trova in vista od in prossimità del bene
culturale e che comunque debba trattarsi di
un’area circoscritta.
Già sotto tale profilo, deve evidenziarsi
che le appellanti –che pure hanno
stigmatizzato l’estensione del vincolo
predetto- non si sono spinte sino a
censurare con decisione che sia carente la
caratteristica della “prossimità”
(considerando questo concetto il relazione
alla dichiarata esigenza di proteggere la
visuale).
Sotto altro profilo, va rammentato che la
condivisibile recente giurisprudenza della
Sezione (in fattispecie relativa a vincolo
archeologico, ma traslabile agevolmente alla
presente vicenda processuale) ha ritenuto
che “ai fini dell'imposizione del vincolo
indiretto la continuità dell'area non deve
essere intesa in senso solo fisico, né
richiedere necessariamente una continuità
stilistica o estetica fra le aree, ma può
essere invocata anche a tutela della
continuità storica fra i monumenti e gli
insediamenti circostanti; pertanto, nel caso
di una vasta porzione di territorio, di
interesse paesistico, archeologico o
culturale, riconducibile alla più ampia
accezione di parco archeologico, non rileva
il mero rapporto di continuità fisica dei
terreni ai fini della loro inclusione
nell'area vincolata e il potere
discrezionale di cui l'Amministrazione
dispone nel fissare l'ampiezza del vincolo
indiretto finalizzato a costituire una
fascia di rispetto attorno al bene
archeologico oggetto di tutela diretta è
sindacabile in sede di legittimità solo per
macroscopica incongruenza ed illogicità.”
(Cons. St., sez. VI, 01.07.2009 n. 4270).
Si è peraltro affermato, nella predetta
decisione, il principio di diritto per cui “anche
esigenze ambientali possono essere
perseguite con il provvedimento impositivo
del vincolo indiretto, purché tali esigenze
siano finalizzate comunque ad una migliore
fruizione collettiva del bene e non siano
esclusive (sicché il provvedimento
impositivo di tale vincolo è da ritenere
illegittimo solo ove persegua in via
esclusiva finalità di tutela paesaggistica)"
(Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n. 3354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesistica.
Solo la data del protocollo rileva ai fini
della decorrenza dei termini.
In via generale l’assunzione di una pratica
al protocollo dell’amministrazione ha la
funzione di certificare la certezza legale
dell’avvenuta ricezione, ai fini sia di
costituire un termine iniziale
incontestabile per l’esplicazione dei poteri
che a tale ricezione si connettono, sia di
garantire la conoscenza effettiva da parte
dell’organo procedente.
Di conseguenza, solo la data attestata dal
protocollo va assunta a prova dell’avvenuta
conoscenza e considerata quale termine
iniziale per la decorrenza del termine,
irrilevanti essendo i diversi, eventuali
elementi dai quali possa desumersi la
ricezione da parte dell’amministrazione, la
cui considerazione renderebbe invece incerta
ed eventuale l’individuazione di un momento
che, viceversa, per la rilevanza che
l’ordinamento gli connette, deve emergere
come formalmente incontestabile (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n. 3341 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Accertamento
corresponsione trattamento economico per
mansioni superiori.
In linea di diritto osserva il Collegio, in
adesione a consolidato orientamento di
questo Consiglio da cui non v’è motivo di
discostarsi, che il diritto al trattamento
economico relativo alla qualifica superiore,
nel caso di svolgimento di mansioni
superiori da parte dei pubblici dipendenti,
va riconosciuto con carattere di generalità
solo a decorrere dalla data di entrata in
vigore del d.lgs. 29.10.1998 n. 387
(22.11.1998), per effetto della modifica
apportata agli artt. 56 e 57 del d.lgs. n.
29/1993 dall’art. 15 d.lgs. n. 387/1998,
mentre prima dell’entrata in vigore del
citato d.lgs. n. 387/1998, nel settore del
pubblico impiego, lo svolgimento di mansioni
superiori rispetto a quelle proprie della
qualifica di inquadramento, pur se protratte
nel tempo e assegnate con atto formale, era
del tutto irrilevante agli effetti del
trattamento economico, salvo che tali
effetti derivassero da un’espressa
previsione normativa, e salvo il diritto
alle differenze retributive per il periodo
successivo all’entrata in vigore della
richiamata disposizione modificativa
dell’art. 56 d.lgs. 03.02.1993, n. 29 (v.
C.d.S., Ad. Plen. 23.03.2006, n. 3; C.d.S.,
Sez. VI, 20.10.2010, n. 7584; C.d.S., Sez.
VI, 24.01.2011, n. 468).
Ciò, in quanto il citato art. 15 del d.lgs.
n. 387/1998 –che ha riconosciuto per la
prima volta con carattere di generalità il
diritto dei pubblici dipendenti di ottenere
le differenze retributive nel caso di
svolgimento di mansioni superiori a seguito
di formale incarico–, non avendo carattere
interpretativo, non può che disporre per il
futuro.
Il carattere di norma d’interpretazione
autentica va, infatti, riconosciuto soltanto
alle disposizioni a sostanziale valenza
ermeneutica, dirette a chiarire il
significato di quelle preesistenti, ovvero a
escludere o a enucleare uno dei significati
tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle
fonti interpretate; mentre, nel caso della
disposizione di cui trattasi, la scelta
assunta dalla disposizione in questione non
rientra in nessuna delle varianti semantiche
compatibili con il tenore letterale del
combinato disposto dei pregressi artt. 56 e
57 del d.lgs. n. 29/1993.
In particolare, un’eventuale deroga al
principio di corrispondenza fra qualifica
rivestita e retribuibilità delle mansioni in
concreto svolte può essere ravvisata solo a
fronte di espresse disposizioni di carattere
primario, e non anche come conseguenza
indiretta di eventuali disposizioni
organizzative poste da norme a carattere
sub-primario, espressive della capacità di
autoorganizzazione, quand’anche speciale, di
enti pubblici autonomi, poiché la materia,
attingendo a principi fondamentali del
lavoro con pubbliche amministrazioni, è da
considerare di competenza della sola fonte
primaria in virtù della riserva di legge
stabilita dall’art. 97, comma 1, Cost.,
secondo cui i pubblici uffici sono
organizzati secondo disposizioni di legge,
alle quali è rimessa la disciplina normativa
di competenze, attribuzioni e responsabilità
dei funzionari (v. sul punto, in modo
specifico, C.d.S., Sez. VI, 24.01.2011, n.
468).
La soluzione qui propugnata s’impone, non da
ultimo, per esigenze primarie di controllo e
contenimento della spesa pubblica e di
prevenzione di eventuali abusi e disparità
di trattamento conseguenti a provvedimenti
di assegnazione a mansioni superiori
accompagnati da aumenti retributivi non
sorretti da una specifica previsione
normativa (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n. 3337 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
La revisione prezzi si
applica anche all’appalto di manutenzione di
immobili.
La questione della applicabilità alla
fattispecie in oggetto, riguardante un
appalto di manutenzione di immobili,
dell’istituto della revisione dei prezzi è
stata di recente affrontata (e risolta in
senso affermativo) dalla Sezione in una
vicenda del tutto analoga a quella qui
oggetto di esame (cfr. Cons. St., VI,
21.09.2010 n. 7001) in cui era parte proprio
l’odierno istituto appellante.
Il Collegio non ravvisa ragioni per
discostarsi dalla decisione assunta in tale
vicenda, in cui ha condivisibilmente
concluso per l’applicabilità, anche al tipo
di appalto per cui è giudizio (avente, in
fatto, durata ultrannuale) dell’istituto
revisionale, nei limiti previsti dall’art.
33 della l. 28.02.1986, n. 41 (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 06.06.2011 n.
3336 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Gli
accessori e le pertinenze che abbiano
dimensioni consistenti e siano stabilmente
incorporati al resto dell'immobile in
maniera tale da ampliarne la superficie o la
funzionalità pratico-economica oltre alla
superficie e alla funzionalità, assumono il
carattere di costruzione anche sotto il
profilo delle distanze tra edifici che
devono essere calcolate non dall'edificio
principale bensì dal nuovo complesso
edilizio unitario.
Ai fini dell'osservanza delle norme in
materia di distanze legali stabilite dagli
artt. 873 e seguenti c.c. e delle
disposizioni legislative e regolamentari
aventi carattere integrativo, gli accessori
e le pertinenze che abbiano dimensioni
consistenti e siano stabilmente incorporati
al resto dell'immobile, in guisa da
ampliarne la superficie o la funzionalità
pratico-economica, costituiscono con
l'immobile principale una costruzione
unitaria, che va considerata nel suo insieme
indipendentemente dallo sviluppo orizzontale
o verticale dei singoli corpi di fabbrica di
cui si compone, e senza distinguere tra
immobile principale e accessori o pertinenze
aventi le ridette caratteristiche, di guisa
che le distanze devono essere calcolate non
dalla parete dell'edificio maggiore, ma da
quella che risulti più prossima alla
proprietà antagonista
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza n. 4277/2011 - link a www.pausania.it). |
APPALTI SERVIZI:
La gestione del servizio di
parcheggio su un'area pubblica costituisce
attività di pubblico servizio e sull'obbligo
di attivare una procedura competitiva per la
scelta del concessionario.
La gestione del servizio di parcheggio su
un'area pubblica riguardando l'utilizzo di
un bene pubblico, anche qualora non comporti
il trasferimento di poteri autoritativi,
costituisce attività di pubblico servizio
assunto dalla P.A., e svolta direttamente
dalla stessa o da altro soggetto ad essa
collegato, in favore della collettività
indistinta. Anche volendo accedere alla tesi
secondo cui il rapporto, nel caso di specie,
consista in una concessione di beni
pubblici, l'ente locale è tenuto a dare
corso ad una procedura competitiva per la
scelta del concessionario.
La mancanza di una procedura competitiva
circa l'assegnazione di un bene pubblico
suscettibile di sfruttamento economico,
introduce una barriera all'ingresso al
mercato, determinando una lesione alla
parità di trattamento, al principio di non
discriminazione ed alla trasparenza tra gli
operatori economici, in violazione dei
principi comunitari di concorrenza e libertà
di stabilimento (Corte costituzionale sent.
n. 180/2010).
Peraltro, anche a seguito dell'entrata in
vigore del Trattato di Lisbona,
l'indifferenza comunitaria alla
qualificazione nominale delle fattispecie,
consente di sottoporre ai principi
sull'evidenza pubblica l'affidamento di
concessioni su beni pubblici, senza che a
ciò osti la deduzione relativa
all'occasionale partecipazione del privato
all'esercizio dei pubblici poteri.
Una volta assodato l'obbligo all'attivazione
di una procedura competitiva,
indifferentemente rivolta all'affidamento di
un appalto ovvero di una concessione di
servizio o di bene pubblico, l'impresa di
settore riveste una posizione soggettiva
qualificata, rispetto al quivis de populo,
tale da consentirle di insorgere avverso il
provvedimento di affidamento diretto onde
contestarne la validità (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 31.05.2011 n. 3250 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla sopravvenuta scadenza del
termine di validità dell'offerta a seguito
dell'eccessivo prolungamento delle
operazioni di gara: conseguenze.
La sopravvenuta scadenza del termine di
validità dell'offerta a seguito
dell'eccessivo prolungamento delle
operazioni di gara determina, in capo
all'aggiudicatario, la scelta di
disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale,
senza incorrere in alcuna sanzione, ovvero
di "confermare" -anche tacitamente-
l'offerta stessa, accettando la stipula
contrattuale.
Non sussiste invece alcun obbligo, per la
stazione appaltante, di rivalutare l'offerta
scaduta mediante rinegoziazioni, in contesti
caratterizzati dal formalismo dell'evidenza
pubblica e dalla conseguente
cristallizzazione degli esiti della gara
ultimata. In altre parole, l'aggiudicatario
che non intenda confermare la propria
offerta, ormai scaduta, ha facoltà di
esercitare il diritto di "recesso"
dalla fase di stipula, senza tuttavia che la
stazione appaltante sia tenuta ad aprire un
procedimento di rinegoziazione o di
adeguamento. Né l'aggiudicatario uscente può
vantare interessi qualificati sulle modalità
con cui l'amministrazione fa fronte al
reperimento di un nuovo contraente,
trattandosi di profili deliberativi
attinenti ad una procedura volontariamente
abbandonata.
Va quindi confutato l'assunto secondo cui,
la mancata stipula contrattuale,
assurgerebbe ad una illegittima misura
sanzionatoria ad opera della stazione
appaltante. Pertanto, nel caso di specie, la
revoca dell'aggiudicazione provvisoria si
atteggia a passaggio necessario, da una
parte per formalizzare l'uscita dalla gara
del soggetto recedente, e dall'altra per
predisporre procedure alternative, in vista
di un altro contraente disposto a mantenere
l'offerta a suo tempo formulata (TAR
Abruzzo-L'Aquila, Sez. I,
sentenza 31.05.2011 n. 299 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: Nelle
procedure indette per l'aggiudicazione di
appalti pubblici i reati commessi in passato
dal partecipante e dichiarati estinti dalla
competente Autorità giudiziaria sono
ininfluenti in sede di valutazione della sua
moralità professionale e non devono essere
dichiarati.
Analogo principio va affermato in relazione
ai reati oggetto di depenalizzazione,
essendo assorbente la circostanza che si
tratta di vicende la cui rilevanza penale è
stata esclusa ora per allora (in base al
principio del favor rei) da altrettanti
provvedimenti legislativi: il che, appunto,
esclude in radice che tali vicende possano
essere validamente considerate ai fini di
un'esclusione, la quale, viceversa, postula
l'attuale ascrivibilità al concorrente di
condotte tuttora penalmente rilevanti.
La presente controversia attiene all’obbligo
o meno del concorrente ad una gara d’appalto
-ove la lex specialis richiedeva di
attestare le condanne penali riportate, ivi
comprese quelle oggetto di non menzione- di
dichiarare anche le condanne subite per
reati formalmente estinti e per reati
depenalizzati.
Nel caso di specie, in esito alle verifiche
effettuate dalla stazione appaltante, era
emersa la mancata dichiarazione, da parte
del legale rappresentante della società
ricorrente, di due sentenze di condanna
riguardanti, rispettivamente, il legale
rappresentante stesso (...) e un direttore
tecnico (...) cessato nel triennio
precedente, di cui la prima per un reato
(falsità ideologica in atto pubblico)
dichiarato estinto ai sensi dell’art. 445,
II comma cpp con ordinanza 06.06.2008 del
GIP di Padova, ed il secondo (violazione al
TU delle norme sulla circolazione stradale)
oggetto di depenalizzazione.
Come risulta dal costante orientamento
giurisprudenziale, nelle procedure indette
per l'aggiudicazione di appalti pubblici i
reati commessi in passato dal partecipante e
dichiarati estinti dalla competente Autorità
giudiziaria sono ininfluenti in sede di
valutazione della sua moralità professionale
e non devono essere dichiarati (cfr., per
tutte, CdS, V, 19.11.2009 n. 7257).
Analogo principio va affermato in relazione
ai reati oggetto di depenalizzazione,
essendo assorbente la circostanza che si
tratta di vicende la cui rilevanza penale è
stata esclusa ora per allora (in base al
principio del favor rei) da
altrettanti provvedimenti legislativi: il
che, appunto, esclude in radice che tali
vicende possano essere validamente
considerate ai fini di un'esclusione, la
quale, viceversa, postula l'attuale
ascrivibilità al concorrente di condotte
tuttora penalmente rilevanti (cfr. per
tutte, CdS, V, 23.07.2009 n. 4594; TAR
Veneto, I, 18.09.2009 n. 2415);
Peraltro, la lex specialis di gara
imponeva di dichiarare soltanto le sentenze
di condanna all’epoca efficaci, comprese
quelle per le quali il soggetto aveva
beneficiato della non menzione: non, dunque,
anche quelle –in disparte, comunque,
l’irragionevolezza di una siffatta
prescrizione- divenute prive di effetti in
quanto il sotteso reato era stato oggetto di
riabilitazione, di estinzione o di
depenalizzazione (TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 30.05.2011 n. 917 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Nel caso in cui una Regione non
abbia adottato una normativa regionale in
materia di appalti che preveda una diversa
composizione della commissione di gara, si
applicano le previsioni contenute nell'art.
84 del D.lgs. n. 163/2006.
L'art. 84, c. 8, del d.lgs. n. 163/2006,
prevede che nel caso in cui la stazione
appaltante ricorra a professionisti esterni,
la scelta debba essere effettuata
nell'ambito di un elenco formato sulla base
di rose di candidati fornite agli ordini
professionali.
Nel caso di specie, tale precetto non è
stato osservato, risultando in atti che la
scelta, come professionista esterno,
dell'avvocato, nella qualità di esperto in
appalti, è stata effettuata senza la
preventiva richiesta all'Ordine degli
avvocati di una rosa di candidati e la
conseguente formazione di un apposito elenco
al quale attingere.
Peraltro, tale modalità di selezione non
risulta smentita dal contenuto della
sentenza della Corte costituzionale,
23.11.2007, n. 401, che ha dichiarato
costituzionalmente illegittimi i commi 2, 3,
8 e 9, dell'art. 84 del d.lgs. n. 163/2006,
"nella parte in cui, per i contratti
inerenti a settori di competenza regionale,
non prevedono che dette disposizioni abbiano
carattere suppletivo e cedevole".
Non risulta, nel caso di specie, che la
Regione abbia adottato una normativa
regionale in materia di appalti pubblici e,
pertanto, fino all'adozione di una legge
regionale che preveda una diversa
composizione della commissione di gara,
devono continuare ad osservarsi le
previsioni contenute nell'art. 84 del D.lgs.
n. 163 del 2006, come sancito dalla Corte
Costituzionale con la sentenza n. 401 del
2007 (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 27.05.2011 n. 4810 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sulla legittimità dell'esclusione
di un concorrente da una procedura
d'appalto, per mancato adempimento
dell'onere di comprovare il possesso dei
requisiti richiesti ai fini della
partecipazione alla gara secondo le modalità
previste dal bando.
Il rimedio dell'integrazione documentale non
può sopperire alla mancata produzione di
documentazione richiesta a pena di
esclusione dalla gara.
E' legittimo il provvedimento di esclusione
da una gara d'appalto, adottato da
un'amministrazione nei confronti di un
concorrente che non abbia adempiuto
all'onere di comprovare il possesso dei
requisiti richiesti ai fini della
partecipazione alla procedura, secondo le
modalità previste dal bando.
L'art. 48 del d.lgs. n. 163/2006, prevede,
infatti, che le stazioni appaltanti prima di
procedere all'apertura delle buste
contenenti le offerte richiedono alle
imprese partecipanti, di comprovare il
possesso dei requisiti di capacità
economico-finanziaria e
tecnico-organizzativa previsti dal bando di
gara, presentando la documentazione all'uopo
indicata.
---------------
Nei rapporti con la P.A., è necessario
distinguere due fasi: quella iniziale, che
legittima l'uso della dichiarazione
sostitutiva di atto notorio contestualmente
alla presentazione della domanda di
partecipazione alla gara, e quella,
successiva, in cui l'attestazione relativa
al possesso dei suddetti requisiti deve
essere compiuta per mezzo della
documentazione pubblica certificativa di
qualità, e non si ammette una dichiarazione
sostitutiva di atto di notorietà.
Diversamente, verrebbe vanificata la
ratio che giustifica il ricorso alla
verifica a campione, divenendo essa un
inutile duplicato della fase iniziale di
presentazione dell'offerta.
Pertanto, in fase di controllo, la stazione
appaltante ha facoltà di pretendere un onere
aggiuntivo di documentazione. In altri
termini, la regola della mancanza di
validità delle dichiarazioni sostitutive di
atto di notorietà tende ad evitare che
l'impresa possa depositare, in sede di
verifica a campione, la medesima
documentazione resa in sede di presentazione
dell'offerta. Pertanto, è legittima la
richiesta di deposito dei documenti, in
originale od in copie conformi.
Né potrebbe invocarsi, la violazione del cd.
dovere di soccorso da parte della stazione
appaltante, e ciò perché, ai sensi dell'art.
46 D.L.vo n. 163/2006 e a tutela della par
condicio nelle gare pubbliche, il rimedio
dell'integrazione documentale non può essere
utilizzato per supplire all'inosservanza di
adempimenti procedimentali o all'omessa
produzione di documenti richiesti a pena di
esclusione dalla gara (TAR Emilia
Romagna-Bologna, Sez. I,
sentenza 27.05.2011 n. 497 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Se un provvedimento è fondato su
più motivazioni, la validità anche di una
sola delle argomentazioni poste
autonomamente a base del provvedimento
stesso è sufficiente, di per sé, a
sorreggerne il contenuto.
Se un provvedimento è fondato su più
motivazioni, la validità anche di una sola
delle argomentazioni poste autonomamente a
base del provvedimento stesso è sufficiente,
di per sé, a sorreggerne il contenuto (si
veda, in questo denso, da ultimo e per
tutti: C.S. n. 828/2010; TAR Basilicata n.
111/2011 e TAR Toscana 336/2011)
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONDOMINIO:
Quando un condòmino ha
realizzato un abuso
su aree comuni “l’Amministrazione comunale
deve
chiedere all’istante, in applicazione delle
norme generali in tema di rilascio della
concessione edilizia, di provare di avere la
disponibilità piena dell’area interessata
all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno
per fatti concludenti ma comunque in modo
positivo, l’assenso degli altri
comproprietari”.
L’Amministrazione ha il potere ed il dovere
di verificare l’esistenza, in capo al
richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull’immobile interessato dal
progetto … per cui, in caso di opere che
vadano ad incidere sul diritto di altri
comproprietari (quali le opere edilizie
interessanti porzioni condominiali comuni),
è legittimo esigere il consenso degli stessi
o pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso
dell’amministrazione condominiale anche
nelle ipotesi di autorizzazioni in
sanatoria, in quanto il contitolare del bene
può essere estraneo all’abuso ed avere un
interesse contrario alla sanatoria di opere
che potrebbero risolversi in danno del
medesimo”.
Sulla questione
della necessità o meno di acquisire
l’assenso del Condominio, nel caso in cui un
condòmino chieda un titolo edilizio per
realizzare opere sulle parti comuni di un
edificio, sono state espresse in
giurisprudenza opinioni diverse.
In generale
si è infatti sostenuto che nessun assenso
deve essere richiesto dal Comune, posto che
il condomino possiede una propria
legittimazione a richiedere il titolo, e che
lo stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con
salvezza dei diritti dei terzi”. Si è
altresì affermato che i problemi dell’uso
delle parti comuni di un edificio
costituiscono questione squisitamente
civilistica, di cui il Comune non ha ragione
di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general,
condivisibile) giurisprudenza ha comunque
evidenziato che la regola soffre talora di
eccezioni, dovute alle peculiarità con cui
le singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha
stabilito che, quando un condòmino abbia
realizzato (come nel presente caso) un abuso
su aree comuni “l’Amministrazione debba
chiedere all’istante, in applicazione delle
norme generali in tema di rilascio della
concessione edilizia, di provare di avere la
disponibilità piena dell’area interessata
all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno
per fatti concludenti ma comunque in modo
positivo, l’assenso degli altri
comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010
(che richiama anche C.S. n. 1654/2007) ha
ritenuto che “ciò che rileva è che i
lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi
(anche) su parti comuni del fabbricato e non
riguardino opere connesse all’uso normale
della cosa comune”; in tal caso,
l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai
fini del rilascio della relativa
concessione, a richiedere il consenso di
tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso
anche TAR Calabria-Reggio, con la recente
decisione n. 343/2011, aderendo
all’orientamento interpretativo secondo cui
nel procedimento di rilascio dei titoli
edilizi, “l’Amministrazione ha il potere
ed il dovere di verificare l’esistenza, in
capo al richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull’immobile interessato dal
progetto … per cui, in caso di opere che
vadano ad incidere sul diritto di altri
comproprietari (quali le opere edilizie
interessanti porzioni condominiali comuni),
è legittimo esigere il consenso degli stessi
o pretendere la produzione della
dichiarazione di assenso
dell’amministrazione condominiale anche
nelle ipotesi di autorizzazioni in
sanatoria, in quanto il contitolare del bene
può essere estraneo all’abuso ed avere un
interesse contrario alla sanatoria di opere
che potrebbero risolversi in danno del
medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio
condivide, hanno ancora maggior rilievo nel
caso di specie, considerato che alcuni
condòmini dapprima e, in seguito, il
Condominio stesso si sono inseriti nel
procedimento di rilascio dell’autorizzazione
a sanatoria di cui trattasi, manifestando il
proprio dissenso alle opere che, secondo la
loro prospettazione, incidevano
negativamente sul diritto di uso delle parti
comuni che spetta a ciascun condomino,
ponendo in luce in particolare come
-segnatamente le canne fumarie- inducessero
limiti all’uso individuale.
Secondo TAR Campania-Napoli n. 26817/2010,
sussiste un vero e proprio obbligo per
l’Amministrazione di verificare “la
legittimazione ad effettuare l'intervento,
soprattutto quando vi sia stata in sede
procedimentale un’espressa opposizione da
parte di terzi condomini”. Nello stesso
senso è anche C.S. n. 1537/2010, che
esplicitamente dichiara che, in caso
contrario, “l'Amministrazione finirebbe
per legittimare una sostanziale
appropriazione di spazi condominiali da
parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri,
i quali potrebbero essere, al contrario,
interessati all’eliminazione dell’abuso”
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'onere della prova nel processo
amministrativo.
Nel processo amministrativo l’applicazione
del principio sancito dall’articolo 2697
(onere della prova) del codice civile
incontra particolari temperamenti in virtù
dell’assetto non paritetico dei rapporti
fattuali e giuridici intercorrenti tra
l’amministrazione e il privato ricorrente.
Questo temperamento tuttavia non implica che
il ricorrente possa fondare le proprie
pretese limitandosi a esporre mere
asserzioni o congetture che affidino
all’attività istruttoria giudiziale
l’accertamento della loro eventuale
fondatezza.
Con questa decisione (sentenza
25.05.2011 n. 3135) il Consiglio di
Stato Sez. IV ha accolto l’appello promosso
dal Ministero dell’Economia e delle Finanze
avverso la sentenza del TAR Lazio che lo
aveva condannato al pagamento delle
indennità sostitutive per ferie non godute
in favore di ex dipendenti della soppressa
AGENSUD (Agenzia per la promozione e lo
sviluppo del mezzogiorno).
I ricorrenti avevano promosso il ricorso al
fine di ottenere il pagamento delle
indennità in quanto l’agenzia, oggi
soppressa, nel 1993 avrebbe goduto delle
loro prestazioni lavorative senza
corrispondere alcun indennizzo per i periodi
feriali durante i quali le prestazioni si
erano svolte.
Il Ministero si era difeso sostenendo che i
ricorrenti non avevano allegato alcuna prova
dal quale si potesse evincere il mancato
godimento delle ferie spettanti per motivi
di servizio.
Il Consiglio di Stato, ribaltando la
decisione del primo grado, ha da subito
chiarito come anche nel processo
amministrativo, tanto più quando si
controverte su diritti soggettivi, vige il
principio dell’onere della prova sancito
dagli articoli 2697 c.c. e 115 del c.p.c..
Secondariamente ha precisato come la
circostanza che in materia di allegazioni
documentali l’amministrazione spesso si
trovi in una posizione di supremazia, non
può ridurre l’onere della prova del
ricorrente ad una mera esposizione di
asserzioni o congetture.
Sul punto la IV sezione ha precisato “Pertanto
può affermarsi che, soprattutto quando i
mezzi di prova risultino nella disponibilità
esclusiva dell'amministrazione intimata in
giudizio, il sistema probatorio nel processo
amministrativo è retto, più che dallo
stretto principio dispositivo, dal principio
dispositivo con metodo acquisitivo degli
elementi di prova da parte del giudice (tra
molte, di recente C. Stato, V, 07.10.2009,
n. 6118; in precedenza, IV, 22.06.2000, n.
3493; V, 24.04.2000, n. 2429; 03.11.1999, n.
1702).
Va peraltro, immediatamente chiarito che
detto temperamento non si traduce nella
possibilità, per il ricorrente, di limitarsi
a esporre mere asserzioni o congetture, che
affidino interamente all’attività
istruttoria giudiziale l’accertamento della
loro eventuale fondatezza. E’ palese,
infatti, che una siffatta opzione si
tradurrebbe nella inversione del principio
dell'onere della prova come regolato dagli
artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c , dove, invece,
il principio con metodo acquisitivo non può
mai tradursi in una assoluta e generale
inversione di tale onere (Tar Lazio, Roma,
sez. II, 21.05.2008, n.4792): tra altro, la
dilatazione dell'oggetto dell'istruttoria
giudiziale renderebbe il rimedio (del metodo
acquisitivo) in concreto non utilmente
esercitabile.
Ne consegue che, nel processo
amministrativo, in mancanza di una prova
compiuta a fondamento delle proprie pretese,
il ricorrente deve avanzare almeno un
principio di prova, perché il giudice possa
esercitare i propri poteri istruttori (da
ultimo, C. Stato, V, 07.10.2009 , n. 6118;
in precedenza, tra tante, 27.03.2001, n.
1730; 15.06.2000, n. 3317; 13.07.1992, n.
637; 23.04.1991, n. 636; 25.06.1990, n. 581;
Tar Lazio, I, 10.04.1987, n. 791)”.
Alla luce di tali principi la IV sezione ha
sottolineato come nel ricorso i ricorrenti
non hanno fornito alcun prova sostanziale
dell’esistenza del credito vantato, poiché i
tabulati forniti erano privi di
sottoscrizione, non era indicato l’ente o il
soggetto dal quale provenivano, né erano
indicati i corrispondenti periodi in cui non
erano state godute le ferie. Le medesime
considerazioni sono state svolte anche verso
un documento proveniente dalla C.E.D. della
Ragioneria Generale dello Stato.
In conclusione i giudici del Consiglio di
Stato hanno chiarito come nel processo
amministrativo, anche se l’amministrazione
si trova in una situazione di supremazia
nella produzione documentale, il ricorrente
deve fornire almeno un principio di prova
per poter mettere il giudice nelle
condizioni di esercitare i propri poteri
istruttori (commento tratto da
www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Varianti edilizie revocate, chi
ne trae vantaggio dev'essere informato.
Il Consiglio di Stato,
con la pronuncia in commento, conferma
l'indirizzo giurisprudenziale secondo il
quale è illegittima la revoca della
approvazione di una variante ad oggetto
specifico, adottata senza la previa
comunicazione dell'avvio del procedimento al
soggetto che aveva presentato il progetto
medesimo e che dall'atto revocato aveva
ottenuto effetti favorevoli. Se la variante
speciale o ad oggetto specifico richiede per
la sua approvazione la comunicazione di
avvio del procedimento ai diretti
interessati, in quanto è atto di natura
provvedimentale, a maggior ragione occorre
tale comunicazione nel caso di revoca della
variante.
La controversia in esame ha per oggetto due
deliberazioni con la quale il Consiglio
comunale ha revocato una variante
urbanistica relativa alla divisione in due
comparti del terreno edificabile in zona C1.
Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in
commento conferma l'indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale è
illegittima la revoca della approvazione di
una variante ad oggetto specifico, adottata
senza la previa comunicazione dell'avvio del
procedimento al soggetto che aveva
presentato il progetto medesimo e che
dall'atto revocato aveva ottenuto effetti
favorevoli.
Per comprendere bene la portata della
pronuncia occorre specificare che la
variante in questione si caratterizzava,
come specificato nella sentenza di primo
grado (TAR Toscana, n. 1431 del 2003),
perché "l'area oggetto di variante era
particolarmente ristretta".
In presenza di queste caratteristiche la
giurisprudenza ha individuato specifiche
deroghe alle regole generali in materia di
atti urbanistici generali.
Occorre infatti ricordare che di regola le
scelte urbanistiche generali
dell'amministrazione non debbono essere
motivate in modo specifico.
La ragione di questa communis opinio
giurisprudenziale (Cons. di Stato, Sez. IV,
25.02.1988, n. 99) era individuata, prima
della L. n. 241 del 1990, in un duplice
ordine di considerazioni. Da un lato
l'attività di pianificazione urbanistica ha
carattere altamente discrezionale (Cons. di
Stato, Sez. IV, 05.09.1986, n. 582);
dall'altro si afferma che "la motivazione
non occorre per gli atti a contenuto
generale almeno con altrettanto rigore che
per quelli a contenuto determinato"
(Cons. di Stato, Ad. plen., 21.10.1980, n.
37). Il piano regolatore generale trova
quindi sufficiente motivazione nei criteri
posti a base del piano stesso e che sono
indicati nella relazione allegata ad esso.
La L. n. 241 del 1990 ha portato nuova linfa
a questo orientamento.
L'art. 3, comma 2, stabilisce, infatti, che
la motivazione non è richiesta per gli atti
normativi e per quelli a contenuto generale.
Ad analoghe conseguenze la giurisprudenza
perviene per quanto riguarda l'obbligo di
comunicazione di avvio del procedimento.
L'art. 13, L. n. 241 del 1990, infatti,
stabilisce che "le disposizioni contenute
nel presente capo non si applicano nei
confronti dell'attività della pubblica
amministrazione diretta alla emanazione di
atti normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione, per i
quali restano ferme le particolari norme che
ne regolano la formazione".
Il limite esterno di applicazione della
legge sul procedimento amministrativo è
quindi chiaramente individuata nel fatto che
essa si dirige nei confronti dell'attività
amministrativa diretta ad emanare
provvedimenti che hanno destinatari
determinati o determinabili a priori.
Poiché, di regola, questi caratteri non sono
propri degli atti generali ed in particolare
degli atti urbanistici, la giurisprudenza
(Cons. Stato, Ad. Gen., parere 29.03.2001,
n. 4; idem Sez. IV, 20.03.2001, n. 1797)
afferma che l'approvazione dei piani
regolatori e delle loro varianti rientra nei
casi di esclusione della partecipazione
prevista dall'art. 13 della L. n. 241.
Secondo il parere formulato dall'Ad.
plenaria del Cons. Stato in data 17.08.1987,
n. 7187, inoltre, la ratio di tali
eccezioni è da rintracciare nella volontà
legislativa di sottrarre, per ragioni
pratiche, ad una penetrante ingerenza atti
di applicazione generalizzata destinati ad
incidere nella sfera giuridica di un numero
indeterminato o, comunque, assai cospicuo di
soggetti.
L'esclusione della partecipazione nei
procedimenti volti alla produzione di atti
normativi, amministrativi generali, di
pianificazione e di programmazione
chiaramente non significa l'esclusione di
qualsiasi forma di partecipazione in questo
tipo di procedimenti, ma solo l'applicazione
delle forme di partecipazione già previste
dall'ordinamento, che, però, si
caratterizzano perché non sono precedute da
comunicazione individuale ma solo collettiva
e spesso sono solo successive all'adozione
(quest'ultimo elemento è stato però corretto
almeno parzialmente dalla legislazione
regionale più moderna).
I limiti della partecipazione procedimentale
prevista dalla legislazione urbanistica ha
però spinto la giurisprudenza a riconoscere
che non vi è ragione di escludere
l'applicazione delle regole di
partecipazione del procedimento previste
dalla L. n. 241 del 1990 quanto gli atti
urbanistici abbiano destinatari determinati
e ben individuati.
E' il caso delle varianti limitate ed a
oggetto specifico, che interessano solo
parti limitate del territorio comunale ed
hanno destinatari determinati. In questi
casi, come conferma la sentenza in commento,
l'esclusione dell'art. 13, L. n. 241 del
1990, non opera. Infatti "Con l'art. 13,
L. 07.08.1990, n. 241, che esclude
dall'applicabilità del capo III della stessa
legge i procedimenti tesi all'adozione di
atti di pianificazione, il legislatore ha
inteso escludere la duplicazione delle forme
di partecipazione procedimentale, ma non
eliminarle; pertanto, qualora uno specifico
procedimento di variante interferisca con
gli interessi di determinati soggetti, non
vi sono ragioni per non dare applicazione
all'art. 7, L. n. 241 cit. in tema di
obbligo di comunicazione" (v. anche
Cons. di Stato, Sez. IV, 24.10.2000, n.
5720, in Cons. di Stato, 2000, Sez. I, n.
2331; Cons. di Stato, Sez. IV, 17.04.2003,
n. 2004).
Anche il legislatore ha limitato la portata
del principio sancito dall'art. 13, L. n.
241 del 1990 stabilendo, all'art. 11, lett.
a), D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U.
espropriazioni per pubblica utilità) che al
proprietario del bene sul quale si intende
apporre il vincolo preordinato
all'esproprio, che risulti dai registri
catastali, va inviato l'avviso dell'avvio
del procedimento nel caso di adozione di una
variante al piano regolatore per la
realizzazione di una singola opera pubblica,
almeno venti giorni prima della delibera del
Consiglio comunale. Alla variante al piano
regolatore, che è di regola un atto di
pianificazione, viene riconosciuta natura
provvedimentale in conseguenza del fatto che
ha un oggetto e dei destinatari specifici ed
in ragione di ciò vengono ad essa estese le
garanzie di partecipazione al procedimento
sulla falsariga di quanto previsto dalla L.
n. 241 del 1990.
In sostanza la giurisprudenza applica una
nozione sostanziale di atto programmatorio,
che indipendentemente dalla denominazione di
variante generale o di piano regolatore
generale datagli dall'amministrazione,
analizza il contenuto e la portata
dell'atto, riconoscendogli il carattere
generale solo se è caratterizzato dalla
generalità dei destinatari.
La sentenza in commento applica poi questi
principi anche agli atti di autotutela
adottati dall'amministrazione.
Se la variante speciale o ad oggetto
specifico richiede per la sua approvazione
la comunicazione di avvio del procedimento
ai diretti interessati, in quanto è atto di
natura provvedimentale, a maggior ragione
occorre tale comunicazione nel caso di
revoca della variante. Infatti la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento
prevista dall'art. 7, L. n. 241 del 1990
rappresenta un principio generale dell'agere
amministrativo, soprattutto quando si tratta
di casi di autotutela a mezzo di revoca o
annullamento di precedenti atti
amministrativi favorevoli (TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 03.03.2010, n. 532).
Il riconoscimento della natura
provvedimentale delle varianti ad oggetto
specifico comporta conseguenze importanti
anche con riferimento alla motivazione.
La giurisprudenza infatti applica in questi
casi l'art. 3, comma 1, L. n. 241 del 1990
secondo il quale "ogni provvedimento
amministrativo, ... deve essere motivato"
senza che trovi più applicazione l'eccezione
prevista dal comma 2 e relativa agli atti
normativi ed a quelli a contenuto generale".
Si afferma così che se, in linea generale,
non è ravvisabile un onere di motivazione
nel caso di adozione, per la prima volta, di
una nuova disciplina di una data area, deve
invece ritenersi sussistente un dovere di
motivazione allorché con una variante al
piano regolatore generale il Comune muti
radicalmente la destinazione di una data
area già oggetto delle scelte pianificatore
del Comune, e ciò faccia con una previsione
che ha carattere singolare e specifico
anziché di portata generale ed estesa a
tutte le aree comprese in una determinata
zona (Cons. di Stato Sez. IV, 07.04.1997, n.
343) (commento tratto da www.ipsoa.it
- Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.05.2011 n. 3120 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Comunicazione di avvio del
procedimento in materia di autorizzazione
paesaggistica.
Vale al proposito effettuare un rapido
excursus della disciplina inerente la
comunicazione di avvio del procedimento in
materia di autorizzazione paesaggistica (con
particolare riferimento al sub-procedimento
destinato all’eventuale esercizio del potere
ministeriale di annullamento).
In un primo tempo, in assenza di apposita
disciplina, la giurisprudenza si era in
prevalenza orientata nel senso di ritenere
sussistente l’obbligo della comunicazione di
avvio del procedimento al privato, in
considerazione delle nuove modalità
dialettiche di esercizio della funzione
amministrativa (cfr. in tal senso, fra le
tante, Cons. St., sez. VI, 03.02.2004, n.
342, 25.03.2004, n. 1626, 14.01.2003, n.
119, 02.09.2003, n. 4866).
Solo a decorrere dal 2002 tale orientamento
è stato superato per espressa abrogazione
dell'obbligo stesso di comunicazione
dell’avvio del procedimento.
Infatti, la norma introdotta dall'art. 2 del
D.M. n. 165 del 2002 (trasfusa nel comma
1-bis dell’art. 4 del D.M. n. 495 del 1994,
recante il regolamento attuativo degli
articoli 2 e 4 della legge n. 241 del 1990),
disponeva –con previsione evidentemente
efficace dalla sua entrata in vigore- che la
comunicazione di avvio del procedimento non
fosse dovuta, da parte del relativo
funzionario responsabile, "per i
procedimenti avviati ad istanza di parte e,
in particolare, per quelli disciplinati
dagli articoli 21, 22, 23, 24, 25, 26, 35,
41, 43, 50, 51, 53, 55, 56, 59, 66, 68, 69,
72, 86, 102, 107, 108, 109, 113, 114, 151,
154 e 147 del decreto legislativo
29.10.1999, n. 490", ovvero del Testo
Unico delle disposizioni legislative in
materia di beni culturali e ambientali, che
appunto nell'art. 151 disciplinava l'invio
delle autorizzazioni paesaggistiche alla
competente Soprintendenza, con facoltà di
annullamento delle medesime autorizzazioni,
da parte del Ministero, entro 60 giorni.
A decorrere dall'entrata in vigore del
Codice dei beni culturali e del paesaggio
(d.lgs. n. 42 del 22.01.2004), veniva invece
previsto, nell'ambito del regime transitorio
in materia di autorizzazione paesaggistica,
contenuto nell'art. 159 del medesimo d.lgs.
n. 42 del 2004, che l'Amministrazione
competente al rilascio dell'autorizzazione
stessa desse immediata comunicazione alla
Soprintendenza delle autorizzazioni
rilasciate, con contestuale invio di tale
comunicazione agli interessati, quale "avviso
di inizio del procedimento, ai sensi e per
gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241"
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.05.2011
n. 3000 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La commissione giudicatrice
di una gara di appalto si esaurisce solo con
l’aggiudicazione.
La specifica funzione di cui è investita la
commissione giudicatrice di una gara di
appalto si esaurisce solo allorquando il
competente organo della stazione appaltante
fa proprio, approvandolo, il lavoro della
commissione stessa, procedendo quindi
all’aggiudicazione della gara o comunque
alla conclusione del procedimento.
Di conseguenza, fino alla trasmissione degli
atti all’organo competente alla loro
approvazione la commissione può, ed anzi
deve, correggere gli eventuali errori nei
quali sia incorsa, così dando attuazione al
principio di legalità (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 20.05.2011 n. 2999 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
La revoca dell'incarico di
assessore è posta essenzialmente nella
disponibilità del sindaco o del presidente
della provincia e che l'obbligo di
motivazione del provvedimento di revoca
dell'incarico di un singolo assessore (o di
più assessori) va valutato nel descritto
quadro normativo ed esso può senz'altro
basarsi sulle più ampie valutazioni di
opportunità politico amministrative, rimessi
in via esclusiva al sindaco o al presidente
della provincia, tenendo conto sia di
esigenze di carattere generale, quali ad
esempio rapporti con l'opposizione o
rapporti interni alla maggioranza
consiliare, sia di particolari esigenze di
maggiore operosità e di efficienza di
specifici settori dell'amministrazione
locale o per l'affievolirsi del rapporto
fiduciario tra il capo dell'amministrazione
ed il singolo assessore; tenendo presente
che trattasi non di un tipico procedimento
sanzionatorio ma di una revoca di un
incarico fiduciario difficilmente
sindacabile in sede di legittimità se non
sotto i profili formali e l'aspetto
dell'evidente arbitrarietà, in relazione
all'ampia discrezionalità spettante al capo
dell'amministrazione locale.
Il Consiglio di Stato ha ribadito la propria
interpretazione dell'articolo 46, ultimo
comma, del decreto legislativo 18.08.2000 n.
267, confermando che “la revoca
dell'incarico di assessore è posta
essenzialmente nella disponibilità del
sindaco o del presidente della provincia e
che l'obbligo di motivazione del
provvedimento di revoca dell'incarico di un
singolo assessore (o di più assessori) va
valutato nel descritto quadro normativo ed
esso può senz'altro basarsi sulle più ampie
valutazioni di opportunità politico
amministrative, rimessi in via esclusiva al
sindaco o al presidente della provincia,
tenendo conto sia di esigenze di carattere
generale, quali ad esempio rapporti con
l'opposizione o rapporti interni alla
maggioranza consiliare, sia di particolari
esigenze di maggiore operosità e di
efficienza di specifici settori
dell'amministrazione locale o per
l'affievolirsi del rapporto fiduciario tra
il capo dell'amministrazione ed il singolo
assessore; tenendo presente che trattasi non
di un tipico procedimento sanzionatorio ma
di una revoca di un incarico fiduciario
difficilmente sindacabile in sede di
legittimità se non sotto i profili formali e
l'aspetto dell'evidente arbitrarietà, in
relazione all'ampia discrezionalità
spettante al capo dell'amministrazione
locale" (nello stesso senso anche TAR
Puglia, Bari, Sez. I, 10.06.2002 n. 2772)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 20.05.2011 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Anche i dipendenti pubblici nelle
Commissioni paesaggio.
E’ illegittimo il regolamento adottato da un
Comune per la nomina dei componenti della
Commissione locale per il paesaggio prevista
dall’art. 148 del D.lgs. n. 42/2004, nella
parte in cui, in modo ingiustificato e
quindi irragionevole, ha limitato la
candidatura degli aspiranti componenti ai
soli liberi professionisti proposti dai
rispettivi Ordini.
Ha premesso il TAR di Lecce che il
ricorrente lamenta che le modalità di nomina
prescelte dal Comune pregiudicherebbero
irragionevolmente la possibilità di accesso
alla Commissione per chi -come questi- ha
acquisito un’esperienza curriculare in
qualità di pubblico dipendente e non di
libero professionista.
Il motivo è stato condiviso dal Collegio. Ha
premesso in proposito come, con
deliberazione del 27.09.2010, il Consiglio
comunale ha istituito la Commissione locale
per il paesaggio e ne ha approvato il
relativo Regolamento. La detta Commissione è
prevista espressamente dall’art. 148 D.Lgs
n. 42/2004, spettandole funzioni consultive
nel corso dei procedimenti di rilascio
dell’autorizzazione paesaggistica.
Quanto alla composizione, l’art. 148 si
limita a stabilire che la Commissione dev’essere
composta "da soggetti con particolare,
pluriennale e qualificata esperienza nella
tutela del paesaggio", senza esprimere
alcuna limitazione o preferenza tra distinte
categorie professionali.
La L.R. Puglia n. 20/2009 ha poi precisato
che le Commissioni per il paesaggio sono
composte da "esperti in possesso di
diploma di laurea attinente alla tutela
paesaggistica, alla storia dell’arte e
dell’architettura, al restauro, al recupero
e al riuso dei beni architettonici e
culturali, alla progettazione urbanistica e
ambientale, alla pianificazione
territoriale, alle scienze agrarie o
forestali e alla gestione del patrimonio
naturale".
La Commissione per il paesaggio, ha
ricordato il G.A., deve essere costituita
nell’ambito dei Comuni, in quanto soggetti
delegati al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, fermo comunque un potere di
vigilanza in capo all’ente regionale,
stabilito dalla legge statale (cfr. art.
148, D.Lgs. n. 42/2004: "le Regioni
promuovono l'istituzione e disciplinano il
funzionamento delle commissioni per il
paesaggio di supporto ai soggetti ai quali
sono delegate le competenze in materia di
autorizzazione paesaggistica") e
confermato implicitamente dalla legge
regionale (cfr. art. 8, L.R. n. 20/2009: "I
Comuni trasmettono alla Regione copia del
provvedimento istitutivo della commissione
locale per il paesaggio, delle nomine dei
singoli componenti e dei rispettivi
curricula").
In siffatto contesto, la Regione Puglia, con
Delibera G.R. n. 2273/2009 ha stabilito i
requisiti minimi obbligatori dei componenti
della Commissione, anche al fine di rendere
omogenea la competenza tecnico-scientifica
dei soggetti chiamati a esprimersi sulle
proposte edilizie, nell’ambito delle
prerogative delegate; in quest’occasione si
è considerata parificata l’esperienza
acquisita come libero professionista a
quella di dipendente pubblico.
Tanto assodato, ha rilevato il Tribunale
amministrativo salentino come il Comune, con
l’adozione del Regolamento per il
funzionamento della Commissione ha invece
previsto che:
- i componenti della commissione, stabiliti
in numero di tre, devono aver maturato
un’esperienza almeno quinquennale
esclusivamente nell’ambito della libera
professione (art. 2);
- la nomina dei tre esperti spetta al
Consiglio Comunale sulla base di un
rendiconto del Dirigente competente, che
valuta tre terne di candidature proposte
rispettivamente dagli Ordini professionali
degli Architetti, degli Ingegneri, dei
Geologi ed Agronomi (art. 3).
In questa prospettiva, visto il quadro
normativo, ad avviso del TAR, è risultata
ingiustificata e quindi irragionevole, la
scelta discrezionale del Comune resistente
di limitare la candidatura ai soli liberi
professionisti proposti dai rispettivi
Ordini, posto che una tale limitazione
restringe aprioristicamente il campo delle
scelte possibili e quindi delle competenze e
delle esperienze impiegabili nell’attività
della Commissione.
L’ordinamento legislativo vigente, sopra
richiamato, non prevede infatti una simile
discriminazione, stabilendo solo il
requisito della "qualificata esperienza"
funzionale a costituire una struttura
specialistica come la Commissione per il
paesaggio che, a livello comunale, consenta
di raggiungere una soglia sufficiente di
competenze tecnico-scientifiche integrate
idonee a garantire una valutazione separata
degli aspetti paesaggistici da quelli
urbanistico-edilizi: apparendo
evidentemente, tale requisito, a giudizio
dell’adito G.A., garantito anche da un
curriculum svolto nel settore pubblico.
Inutilmente discriminatoria e immotivata è
così risultata la distinzione tra liberi
professionisti e pubblici dipendenti, anche
alla luce delle richiamate indicazioni
regionali, atteso che, ha soggiunto il
Collegio, l’esperienza acquisita in impieghi
pubblici, anche di elevata responsabilità,
nel campo -ad esempio- dell’urbanistica,
della protezione ambientale o della
salvaguardia dei beni culturali può avere
sicuramente un valore qualificante pari a
quello del libero professionista, atteso che
la possibilità di nominare anche componenti,
provvisti di curriculum prevalentemente
costituito da pubblici incarichi, consente
di acquisire quelle esperienze e competenze
interdisciplinari necessarie ad arricchire
il livello tecnico-specialistico richiesto
ai componenti della Commissione.
Conseguentemente, nel rispetto del primario
interesse di garantire la pluralità della
rappresentanza nell’organo consultivo nei
termini indicati e al fine di assicurare una
composizione della commissione in cui
convergano molteplici e variegate esperienze
professionali, il Dirigente incaricato di
formulare la proposta al Consiglio comunale,
ha concluso il TAR di Lecce, non dovrà
ritenersi vincolato dalla proposta formulata
dagli Ordini professionali (commento tratto
da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 19.05.2011 n. 878 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
P.A. e silenzio di rito, come si
arriva al risarcimento?
La tutela prevista in
caso di inerzia della pubblica
amministrazione è diretta ad accertare se il
silenzio serbato a fronte dell'istanza del
privato violi o meno l'obbligo di concludere
il procedimento avviato ad iniziativa di
parte attraverso l'adozione di un
provvedimento esplicito.
Con
sentenza 18.05.2011 n. 4310 il
TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, ha affermato
che il meccanismo del silenzio -nel rito
speciale introdotto dall'art. 21-bis L.
06.12.1971 n. 1034, ora disciplinato
dall'art. 117 Cod. proc. amm.- è diretto ad
accertare se l'inerzia serbata dalla
Pubblica amministrazione in ordine
all'istanza del privato violi o meno
l'obbligo di concludere il procedimento
avviato ad iniziativa di parte attraverso
l'adozione di un provvedimento esplicito.
La nuova disciplina ha peraltro accolto il
principio della convertibilità del rito
camerale in ordinario, con contestuale
fissazione dell'udienza pubblica per la
discussione del ricorso (comma 5),
consentendo, quindi, che il successivo
provvedimento espresso o un atto connesso
con l'oggetto della controversia -emanati
dall’amministrazione nelle more del giudizio
sul silenzio- possano essere impugnati anche
con motivi aggiunti, "nei termini e con
il rito previsto per il provvedimento
espresso".
Con la precisazione che in tal caso l'intero
giudizio prosegue con il rito ordinario
(comma 6), venendo altresì regolata anche la
proposizione -contestuale a quella contro il
silenzio- dell'azione di risarcimento del
danno per inosservanza dolosa o colposa del
termine per provvedere.
In tal caso, il giudice può definire con il
rito camerale l'azione avverso il silenzio e
fissare l'udienza pubblica per la
trattazione della domanda risarcitoria
(comma 7) (commento tratto da www.ipsoa.it -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il
potere inibitorio dell’amministrazione in
materia di D.I.A. è "estinguibile” in quanto
sottoposto al termine di esercizio
perentorio di giorni 30 dalla presentazione
della denuncia, al pari dell’attività di
verifica cui è funzionalmente collegato.
Ne consegue che, spirato detto termine,
l’attività edilizia potrà essere liberamente
iniziata non potendo l’amministrazione
intervenire sulla stessa tramite l’esercizio
di un potere inibitorio ormai esauritosi e
salvo restando il potere di autotutela, ma
soggetto a ben diversi presupposti.
Il potere
inibitorio dell’amministrazione in materia
di D.I.A. è –per orientamento costante della
giurisprudenza- “estinguibile”, in
quanto sottoposto al termine di esercizio
perentorio di giorni 30 dalla presentazione
della denuncia, al pari dell’attività di
verifica cui è funzionalmente collegato.
Ne consegue che, spirato detto termine,
l’attività edilizia potrà essere liberamente
iniziata non potendo l’amministrazione
intervenire sulla stessa tramite l’esercizio
di un potere inibitorio ormai esauritosi e
salvo restando il potere di autotutela, ma
soggetto a ben diversi presupposti (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n.
5200; TAR Veneto, Venezia, sez. II,
09.07.2009, n. 2137; TAR Lombardia Milano,
sez. II, 17.06.2009, n. 4066; TAR Liguria,
22.01.2003, n. 113)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.05.2011 n. 1278 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Il
provvedimento di revoca dell'aggiudicazione
–e a maggior ragione quello di revoca
dell’intera gara- richiede l'avviso di avvio
del procedimento, ogni qualvolta le
risultanze della procedura siano state
approvate e la relazione fra le parti sia
entrata già nella fase paritetica
dell'esecuzione delle prestazioni, senza
che, in tal caso, sia neppure applicabile il
disposto dell’art. 21-octies della legge n.
241/1990.
La revoca della gara costituisce
un'eccezione alla regola, in ragione di
superiori e sopravvenute esigenze di
interesse pubblico, e non può considerarsi
legittima se il mutamento di avviso ha luogo
a causa di una non meditata previa
definizione dell'oggetto del contratto. In
ogni caso, la revoca della gara
–specialmente dopo la stipula del contratto–
abbisogna di puntuale ed accurata
motivazione sulla sopravvenuta diversa
valutazione dell’interesse pubblico che ne
aveva consigliato l’indizione.
Il provvedimento di revoca
dell'aggiudicazione –e a maggior ragione
quello di revoca dell’intera gara- richiede
l'avviso di avvio del procedimento, ogni
qualvolta, come si è verificato nell’ipotesi
in esame, le risultanze della procedura
siano state approvate e la relazione fra le
parti sia entrata già nella fase paritetica
dell'esecuzione delle prestazioni, senza
che, in tal caso, sia neppure applicabile il
disposto dell’art. 21-octies della legge n.
241/1990 (C.S., V, 23.10.2007, n. 5591; TAR
Veneto, I, 15.10.2007, n. 3260; C.G.A.,
31.03.2006, n. 129; TAR Lazio, III,
01.09.2004, n. 8180).
La previa
definizione dell'oggetto della gara è un
preciso dovere delle stazioni appaltanti,
volto a garantire anche la posizione dei
partecipanti. La revoca costituisce
un'eccezione alla regola, in ragione di
superiori e sopravvenute esigenze di
interesse pubblico, e non può considerarsi
legittima se il mutamento di avviso ha luogo
a causa di una non meditata previa
definizione dell'oggetto del contratto
(C.S., V, 11.05.2009, n. 2882). In ogni
caso, la revoca della gara –specialmente
dopo la stipula del contratto– abbisogna di
puntuale ed accurata motivazione sulla
sopravvenuta diversa valutazione
dell’interesse pubblico che ne aveva
consigliato l’indizione (TAR Campania,
Napoli, I, 04.11.2010, n. 22688)
(TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 18.05.2011 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
beneficio dell'esonero dal contributo di
costruzione concerne solo i fabbricati
complementari ed asserviti alle esigenze
proprie di un impianto industriale, e non le
opere edilizie comunque suscettibili di
essere utilizzate al servizio di qualsiasi
attività economica.
La giurisprudenza ha chiarito che (Consiglio
Stato, sez. IV, 25.06.2010 , n. 4109) ai
sensi dell'art. 10, l. 28.01.1977 n. 10,
trasfuso nell'art. 19, t.u. sull'edilizia
approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il
beneficio dell'esonero dal contributo di
costruzione concerne solo i fabbricati
complementari ed asserviti alle esigenze
proprie di un impianto industriale, e non le
opere edilizie comunque suscettibili di
essere utilizzate al servizio di qualsiasi
attività economica.
In merito, sebbene la ricorrente non abbia
dato prova certa della connessione tra gli
edifici per unità artigianali e le
abitazioni dei custodi, un indice di tale
nesso risulta dal contenuto degli atti
dedotti in giudizio ed in particolare dalla
richiesta unitaria delle somme da pagare.
D’altro canto neppure il Comune ha dato
prova della presunta mancanza di un rapporto
pertinenziale tra le opere, che richiede
l’analisi della cartografia allegata alla
richiesta di permesso oppure l’esame dello
stato di fatto delle opere realizzate, se
non sono state successivamente modificate.
Ne consegue che il provvedimento impugnato
dev’essere annullato con riferimento
all’applicazione del costo di costruzione
con obbligo del Comune di provvedere al
riesame dell’applicazione del costo di
costruzione alla luce del principio
giurisprudenziale sopra indicato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 17.05.2011 n. 1265 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nel caso di demolizione e
ricostruzione innovativa, ossia quando
l’area è assoggettata a una trasformazione
tale da recidere il rapporto di continuità
con la sagoma e i volumi preesistenti, sono
applicabili le regole sulle distanze
previste per le nuove costruzioni.
Nel caso di demolizione e ricostruzione
innovativa che fronteggi un edificio con
pareti finestrate viene in rilievo, accanto
all’interesse urbanistico, anche l’interesse
igienico-sanitario essendo necessario
garantire l’aerazione degli spazi interni ed
evitare la formazione di intercapedini
malsane. Questo secondo interesse non è
nella disponibilità dei privati e neppure
delle amministrazioni locali, ed è protetto
su tutto il territorio nazionale dalla
disposizione sulla distanza minima assoluta
di 10 metri di cui all’art. 9 del DM
1444/1968.
Il vincolo della distanza minima deve però
essere applicato secondo il canone di
proporzionalità, ossia nei limiti necessari
a prevenire il degrado igienico-sanitario
dei luoghi. Si può infatti ritenere che
anche all’esterno dei piani attuativi la
deroga alla distanza minima dalle pareti
finestrate risulti in concreto ammissibile
quando non vi siano pericoli di
peggioramento delle condizioni
igienico-sanitarie nelle abitazioni servite
dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in
fattispecie particolari, ad esempio quando
non vi sia esatta contrapposizione tra il
nuovo muro e la parete finestrata
preesistente oppure quando attorno a
quest’ultima rimanga comunque spazio
sufficiente per conservare inalterate
l’aerazione e l’illuminazione
Nel caso di demolizione e ricostruzione
innovativa, ossia quando l’area (come nella
vicenda in esame) è assoggettata a una
trasformazione tale da recidere il rapporto
di continuità con la sagoma e i volumi
preesistenti, sono applicabili le regole
sulle distanze previste per le nuove
costruzioni.
Se l’aspetto di un’area viene
significativamente alterato, la demolizione
e ricostruzione svincola i proprietari dai
condizionamenti connessi ai vecchi edifici
ma allo stesso tempo fa perdere il diritto
di prevenzione fondato sugli stessi.
---------------
Nel caso di
demolizione e ricostruzione innovativa che
fronteggi un edificio con pareti finestrate
viene in rilievo, accanto all’interesse
urbanistico, anche l’interesse
igienico-sanitario essendo necessario
garantire l’aerazione degli spazi interni ed
evitare la formazione di intercapedini
malsane.
Questo secondo interesse non è nella
disponibilità dei privati e neppure delle
amministrazioni locali, ed è protetto su
tutto il territorio nazionale dalla
disposizione sulla distanza minima assoluta
di 10 metri di cui all’art. 9 del DM
1444/1968 (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232). È
vero che proprio l’art. 9, comma 3, del DM
1444/1968 contiene l’originaria deroga poi
ripresa anche dalla disciplina comunale in
esame, ossia la facoltà di costruire a
distanze inferiori nel caso di gruppi di
edifici che formino oggetto di piani
particolareggiati o di lottizzazioni
convenzionate con previsioni
planivolumetriche.
Tale norma è però fondata sul presupposto
che la realizzazione ex novo e così
pure la sistemazione integrale di un insieme
di edifici consentano di adottare soluzioni
progettuali e accorgimenti tecnici in grado
di evitare problemi igienico-sanitari anche
con una distanza inferiore a 10 metri. Di
conseguenza la deroga è logicamente
riferibile soltanto all’ambito territoriale
ricompreso nei suddetti piani e considerato
nella progettazione unitaria;
In concreto il vincolo della distanza minima
deve però essere applicato secondo il canone
di proporzionalità, ossia nei limiti
necessari a prevenire il degrado
igienico-sanitario dei luoghi. Si può
infatti ritenere che anche all’esterno dei
piani attuativi la deroga alla distanza
minima dalle pareti finestrate risulti in
concreto ammissibile quando non vi siano
pericoli di peggioramento delle condizioni
igienico-sanitarie nelle abitazioni servite
dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in
fattispecie particolari, ad esempio quando
non vi sia esatta contrapposizione tra il
nuovo muro e la parete finestrata
preesistente oppure quando attorno a
quest’ultima rimanga comunque spazio
sufficiente per conservare inalterate
l’aerazione e l’illuminazione (v. TAR
Brescia Sez. I 27.08.2010 n. 3240; TAR
Brescia Sez. I 03.07.2008 n. 788)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 17.05.2011 n. 730 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
diritto di ricostruzione di un edificio,
anche se risulta demolito all’atto del
rilascio della concessione edilizia, permane
fin quando un procedimento amministrativo
per il rilascio della concessione edilizia
non è concluso ed ha avuto completa
esecuzione.
Condizione determinante è che lo stato di
consistenza sia certo e sia stato verificato
dall’Amministrazione preposta al rilascio
della concessione.
È giurisprudenza consolidata, e questo
Collegio non ha ragione di discostarsene,
che il diritto di ricostruzione di un
edificio, anche se risulta demolito all’atto
del rilascio della concessione edilizia,
permane fin quando un procedimento
amministrativo per il rilascio della
concessione edilizia non è concluso ed ha
avuto completa esecuzione.
Condizione determinante è che lo stato di
consistenza sia certo e sia stato verificato
dall’Amministrazione preposta al rilascio
della concessione, fatto che nel caso di
specie non risulta contestato (Consiglio di
Stato n. 5162 del 21.10.2008, n. 1108 del
06.03.2006, TAR Bolzano 374 del 05.08.2004)
(TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano,
sentenza 16.05.2011 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO - Obbligo di
bonifica - Responsabile dell’inquinamento -
Nesso di causalità tra la condotta del
responsabile e la contaminazione - Regola
probatoria del “più probabile che non” -
Elementi indiziari - Artt. 242 e 244 d.lgs.
n. 152/2006.
Ai sensi degli art. 242 e 244 d.lg.
03.04.2006 n. 152, l'obbligo di bonifica è
posto in capo al responsabile
dell'inquinamento, che le Autorità
amministrative hanno l'onere di ricercare ed
individuare, mentre il proprietario non
responsabile dell'inquinamento o altri
soggetti interessati hanno una mera "facoltà"
di effettuare interventi di bonifica
(Consiglio Stato, sez. V, 16.06.2009, n.
3885).
Il nesso di causalità tra la condotta del
responsabile e la contaminazione riscontrata
deve essere accertato applicando la regola
probatoria del "più probabile che non":
pertanto, il suo positivo riscontro può
basarsi anche su elementi indiziari, quali
la tipica riconducibilità dell'inquinamento
rilevato all'attività industriale condotta
sul fondo (TAR Piemonte Torino, sez. I,
24.03.2010, n. 1575).
INQUINAMENTO - Mancata
esecuzione degli interventi ambientali da
parte del responsabile - Esecuzione
d’ufficio da parte della P.A. competente -
Rivalsa - Garanzie sul terreno - Artt. 244,
250 e 253 d.lgs. n. 152/2006.
Dal combinato disposto degli art. 244, 250 e
253 del codice ambiente si ricava che,
nell'ipotesi di mancata esecuzione degli
interventi ambientali in esame da parte del
responsabile dell'inquinamento, ovvero di
mancata individuazione dello stesso, e
sempreché non provvedano né il proprietario
del sito, né altri soggetti interessati, le
opere di recupero ambientale sono eseguite
dalla p.a. competente, che potrà rivalersi
sul soggetto responsabile nei limiti del
valore dell'area bonificata, anche
esercitando, ove la rivalsa non vada a buon
fine, le garanzie gravanti sul terreno
oggetto dei medesimi interventi (TAR Toscana
Firenze, sez. II, 03.03.2010, n. 594).
INQUINAMENTO - Bonifica
e messa in sicurezza - Potere di diffida -
Presidente della Provincia - Artt. 242 e ss.
d.lgs. n. 152/2006 - Normativa speciale
prevalente sulla disciplina generale in
materia di decretazione d’urgenza.
In tema di bonifica e messa in sicurezza, la
normativa di cui agli artt. 242 e ss. del
d.lgs. n. 152/2006 affida il potere di
diffida al Presidente della Provincia.
Tale disciplina normativa va considerata
speciale, e quindi prevalente sulla
normativa che affida al Sindaco la
decretazione d’urgenza a tutela della salute
pubblica; inoltre le ordinanze contingibili
e urgenti sono utilizzabili solo ove
l’ordinamento non preveda altri mezzi
ordinari, e nel caso è il Codice
dell’ambiente a prevedere i sistemi per la
bonifica dei siti inquinati, anche in via di
urgenza (sulla questione si veda in termini
anche Consiglio di Stato, Sez. VI,
12.04.2011 n. 2249) (TAR Abruzzo-Pescara,
Sez. I,
sentenza 13.05.2011 n. 318 - link
a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: La
lex specialis della gara è quella che
regolamenta il procedimento di scelta del
contraente e il giudice, quando la stessa
non assume aspetti di illogicità, non può
sostituirsi all’amministrazione nel sua
etero integrazione. D’altro canto anche la
pubblica amministrazione è rigidamente
vincolata dalla lex specialis non potendo di
regola disporre l'esclusione dalla gara per
cause diverse da quelle ivi espressamente
previste.
Qualora le dichiarazioni di cui agli
articoli 46 e 47 presentino delle
irregolarità o delle omissioni rilevabili di
ufficio, non costituenti falsità, il
funzionario competente a ricevere la
documentazione dà notizia all'interessato di
tale irregolarità. Questi è tenuto alla
regolarizzazione o al completamento della
dichiarazione; in mancanza il procedimento
non ha seguito.
La lex specialis della gara è quella
che regolamenta il procedimento di scelta
del contraente e il giudice, quando la
stessa, come nel caso che occupa, non assume
aspetti di illogicità, non può sostituirsi
all’amministrazione nel sua etero
integrazione. D’altro canto anche la
pubblica amministrazione è rigidamente
vincolata dalla lex specialis non
potendo di regola disporre l'esclusione
dalla gara per cause diverse da quelle ivi
espressamente previste, in virtù del
principio dell'autovincolo e
dell'affidamento, corollari dell'art. 97
cost. (Cons. Stato , sez. V, 10.11.2010, n.
8003; V, 22.03.2010 n. 1652).
Ritiene
tuttavia la Sezione di aderire
all’orientamento giurisprudenziale che
consente la sanabilità delle irregolarità
diverse dalla falsità in ragione della
funzione che la dichiarazione di cui
trattasi esplica, e cioè di assicurare la
paternità della dichiarazione (Cons. Stato,
sez. V, 11.11.2004, n. 7339). In questi casi
viene in rilievo l'art. 71, terzo co., dello
stesso D.P.R. n. 445 del 2000 che prevede
che «qualora le dichiarazioni di cui agli
articoli 46 e 47 presentino delle
irregolarità o delle omissioni rilevabili di
ufficio, non costituenti falsità, il
funzionario competente a ricevere la
documentazione dà notizia all'interessato di
tale irregolarità. Questi è tenuto alla
regolarizzazione o al completamento della
dichiarazione; in mancanza il procedimento
non ha seguito»
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 12.05.2011 n. 2841 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Appalto invalido ma eseguito: no
alla nuova gara, sì al risarcimento.
Quando è stata proposta un'azione di
annullamento, la domanda risarcitoria può
essere formulata sino a centoventi giorni
dal passaggio in giudicato della relativa
sentenza. Quando, nel corso del giudizio,
l'annullamento del provvedimento impugnato
non risulta più utile per il ricorrente, il
giudice accerta l'illegittimità dell'atto se
sussiste l'interesse ai fini risarcitori.
L'Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale e
di Alta Specializzazione (A.O.R.N.) S. Anna
e San Sebastiano di Caserta indiceva una
procedura aperta per l'aggiudicazione
dell'appalto del servizio di manutenzione,
conduzione e gestione degli impianti
elettrici.
L'impresa S. spa, classificatasi al sesto
posto in graduatoria, impugna l'intervenuta
aggiudicazione, lamentando la violazione
delle elementari regole in materia di
custodia dei plichi di gara. Il Tar
Campania, Napoli, Sez. I, con la Sent. n.
16615 del 2010, respinge il ricorso,
affermando che, in aderenza al prevalente
orientamento giurisprudenziale, la mancata
indicazione nei verbali di gara delle
modalità di custodia dei plichi e degli
strumenti utilizzati per garantire la
segretezza delle offerte non assurge, di per
sé, a motivo di illegittimità del verbale e
della complessiva attività posta in essere
dalla commissione.
Occorre verificare e dar rilievo, secondo i
giudici di primo grado, ad un'eventuale e
concreta manomissione e/o alterazione della
documentazione di gara.
Nella precisa vicenda, il Tar ritiene che le
contestate alterazioni non possono essere
considerate come rettamente denunciate in
sede di ricorso, in quanto inammissibilmente
introdotte attraverso una memoria difensiva
non notificata alle controparti.
L'impresa S. spa impugna la sentenza di
primo grado, evidenziando che le doglianze,
afferenti le denunciate alterazioni, sono
state correttamente introdotte in giudizio,
attraverso la proposizione di motivi
aggiunti, ritualmente notificati e
depositati.
Il Consiglio di Stato, nella pronuncia in
esame, accoglie la tesi dell'impresa
appellante e rileva la presenza delle
denunciate alterazioni.
Precisamente, il CdS accerta, anche sulla
base di quanto risulta dai verbali, la
sussistenza del seguente grave episodio, non
smentito dal presidente di commissione: in
data 5 maggio, un commissario ha chiesto e
prelevato direttamente, senza alcuna
preventiva autorizzazione, alcuni plichi
contenenti le offerte tecniche. In presenza
di tale episodio, il Consiglio di Stato
ritiene che le censure avanzate sono
pienamente fondate, per cui appare
inequivocamente acclarata l'assoluta carenza
di idonee misure di custodia dei plichi
contenenti le offerte.
A fronte di tale chiara constatazione dei
fatti, implicante l'annullamento degli atti
impugnati e della disposta aggiudicazione,
il CdS procede ad accertare se sussiste un
reale interesse, giustificante la pronuncia
di efficacia del contratto di appalto già
stipulato.
Il CdS prende atto che, nella concreta
vicenda, non sono presenti quelle "gravi
violazioni", che, ai sensi dell'art. 121
del Codice del processo amministrativo,
possono giustificare la declaratoria di
inefficacia del contratto e cioè:
- a) aggiudicazione definitiva avvenuta
senza previa pubblicazione del bando o
avviso;
- b) aggiudicazione definitiva avvenuta con
procedura negoziata senza bando o con
affidamento in economia fuori dai casi
consentiti;
- c) contratto stipulato senza rispettare il
termine dilatorio di 35 giorni, previsto dal
comma 10, dell'art. 11, del Codice dei
contratti pubblici, qualora tale violazione
abbia privato il ricorrente della
possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso
prima della stipulazione del contratto e
sempre che tale violazione, aggiungendosi ai
vizi propri dell'aggiudicazione definitiva,
abbia influito sulle possibilità del
ricorrente di ottenere l'affidamento;
- d) contratto stipulato senza rispettare la
sospensione obbligatoria del termine per la
stipulazione, derivante dalla proposizione
del ricorso giurisdizionale avverso
l'aggiudicazione definitiva (art. 11, comma
10-ter, Codice), qualora tale violazione,
aggiungendosi ai vizi propri
dell'aggiudicazione definitiva, abbia
influito sulle possibilità del ricorrente di
ottenere l'affidamento.
Inoltre, i giudici prendono atto che non
sussiste la possibilità di dichiarare
l'inefficacia del contratto ai sensi
dell'art. 122 del Codice processuale.
Tale importante disposizione normativa
stabilisce che, oltre i casi, espressamente
ora indicati, è possibile, annullando
l'aggiudicazione, dichiarare inefficace il
contratto, "tenendo conto, in
particolare, degli interessi delle parti,
dell'effettiva possibilità per il ricorrente
di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei
vizi riscontrati, dello stato di esecuzione
del contratto e della possibilità di
subentrare nel contratto, nei casi in cui il
vizio dell'aggiudicazione non comporti
l'obbligo di rinnovare la gara".
Ora, analizzando la concreta fattispecie, i
giudici di appello riscontrano i seguenti e
puntuali elementi fattuali:
- L'impresa appellante, classificatasi sesta
nella graduatoria definitiva, non ha alcuna
effettiva possibilità di conseguire, in via
diretta, l'aggiudicazione, alla luce dei
vizi riconosciuti, di natura esclusivamente
strumentale, e tanto meno ha la possibilità
di subentrare nel contratto.
- Il contratto di appalto è in stato di
avanzata esecuzione, per cui non è possibile
la rinnovazione della gara.
In presenza di siffatta situazione
processuale, occorre procedere ad una
duplice considerazione: non sussistono i
presupposti per dichiarare inefficace il
contratto e l'eventuale annullamento degli
atti impugnati, pur sussistendo chiari vizi
di legittimità, non recherebbe alcuna
utilità all'impresa appellante, non potendo
avere l'annullamento medesimo alcun
contenuto conformativo idoneo a soddisfare
l'interesse del ricorrente.
Allora, sulla scorta di tali ragioni, i
giudici amministrativi di appello ritengono
che occorre tener conto del comma 3,
dell'art. 34 del codice processuale, il
quale stabilisce che "quando, nel corso
del giudizio, l'annullamento del
provvedimento impugnato non risulta più
utile per il ricorrente, il giudice accerta
l'illegittimità dell'atto se sussiste
l'interesse ai fini risarcitori".
Si tratta di un'importante ed innovativa
disposizione processuale, diretta ad evitare
l'inutile annullamento di provvedimenti (nel
caso di specie: l'aggiudicazione
definitiva), che abbiano ormai esaurito i
loro effetti nel corso del giudizio.
Invero, la disposizione presenta anche un
altro fine: accertare, comunque, le
illegittimità, laddove possa essere
ipotizzata la sussistenza di un interesse al
risarcimento, distinto da quello
all'annullamento, privo di risvolti pratici.
In questa ipotesi, l'azione costitutiva
smarrisce il suo naturale effetto "modificativo"
(la modificazione di una situazione
giuridica) e si riduce ad un mero
accertamento di illegittimità per puri fini
risarcitori, cioè per realizzare l'interesse
al risarcimento.
Al riguardo, il CdS ricorda che l'art. 30
del codice processuale prevede termini
precisi: quando è stata proposta un'azione
di annullamento, la domanda risarcitoria può
essere formulata sino a centoventi giorni
dal passaggio in giudicato della relativa
sentenza.
A questo punto, i giudici amministrativi di
appello, chiarito il principio che è
possibile comunque accertare una
illegittimità utile ai soli fini risarcitori
(ma, inutile ai fini modificativi della
situazione giuridica consolidatasi),
affrontano due precise questioni.
In primo luogo, la questione se
l'applicazione del predetto comma 3,
dell'art. 34 presupponga una specifica
istanza da parte del soggetto interessato.
A tale domanda, deve essere data una
risposta negativa, sia per ragioni di
carattere testuale, in quanto nella norma
non si rinviene alcun riferimento ad
un'istanza, sia perché l'accertamento
dell'illegittimità dell'atto impugnato è
contenuto nel petitum di annullamento
come un presupposto necessario.
In secondo luogo, il CdS affronta il
problema della possibile sussistenza, nella
concreta fattispecie, di un reale "interesse
ai fini risarcitori", come prescritto
dalla disposizione normativa.
Al riguardo, i giudici ricordano che il
danno ipoteticamente risarcibile si
sostanzia essenzialmente nelle seguenti
voci:
a) danno emergente, costituito dalle spese e
dai costi sostenuti per la preparazione
dell'offerta e per la partecipazione alla
procedura;
b) lucro cessante, generalmente determinato
nel 10% del valore dell'appalto;
c) un'ulteriore percentuale del valore
dell'appalto a titolo di perdita di chance,
legata all'impossibilità di far valere,
nelle future contrattazioni, il requisito
economico pari al valore dell'appalto non
eseguito.
Al riguardo, sempre il Consiglio di Stato
(Sez. IV), in una recente pronuncia
(16.05.2011, n. 2955), ha evidenziato che "la
partecipazione ad un appalto pubblico,
nonché la fase di esecuzione dello stesso,
rappresentano per l'impresa concorrente un
vantaggio economicamente valutabile, in
quanto accresce la capacità di competere sul
mercato e, dunque, la chance di ottenere
l'affidamento di futuri appalti.
Pertanto, deve ritenersi risarcibile il
danno c.d. "curriculare", il quale consiste
nel pregiudizio subito dall'impresa in
dipendenza del mancato arricchimento del
proprio "curriculum" professionale, ossia
per la circostanza di non poter indicare in
esso l'avvenuta esecuzione di un appalto,
dal quale si sia stati esclusi a causa del
comportamento illegittimo
dell'amministrazione".
Ora, nella concreta fattispecie, il CdS
ritiene che sono sicuramente rinvenibili due
tipologie di danno risarcibile: le spese di
partecipazione alla gara e l'eventuale
perdita di chance, che l'impresa potrebbe
dimostrare.
Proprio in ragione di tali danni, i giudici
ritengono sussistente uno specifico
interesse al risarcimento, con connessa
applicazione del già illustrato comma 3,
dell'art. 34 del codice processuale
(commento tratto da ww.ipsoa.it - Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 12.05.2011 n. 2817 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Resta
sottratta al giudice ogni verifica, in
concreto, della compatibilità ideologica tra
due liste diverse tra le quali sia
transitato un esponente politico dopo le
elezioni, per quanto concerne la permanenza
del suo rapporto fiduciario con un'assemblea
elettiva.
La mozione di sfiducia rientra tra i
provvedimenti caratterizzati da una
elevatissima discrezionalità, sindacabile
solo in caso di manifesta illogicità o
evidente travisamento dei fatti, che nella
fattispecie non appaiono esistenti né
vengono evidenziati.
La mozione di sfiducia al sindaco, adottata
dal consiglio comunale, rientra fra i
provvedimenti caratterizzati da
un'elevatissima discrezionalità, la cui
motivazione può essere anche incentrata su
una diversità di orientamenti politici fra
sindaco e maggioranza consiliare, per cui
non deve essere motivata con riferimento a
precise inadempienze del sindaco rispetto al
programma in base al quale è stato eletto.
Il Collegio ritiene il ricorso infondato,
dovendosi condividere l’orientamento
espresso dalla Sezione in sede cautelare,
allorquando si è affermato che “resta
sottratta al giudice ogni verifica, in
concreto, della compatibilità ideologica tra
due liste diverse tra le quali sia
transitato un esponente politico dopo le
elezioni, per quanto concerne la permanenza
del suo rapporto fiduciario con un'assemblea
elettiva”.
Infatti, la mozione di sfiducia rientra tra
i provvedimenti caratterizzati da una
elevatissima discrezionalità, sindacabile
solo in caso di manifesta illogicità o
evidente travisamento dei fatti, che nella
fattispecie non appaiono esistenti né
vengono evidenziati (cfr. Cons. giust. amm.
Sicilia , sez. giurisd., 28.09.2007, n.
886).
Il Collegio ritiene di adeguarsi, sulla
questione di diritto, all’orientamento
espresso dal Giudice dell’appello (peraltro
in riforma di una precedente decisione di
questo Tribunale di segno opposto, nella
quale si era sposato la diversa
interpretazione della disposizione
regionale, riproposta dal ricorrente),
secondo il quale, sebbene la ricordata
previsione di legge regionale sancisca, come
condizione di legittimità della mozione di
sfiducia, che essa sia motivata, è
giurisprudenzialmente incontroverso che
possa anche trattarsi di una motivazione “politica”
e non necessariamente di tipo
giuridico-amministrativo.
In altri termini, la mozione di sfiducia al
sindaco, adottata dal consiglio comunale,
rientra fra i provvedimenti caratterizzati
da un'elevatissima discrezionalità, la cui
motivazione può essere anche incentrata su
una diversità di orientamenti politici fra
sindaco e maggioranza consiliare, per cui
non deve essere motivata con riferimento a
precise inadempienze del sindaco rispetto al
programma in base al quale è stato eletto
(cfr. anche TAR Sicilia Palermo, sez. I,
20.08.2007, n. 1955, nonché, con riferimento
alla normativa nazionale, TAR Lombardia
Milano, sez. I, 05.02.2009, n. 1145)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 12.05.2011 n. 1170 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'accertamento
di conformità previsto dall'art. 13 della L.
28.02.1985, n. 47, poi confluito nell'art.
36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è diretto a
sanare le opere solo formalmente abusive, in
quanto eseguite senza il previo rilascio del
titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica applicabile per
l'area su cui sorgono, vigente sia al
momento della loro realizzazione che al
momento della presentazione dell'istanza di
sanatoria (c.d. doppia conformità).
Osserva, anzitutto, il Collegio che, sulla
scorta del prevalente indirizzo
giurisprudenziale: “l'accertamento di
conformità previsto dall'art. 13 della L.
28.02.1985, n. 47, poi confluito nell'art.
36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è diretto a
sanare le opere solo formalmente abusive, in
quanto eseguite senza il previo rilascio del
titolo, ma conformi nella sostanza alla
disciplina urbanistica applicabile per
l'area su cui sorgono, vigente sia al
momento della loro realizzazione che al
momento della presentazione dell'istanza di
sanatoria (c.d. doppia conformità)” (TAR
Campania Napoli, sez. VI, 06.09.2010, n.
17306).
Il provvedimento di accertamento di
conformità assume, pertanto, una
connotazione eminentemente oggettiva e
vincolata, priva di apprezzamenti
discrezionali, dovendo l'autorità procedente
valutare l'assentibilità dell'opera eseguita
senza titolo, sulla base della normativa
urbanistica ed edilizia vigente in relazione
ad entrambi i momenti considerati dalla
norma.
Si tratta invero, come sopra detto, di
accertamento concernente una valutazione
doverosa e vincolata, priva di contenuti
discrezionali, avente per oggetto la
realizzazione di un assetto di interessi già
prefigurato dalla disciplina urbanistica
applicabile … (cfr. TAR Lazio–Latina, sez.
I, sent. 7952/2003)
(TAR Valle d'Aosta,
sentenza 11.05.2011 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La tutela dell'affidamento e la
correttezza dell'azione amministrativa
impediscono che le conseguenze di una
condotta colposa della stazione appaltante
possano essere traslate a carico del
soggetto concorrente.
La tutela dell'affidamento e la correttezza
dell'azione amministrativa impediscono che
le conseguenze di una condotta colposa della
stazione appaltante (quale, nel caso di
specie, finisce per essere l'imprecisa
dizione letterale di un articolo del
disciplinare) possano essere traslate a
carico del soggetto concorrente,
comminandogli la sanzione dell'esclusione
dalla gara. Pertanto, è illegittimo il
provvedimento di esclusione da una gara,
adottato nei confronti di un RTI, che abbia
omesso di presentare un documento, a causa
di un'imprecisa formulazione della lex
specialis.
La stazione appaltante, infatti, a tutela
della par condicio e del principio di
massima partecipazione, avrebbe dovuto
esercitare il potere di invitare il
concorrente a completare e chiarire la
documentazione presentata, senza che, in un
caso come quello di specie, in cui la
mancanza di un documento è da addebitarsi
innanzitutto alla formulazione della lex
specialis, piuttosto che alla colpa del
privato, possa assumere rilievo la
distinzione, in altri casi dirimente, tra
mancanza della dichiarazione ed
incompletezza della stessa, che finirebbe
per violare la ratio stessa dell'art.
46 del d.lgs. 163/2006 (TAR Campania-Napoli,
Sez. I,
sentenza 09.05.2011 n. 2587 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI: L'esplicitazione,
da parte del concorrente, degli oneri di
sicurezza risponde alla finalità di
consentire alla stazione appaltante di
verificarne la congruità e l'attendibilità,
tenuto conto dell'interesse pubblico a
garantire la sicurezza dell'esecuzione
dell'appalto. Conseguentemente, la
quantificazione degli oneri in questione
deve essere chiara e non può esser né
incerta né indeterminata, né può tradursi
nell'inclusione dei relativi costi in una
voce ampia e generica come quella delle
spese generali, senza alcuna ulteriore
specificazione. Diversamente la ratio legis
verrebbe vanificata atteso che, mancando
l'indicazione dei costi, la stazione
appaltante non avrebbe la possibilità di
verificarne l'attendibilità e la serietà.
Dalla disposizione contenuta nell’art. 87,
comma 4 del codice dei contratti discendono
due corollari: il primo è che i concorrenti
che intendano partecipare alle procedure di
gara devono indicare espressamente,
nell'offerta economica, quali siano gli
oneri economici che ritengono di dover
sopportare al fine di adempiere esattamente
agli obblighi di sicurezza sul lavoro; il
secondo è che l'amministrazione appaltante è
tenuta a valutare la congruità dell'importo
destinato ai costi per la sicurezza.
Nonostante la mancanza di una comminatoria
espressa nella disciplina speciale di gara,
l'inosservanza della prescrizione primaria
che impone l'indicazione preventiva dei
costi di sicurezza implica la sanzione
dell'esclusione, in quanto rende l'offerta
incompleta sotto un profilo particolarmente
rilevante alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi
protetti ed impedisce alla stazione
appaltante un adeguato controllo
sull'affidabilità dell'offerta stessa.
Come già affermato dalla Sezione (TAR
Lombardia, Milano, Sez. I, 24.11.2009, n.
5136), con argomentazioni che il Collegio
condivide in toto, l'esplicitazione, da
parte del concorrente, degli oneri di
sicurezza risponde alla finalità di
consentire alla stazione appaltante di
verificarne la congruità e l'attendibilità,
tenuto conto dell'interesse pubblico a
garantire la sicurezza dell'esecuzione
dell'appalto.
Conseguentemente, la quantificazione degli
oneri in questione deve essere chiara e non
può esser né incerta né indeterminata, né
può tradursi nell'inclusione dei relativi
costi in una voce ampia e generica come
quella delle spese generali, senza alcuna
ulteriore specificazione.
Diversamente la ratio legis verrebbe
vanificata atteso che, mancando
l'indicazione dei costi, la stazione
appaltante non avrebbe la possibilità di
verificarne l'attendibilità e la serietà.
Questa è la ragione per la quale il comma 4
dell'art. 87 del D.Lgs. n. 163 ha imposto ai
concorrenti una specifica indicazione degli
oneri in questione: la norma ha voluto
chiaramente separare l'indicazione del
corrispettivo per l'esecuzione della
prestazione dai costi per garantirne la
sicurezza.
A questo primario interesse pubblico vanno,
invero, ricondotte le regole dettate
dapprima dalla legge n. 327/2000 e poi dal
D.Lgs. n. 163/2006, che hanno
sostanzialmente equiparato gli appalti di
servizi e di forniture a quelli di lavori
pubblici ai fini della tutela della
sicurezza dei lavoratori (sul punto cfr. TAR
Liguria, Sez. II, 13.11.2008, n. 1974).
In proposito è stato affermato (TAR
Sardegna, Cagliari, sez. I, 26.06.2009, n.
1047), che dalla disposizione contenuta
nell’art. 87, comma 4 del codice dei
contratti discendono due corollari: il primo
è che i concorrenti che intendano
partecipare alle procedure di gara devono
indicare espressamente, nell'offerta
economica, quali siano gli oneri economici
che ritengono di dover sopportare al fine di
adempiere esattamente agli obblighi di
sicurezza sul lavoro; il secondo è che
l'amministrazione appaltante è tenuta a
valutare la congruità dell'importo destinato
ai costi per la sicurezza.
E’ stato anche rilevato che, sebbene si
possa dubitare dell'automaticità
dell'esclusione di offerte così formulate,
in assenza di una espressa sanzione in tal
senso nel bando di gara, tuttavia debba
essere considerata la peculiare natura delle
norme in materia di sicurezza del lavoro,
finalizzate a garantire l'intangibilità dei
diritti fondamentali della persona del
lavoratore, quali quelli alla vita e alla
salute, come emerge dalla ampia produzione
legislativa degli ultimi anni.
Il conseguimento di tali fini rappresenta,
quindi, un obiettivo essenziale del sistema
normativo in materia, che è altresì
avvalorato da sicuri riferimenti
costituzionali (artt. 2, 3, 32 e 38 della
Costituzione).
In particolare, la disciplina della
previsione e della valutazione degli oneri
di sicurezza nella fase di affidamento dei
contratti pubblici esprime l'esigenza che il
rispetto della normativa sulla sicurezza del
lavoro sia assicurato anche quando la
promozione di tale valore essenziale si
ponga in contrasto con alcuni dei principi
che governano il procedimento di affidamento
dei contratti pubblici.
Sotto questo profilo si giustifica, quindi,
l’integrazione automatica delle norme del
bando di gara (secondo il meccanismo
previsto dagli articoli 1374 e 1339 del cod.
civ., come ha precisato, per altra ipotesi,
Cons. Stato Sez. V, 18.11.2004, n. 7555), se
queste non prevedano espressamente quanto
obbligatoriamente disposto dalle norme
dell'ordinamento.
Tale ricostruzione ermeneutica è stata,
altresì, recentemente confermata dal
Consiglio di Stato (Sez. V, 23.07.2010, n.
4849) il quale ha affermato che la
circostanza che solo nei bandi di gara
relativi agli appalti di lavori, ai sensi
dell'art. 131 del codice dei contratti
pubblici, debbano essere evidenziati gli
oneri di sicurezza non soggetti a ribasso,
fa sì che nelle altre procedure di gara, in
assenza della preventiva fissazione del
costo per la sicurezza da parte
dell'amministrazione aggiudicatrice quale
specifica componente del costo del lavoro,
sia necessario che il relativo importo venga
scorporato dalle offerte dei singoli
concorrenti e sottoposto a verifica per
valutare se sia congruo rispetto alle
esigenze di tutela dei lavoratori.
La mancanza di una specifica previsione
sugli oneri per la sicurezza in seno alla
lex specialis non toglie, quindi, che la
norma primaria, immediatamente precettiva ed
idonea ad eterointegrare le regole
procedurali, imponga agli offerenti di
indicare separatamente i costi per la
sicurezza per le esposte ragioni.
Secondo la richiamata decisione, nonostante
la mancanza di una comminatoria espressa
nella disciplina speciale di gara,
l'inosservanza della prescrizione primaria
che impone l'indicazione preventiva dei
costi di sicurezza implica la sanzione
dell'esclusione, in quanto rende l'offerta
incompleta sotto un profilo particolarmente
rilevante alla luce della natura
costituzionalmente sensibile degli interessi
protetti ed impedisce alla stazione
appaltante un adeguato controllo
sull'affidabilità dell'offerta stessa (cfr.
da ultimo: Cons. Stato, Sez. V, 21.01.2011,
n. 17; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II,
12.01.2011, n. 26; TAR Campania Napoli, Sez.
I, 18.03.2011, n. 1497) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 09.05.2011 n. 1217 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Revoca del part-time, Collegato
lavoro in contrasto con la direttiva UE.
Prima sentenza a favore del dipendente nel
pubblico impiego.
Il Collegato lavoro nel
consentire al datore di lavoro pubblico di
trasformare unilateralmente il rapporto di
lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo
pieno, anche contro la volontà del
lavoratore, si pone in contrasto con la
direttiva europea (dir. 15.12.1997, n.
97/81/CE), in quanto discrimina il
lavoratore a part-time che, a differenza del
lavoratore a tempo pieno, rimane soggetto al
potere del datore di lavoro pubblico di
modificare unilateralmente la durata della
prestazione di lavoro.
In tema di modifica del part-time
nella pubblica amministrazione, dopo le
novità introdotte dalla legge n. 183 del
04.11.2010, riveste particolare importanza
la recentissima ordinanza del Tribunale di
Trento, sezione lavoro, che di fatto ha
accolto il ricorso di una dipendente
pubblica che era ricorsa avverso due
provvedimenti , uno ministeriale , e uno del
proprio dirigente del Tribunale dove
lavorava, che le avevano revocato l’istituto
del part-time.
Si ricorda brevemente che la citata legge n.
183 del 04.11.2010 , dopo un lungo dibattito
parlamentare, ha previsto tra le altre
disposizioni in materia di lavoro,
all’articolo 16, che “In sede di prima
applicazione delle disposizioni introdotte
dall’articolo 73 del decreto-legge
25.06.2008, n. 112, convertito, con
modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n.
133, le amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive
modificazioni, entro centottanta giorni
dalla data di entrata in vigore della
presente legge, nel rispetto dei principi di
correttezza e buona fede, possono sottoporre
a nuova valutazione i provvedimenti di
concessione della trasformazione del
rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale già adottati prima della data di
entrata in vigore del citato decreto-legge
n. 112 del 2008, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008″.
L'articolo 73 del decreto legge aveva
dettato nuove e più stringenti disposizioni
in materia di part-time nel pubblico
impiego, prevedendo, in particolare, il
rigetto delle istanze in tutti i casi in cui
la trasformazione del rapporto di lavoro da
tempo pieno a tempo parziale possa
determinare, in relazione alle mansioni ed
alla posizione organizzativa ricoperta dai
singoli dipendenti, un pregiudizio alla
funzionalità dell'Amministrazione. Si è
trattato di una profonda innovazione in
quanto la normativa precedente non
consentiva il rifiuto della richiesta del
part-time ma solo il differimento del suo
inizio fino a sei mesi e ciò nei casi in cui
la trasformazione del rapporto di lavoro
avesse determinato un grave pregiudizio
all'attività dell'ufficio.
L'articolo 16 della legge, di conversione
consente ora alle pubbliche amministrazioni
di riesaminare, alla luce dei più stringenti
criteri previsti dal citato articolo 73,
tutti i rapporti di lavoro trasformati in
epoche precedenti all'entrata in vigore del
decreto-legge 112/2008. Si tratta degli atti
adottati prima del 25.06.2008. Tale facoltà
deve essere esercitata entro centottanta
giorni dall'entrata in vigore (24.11.2010)
della citata legge 183/2010.
Il caso.
La
vicenda presa in esame dal giudice di prime
cure riguarda una funzionaria di un
Tribunale di Trento, del Ministero della
Giustizia, che era a part-time dal 2000;
tale funzionaria aveva subito due
provvedimenti, uno del Ministero del
febbraio 2011 e uno del dirigente
amministrativo del Tribunale di Trento del
marzo 2011, con i quali era disposto la
trasformazione del suo rapporto lavorativo a
part-time con un nuovo orario a tempo pieno.
L’analisi del giudice.
Il
giudice del Lavoro evidenzia, nella sentenza
in commento, che dopo oltre 10 anni di
prestazione lavorativa a tempo parziale,
l’improvvisa trasformazione in lavoro a
tempo pieno, avrebbe modificato
irreparabilmente la vita privata della
lavoratrice “arrecandole danni non
riparabili per equivalente”; ecco perché
ha ritenuto sussistente il primo requisito
del ricorso presentato dalla dipendente
pubblica.
Per quanto riguarda il fumus boni iuris,
invero, il Tribunale non ha del tutto
condiviso le doglianze della funzionaria
sulla mancanza della “buona fede e
correttezza” (principi previsti
dall’art. 16 della legge 04.11.2010, n. 183)
per non aver ricevuto preavviso della
trasformazione e per non aver tenuto conto
delle esigenze di vita, poiché agli atti
risultava emessa una nota del 22.11.2011,
del Dirigente amministrativo del Tribunale,
in cui si chiedeva “a tutti i lavoratori
part-time di esporre le situazioni personali
che potessero giustificare il mantenimento
di tale ridotto orario di lavoro”.
Sotto questo profilo, secondo il giudice di
primo grado, dunque la “correttezza”
non era stata lesa. Tuttavia l’aspetto molto
importante della sentenza del giudice del
Lavoro è quella dove viene precisato che
l’articolo 16 della legge 04.11.2010, n.
183, nel consentire al datore di lavoro
pubblico di trasformare unilateralmente il
rapporto di lavoro a tempo parziale in
rapporto a tempo pieno, anche contro la
volontà del lavoratore, si ponga in
insanabile contrasto con la direttiva
europea (dir. 15.12.1997, n. 97/81/CE), in
quanto una norma nazionale “sifatta
discrimina il lavoratore a part-time, il
quale, a differenza del lavoratore a tempo
pieno, rimane soggetto al potere del datore
di lavoro pubblico di modificare
unilateralmente la durata della prestazione
di lavoro; non contribuisce certo allo
sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo
parziale su basi accettabili sia ai datori
di lavoro che ai lavoratori, atteso che il
lavoratore part-time sarebbe soggetto al
rischio di vedersi trasformare il rapporto
in lavoro a tempo pieno, anche contro la
propria volontà, con evidente grave
pregiudizio alle proprie esigenze personali
e familiari.
La norma nazionale, infine, contrasta con
quella parte della direttiva che impone la
presenza del consenso del lavoratore in caso
di trasformazione del rapporto”.
Per il giudice del Lavoro, quindi,
l’articolo 16 della legge 04.11.2010, n.
183, confliggendo con la direttiva
15.12.1997, n. 97/81/CE, deve essere
disapplicato. Per tale motivo il giudice del
Lavoro accoglie il ricorso della dipendente
pubblica e annulla il provvedimento
ministeriale e quello del dirigente
amministrativo di revoca del part-time dove
la stessa dipendente lavora.
Riflessi della sentenza.
Per il profilo che assume si tratta di una
sentenza dirompente, che si pone come
battistrada nella battaglia che molti
lavoratori del pubblico impiego hanno
intrapreso o stanno intraprendendo in difesa
dei propri diritti. Nello specifico, dalla
lettura della sentenza, si coglie come la
norma “incriminata” si ponga in
evidente contrasto con i contenuti della
direttiva comunitaria n. 97/81 del
15.12.1997 concernente il lavoro a tempo
parziale, rappresentando una rilevante
condanna per il legislatore che l’ha
approvato, probabilmente, con molta
superficialità (commento tratto da
www.ipsoa.it - TRIBUNALE di Trento,
ordinanza 04.05.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'art. 13 L. 47/1985 deve essere
interpretato nel senso che ai fini
dell'accoglimento della sanatoria c.d. di
conformità di opere edilizie abusive è
sufficiente che esse risultino conformi alla
normativa urbanistica ed edilizia vigente al
momento in cui il Comune si pronuncia sulla
istanza di sanatoria, non dovendosi
richiedere, invece, la conformità rispetto
alle norme vigenti al momento della
realizzazione delle stesse: la contraria
opzione, infatti, comporterebbe per
l'interessato l'onere di procedere alla
demolizione di opere che egli potrebbe
ricostruire identicamente in un momento
successivo, e che in tal modo
provocherebbero anche una lesione
all'interesse pubblico tutelato, compromesso
dalla doppia attività edilizia di
demolizione e ricostruzione.
Da tempo il Consiglio di Stato ha chiarito
che l'art. 13 L. 47/1985 deve essere
interpretato nel senso che ai fini
dell'accoglimento della sanatoria c.d. di
conformità di opere edilizie abusive è
sufficiente che esse risultino conformi alla
normativa urbanistica ed edilizia vigente al
momento in cui il Comune si pronuncia sulla
istanza di sanatoria, non dovendosi
richiedere, invece, la conformità rispetto
alle norme vigenti al momento della
realizzazione delle stesse: la contraria
opzione, infatti, comporterebbe per
l'interessato l'onere di procedere alla
demolizione di opere che egli potrebbe
ricostruire identicamente in un momento
successivo, e che in tal modo
provocherebbero anche una lesione
all'interesse pubblico tutelato, compromesso
dalla doppia attività edilizia di
demolizione e ricostruzione (tra le più
recenti si veda la pronuncia del Consiglio
di Stato, sez. VI n. 2835 del 07.05.2009).
Il Collegio non ritiene di doversi
discostare da tale orientamento anche per la
ragione che, laddove un'opera inizialmente
abusiva diventi poi lecita in ragione della
sopravvenuta approvazione di differenti
norme urbanistiche ed edilizie, la sanzione
della demolizione non assolve più al compito
di ripristinare le condizioni necessarie per
il corretto sviluppo urbanistico ed edilizio
della città, ma assume un connotato
meramente punitivo, che in realtà non le è
proprio e che invece si deve ritenere
assorbito dalla sanzione pecuniaria che
l'interessato deve corrispondere prima di
ottenere il rilascio della sanatoria.
Il diniego di sanatoria opposto dal Comune
di Sammichele va dunque annullato per il
dianzi esposto motivo, avente natura
assorbente; ugualmente va annullata
l'ordinanza di demolizione delle opere
abusive, affetta da illegittimità derivata
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 28.04.2011 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
ricorrente venuto a conoscenza, attraverso
il sopralluogo cui era presente,
dell’esistenza di un procedimento
amministrativo nei suoi riguardi, non può
lamentare la violazione delle garanzie di
cui all’art. 7 l. 241/1990, avendo avuto in
ogni modo notizia del procedimento stesso.
I provvedimenti
sanzionatori in materia edilizia
costituiscono atti vincolati, per i quali
non è necessaria la comunicazione ex art. 7
legge 241/1990, soprattutto nel caso in cui
l’Amministrazione dimostri che il contenuto
del provvedimento non poteva essere diverso.
Risulta dagli atti del giudizio che sul
terreno di proprietà del sig. ... fu
eseguito, in presenza di quest’ultimo, un
sopralluogo da parte della Polizia Locale in
data 15.06.2008, durante il quale fu
accertata la presenza di strutture abusive,
senza che l’esponente fosse in grado di
esibire titoli abilitativi (cfr. doc. 5 del
resistente, copia del verbale di
constatazione con annesse fotografie,
sottoscritto dal sig. ...).
A fronte di tale sopralluogo, era trasmessa,
a cura della medesima Polizia Locale,
comunicazione di notizia di reato alla
Procura della Repubblica di Monza (cfr.
ancora il citato doc. 5).
Il ricorrente era pertanto venuto a
conoscenza, attraverso il citato
sopralluogo, dell’esistenza di un
procedimento amministrativo nei suoi
riguardi, sicché non può ora lamentare la
violazione delle garanzie di cui all’art. 7
citato, avendo avuto in ogni modo notizia
del procedimento stesso (sull’irrilevanza
dell’omissione della comunicazione ex art.
7, qualora l’interessato sia venuto comunque
a conoscenza del procedimento, con
conseguente possibilità di interloquire con
la Pubblica Amministrazione, si vedano: TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 26.01.2010, n.
175; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I,
14.12.2010, n. 2908; TAR Umbria, sez. I,
05.07.2010, n. 400; TAR Basilicata, sez. I,
29.04.2010, n. 216).
Fermo restando quanto sopra esposto, deve
altresì richiamarsi –ad abundantiam-
il diffuso e dominante indirizzo
giurisprudenziale, secondo il quale i
provvedimenti sanzionatori in materia
edilizia costituiscono atti vincolati, per i
quali non è necessaria la comunicazione ex
art. 7 legge 241/1990, soprattutto nel caso
in cui, come meglio sarà evidenziato in
seguito, l’Amministrazione dimostri che il
contenuto del provvedimento non poteva
essere diverso (cfr. l’art. 21-ocites della
legge 241/1990 e, in giurisprudenza: TAR
Campania, Napoli, sez. III, 02.07.2010, n.
16548 e sez. IV, 10.12.2007, n. 15871; TAR
Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n.
2809; TAR Lazio, sez. II-quater, 06.12.2010,
n. 35404)
(TAR
Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Sono
ravvisabili due tipi di lottizzazione
abusiva (che peraltro possono coesistere):
una materiale, configurabile allorché
sono iniziate sul terreno opere che
comportino trasformazione urbanistica o
edilizia del medesimo in violazione delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici o
comunque senza le prescritte autorizzazioni
ed una cartolare o formale, quando la
trasformazione è predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche
particolari, denuncino in modo non equivoco
la destinazione a scopo edificatorio.
Nel secondo ed
articolato mezzo di gravame, è denunciata la
violazione dell’art. 30, comma 1°, del DPR
380/2001 (Testo Unico dell’edilizia),
ritenendo l’esponente l’insussistenza, nella
presente fattispecie, dei presupposti della
lottizzazione abusiva.
La trattazione della censura implica una
serie di considerazioni –seppure per sommi
capi– in ordine alla figura della
lottizzazione abusiva di cui al citato art.
30.
Quest’ultima norma -che ricalca la pregressa
previsione dell’art. 18 della legge 47/1985,
oggi abrogato– è interpretata nel senso che
sono ravvisabili due tipi di lottizzazione
abusiva (che peraltro possono coesistere):
una materiale, configurabile allorché
sono iniziate sul terreno opere che
comportino trasformazione urbanistica o
edilizia del medesimo in violazione delle
prescrizioni degli strumenti urbanistici o
comunque senza le prescritte autorizzazioni
ed una cartolare o formale, quando la
trasformazione è predisposta attraverso il
frazionamento e la vendita del terreno in
lotti che, per le loro caratteristiche
particolari, denuncino in modo non equivoco
la destinazione a scopo edificatorio.
La finalità della norma menzionata è
individuata, dalla giurisprudenza
amministrativa, nella necessità di impedire
e reprimere quelle condotte materiali o
giuridiche volte ad incrementare
l’edificazione sul territorio, senza che
tale incremento sia accompagnato dalla
doverosa pianificazione urbanistica, che
tenga conto delle conseguenze
dell’edificazione in termini di nuovi
servizi o nuove opere di urbanizzazione.
Di conseguenza, aggiunge la citata
giurisprudenza, la lottizzazione abusiva può
essere realizzata da qualsiasi tipo di opere
in grado di stravolgere l’assetto
territoriale e tale conseguenza deve essere
valutata tenendo conto delle opere
complessivamente considerate e non del
singolo e specifico intervento edilizio.
Da questo punto di vista, può esservi
lottizzazione vietata dall’art. 30 del Testo
Unico, anche qualora talune delle singole
strutture siano state assentite da idoneo
titolo edilizio (cfr., fra le più recenti,
la condivisibile pronuncia di TAR Liguria,
sez. I, 07.02.2011, n. 243, con la
giurisprudenza ivi richiamata ed anche
Consiglio di Stato, sez. IV, 03.08.2010, n.
5170 e 01.06.2010, n. 3475; TAR Campania,
Salerno, sez. II, 16.04.2010, n. 3932, TAR
Calabria, Catanzaro, sez. I, 02.03.2010, n.
264; TAR Campania, Napoli, sez. II,
20.12.2010, n. 27691) (TAR
Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’elemento
della precarietà deve essere qualificato in
senso funzionale, sicché non può reputarsi
precaria l’opera, anche se amovibile,
destinata ad un uso costante e prolungato
nel tempo.
L’elemento della precarietà deve essere
qualificato in senso funzionale, sicché non
può reputarsi precaria l’opera, anche se
amovibile, destinata ad un uso costante e
prolungato nel tempo (cfr., fra le tante,
TAR Puglia, Lecce, sez. III, 8.3.2010, n.
688 e TAR Lombardia, Brescia, sez. I,
30.3.2009, n. 720) (TAR
Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ostano
alla riconduzione all’attività agricola vari
elementi, fra cui la oggettiva limitatezza
delle superfici dei lotti, la mancata prova
in capo a molti dei proprietari della
qualifica di imprenditore agricolo, oltre le
caratteristiche delle opere realizzate (in
genere: recinzioni, baracche, casette,
tettoie, piccoli box per ricovero animali),
le quali dimostrano, semmai, che la
effettiva destinazione dei lotti fosse o
quella della custodia dei beni più
disparati, fra cui anche gli animali, oppure
quella dello svago o dello svolgimento di
analoghe attività di tipo “hobby” o
similari.
Ostano alla riconduzione all’attività
agricola vari elementi, fra cui la oggettiva
limitatezza delle superfici dei lotti, la
mancata prova in capo a molti dei
proprietari della qualifica di imprenditore
agricolo, oltre le caratteristiche delle
opere realizzate (in genere: recinzioni,
baracche, casette, tettoie, piccoli box per
ricovero animali), le quali dimostrano,
semmai, che la effettiva destinazione dei
lotti fosse o quella della custodia dei beni
più disparati, fra cui anche gli animali,
oppure quella dello svago o dello
svolgimento di analoghe attività di tipo “hobby”
o similari (TAR
Lombardia-MIlano, Sez. II,
sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
legittimo il diniego a sanare l'abuso
edilizio ove le dimensioni non contenute
delle tettoie e la copertura realizzata in
eternit, e comunque da eliminare, ledono gli
interessi paesaggistico-ambientali,
concretando quel “disordine edilizio,
sottolineato dalla casualità
dell'intervento” operato su un'area che
“dovrebbe rimanere libera da costruzioni”.
Con il secondo motivo, concernente le due
tettoie realizzate senza titolo sulle pp.ff.
2287 e 2286/5, il ricorrente lamenta che la
Commissione comprensoriale si è espressa
negativamente con motivazione consistente
nella riproposizione della formula di stile
del contrasto “con rilevanti interessi
paesaggistico-ambientali”, violati dal “disordine
edilizio”.
In realtà, si tratterebbe di due tettoie
adibite, una a totale ed esclusivo deposito
di legna da ardere e l’altra a parziale
ricovero del materiale costruttivo residuo e
a deposito legname. Inoltre, le tettoie in
esame sarebbero posizionate su un terreno
retrostante la casa di abitazione e quindi
prive di alcun impatto visivo.
Agli esposti rilievi può replicarsi che il
ricorrente, in realtà, pretende di
sostituire le proprie valutazioni a quelle
operate dal competente organo
comprensoriale, che ha ritenuto come l'opera
realizzata pregiudichi senz’altro gli
interessi tutelati dalla normativa
provinciale.
Nella specie, la Commissione tutela del
paesaggio ha preso in considerazione tutti
gli aspetti, che concorrono a determinare
una valutazione esaustiva in materia
paesaggistico-ambientale, come si evince
dalla puntuale motivazione.
Nella stessa è stato precisato che le
dimensioni non contenute delle tettoie e la
copertura realizzata in eternit e comunque
da eliminare, ledono gli interessi
paesaggistico-ambientali, concretando quel “disordine
edilizio, sottolineato dalla casualità
dell'intervento” operato su un'area che
“dovrebbe rimanere libera da costruzioni”.
Invero, si tratta di una valutazione che
trova base e ragione nelle indicate
circostanze di fatto, rispetto alle quali
alcuna contraddizione traspare: il che
consente di affermare che si tratta di
valutazione che appare ragionevole e
congrua, ispirata palesemente all’esigenza
di salvaguardare la fisionomia della zona in
questione.
Del resto, pure i prospettati vizi di
travisamento dei fatti risultano del pari
inesistenti, non solo per quanto valutato
dalla Commissione nel sopra riportato
parere, ma anche alla luce della
documentazione fotografica in atti, da cui
si evidenzia che il precario assetto dei
manufatti in parola appare prevalentemente
frutto del riutilizzo di materiali di
recupero non consoni alla tradizione
costruttiva locale
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 21.04.2011 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Può
integrare un'ipotesi di lottizzazione
abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente, a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un
concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un carico urbanistico
che necessita di adeguamento degli standards.
La verifica circa la conformità della
trasformazione realizzata e la sua
rispondenza o meno alle previsioni delle
norme urbanistiche vigenti deve essere
effettuata con riferimento non già alle
singole opere in cui si è compendiata la
lottizzazione, eventualmente anche
regolarmente assentite bensì alla
complessiva trasformazione edilizia che di
quelle opere costituisce il frutto, sicché
essa ben può mancare anche nei casi in cui
per le singole opere facenti parte della
lottizzazione sia stato rilasciato il
permesso di costruire.
Secondo quanto già più volte affermato in
ambito giurisprudenziale (cfr. TAR Lazio, I,
09.10.2009, nn. 9859 e 9860; TAR
Puglia-Bari, III, 24.04.2008, n. 1017), la
stessa formulazione dell'art. 30 del D.P.R.
n. 380/01 consente di affermare che può
integrare un'ipotesi di lottizzazione
abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto
idonee a stravolgere l'assetto del
territorio preesistente, a realizzare un
nuovo insediamento abitativo e, quindi, in
ultima analisi, a determinare sia un
concreto ostacolo alla futura attività di
programmazione (che viene posta di fronte al
fatto compiuto), sia un carico urbanistico
che necessita di adeguamento degli standards.
Il concetto di "opere che comportino
trasformazione urbanistica od edilizia"
dei terreni deve essere dunque interpretato
in maniera "funzionale" alla ratio
della norma, il cui bene giuridico tutelato
è costituito dalla necessità di preservare
la potestà pianificatoria attribuita
all'amministrazione nonché l'effettivo
controllo del territorio da parte del
soggetto titolare della stessa funzione di
pianificazione (cioè il Comune), al fine di
garantire una ordinata pianificazione
urbanistica, un corretto uso del territorio
ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi
e dei correlativi standards compatibili con
le esigenze di finanza pubblica.
Da quanto detto consegue che la verifica
circa la conformità della trasformazione
realizzata e la sua rispondenza o meno alle
previsioni delle norme urbanistiche vigenti
deve essere effettuata con riferimento non
già alle singole opere in cui si è
compendiata la lottizzazione, eventualmente
anche regolarmente assentite (giacché tale
difformità è specificamente sanzionata dagli
artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì
alla complessiva trasformazione edilizia che
di quelle opere costituisce il frutto,
sicché essa ben può mancare anche nei casi
in cui per le singole opere facenti parte
della lottizzazione sia stato rilasciato il
permesso di costruire (così TAR Bari, III,
n. 1017/2008 cit.)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 19.04.2011 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione di opere
edilizie abusive.
In materia di abusi edilizi, l’ordine di
demolizione deve essere rivolto nei
confronti di chi abbia la disponibilità
dell’opera, indipendentemente dal fatto che
l’abbia concretamente realizzata, cosa che
potrebbe rilevare sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non ai fini della
legittimità dell’ordine di demolizione.
La demolizione degli abusi edilizi non
richiede alcuna specifica motivazione, che è
necessaria invece in casi di contrarie
determinazioni. L'ordine di demolizione di
una opera edilizia abusiva è quindi
sufficientemente motivato con l’affermazione
della accertata abusività dell'opera stessa.
Secondo un orientamento giurisprudenziale,
solo nel caso in cui, per il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso
e per il protrarsi della inerzia
dell'Amministrazione preposta alla
vigilanza, si sia ingenerata una posizione
di affidamento nel privato, si ravvisa un
onere di congrua motivazione dell’ordine di
demolizione dell’opera abusiva che, avuto
riguardo anche alla entità e alla tipologia
dell'abuso, indichi il pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello al
ripristino della legalità, idoneo a
giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato (1).
Dall'art. 14 della legge n. 47 del 1985 (il
quale prevede, per le opere abusive eseguite
su suoli del demanio o del patrimonio dello
Stato o di enti pubblici, che il Sindaco
ordini la demolizione, dandone comunicazione
all'ente proprietario del suolo) risulta con
chiarezza che la comunicazione all'ente
proprietario del suolo abbia una mera
funzione conoscitiva, per rendere edotto
l'ente delle vicende relative al bene di cui
esso ente è proprietario. In alcun modo si
può ritenere che tale comunicazione sia un
requisito di legittimità dell'ordine di
demolizione.
---------------
(1) V. tra le tante Cons. Stato, sez. IV,
06.06.2008, n. 2705; id., Sez. V, 29.05.2006
(sull’illegittimità dell’ordinanza di
demolizione senza motivazione sull’interesse
pubblico nel caso di opere abusive
realizzate da molto tempo e senza
accertamento della fattibilità della
demolizione senza pregiudizio della parte
conforme dell’immobile); TAR Lazio-Roma Sez.
I-quater, sentenza 26.01.2005 (sulla
necessità di motivazione sul pubblico
interesse nel caso di ordinanza di
demolizione adottata a distanza di molto
tempo dalla realizzazione dell’abuso
edilizio); TAR Piemonte, Sez. I, sentenza
20.04.2005 (sui casi in cui è necessaria una
motivazione sull’interesse pubblico per i
provvedimenti repressivi di abusi edilizi).
V. tuttavia in senso contrario TAR
Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza
08.11.2007 (sulla legittimità di un ordine
di demolizione di un manufatto abusivo
emesso a distanza di un lunghissimo lasso di
tempo dalla realizzazione, senza una
motivazione in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione) (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 12.04.2011 n. 2266 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI:
Illegittimità di un’ordinanza
contingibile ed urgente, con la quale si
ingiunge ad una ditta di provvedere per un
anno alla prosecuzione del servizio di
igiene urbana, nella parte in cui impone le
condizioni economiche del contratto di
appalto scaduto.
E’ illegittima una ordinanza sindacale
contingibile e urgente con la quale è stato
ingiunto ad una ditta di provvedere, per
circa un anno, alla prosecuzione della
gestione del servizio di igiene urbana,
nella parte in cui impone alla ditta stessa
di proseguire il servizio di raccolta e
smaltimento dei rifiuti alle stesse
condizioni economiche previste dal contratto
di appalto scaduto; tale ordinanza, infatti,
incide negativamente, al fuori da ogni
criterio di sinallagmaticità e senza
adeguati apprezzamenti istruttori, sulla
sfera economica della ditta interessata (V.
in arg. da ult., in senso analogo, Cons.
Stato, Sez. V, sentenza 31.03.2011 n. 1969
(Nella motivazione della sentenza in
rassegna si richiamano a conforto TAR
Lazio-Roma, sez. II, sent. 06.10.2001, n.
8173, confermata in appello dal Consiglio di
Stato con sentenza n. 6624/2002, nonché TAR
Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza n.
4316/2010) (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TAR
Sicilia-Catania, Sez. III,
sentenza 07.04.2011 n. 859 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Risarcimento dei danni richiesto
da un pedone che ha subito una caduta al
suolo per la presenza di una rampa per il
superamento di barriere architettoniche
posta al termine di un marciapiede.
Non può essere accolta la domanda di
risarcimento proposta da un pedone nei
confronti della P.A. per i danni subiti in
occasione di un caduta al suolo causata da
una rampa per il superamento di barriere
architettoniche poste al termine di un
marciapiede, nel caso in cui:
a) difetti una situazione di pericolo
occulto;
b) la pendenza della rampa, ancorché
superiore all’8%, non sia tale da
determinare una situazione di pericolo;
c) sussistano concrete condizioni di
visibilità;
d) il materiale di rivestimento della rampa
non sia scivoloso e sia caratterizzato da
bocciardatura (per tale intendendosi il tipo
di lavorazione superficiale degli elementi
lapidei che crea una superficie corrugata,
usata notoriamente per pavimentazioni
esterne grazie anche alle caratteristiche
antiscivolo di tale tipo di finitura); in
tal caso, infatti, deve ritenersi che
l’irregolarità della superficie calpestabile
non sia idonea ad assumere le
caratteristiche dell’imprevedibilità e
invisibilità (1) proprie dell’insidia
stradale.
---------------
(1) Cass. n. 11592/2010, Cass. n.
15884/2010.
Con la sentenza in rassegna, il Tribunale di
Brindisi, Sezione Distaccata di Fasano, ha
dato lealmente atto del fatto che, con
riguardo al referente normativo di cui
all’art. 2043 c.c., si fronteggiano due
orientamenti:
I) l’orientamento tradizionale in materia di
danni derivanti dall’utente di opere
pubbliche, tra cui, per quel che interessa
il caso in esame, le strade, è nel senso che
la responsabilità della PA sorga solo in
caso in cui il danno sia derivato da una
situazione di pericolo che presenta il
carattere dell’insidiosità, intesa come
situazione di pericolo imprevedibile,
invisibile ed inevitabile. L’onere di
provare l’insidia è stato tradizionalmente
posto a carico del danneggiato (cfr. Cass.
9915/1998, Cass. 9599/1998, Cass. 6807/2002,
Cass. 15224/2005 e Cass. 25140/2006);
II) nel senso che invece l’insidia sia fuori
dallo schema dell’illecito aquiliano e che
non debba essere provata dal danneggiato si
pone invece un orientamento minoritario
difforme espresso in Cass. n. 5445/2006,
peraltro contraddetto dalla successiva
pronuncia n. 25140/2006.
Il Tribunale ha finito con l’aderire
all’orientamento tradizionale secondo cui in
caso di danni derivanti dall’uso di beni del
demanio stradale la responsabilità della
P.A. vada affermata nel caso in cui gli
stessi si siano prodotti in conseguenza di
una situazione di pericolo occulto, e cioè a
seguito di insidia, che il danneggiato dovrà
provare, non superabile con l’ordinaria
diligenza e prudenza esigibili in capo ad un
utente medio (massima tratta da
www.regione.piemonte.it - TRIBUNALE di
Brindisi, Sez. distaccata di Fasano,
sentenza 07.04.2011 n. 38). |
EDILIZIA PRIVATA: Ove
un titolo edilizio sia stato ottenuto sulla
base di una non fedele rappresentazione
della realtà dei luoghi negli elaborati
progettuali prodotti a corredo dell'istanza
di rilascio del titolo e tale circostanza
sia puntualmente e correttamente
evidenziata, l'amministrazione può procedere
all'annullamento d'ufficio senza esternare
alcuna particolare ragione di pubblico
interesse e senza tenere conto
dell'affidamento ingeneratosi nel privato,
non potendo quest'ultimo fondare alcun
legittimo affidamento in ordine alla
persistenza di un titolo ottenuto attraverso
l'induzione in errore dell'ente pubblico.
Per una consolidata giurisprudenza, ove un
titolo edilizio sia stato ottenuto sulla
base di una non fedele rappresentazione
della realtà dei luoghi negli elaborati
progettuali prodotti a corredo dell'istanza
di rilascio del titolo e tale circostanza
sia puntualmente e correttamente
evidenziata, l'amministrazione può procedere
all'annullamento d'ufficio senza esternare
alcuna particolare ragione di pubblico
interesse e senza tenere conto
dell'affidamento ingeneratosi nel privato,
non potendo quest'ultimo fondare alcun
legittimo affidamento in ordine alla
persistenza di un titolo ottenuto attraverso
l'induzione in errore dell'ente pubblico
(Cons. di St., V, 29.09.1999, n. 1213; TAR
Calabria, II, 05.02.2008, n. 140; TAR
Lombardia-Brescia, 20.11.2002, n. 1881; TAR
Abruzzo, 09.06.2001, n. 397)
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 02.04.2011 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: La
nozione di “area boscata” va riferita non
soltanto ai terreni completamente coperti da
boschi o foreste, ma, per identità di ratio,
anche a tutte le aree che siano
concretamente inserite in un contesto
forestale.
Secondo la costante giurisprudenza
amministrativa, la nozione di “area
boscata” va riferita non soltanto ai
terreni completamente coperti da boschi o
foreste, ma, per identità di ratio,
anche a tutte le aree che siano
concretamente inserite in un contesto
forestale (TAR Piemonte Torino, sez. I,
30.10.2008, n. 2723; TAR Piemonte Torino,
sez. I, 10.03.2007, n. 1174)
(TAR Umbria,
sentenza 31.03.2011 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di annullamento delle autorizzazioni
paesaggistiche attribuito al Mi.B.A.C.
dall’art. 159 del codice dei beni culturali
si estrinseca in un controllo di legittimità
sull’operato dell’Amministrazione delegata
(o subdelegata) autorizzante, che si estende
a tutti i vizi di legittimità, incluso
l’eccesso di potere.
Il potere di annullamento in sede statale
dell’autorizzazione paesaggistica non
comporta il riesame delle valutazioni
discrezionali compiute dall’Amministrazione
comunale, ma si esprime in un controllo di
mera legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all’eccesso di potere per
difetto di motivazione o di istruttoria.
Nell’emettere l’autorizzazione paesaggistica
l’Amministrazione locale deve motivare
adeguatamente in ordine alla compatibilità
dell’opera assentita con il vincolo
paesaggistico, sussistendo altrimenti
l’illegittimità per carenza di motivazione o
di istruttoria.
---------------
La relazione paesaggistica di cui al
d.P.C.M. 12.12.2005 costituisce documento
necessario per la verifica della
compatibilità paesaggistica dell’intervento
proposto, o, per meglio dire, «la base di
riferimento essenziale per le valutazioni
previste dall’art. 146, comma 5, del codice»
dei beni culturali (così art. 2 del d.P.C.M.
da ultimo indicato).
La sua assenza risulta preclusiva al
rilascio dell’autorizzazione paesaggistica,
ma anche del controllo ministeriale di
legittimità, con la conseguenza della
imprescindibilità della sua acquisizione,
senza che ciò determini elusione del termine
perentorio.
Secondo il prevalente indirizzo
giurisprudenziale, il potere di annullamento
delle autorizzazioni paesaggistiche
attribuito al Mi.B.A.C. dall’art. 159 del
codice dei beni culturali si estrinseca in
un controllo di legittimità sull’operato
dell’Amministrazione delegata (o
subdelegata) autorizzante, che si estende a
tutti i vizi di legittimità, incluso
l’eccesso di potere (per tutte Cons. Stato,
Ad. Plen., 14.12.2001, n. 9).
Costituisce
dato ormai consolidato quello per cui il
potere di annullamento in sede statale
dell’autorizzazione paesaggistica non
comporta il riesame delle valutazioni
discrezionali compiute dall’Amministrazione
comunale, ma si esprime in un controllo di
mera legittimità, esteso a tutte le ipotesi
riconducibili all’eccesso di potere per
difetto di motivazione o di istruttoria (in
termini Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2009, n.
3557).
Occorre peraltro considerare che
nell’emettere l’autorizzazione paesaggistica
l’Amministrazione locale deve motivare
adeguatamente in ordine alla compatibilità
dell’opera assentita con il vincolo
paesaggistico, sussistendo altrimenti
l’illegittimità, come nel caso in esame, per
carenza di motivazione o di istruttoria;
conseguentemente, l’Autorità statale, ove
ravvisi un tale vizio nell’atto oggetto del
suo controllo, nel proprio provvedimento,
onde evitare di incorrere, a sua volta, in
un vizio di legittimità, è tenuta a motivare
sulla non compatibilità dell’intervento
edilizio programmato rispetto ai valori
paesaggistici compendiati nel vincolo (così
Cons. Stato, Sez. VI, 13.02.2009, n. 772;
Sez. VI, 09.03.2011, n. 1483).
---------------
La relazione paesaggistica di cui al
d.P.C.M. 12.12.2005 costituisce documento
necessario per la verifica della
compatibilità paesaggistica dell’intervento
proposto, o, per meglio dire, «la base di
riferimento essenziale per le valutazioni
previste dall’art. 146, comma 5, del codice»
dei beni culturali (così art. 2 del d.P.C.M.
da ultimo indicato).
La sua assenza risultava dunque preclusiva
al rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, ma anche del controllo
ministeriale di legittimità, con la
conseguenza della imprescindibilità della
sua acquisizione, senza che ciò determini
elusione del termine perentorio.
D’altronde, la stessa società ricorrente
riconosce che l’autorizzazione, in assenza
di tale documentazione, impropriamente
definita integrativa, avrebbe potuto/dovuto
essere annullata (per difetto di
istruttoria); si intende peraltro che la
Soprintendenza solamente a posteriori, e
cioè a seguito della mancata ottemperanza
alla propria richiesta istruttoria, ha avuto
contezza dell’assenza di un documento
necessario (e non, dunque, ulteriore
rispetto a quelli posti alla base
dell’autorizzazione), sì che l’annullamento,
anche sotto questo profilo, non può
considerarsi illegittimo.
Il provvedimento annulla l’autorizzazione
paesaggistica ritenendola illegittima per
violazione dell’art. 3 della legge n. 241
del 1990, in quanto, in mancanza delle
necessarie valutazioni tecnico-giuridiche
giustificative dell’emanazione del parere
favorevole dell’intervento (ed in
particolare in assenza della relazione
paesaggistica), ha affermato, in modo
apodittico, che l’esecuzione del lavoro
progettato è inidonea ad alterare la zona
protetta.
Si desume, ancora, dal corredo motivazionale
del provvedimento di annullamento che il
suindicato profilo di illegittimità non è
stato superato neppure dalla presentazione
ex post della relazione
paesaggistica, che «non permette di
valutare compiutamente l’interazione dei
manufatti con l’intorno tutelato e il
rapporto che intercorre tra gli elementi
progettati ed il contesto paesaggistico
anche con riferimento alla intervisibilità
dell’impianto e delle zone tutelate».
In altri termini, l’annullamento
dell’autorizzazione paesaggistica è stato
disposto in quanto il difetto di motivazione
e di istruttoria rilevati non sono stati
superati neppure dall’acquisizione postuma
della relazione paesaggistica del novembre
2008.
Il descritto impianto motivazionale del
provvedimento di annullamento non risulta
dunque affetto da un’intrinseca
contraddittorietà, che si ha solamente in
presenza di manifestazioni di volontà che si
pongono in contrasto tra loro (Cons. Stato,
Sez. V, 31.12.2007, n. 6800; TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 04.02.2010, n. 566)
(TAR Umbria,
sentenza 28.03.2011 n. 93 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Antisindacali le clausole di
stile nell’atto di nomina di posizioni
organizzative.
Il Giudice del
Lavoro di Verbania torna a pronunciarsi in
materia di condotta antisindacale e lo fa
con un Decreto che fornisce ulteriori spunti
di riflessione.
Dopo avere premesso che l’art. 28 della L.
300/1970 non vincola al rispetto di
particolari forme e, conseguentemente, una
notifica seppure tardiva rispetto al termine
indicato dal Giudice ma che salvaguardi il
diritto di difesa della parte convenuta non
inficia la legittimazione del ricorrente in
udienza, taccia di condotta antisindacale il
mancato rispetto di criteri individuati in
sede di concertazione.
Pur avendo premesso che, nel corso degli
incontri, non di vera concertazione si sia
trattato atteso essere rimasti inespressi i
criteri generali relativi alla specifica
materia in cui si sostanzia l’istituto, la
vera forza innovativa del Decreto sta nel
fatto di considerare antisindacale non solo
la mancata fase concertativa, ma anche
l’assoluta assenza di motivazione negli atti
di conferimento.
Il Giudicante ha infatti ritenuto che le
clausole apposte quali motivazioni per
l’affidamento di ogni singolo incarico
fossero del tutto prive di significato
concreto, palesandosi in mere clausole di
stile senza una preventiva e attenta
valutazione che invece avrebbe dovuto
seguire ogni singolo conferimento.
A ben vedere, essendo la norma di cui
all’art. 28 lasciata volutamente
indeterminata dal Legislatore onde
ricomprendervi non solo i casi di violazione
di norme sulle relazioni sindacali, ma anche
ogni comportamento atto a screditare
l’immagine del sindacato, la pronunzia del
Giudice deve essere accolta con particolare
favore: diversamente, infatti, se esaurita
la fase della concertazione quando
concordemente determinato fosse del tutto
disatteso, sarebbe immotivatamente colpita
proprio l’immagine del sindacato.
Ipotesi che la norma ha voluto invece
evitare
(TRIBUNALE di Verbania,
decreto 18.02.2011 - commento
tratto e link a www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
contributo di costruzione è il corrispettivo
del diritto di costruire e quando il diritto
di costruire non è esercitato viene meno il
titolo in forza del quale il Comune ha
incassato il contributo di costruzione.
Questo principio vale anche quando il titolo
edilizio è stato utilizzato soltanto in
parte, nel qual caso esso viene meno pro
quota.
---------------
Nel caso di restituzione del contributo
di concessione, quando il diritto a
costruire non è esercitato (in tutto o in
parte), gli interessi legali devono essere
riconosciuti, con decorrenza dal momento in
cui il credito è liquido ed esigibile.
Il contributo di costruzione è il
corrispettivo del diritto di costruire e
quando il diritto di costruire non è
esercitato viene meno il titolo in forza del
quale il Comune ha incassato il contributo
di costruzione.
Questo principio vale anche quando il titolo
edilizio è stato utilizzato soltanto in
parte, nel qual caso esso viene meno pro
quota (Tar Lombardia, Milano, sez. II,
sentenza n. 728 del 24/03/2010: il
diritto alla restituzione sorge non
solamente nel caso in cui la mancata
realizzazione delle opere sia totale, ma
anche ove il permesso di costruire sia stato
utilizzato soltanto parzialmente, tenuto
conto che sia la quota degli oneri di
urbanizzazione che la quota relativa al
costo di costruzione sono correlati, sia
pure sotto profili differenti, all'oggetto
della costruzione. L'avvalimento solo
parziale delle facoltà edificatorie
consentite da un permesso di costruire
comporta dunque il sorgere, in capo al
titolare, del diritto alla rideterminazione
del contributo ed alla restituzione della
quota di esso che è stata calcolata con
riferimento alla porzione non realizzata).
---------------
Gli interessi
legali devono essere riconosciuti. Si versa,
infatti, in presenza di interessi
corrispettivi (art. 1282 c.c.), che sono
fondati sulla naturale fecondità del denaro,
e che prescindono pertanto da profili di
colpa, che rileverebbero in presenza di
interessi con funzione risarcitoria quali
quelli moratori (art. 1224 c.c.).
Quanto alla loro decorrenza, la norma
generale dell’art. 1282 c.c. prevede che gli
interessi decorrano dal momento in cui il
credito è liquido ed esigibile. In base alla
teoria generale, credito esigibile è quello
che non è sottoposto a condizione sospensiva
o termine in favore del debitore; credito
liquido è quello il cui ammontare è certo o
accertabile mediante operazioni di mero
conteggio aritmetico.
Nel caso in esame, posto che non vi possono
essere questioni sulla esigibilità del
credito, non ve ne sono neanche sulla
liquidità dello stesso, in quanto la
determinazione del credito degli oneri di
urbanizzazione è frutto di un mero calcolo
aritmetico fondato sull’applicazione dei
criteri predeterminati previsti dalla legge.
Ne consegue che il credito in esame era
liquido fin dalla data in cui è sorto.
---------------
E’ vero che il credito di restituzione del
contributo di costruzione pagato in misura
maggiorata non è un credito di valore, ma un
credito di valuta in cui la rivalutazione è
possibile soltanto se si prova il maggior
danno ex art. 1224 co. 2 c.c., qui del tutto
pretermesso dall’esposizione dei ricorrenti.
Ma è anche vero che Cass. civ., sezioni
unite, sentenza 18.07.2008 n. 19499, ha
sostenuto che nelle obbligazioni pecuniarie,
in difetto di discipline particolari dettate
da norme speciali, il maggior danno di cui
all'art. 1224 c.c., comma 2, rispetto a
quello già coperto dagli interessi moratori
è, in via generale, riconoscibile in via
presuntiva, per qualunque creditore che ne
domandi il risarcimento, nella eventuale
differenza, a decorrere dalla data di
insorgenza della mora, tra il tasso del
rendimento medio annuo netto dei titoli di
Stato di durata non superiore a dodici mesi
ed il saggio degli interessi legali
determinato per ogni anno ai sensi dell'art.
1284 c.c., comma 1, salva la possibilità per
il debitore di provare che il creditore non
ha subito un maggior danno o che lo ha
subito in misura inferiore e per il
creditore di provare il maggior danno
effettivamente subito.
Nel caso in esame, in cui nessuna delle
parti in causa si è preoccupata di provare
alcunché sulla esistenza o meno di un
maggior danno va applicato pertanto il
criterio presuntivo appena citato.
Per escludere la rivalutazione automatica
non è sufficiente affermare (come aveva
fatto in passato Tar Marche 296/2004) che si
tratterebbe di indebito oggettivo, ai sensi
dell'art. 2033 c.c., in quanto anche
l’indebito oggettivo non è altro che “una
obbligazione pecuniaria di fonte legale
(art. 2033 c.c.) assoggettata alla
disciplina propria di tali obbligazioni, in
particolare alla disposizione dell'art. 1224
c.c. in tema di interessi moratori e
risarcimento del maggior danno per il
ritardo nell'adempimento” (Cass. civ,
sez. lav., 4833/2009).
Dalle somme dovute a titolo di rivalutazione
monetaria va defalcata la somma percepita a
titolo di interessi legali, in quanto –non
trattandosi di credito di lavoro– non è
consentito il cumulo tra interessi e
rivalutazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 31.01.2011 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Giustizia amministrativa
- Ricorso giurisdizionale - Interesse a
ricorrere - Progettista - interesse
legittimo differenziato - Non sussiste -
Intervento ad adiuvandum - Possibilità.
E' esclusa in capo al progettista la
titolarità di un interesse legittimo
differenziato che gli consenta
l'impugnazione di provvedimenti relativi ad
interventi edilizi, potendo semmai il
progettista stesso proporre intervento "ad
adiuvandum" nel giudizio promosso dal
committente proprietario (cfr. TAR Toscana,
sent. n. 986/2009; TAR Liguria, sent. n.
251/2006; TAR Piemonte, sent. n. 924/2003 e
Cons. di Stato, sent. n. 1250/2001) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 28.01.2011 n.
265 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione in sanatoria
- Silenzio-assenso - Perfezionamento -
Presupposti.
Ai sensi del combinato disposto dell'art.
32, comma 37, D.L. 269/2003 e dell'art. 4,
comma 4, L.R. 31/2004, per la formazione del
silenzio assenso ai fini del condono del
2003 risultano necessari sia la
presentazione della relativa documentazione
completa sia il versamento integrale -e non
solo in acconto- degli oneri di
urbanizzazione (cfr. TAR Milano, sent. n.
1550/2010) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.01.2011 n.
263 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Giudizio di
compatibilità paesaggistica - Natura - E'
espressione di potere tecnico-discrezionale
- Sindacabilità in sede di legittimità -
Limiti.
La valutazione di compatibilità
paesaggistica di un progetto rappresenta
manifestazione della discrezionalità della
P.A., la quale è censurabile solo in caso di
valutazioni manifestamente illogiche o
irrazionali (cfr. TAR Milano, sent. n.
3265/2010) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 28.01.2011 n.
262 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Opere abusive - Lieve
entità dell'abuso - In caso di interventi di
manutenzione straordinaria e lungo trascorso
del tempo - Ordinanza di demolizione -
Illegittimità.
2. Opere abusive - In caso di annullamento
di ordinanza di demolizione illegittima -
Possibilità di irrogazione di altre sanzioni
- Sussiste.
1. A fronte di un lungo tempo trascorso
dall'effettuazione di un abusivo intervento
di manutenzione straordinaria, è illegittimo
il relativo ordine di demolizione qualora la
P.A. non abbia adeguatamente provato le
ragioni di interesse pubblico che impongono,
a distanza di tempo, la rimozione di un
abuso considerabile di lieve entità -nel
caso di specie, realizzazione di vano con
servizi igienici- (cfr. TAR Toscana, sent.
n. 6644/2010).
2. L'annullamento del provvedimento di
demolizione non preclude al Comune
l'irrogazione di altre e meno afflittive
sanzioni né la valutazione sull'eventuale
corresponsione del contributo di costruzione
o degli oneri di urbanizzazione a fronte
dell'intervento effettuato (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 28.01.2011 n.
261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione
edilizia e ristrutturazione con ampliamento
- Differenze - Art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E. e art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E.
Nel caso di abusi edilizi realizzati con
ampliamento della costruzione originaria non
è esclusa ipso facto la ricorrenza di una
ristrutturazione: infatti, il concetto di
ristrutturazione edilizia postula la
conservazione di sagoma e volumi
dell'edificio originario solo nella
fattispecie della demolizione e
ricostruzione ex art. 3, comma 1, lett. d),
T.U.E.; mentre la ristrutturazione con
ampliamento (senza previa demolizione) è
espressamente prevista dall'art. 10, primo
comma, lett. c), T.U.E., il quale subordina
a permesso di costruire gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un
organismo edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino
aumento di unità immobiliari, modifiche di
volume, sagoma, prospetti o superfici,
ovvero che, limitatamente agli immobili
compresi nelle zone omogenee A, comportino
mutamenti della destinazione d'uso (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 28.01.2011 n.
260 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piano di lottizzazione
in variante - Pluralità di pubblicazioni
imposte dalla legge - Impugnazione - Termine
- Decorre dalla scadenza del termine
dell'ultima pubblicazione.
Dal momento che per la deliberazione di
approvazione di un Piano di lottizzazione in
variante al PRG sono previste dalla legge
una pluralità di forme di pubblicazione -non
solo all'albo pretorio del Comune, ma anche
sul Bollettino Ufficiale della Regione
Lombardia, stante il combinato disposto
della legge regionale 23/1997 e degli
articoli 25, 14 comma 5 e 13, comma 11, L.R.
12/2005- il termine di sessanta giorni per
l'impugnazione decorre dalla scadenza
dell'ultima pubblicazione, vale a dire
quella sul BURL, come desumibile dall'art.
41, comma 2, D.Lgs. 104/2010, codice del
processo amministrativo (cfr. TAR Milano,
sent. n. 187/2010 e n. 2660/2010) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 26.01.2011 n.
230 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Piano attuativo
prescritto dallo strumento urbanistico
generale - Principio di indefettibilità del
piano attuativo - Possibilità di
equipollenti del piano ai fini del rilascio
della concessione edilizia - Non sussiste.
2. Piano attuativo prescritto dallo
strumento urbanistico generale - Principio
di indefettibilità del piano attuativo -
Eccezione - Lotto intercluso.
3. Piano attuativo prescritto dallo
strumento urbanistico generale - Principio
di indefettibilità del piano attuativo -
Portata.
1.
Ai sensi dell'art. 9, comma 2, D.P.R. n.
380/2001, il principio dell'indefettibilità
del piano attuativo, quando esso sia
prescritto dallo strumento urbanistico
generale, non ammette equipollenti ai fini
del rilascio della concessione edilizia, nel
senso che né in sede amministrativa né in
sede giurisdizionale possono essere
effettuate indagini volte a verificare se
sia tecnicamente possibile realizzare
costruzioni vanificando la funzione del
piano attuativo, la cui approvazione può
essere stimolata dall'interessato con gli
strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons.
di Stato, sent. n. 6625/2008).
2.
Al principio di indefettibilità del piano
attuativo, che vale sia per le zone non
urbanizzate sia per quelle parzialmente
urbanizzate, fa eccezione il solo caso
limite del c.d. lotto intercluso, per il
quale il piano attuativo non occorre laddove
la zona sia già compiutamente urbanizzata,
fattispecie che si verifica qualora siano
presenti sia le urbanizzazioni primarie, sia
le secondarie e non nelle sole aree di
contorno dell'edificio in progetto, ma in
tutto l'ambito territoriale di riferimento,
che coincide col perimetro del comprensorio
che deve essere pianificato dagli strumenti
attuativi (cfr. Cons. Stato sent. n.
6625/2008, sent. n. 7799/2003).
3.
Al di fuori dell'ipotesi di lotto intercluso
-in cui, più che superfluo, sarebbe
addirittura privo di oggetto- il piano
attuativo conserva integra la propria
utilità funzionale, sia in casi di
edificazione disomogenea in zone già
compromesse da fenomeni di urbanizzazione
spontanea e incontrollata che richiedano un
riordino generale, sia, a maggior ragione,
in zona ancora "vergine", che
richieda un disegno urbanistico efficiente e
razionale (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
5721/2001; sent. n. 2874/2000) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 26.01.2011 n.
228 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.I.A. - Sindacato
giurisdizionale - Sindacato per
l'accertamento dell'illegittimità della
D.I.A. - E' legittimo - Sindacato per
l'annullamento del titolo abilitativo
formatosi sulla D.I.A. - E' legittimo.
E' legittimo un sindacato giurisdizionale
diretto sulla D.I.A., sia qualora esso
risulti finalizzato ad accertarne
l'illegittimità (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 2139/2010) sia qualora esso risulti volto
ad annullare il titolo abilitativo tacito o
implicito formatosi su di essa (Cons. Stato,
sent. n. 72/2010, sent. n. 1409/2007) - il
Collegio ha peraltro evidenziato che nella
fattispecie de qua tale problematica non
avesse comunque ragione di porsi avendo il
ricorrente contestualmente impugnato l'atto
amministrativo che attestava la legittimità
della DIA (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 26.01.2011 n.
227 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Procedimento
amministrativo - Istanza di accesso agli
atti - Caratteri - Oggetto determinato o
determinabile - Specifica indicazione di
atti o documenti - Necessità - Sussiste.
Atteso che l'istituto dell'accesso agli atti
e documenti amministrativi non può tradursi
in un surrettizio strumento di controllo
generalizzato dell'operato
dell'Amministrazione, né assumere il
carattere di un'indagine o di un controllo
ispettivo (riservato esclusivamente ai
preposti organi pubblici), l'istanza di
accesso presentata dal privato deve avere un
oggetto determinato o quanto meno
determinabile e, pertanto, deve riferirsi a
specifici documenti, senza che si renda
necessaria un'attività di elaborazione dei
dati da parte del soggetto destinatario
della richiesta (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.01.2011 n.
226 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: Giunta
comunale - Revoca di un Assessore comunale -
Valutazioni di opportunità politica -
Legittimità - Obbligo di specificare i
comportamenti addebitati - Non Sussiste.
L'atto di revoca dell'incarico di Assessore
comunale può sorreggersi sulle più ampie
valutazioni di opportunità
politico-amministrativa rimesse in via
esclusiva al Sindaco (ad esempio la
salvaguardia del proficuo rapporto tra la
Giunta e il Consiglio comunale), il quale
può valorizzare sia esigenze di carattere
generale, sia l'affievolirsi del rapporto
fiduciario con l'Assessore, senza che
occorra specificare i singoli comportamenti
addebitati all'interessato (cfr. TAR
Lombardia, Milano, sez. II, 20.12.2010, n. 7599, TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 28.10.2010, n. 4466, Cons. Stato,
sez. V, 27.04.2010, n. 2357)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.01.2011 n.
224 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Convenzione di
lottizzazione - Natura - Accordo sostitutivo
del provvedimento - Possibilità della P.A.
di sciogliersi dall'accordo per sopravvenuti
motivi di pubblico interesse e di regolare
unilateralmente rapporti ed attività oggetto
della convenzione - Sussiste.
Dal momento che la convenzione di
lottizzazione ha natura di accordo
sostitutivo del provvedimento, ciò autorizza
la P.A., nell'esercizio della facoltà
accordatale dall'art. 11, comma 4, Legge
241/1990, a sciogliersi dall'accordo per
sopravvenuti motivi di pubblico interesse e
di regolare unilateralmente ed
autoritativamente i rapporti e le attività
oggetto della convenzione (cfr. TAR Milano,
sent. n. 6519/2007) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.01.2011 n.
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APPALTI: Procedura di verifica
dell'offerta anomala - Richiesta di
giustificazioni e convocazione
dell'offerente - Necessità del preavviso di
tre giorni prima della convocazione -
Principio di effettività del contraddittorio
- Necessità del coinvolgimento del
concorrente alla verifica delle dinamiche
procedimentali.
Il procedimento di verifica dell'anomalia
trova compiuta disciplina nell'art. 88 del
D.Lgs. n. 163/2006 che, al comma 1,
prescrive che la Stazione appaltante, in
relazione agli aspetti criticamente
rilevati, procede con richiesta di
giustificazioni scritte, reiterando la
richiesta, ai sensi del successivo comma 1-bis "ove non le ritenga sufficienti ad
escludere l'incongruità dell'offerta".
In
ogni caso, ai sensi del comma 4 della
medesima norma, "prima di escludere
l'offerta ritenuta eccessivamente bassa, la
stazione appaltante convoca l'offerente con
anticipo non inferiore a tre giorni
lavorativi e lo invita a indicare ogni
elemento che ritenga utile". Nella
fattispecie concreta la descritta scansione
procedimentale non trova riscontro
nell'operato della stazione appaltante, che
ha assunto a presupposto del provvedimento
di revoca profili del tutto estranei al
contraddittorio scritto, omettendo quello
orale con grave lesione del diritto alla
difesa della ricorrente.
Come ripetutamente
affermato in giurisprudenza, il principio di
effettività del contraddittorio impone
all'opposto un pieno coinvolgimento
dell'impresa assoggettata a verifica nelle
dinamiche procedimentali caratterizzanti
tale delicata fase affinché, in vista della
difesa delle proprie posizioni, abbia piena
consapevolezza di tutti gli elementi critici
rilevati e dei parametri di raffronto che
l'organo preposto intende utilizzare
nell'esercizio del proprio sindacato (ex multis, TAR Piemonte, Sez. I, 19.04.2010, n. 1951)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.01.2011 n.
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EDILIZIA PRIVATA:
1. Condono edilizio -
Oneri di concessione - Obbligo di
determinazione degli oneri con esclusivo
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria - Non sussiste - Ratio.
2. Oblazione e oneri concessori -
Controversie in tema di corretta
quantificazione - Attengono a diritti
soggettivi delle parti - Configurabilità del
vizio di difetto di motivazione - Non
sussiste - Configurabilità del vizio di
violazione di legge - Sussiste - Ratio.
1.
In materia di condono edilizio ed oneri
concessori, relativamente alle relative
normative succedutesi nel tempo -art. 32,
D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art.
37, L. 47/1985- non è ravvisabile un
orientamento interpretativo consolidato da
cui possa ricavarsi un unico principio
fondamentale della legislazione statale,
secondo cui gli oneri di concessione debbano
essere determinati esclusivamente con
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria: infatti, gli oneri di concessione
potrebbero essere ancorati alle tariffe
vigenti, alternativamente, al momento in cui
l'abuso è iniziato, al momento in cui
l'immobile abusivo è completato, al momento
dell'entrata in vigore della normativa
statale sul condono, al momento dell'entrata
in vigore della normativa regionale sul
condono, al momento in cui è stata
effettuata la richiesta di condono o,
infine, al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria.
2.
Le controversie relative all'an ed al
quantum delle somme dovute a titolo
di oblazione e di oneri concessori,
riservate dalla legge alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo,
riguardano diritti soggettivi delle parti,
rispetto alle quali non è configurabile il
vizio di difetto di motivazione: ciò, dal
momento che le operazioni di corretta
quantificazione dell'oblazione e degli atti
concessori si esauriscono in una mera
operazione materiale che, se errata, può
comportare soltanto la violazione dei
criteri fissati dalla normativa ovvero dalla
P.A. con norme di natura regolamentare e,
quindi, la sussistenza del solo vizio di
violazione di legge, potendo l'interessato,
sulla base dei predetti criteri generali,
contestare l'erroneità della quantificazione
operata dall'amministrazione, evidenziando
ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero
dei presupposti di fatto o di diritto (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 4217/2000) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
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EDILIZIA PRIVATA:
1. Accertamento di
conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 -
Necessità del presupposto della c.d. doppia
conformità - Motivazione in merito alla
sussistenza di ragioni di interesse pubblico
- Non necessita.
2. Misure repressive - Vetustà dell'opera -
Esclusione del potere di controllo e
sanzionatorio della P.A. - Inconfigurabilità.
3. Ordinanza di demolizione di opere abusive
- Natura - E' atto vincolato che non
richiede una motivazione diversa
dall'accertamento dell'abuso.
1.
Nell'esercizio del potere di accertare la
conformità o meno di un'opera abusiva, ai
sensi dell'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, la
P.A. è unicamente chiamata a verificare il
requisito della doppia conformità -e cioè
che l'opera abusiva sia conforme non solo
allo strumento urbanistico esistente al
momento della domanda di sanatoria, ma anche
a quello vigente al momento della
realizzazione dell'opera- e non deve affatto
motivare in merito alla sussistenza di
ragioni di interesse pubblico.
2.
La vetustà dell'opera non esclude il potere
di controllo e il potere sanzionatorio del
Comune in materia urbanistico-edilizia, dal
momento che l'esercizio di tale potere non è
soggetto a prescrizione o decadenza: ne
consegue che l'accertamento dell'illecito
amministrativo e l'applicazione della
relativa sanzione può intervenire anche a
notevole distanza di tempo dalla commissione
dell'abuso, senza che il ritardo
nell'adozione della sanzione comporti
sanatoria o il sorgere di affidamenti o
situazioni consolidate (cfr. TAR Milano,
sent. n. 2045/2008).
3.
I provvedimenti di repressione degli abusi
edilizi, in quanto atti vincolati, sono
sufficientemente motivati con l'affermazione
dell'accertata irregolarità dell'intervento,
essendo in re ipsa l'interesse
pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se
risalente nel tempo- senza necessità di una
motivazione su puntuali ragioni di interesse
pubblico e di una specifica comparazione con
gli interessi privati coinvolti (T.A.R.
Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318, sent.
n. 702/2008) (massima tratta da www.solom.it
- TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
96 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Abuso edilizio -
Onere della prova - A carico dell'autore -
Sussiste - Ratio.
2. Abuso edilizio - Potere di repressione
degli abusi edilizi - In presenza di
procedimento volto ad attestare l'agibilità
- E' esercitabile - Ratio.
1.
Spetta al privato l'onere della prova della
data di realizzazione dell'abuso -in quanto
la P.A. non può, in genere, materialmente
accertare quale fosse la situazione
dell'intero suo territorio alla data
prevista dalla legge, mentre il privato è
normalmente in grado di esibire idonea
documentazione comprovante l'ultimazione
dell'abuso- anche al di fuori delle ipotesi
in cui tale elemento fattuale rilevi ai fini
del condono (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
8298/2010; TAR Milano, sent. n. 4986/2009,
sent. n. 980/2005).
2.
Il procedimento volto ad attestare
l'agibilità di un immobile non interferisce
con l'esercizio del potere di repressione
degli abusi edilizi; né il rilascio del
certificato di agibilità è sintomo di
contraddittorietà della sanzione irrogata:
infatti, i due procedimenti hanno un
differente oggetto e, se, da un lato, il
secondo è volto a sanzionare l'attività
urbanistico-edilizia laddove non sia stata
realizzata in rispondenza alle norme di
legge e di regolamento, alle prescrizioni
degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi, il
primo è, invece, finalizzato unicamente ad
attestare la sussistenza delle condizioni di
sicurezza, igiene, salubrità, risparmio
energetico degli edifici e degli impianti
negli stessi installati (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
94 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Varianti al P.R.G. -
Procedimenti di varianti ex art. 2, comma 2,
lett. c), L.R. n. 23/1997 - Finalità -
Adeguamento delle previsioni urbanistiche
all'effettivo stato dei luoghi - Limiti.
2. Varianti al P.R.G. - Procedimenti di
varianti ex art. 2, comma 2, lett. f), L.R.
n. 23/1997 - Finalità - Assicurazione di un
migliore assetto urbanistico nell'ambito
dell'intervento o modificazione della
tipologia dello strumento urbanistico
attuativo - Interpretazione estensiva -
Inammissibilità.
1.
L'art. 2, comma 2, lett. c), L.R. 23/1997,
che contempla la fattispecie delle varianti
atte ad apportare agli strumenti urbanistici
generali -sulla scorta di rilevazioni
cartografiche aggiornate, dell'effettiva
situazione fisica e morfologica dei luoghi,
delle risultanze catastali e delle
confinanze- le modificazioni necessarie a
conseguire la realizzabilità delle
previsioni urbanistiche anche mediante
rettifiche delle delimitazioni tra zone
omogenee diverse, si riferisce
esclusivamente a varianti che apportino
modifiche e correzioni al P.R.G. al fine di
adeguare le previsioni urbanistiche
all'effettivo stato dei luoghi: tale non è
la variante che miri ad introdurre una
differente disciplina giuridica nella
edificazione in una determinata area
-prevedendo l'obbligo della previa adozione
dello strumento urbanistico attuativo- e non
certo a modificare il P.R.G. a seguito della
corretta rappresentazione dello stato di
fatto.
2.
La previsione di cui all'art. 2, comma 2,
lett. f), L.R. n. 23/1997, avente ad oggetto
varianti che comportino modificazioni dei
perimetri degli ambiti territoriali
subordinati a piani attuativi, finalizzate
ad assicurare un migliore assetto
urbanistico nell'ambito dell'intervento
ovvero a modificare la tipologia dello
strumento urbanistico attuativo, non è
interpretabile estensivamente -
riconducendovi anche varianti che
subordinano ex novo l'edificazione in
una determinata area all'obbligo della
previa adozione di uno strumento urbanistico
attuativo - poiché lo scopo di tale norma è
l'ammettere il ricorso alla procedura
semplificata solo in via eccezionale, come
dimostra la specifica elencazione dei casi
ammessi contenente, altresì, la puntuale
indicazione in ordine al contenuto delle
singole previsioni (cfr. TAR Milano, sent.
n. 768/2004, n. 5515/2004) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
92 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
1. Art. 10-bis, Legge 241/1990 - Rigetto
dell'istanza del privato - Puntuale ed
analitica confutazione delle osservazioni
presentate dal privato a seguito della
ricezione della comunicazione dei motivi
ostativi - Necessità - Non sussiste.
2. Provvedimento amministrativo -
Impugnazione - Pluralità di motivi del
provvedimento - Legittimità di uno solo dei
motivi - Annullabilità del provvedimento -
Non sussiste.
1.
Ai sensi dell'art. 10-bis, Legge 241/1990
non si impone alla P.A. una puntuale ed
analitica confutazione delle osservazioni
presentate dalla parte privata a seguito
della ricezione della comunicazione dei
motivi ostativi all'accoglimento
dell'istanza, essendo sufficiente ai fini
della giustificazione del provvedimento
adottato la motivazione complessivamente
resa a sostegno dell'atto stesso (cfr. TAR
Napoli, sent. n. 3072/2010; TAR Roma, sent.
n. 13300/2009; TAR Genova, sent. n.
543/2008).
2.
In presenza di un provvedimento sostenuto da
più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a
darne giustificazione, è sufficiente che sia
verificata la legittimità di uno di essi,
per escludere che l'atto possa essere
annullato in sede giurisdizionale (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR
Milano, sent. n. 2210/2010, n. 22/2010, n.
13/2010) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
92 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Piani regolatori
generali - Mancata impugnazione della
delibera di approvazione - Inammissibilità o
improcedibilità del ricorso proposto contro
la delibera di adozione - Non sussiste.
2. Elaborazione preparatoria del piano
urbanistico - Idoneità a radicare uno
specifico affidamento riguardo alla
destinazione finale delle aree considerate -
Non sussiste - Ratio.
1.
L'omessa impugnazione della deliberazione
approvativa della variante di piano
regolatore generale non determina
preclusione all'ammissibilità o
all'improcedibilità del ricorso proposto
contro la delibera comunale di adozione, in
quanto l'eventuale annullamento di
quest'ultima esplica effetti automaticamente
caducanti, e non meramente vizianti, sul
successivo provvedimento di approvazione
nella parte in cui lo stesso conferma le
previsioni già contenute nel piano adottato
e fatto oggetto di impugnativa (cfr. Cons.
di Stato, sent. n. 1361/2010).
2.
L'elaborazione preparatoria del piano
urbanistico è inidonea a radicare uno
specifico affidamento riguardo alla
destinazione finale delle aree considerate,
essendo rimesso unicamente al competente
organo comunale di compiere in una
prospettiva generale le valutazioni
conclusive di merito sulle soluzioni
tecniche prospettate, in vista del
perseguimento di finalità generali di
pubblico interesse (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 5881/2008, TAR Milano, sent. n.
1338/2004) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
91 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA:
Ricorso
amministrativo - Legittimazione e interesse
a ricorrere - Vicinitas - Insufficienza -
Pregiudizio specifico - Necessità.
Il mero criterio della vicinitas di
un fondo o di una abitazione all'area
oggetto dell'intervento urbanistico-edilizio
non è sufficiente per radicare la
legittimazione al ricorso, dovendo sempre il
ricorrente fornire la prova concreta del
vulnus specifico inferto dagli atti
impugnati alla propria sfera giuridica, in
termini, ad esempio, di deprezzamento del
valore del bene o di concreta compromissione
del diritto alla salute ed all'ambiente
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 8364/2010;
TAR Milano, sent. n. 1949/2008, n. 170/2008) (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
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CONSIGLIERI COMUNALI:
1. Conflitto di
interessi degli amministratori locali -
Dovere di astensione - Quando è
configurabile.
2. Conflitto di
interessi degli amministratori locali -
Obbligo di astensione - E' principio
generale e inderogabile.
3. Conflitto di
interessi degli amministratori locali -
Annullamento previsioni dello strumento
urbanistico - Solo per le previsioni circa
le quali si configuri il conflitto
d'interesse.
4. Conflitto di
interessi degli amministratori locali -
Annullamento previsioni dello strumento
urbanistico - In caso di amministratore
parente che abbia redatto il piano - Portata
dell'interesse - Concerne tutto il Piano.
1.
Il dovere di astensione degli amministratori
locali sussiste in tutti i casi in cui
questi ultimi versino in situazioni che,
avuto riguardo al particolare oggetto della
decisione da assumere, appaiano anche
potenzialmente idonee a porre in pericolo
l'assoluta imparzialità e la serenità di
giudizio dei titolari dell'ente stesso, ed
opera indipendentemente dall'applicazione
della c.d. prova di resistenza: ciò, in
quanto la semplice partecipazione alla
seduta e alla discussione in posizione di
non assoluta imparzialità può in astratto
contribuire ad influenzare il voto degli
altri componenti del consesso (cfr. TAR
Milano, sent. n. 336/2005).
2.
L'obbligo di astensione degli amministratori
locali costituisce principio di carattere
generale, che non ammette deroghe ed
eccezioni e ricorre ogni qualvolta sussista
una correlazione diretta fra la posizione
dell'amministratore e l'oggetto della
deliberazione, anche se la votazione non
potrebbe aver altro apprezzabile esito
-quindi a prescindere dall'applicazione
della c.d. prova di resistenza- e
quand'anche la scelta sia in concreto la più
utile ed opportuna per lo stesso interesse
pubblico (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
7151/2009).
3.
La circostanza che alla seduta consiliare di
approvazione di uno strumento urbanistico
abbiano partecipato consiglieri comunali in
conflitto di interessi può comportare
soltanto l'annullamento delle previsioni
dello strumento urbanistico in relazione
alle quali si configura il conflitto
d'interesse; di conseguenza la relativa
censura è inammissibile per carenza
d'interesse, se il ricorrente non dimostri
che tale annullamento comporterebbe per lui
un vantaggio.
4.
Qualora l'incompatibilità
dell'amministratore in conflitto di
interessi derivi dal fatto che il piano è
stato redatto da un amministratore parente,
l'interesse personale del consigliere
comunale, che lo rende appunto
incompatibile, attiene a tutto il Piano e
non ad una parte di esso, come potrebbe
essere nel caso in cui il consigliere
comunale o un suo parente fosse proprietario
di un immobile incluso nel PII (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
90 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abusi edilizi -
Concessione edilizia quale esito di illeciti
penali - Coincidenza dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'atto con l'esigenza di
ripristino della legalità violata -
Possibilità.
Qualora il giudizio penale abbia appurato
che una concessione edilizia è il frutto di
comportamenti illeciti, sia pure prescritti,
a fronte di un tale accertamento,
l'interesse pubblico alla rimozione
dell'atto ben può coincidere con l'esigenza
di ripristino della legalità violata (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 890/2008) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
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ATTI AMMINISTRATIVI:
1. Atto amministrativo - Motivazione -
Integrazione successiva - In sede
giurisdizionale - Ammissibilità.
2. Ricorso giurisdizionale - Impugnazione di
nuovo provvedimento al fine di rimettere in
discussione provvedimento definitivo
presupposto non impugnato - Inammissibilità
- Ratio.
3. Provvedimento amministrativo -
Impugnazione - Pluralità di motivi del
provvedimento - Legittimità di uno solo dei
motivi - Annullabilità del provvedimento -
Non sussiste.
1.
Deve ritenersi ormai superato l'orientamento
giurisprudenziale che escludeva la
possibilità per la P.A. di integrare la
motivazione di un provvedimento in un
momento successivo al ricorso: ciò
quantomeno con riferimento all'ipotesi in
cui la motivazione sia integrata in corso di
giudizio con un apposito atto - e dunque non
unicamente con gli atti difensivi
predisposti dall'amministrazione resistente
-.
2.
E' inammissibile l'impugnazione
giurisdizionale di un provvedimento
amministrativo che rimetta in discussione la
legittimità del provvedimento definitivo
presupposto, divenuto inoppugnabile:
infatti, presupposto per l'esercizio del
potere di annullamento in autotutela è
l'illegittimità dell'atto (cfr. TAR Milano,
sent. n. 1024/2010).
3.
In presenza di un provvedimento sostenuto da
più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a
darne giustificazione, è sufficiente che sia
verificata la legittimità di uno di essi,
per escludere che l'atto possa essere
annullato in sede giurisdizionale (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR
Milano, sent. n. 2210/2010, n. 22/2010, n.
13/2010) (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
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EDILIZIA PRIVATA:
D.M. n. 1444/1968 -
Prescrizioni su altezze e distanze - Natura
- Tutela dell'interesse pubblico -
Legittimazione a ricorrere - Qualsiasi
soggetto in situazione di stabile
collegamento con l'area interessata.
L'art. 8 del D.M. 1444/1968 in materia di
altezze degli edifici è posto a tutela non
dell'interesse privatistico dei confinanti,
bensì dell'interesse pubblico affinché si
realizzi un determinato assetto urbanistico:
pertanto, tale interesse può essere fatto
valere da tutti coloro che si trovino in una
situazione di stabile collegamento con
l'area interessata (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Difetto di
sottoscrizione - In caso di evincibilità di
autore e struttura di provenienza -
Irrilevanza della mancata sottoscrizione.
La mancanza di sottoscrizione di un atto non
è idonea a metterne in discussione la
validità e gli effetti ogniqualvolta detta
omissione non metta in dubbio la
riferibilità dell'atto stesso all'organo
competente (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
2325/2007, n. 981/2007) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
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ATTI AMMINISTRATIVI:
Provvedimento
amministrativo - Impugnazione - Piena
conoscenza - Conoscenza elementi essenziali
e lesività - Sufficiente - Possibilità di
proporre motivi aggiunti post conoscenza
integrale del provvedimento - Sussiste.
In materia di decorso del termine di
impugnazione, la piena conoscenza di un
provvedimento amministrativo non postula
necessariamente la conoscenza di tutti i
suoi elementi, essendo sufficiente quella
degli elementi essenziali quali l'autorità
emanante, la data, il contenuto dispositivo
e il suo effetto lesivo, salva la
possibilità di proporre motivi aggiunti ove
dalla conoscenza integrale del provvedimento
e degli atti presupposti emergano ulteriori
profili di illegittimità (cfr. Cons. di
Stato, sent. n. 4482/2010) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
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URBANISTICA:
Scelte della P.A. in sede di PRG e sue
varianti generali - Ampia discrezionalità -
Sindacato del giudice amministrativo - Solo
nei limiti di errori di fatto o di abnormi
illogicità - Destinazione data a singole
aree - Motivazione - Non necessita.
Le scelte effettuate dalla P.A.
nell'adozione degli strumenti urbanistici
costituiscono apprezzamento di merito
sottratto al sindacato di legittimità, salvo
che non siano inficiate da errori di fatto o
abnormi illogicità, sicché anche la
destinazione data alle singole aree non
necessita di apposita motivazione, oltre
quella che si può evincere dai criteri
generali, di ordine tecnico discrezionale,
seguiti nell'impostazione del piano stesso,
essendo sufficiente l'espresso riferimento
alla relazione di accompagnamento al
progetto di modificazione al piano
regolatore generale (cfr. Cons. di Stato,
sent. n. 7492/2010) (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 17.01.2011 n.
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URBANISTICA:
Piano di lottizzazione -
Successiva assimilazione del procedimento ad
un PIP - Illegittimità.
Qualora il Comune abbia fin dall'inizio
avviato un procedimento di lottizzazione,
mentre con successiva delibera abbia voluto
dare una veste diversa a tutto il
procedimento, assimilandolo ad un PIP,
stante l'evidente differenza dei due
procedimenti, tale equiparazione è
illegittima, in quanto si pone in evidente
violazione dei principi di legalità e di
tipicità degli atti amministrativi (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
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EDILIZIA PRIVATA:
1. Recupero edilizio e funzionale
di edifici esistenti - Superficie edilizia -
Piano casa - Presupposti - Preesistenza di
muri perimetrali - Necessità.
2. Recupero
edilizio e funzionale di edifici esistenti -
Superficie edilizia - Piano casa - Pensilina
priva di pareti perimetrali - Ammissibilità
nel novero delle superfici edilizie - Non
sussiste.
1. Non può considerarsi come superficie
edilizia l'area solo sormontata da una
pensilina, definita solo dalla proiezione
della pensilina stessa: infatti, affinché
una superficie rientri nella definizione di
superficie edilizia di cui all'art. 2 L.R.
13/2009, che disciplina il recupero
dell'esistente, essa deve avere confini
definiti e quindi deve essere perimetrata -in tutti i lati o in parte- da pareti, in
modo che possa identificare un vano (si
pensi a portici con due pareti chiuse e due
lati aperti, che non costituiscono né volume
né concorrono a determinare s.l.p.).
2.
Nella definizione di superficie edilizia non
può essere inclusa qualsiasi superficie
calpestabile, bensì solo quelle superfici
già delimitate e per tale delimitazione non
può ritenersi sufficiente una pensilina,
poiché necessitano almeno due pareti:
pertanto, nel caso di pensilina
-successivamente chiusa da pareti- non si
può parlare di semplice recupero, bensì di
ampliamento, dal momento che viene creato un
nuovo vano, prima inesistente, in
corrispondenza della pensilina stessa (nel
caso di specie, la pensilina posta su
lastrico solare è stata chiusa da pareti
finestrate, dando luogo ad un appartamento
bilocale) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
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EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio -
Sanatoria - Diritti ed oneri - Incremento
percentuale ex art. 32, comma 40, D.L.
269/2003 - Ambito di applicazione -
Incremento degli oneri di urbanizzazione -
Inammissibilità.
L'incremento percentuale fino al 10%,
previsto dall'art. 32, comma 40, D.L.
269/2003, che i Comuni possono richiedere
per progetti relativi alle attività
istruttorie connesse al rilascio delle
concessioni in sanatoria, è applicabile solo
ai diritti ed oneri correlati
all'istruttoria delle domande finalizzate al
rilascio del titolo abilitativo e non agli
oneri concessori relativi all'intervento
edilizio: ciò, in considerazione del maggior
impiego di risorse (personale e mezzi) che
qualsiasi sanatoria -implicante un afflusso
eccezionale di istanze da istruire ed
evadere in aggiunta all'attività ordinaria-
notoriamente richiede.
E' quindi errato applicare un ulteriore
incremento -non dei diritti ed oneri di
istruttoria ma- degli oneri di
urbanizzazione primaria e secondaria, in
quanto gli incrementi dell'art. 32, comma,
40 si riferisce ai soli diritti di
segreteria (cfr. TAR Milano, sent. n.
6922/2010, n. 6958/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
84 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ordine di demolizione -
Istanza di sanatoria - Pregiudizialità
-Sussiste - Ordine di demolizione - Domanda
per ottenere un titolo edilizio -
Realizzazione opere prima rilascio titolo -
Pregiudizialità - Non sussiste.
Se, da una lato, la P.A. ha l'obbligo di
determinarsi su una domanda di sanatoria
prima di disporre la demolizione -ed in
questo senso esiste pregiudizialità tra le
due fattispecie- dall'altro, non vi è alcuna
pregiudizialità tra l'istanza per ottenere
un titolo edilizio e l'ordine di demolizione
di opere che siano state realizzate prima
che l'Amministrazione abbia avuto la
possibilità di esaminare la domanda stessa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
83 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
PGT - Piano delle Regole - Edifici che
abbiano mantenuto i caratteri storici
originari - Previsione di soli interventi di
restauro e risanamento conservativo -
Legittimità - Ratio.
La previsione di un Piano delle Regole che,
per gli edifici che abbiano mantenuto i
caratteri storici originari, statuisca la
possibilità del solo intervento di restauro
e risanamento conservativo, con esclusione
di altre tipologie edilizie maggiormente
invasive -quale la ristrutturazione mediante
demolizione- non è illogica o irrazionale,
in quanto volta alla salvaguardia del
patrimonio edilizio esistente di interesse
storico, che ricorda e riflette l'originario
tessuto urbanistico: pertanto, non possono
essere ritenute ammissibili operazioni
edilizie che finirebbero per snaturare
completamente l'ambito interessato,
facendogli perdere ogni traccia dei
caratteri originari (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
82 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Manutenzione ordinaria,
straordinaria, consolidamento statico e
restauro conservativo - Autorizzazione
paesaggistica - Necessità - Non sussiste.
Ai sensi dell'art. 149, comma 1, lett. a),
del D.Lgs. 42/2004 non è necessaria
l'autorizzazione paesaggistica per "gli
interventi di manutenzione ordinaria,
straordinaria, di consolidamento statico e
di restauro conservativo, che non alterino
lo stato dei luoghi ..." (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
81 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.I.A. - Recupero abitativo sottotetto - L.R. 12/2005 nella formulazione anteriore
alla L.R. 20/2005 - Recupero abitativo in
deroga agli indici o parametri urbanistici -
Impossibilità.
La L.R. 12/2005, nella sua originaria
formulazione anteriore alle modifiche
introdotte con L.R. 20/2005, non consente il
recupero abitativo dei sottotetti in deroga
agli indici o parametri urbanistici (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 7770/2006, n.
1410/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
79 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Nuovo piano urbanistico
attuativo - In presenza di convenzione di
lottizzazione in esecuzione dello strumento
urbanistico generale - Possibilità - Limiti
- Manifesta illogicità o irrazionalità.
La scelta di procedere ad un nuovo piano
urbanistico attuativo, allorché sia già
stata stipulata una convenzione di
lottizzazione in esecuzione dello strumento
urbanistico generale, rientra nella più
ampia discrezionalità della P.A. non
suscettibile di censura se non in caso di
manifesta illogicità o irrazionalità (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 1986/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
78 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono edilizio - Oneri di concessione -
Obbligo di determinazione degli oneri con
esclusivo riferimento alle tariffe vigenti
alla data di entrata in vigore della legge
di sanatoria - Non sussiste - Ratio.
In materia di condono edilizio ed oneri
concessori, relativamente alle relative
normative succedutesi nel tempo -art. 32,
D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art.
37, L. 47/1985- non è ravvisabile un
orientamento interpretativo consolidato da
cui possa ricavarsi un unico principio
fondamentale della legislazione statale,
secondo cui gli oneri di concessione debbano
essere determinati esclusivamente con
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria: infatti, gli oneri di concessione
potrebbero essere ancorati alle tariffe
vigenti, alternativamente, al momento in cui
l'abuso è iniziato, al momento in cui
l'immobile abusivo è completato, al momento
dell'entrata in vigore della normativa
statale sul condono, al momento dell'entrata
in vigore della normativa regionale sul
condono, al momento in cui è stata
effettuata la richiesta di condono o,
infine, al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
76 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Attività vincolata della P.A. -
Motivazione - Obbligo - Non sussiste -
Conseguenze.
Nei casi di attività vincolate, e non
discrezionali, della P.A., ovvero di
rapporti paritetici, l'Amministrazione è
tenuta a giustificare più che a motivare i
propri atti ed eventuali vizi di carattere
formale recedono a fronte della verifica,
possibile anche nel corso del processo, dei
fatti che rendono ragione del provvedimento
o della pretesa (cfr. TAR Milano, sent.
n. 6958/2010, n. 225/2008, n. 1871/2005;
Cons. di Stato, sent. n. 7324/2004, n.
1088/2003; Cons. Giust. Amm., sent. n.
323/1997) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.01.2011 n.
75 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Dichiarazione ai sensi
dell'art. 38 del D.lgs. 163/2006 - Società per
azioni - Necessità che i soggetti tenuti
alla dichiarazione siano dotati di poteri di
rappresentanza della società - Sussistenza
di poteri sostanziali - Rilevanza - Limiti.
L'art. 38, comma 1, lett. b), del D. L.vo n.
163/2006, con riferimento alla società per
azioni, individua i soggetti tenuti a
rilasciare la prescritta dichiarazione negli
amministratori muniti di poteri di
rappresentanza o nel direttore tecnico.
Nonostante la specifica previsione
normativa, parte della giurisprudenza,
ispirata dalla ratio sottesa alla norma di
verificare la affidabilità complessivamente
considerata dell'operatore economico che
andrà a stipulare il contratto di appalto
con la stazione appaltante individuando
coloro che effettivamente "sono in grado di
manifestare all'esterno al volontà
dell'azienda" (Cons. Stato, Sez. V, n.
375/2009), ha ricercato, in via
interpretativa, di ampliare l'ambito di
applicazione della disposizione includendo
nel novero dei necessari dichiaranti anche
soggetti che, pur non ricoprendo le
specifiche cariche indicate, siano,
tuttavia, titolari di ampi poteri
decisionali tali da consentire di
determinare gli indirizzi di gestione
dell'impresa.
Secondo il richiamato
orientamento occorrerebbe "avere riguardo
alle funzioni sostanziali del soggetto, più
che alle qualifiche formali, altrimenti la ratio legis potrebbe venire agevolmente
elusa e dunque vanificata" (detto indirizzo,
peraltro tuttora non consolidato, non torna
in ogni caso applicabile al caso di specie
alla luce dell'espressa dichiarazione che i
soggetti in questione erano privi di ogni
potere di rappresentanza, essendo soltanto
titolari del potere di sottoscrizione dei
documenti di gara, che è competenza
obiettivamente diversa da quella di colui
che sia, in sede di gara, titolare del
potere di agire e di disporre)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.01.2011 n.
73 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Verifica sulla congruità
dell'offerta anomala - Necessità del
contraddittorio con l'offerente - Limiti
delle giustificazioni - Divieto di
trasformare l'offerta originaria in un quid
diverso attraverso le giustificazioni -
Divieto di rimodulazione delle voci di costo
al solo scopo di armonizzare la struttura
dell'offerta al ribasso formulato.
In sede di verifica della congruità
dell'offerta presentata in una gara
d'appalto di lavori pubblici, il principio
del contraddittorio successivo (come imposto
dalle regole comunitarie interpretate dalla
Corte di giustizia con la sentenza 27.11.2001 n. 285) mira a consentire un
fisiologico arricchimento degli elementi
dedotti in origine e quindi incontra un
limite nel divieto -immanente al sistema-
di trasformazione dell'offerta originaria in
un quid sostanzialmente nuovo o diverso per
mezzo delle ulteriori giustificazioni
(Cons. Stato, Sez. V, 11.04.2006, n.
2021).
E' noto al Collegio quell'indirizzo
della giurisprudenza che ritiene, entro
certi limiti, possibile l'aggiustamento
delle varie componenti dell'offerta (Cons.
St., sez. VI, 21.05.2009, n. 3146),
restando in ogni caso fermo che: a) o una
modifica delle giustificazioni delle singole
voci di costo (rispetto alle giustificazioni
già fornite), lascia le voci di costo
invariate; b) oppure un aggiustamento di
singole voci di costo trova il suo
fondamento o in sopravvenienze di fatto o
normative che comportino una riduzione dei
costi, o in originari e comprovati errori di
calcolo, o in altre ragioni plausibili.
La
giurisprudenza ha, infatti, precisato che il subprocedimento di giustificazione
dell'offerta anomala non è volto a
consentire aggiustamenti dell'offerta per
così dire in itinere ma mira, al contrario,
a verificare la serietà di una offerta
consapevolmente già formulata ed immutabile
(Cons. St., sez. V, 12.03.2009, n. 1451).
E' dunque incontestato che non si può
consentire che, in sede di giustificazioni,
vengano rimodulate le voci di costo al solo
scopo di armonizzare la struttura
dell'offerta con l'importo derivante dal
ribasso formulato
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 14.01.2011 n.
65 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Verifica
dei requisiti di partecipazione ex art. 48
del d.lgs. n. 163/2006 - Mancata
dimostrazione da parte dell'impresa
concorrente - Effetto - Esclusione
automatica - Legittima.
La fase di verifica dei requisiti di
partecipazione anteriore all'apertura delle
buste contenenti le offerte, disciplinata
dall'art. 48 del d.lgs. n. 163/2006, reca in
sé un automatismo in virtù del quale, se non
è comprovato da parte dell'impresa il
possesso dei requisiti previsti dalla lex
specialis, attraverso la produzione della
pertinente documentazione, l'Amministrazione
è tenuta a disporre l'esclusione della
stessa e il relativo provvedimento assume la
natura di atto vincolato, specie qualora
l'Amministrazione abbia consentito
all'impresa di fornire chiarimenti e
integrazioni documentali (Nella fattispecie,
l'impresa è stata esclusa per non avere
dimostrato il possesso dei requisiti di
capacità economica e finanziaria richiesti
dal disciplinare di gara)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.01.2011 n.
33 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Aggiudicazione
provvisoria - Atto preparatorio
all'aggiudicazione definitiva - Non sussiste
l'onere di impugnazione immediata - Revoca
dell'aggiudicazione provvisoria -
Insussistenza dell'onere di impugnazione
immediata.
2. Aggiudicazione definitiva - Necessità di
comunicazione individuale - Decorrenza del
termine per l'impugnazione dalla
comunicazione individuale.
1. Secondo un pacifico orientamento
giurisprudenziale, l'aggiudicazione
provvisoria non è l'atto conclusivo del
procedimento, bensì quello preparatorio, che
produce solo effetti prodromici e, di
conseguenza, non vi è un onere di immediata
impugnazione della stessa (C.S. Sez. VI
20.02.2008 n. 588). Parimenti non vi può
essere alcun onere di immediata impugnazione
dell'atto amministrativo che rimuova la
predetta aggiudicazione provvisoria,
contestualmente rimettendo gli atti alla
Commissione di gara per effettuare una nuova
valutazione delle offerte, all'esito della
quale potrebbe peraltro, in astratto,
confermarsi la posizione del precedente
aggiudicatario, addirittura con un punteggio
maggiore.
Da quanto precede consegue
l'insussistenza di un onere di immediata
impugnazione della revoca
dell'aggiudicazione provvisoria, atteso che
la lesività di tale provvedimento si è
consolidata solo in occasione dell'adozione
della successiva delibera di aggiudicazione
definitiva a favore della controinteressata.
2. Costituisce principio giurisprudenziale
pacifico quello secondo cui la conoscenza
del provvedimento di aggiudicazione
definitiva non può essere ricondotta alla
data di pubblicazione dello stesso,
sussistendo un onere per le stazioni
appaltanti di portare gli esiti delle
procedure di gara a conoscenza dei
concorrenti per mezzo di apposite
comunicazioni. Essendo richiesta la
comunicazione individuale dell'atto di
aggiudicazione, il termine per
l'impugnazione non può farsi decorrere dal
giorno in cui sia scaduto il termine della
pubblicazione (C.S. Sez. VI 25.01.2008
n. 213).
L'eccezione di tardività del
ricorso principale deve essere pertanto
scrutinata alla luce della comunicazione
effettuata dalla stazione appaltante, e
ricevuta dalla ricorrente e dei contatti
successivamente intercorsi tra la ricorrente
principale e la stazione appaltante
(fattispecie precedente all'art. 79, comma
5, lett. a, del Codice dei Contratti così
come modificato dal D.lgs. 53/2010)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.01.2011 n.
28 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Affidamento diretto di
servizi pubblici locali - Sono soggetti
legittimati all'impugnazione coloro che sono
lesi dall'atto - Decorrenza del termine per
l'impugnazione dalla conoscenza piena
dell'atto - Insufficienza della
pubblicazione sull'albo pretorio per la
decorrenza del termine.
Ai fini della decorrenza del termine per
l'impugnazione, ai sensi dell'art. 21 della
L. 06.12.1971, n. 1034 e degli artt. 1
e 2 del R.D. 17.08.1907, n. 642, la
giurisprudenza ha avuto modo di precisare
che debbono considerarsi soggetti
interessati non soltanto quelli che
risultano nominativamente contemplati
nell'atto, ma anche coloro che possano
essere individuati come soggetti sulle cui
posizioni l'atto specificamente incida in
modo svantaggioso (cfr. Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.05.1996, n. 625).
Tanto
premesso, ritiene il Collegio che nella
materia in esame, concernente le scelte organizzatorie dell'Amministrazione comunale
per la gestione dei servizi pubblici, il
termine per l'impugnativa da parte dei
soggetti che si ritengano lesi
dall'affidamento diretto degli stessi inizi
a decorrere, in difetto di comunicazione
individuale, dalla data della loro piena
cognizione e non dalla loro pubblicazione.
Diversamente opinando, l'azione
giurisdizionale dei potenziali aspiranti
alla procedura di evidenza pubblica per la
scelta del gestore dei servizi pubblici
verrebbe di fatto frustrata attraverso oneri
di attivazione del tutto inesigibili,
presupponendo una penetrante osservazione di
tutta l'attività politico amministrativa
dell'Ente locale, attraverso il sistematico
esame di tutte le delibere affisse all'albo
(TAR Napoli Campania sez. IV 07.11.2003 n. 13382)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.01.2011 n.
27 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Diffida a vigilare su
possibili abusi edilizi - Silenzio rifiuto -
Omissioni o silenzio - Non sussistono.
Non sussistendo alcuna inerzia da parte
dell'Amministrazione nella sua attività di
controllo sull'operato edilizio, ma al
contrario un'attività repressiva degli
abusi, il ricorso va dichiarato in parte
infondato e, quanto alla possibilità di
essersi configurato un silenzio sulla
diffida del ricorrente si deve rilevare che,
anche nel denegato caso che la risposta
dell'Amministrazione (spedita in forma
semplice) non fosse stata ricevuta dal
destinatario, la stessa è stata conosciuta
nel momento della costituzione in giudizio
dell'Amministrazione, risultando
conseguentemente il ricorso, in parte qua, improcedibile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.01.2011 n.
26 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Strumenti urbanistici generali
- Discrezionalità - Aspettativa qualificata -
Obbligo di specifica motivazione - Sussiste
- Affidamento generico alla reformatio in
melius o alla non reformatio in peius -
Obbligo di generica motivazione - Sussiste.
2. Strumenti
urbanistici generali - Discrezionalità -
Aree omogenee per caratteristiche
tipologiche - Attribuzione a un'area di
destinazione di zona difforme - Obbligo di
motivazione - Sussiste.
1. È pur vero che le scelte operate
dall'Amministrazione in sede di
pianificazione del territorio appartengono
ad un ambito di discrezionalità non
sindacabile nel merito e che soltanto
un'aspettativa qualificata ad una
determinata destinazione (come quella che
nasce da una lottizzazione già approvata, da
un giudicato di annullamento di un diniego
di concessione edilizia, dal carattere di
un'area interclusa tra fondi edificati,
dalla reiterazione di un vincolo
espropriativo, ecc.) richiede una
motivazione specifica a sostegno di opposte
o diverse scelte pianificatorie.
Tuttavia,
anche un affidamento generico alla reformatio in melius -o alla
non reformatio
in pejus- della precedente destinazione
richiede quanto meno che una sia pur
generica motivazione possa agevolmente
evincersi dai criteri di ordine
tecnico-urbanistico seguiti per la redazione
dello strumento, in modo che siano chiari le
finalità e gli obiettivi che hanno indotto
il pianificatore comunale a disattendere
scelte precedenti (Nel caso di specie, a
fronte di censure specifiche, che facevano
leva sulla natura delle aree, sulla loro
collocazione, sulla già avvenuta
urbanizzazione ed edificazione del contesto,
il Comune, al di là del richiamo alla
discrezionalità insindacabile della potestà pianificatoria, non aveva fornito alcuna
indicazione -supportata dagli auspicabili
richiami a passaggi significativi delle
relazioni illustrative del P.G.T., neppure
prodotte in giudizio- utile a identificare
il criterio in base al quale aree già
destinate alla espansione residenziale, sia
pure governata da un piano attuativo,
fossero state per la maggior parte destinate
a verde privato, e uno solo dei terreni in
questione fosse stato connotato da una
edificabilità del tutto marginale, e
ridottissima al confronto con la volumetria
realizzabile in precedenza).
2.
La scelta di un'area con una destinazione di
zona diversa da quella attribuita ad aree
contigue con eguali caratteristiche
tipologiche deve essere motivata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.01.2011 n.
18 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Annullamento di
un atto della P.A. - Riesercizio del potere
discrezionale - Risarcimento dei danni -
Danno da ritardo -Ammissibile solo dopo il
riesercizio comportante riconoscimento del
bene della vita.
Nel caso in cui, a seguito di
annullamento di un atto della P.A.,
persistono, in capo all'Amministrazione,
spazi di riesercizio del potere
discrezionale, va esclusa ogni indagine
sulla spettanza del "bene della vita" e
resta conseguentemente priva di fondamento
la domanda risarcitoria, potendosi ammettere
un risarcimento solo dopo (e a condizione)
che, riesercitato il proprio potere come le
compete, la P.A. abbia riconosciuto al
richiedente il bene della vita, nel qual
caso il danno ristorabile non potrà che
ridursi al pregiudizio derivante dal ritardo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.01.2011 n.
18 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Decisioni
della Commissione giudicatrice -
Discrezionalità tecnica - Cognizione piena
del G.A. - Estensione non solo ai fatti ma
anche ai giudizi della Commissione
giudicatrice.
Una volta distinta l'area della
discrezionalità tecnica da quella del merito
amministrativo (sull'esempio di Cons. St.,
sez. IV, n. 601/1999), e riconosciuto nel
primo caso al giudice amministrativo
l'accesso diretto ai fatti in contestazione
(anche attraverso i mezzi di prova e
l'ausilio di un consulente tecnico, ove
necessario), non vi sono ragioni valide per
escludere una cognizione piena non solo
sulle modalità (di formazione), ma anche
sull'attendibilità dei giudizi e degli
apprezzamenti espressi dalla commissione
giudicatrice nell'ambito di una gara di
appalto
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.01.2011 n.
11 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Approvazione degli
atti di P.G.T. - Destinazione, in parte, a
standard - Obbligo motivazione - Affidamento
qualificato - Non sussiste.
2. Approvazione degli atti di P.G.T. -
Perequazione compensativa - Art. 11, c. 3,
L.R. n. 12/2005 - Legittimità.
1.
L'amministrazione possiede un'ampia facoltà
discrezionale relativamente alla
programmazione degli assetti del territorio,
in sede di elaborazione del P.G.T., e
pertanto non ha l'onere di motivare la
scelta sulla destinazione delle singole
aree, essendo sufficiente quella evincibile
dai criteri generali nell'impostazione della
pianificazione.
In assenza di alcun titolo edilizio, non
ricorre, alcuna delle ipotesi eccezionali di
affidamento qualificato per le quali la
giurisprudenza pone a carico
dell'Amministrazione un particolare obbligo
motivazionale.
2.
Non sussiste la illegittimità del P.G.T.
nella parte in cui esclude dal meccanismo
della perequazione le aree dei ricorrenti,
le quali sono suscettibili di intervento
mediante piano attuativo, in quanto la
perequazione compensativa di cui all'art.
11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 può
essere prevista solo con riferimento ad aree
esterne ai piani attuativi (massima tratta
da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 04.01.2011 n. 4 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Revoca adozione variante
al P.R.G. - Mancato esame delle osservazioni
- Ius poenitendi - Discrezionalità -
Legittimità.
Pare conforme al principio di economicità e
coerenza dell'azione amministrativa non
proseguire l'iter procedimentale (nel caso
di specie, di adozione di variante al
P.R.G., esaminare le osservazioni) quando
era già definita la volontà
dell'Amministrazione di non portare a
termine il procedimento di variante
generale.
La revoca dell'adozione della variante al
P.R.G., esercizio del ius poenitendi,
rientra nei normali ed ampi poteri
discrezionali della P.A., cui è demandata la
valutazione dell'interesse pubblico a fronte
del mutamento delle condizioni di fatto e di
diritto (massima tratta da www.solom.it -
TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 04.01.2011 n. 2 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Revoca
atti di gara - Necessità di ragioni di
interesse pubblico e di vizi nella procedura
di gara - Circostanze sopravvenute -
Valutazione discrezionale della Pubblica
Amministrazione - Revoca dell'aggiudicazione
provvisoria: attiene alla fase di scelta del
concorrente - Possibilità di revoca
implicita o senza particolare motivazione.
Il potere di ritirare gli atti di gara
attraverso gli strumenti della revoca e
dell'annullamento, riconosciuto alle
stazioni appaltanti va riconosciuto,
peraltro, in presenza di adeguate ragioni di
pubblico interesse o di vizi di merito e di
legittimità, tali da rendere inopportuna o
comunque da sconsigliare la prosecuzione
della gara stessa, come ad esempio nel caso
in cui la revoca dell'aggiudicazione
provvisoria sia giustificata da un nuovo
apprezzamento della fattispecie in base a
circostanze sopravvenute, essendo collegata
ad una facoltà latamente discrezionale
dell'Amministrazione che non inerisce ad
alcun rapporto contrattuale, ma attiene
ancora alla fase della scelta del
contraente, quando, cioè, l'Amministrazione
ha la possibilità di valutare la persistenza
dell'interesse pubblico all'esecuzione delle
opere appaltate.
L'Amministrazione può, dunque, provvedere
alla revoca dell'aggiudicazione provvisoria,
anche in via implicita e senza obbligo di
particolare motivazione, anche se
l'intervento in autotutela sia basato su una
valutazione di convenienza economica, la cui
sussistenza deve essere, però, idoneamente e
inequivocamente accertata (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 29.12.2010 n. 7734 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Art. 38 del D.lgs. 163/2006 - Valutazione
sulla gravità del reato - Necessità di
riferimento alla connessione del reato
commesso con l'oggetto dell'appalto e al
tempo intercorso dalla condanna - Sussiste -
Criteri.
La "gravità" del reato, nell'accezione
voluta dal legislatore del codice dei
contratti con l'art. 38, è un concetto
giuridico a contenuto indeterminato, da
valutarsi necessariamente non soltanto in sé
e per sé, ma di volta in volta con
riferimento ad una serie di parametri quali
la maggiore o minore connessione con
l'oggetto dell'appalto, il lasso di tempo
intercorso dalla condanna, l'eventuale
mancanza di recidiva, le ragioni in base
alle quali il giudice penale ha commisurato
in modo più o meno lieve la pena
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.12.2010 n.
7715 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Potere
della p.a. di stabilire rigorosi requisiti
selettivi di partecipazione - Sussiste -
Limiti - Oggetto dell'appalto e rispetto del
principio di proporzionalità.
Sebbene la stazione appaltante abbia il
potere discrezionale di fissare requisiti di
partecipazione ad una gara ad evidenza
pubblica ristretti e selettivi, tale potere
è correttamente esercitato soltanto quando
detti criteri rispondano ad esigenze
oggettive dell'Amministrazione e non
appaiano sproporzionati rispetto all'oggetto
dell'appalto e all'esigenza di non ridurre,
oltre lo stretto indispensabile, la platea
dei potenziali concorrenti e di non
precostituire situazioni di privilegio (cfr.
TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 29.11.2010, n. 7404; adde Cons. Stato, sez. V,
04.08.2010, n. 5201) (Nella fattispecie il
TAR - considerato che l'oggetto dell'appalto
era costituito dai "servizi di vigilanza
armata"- ha ritenuto censurabile la
previsione, contenuta nel bando di gara, che
richiedeva, tra i requisiti di
partecipazione previsti a pena di
esclusione, la dichiarazione «di essere in
possesso dei certificati di conformità del
sistema di qualità alle norme europee UNI EN
ISO 9001:2004 e della certificazione
ambientale ISO 14001:2004 rilasciate da
soggetti accreditati ai sensi delle norme
europee»)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 27.12.2010 n.
7710 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Recupero
abitativo dei sottotetti esistenti -
Derogabilità degli indici o parametri
urbanistici - Art. 3, comma 3, L.R.
Lombardia n. 15/1996 - Mancata allegazione
di documentazione interente agli indici -
Invalidità della d.i.a. - Non sussiste -
Irregolarità della d.i.a. - Sussiste.
2. Recupero
abitativo dei sottotetti esistenti -
Incremento volumetrico - Art. 3, comma 3, L.R. Lombardia n. 15/1996 - Contrasto con
l'art. 14 D.P.R. n. 380/2001 - Non sussiste
- Lesione della potestà comunale in materia
di governo del territorio - Non sussiste.
1. Poiché l'art. 3, terzo comma, L.R. n. 15/
1996 consente il recupero abitativo dei
sottotetti anche "in deroga agli indici o
parametri urbanistici ed edilizi previsti
dagli strumenti urbanistici generali vigenti
ed adottati", ne consegue che degrada a mera
irregolarità, insuscettibile di infirmare la
validità della d.i.a, la mancata allegazione
di un documento (nella specie, scheda
sinottica di calcolo e di confronto) volto a
verificare il rispetto di indici che la
legge regionale consente di superare.
2. L'incremento volumetrico, nei limiti
strettamente necessari al recupero abitativo
dei sottotetti negli edifici adibiti in
tutto o in parte a residenza, per le
finalità e gli obiettivi esplicitati
dall'art. 1, L.R. n. 15/1996 (contenere il
consumo di nuovo territorio e favorire la
messa in opera di interventi tecnologici per
il contenimento dei consumi energetici), è
ammesso dalla stessa legge regionale, con
una norma di carattere generale (art. 3,
comma 3), la quale non interferisce con il
principio fissato dalla legislazione statale
(art. 14 D.P.R. n. 380/2001) che vieta, nei
casi particolari, il rilascio di concessioni
in deroga se non per la costruzione di
edifici pubblici o di interesse pubblico.
Né
è ravvisabile una lesione della potestà
comunale in materia di governo del
territorio, sia perché le relative funzioni
sono esercitate dai Comuni nell'ambito delle
leggi regolatrici della materia (che la
Regione è abilitata a dettare in quanto
titolare di potestà legislativa
concorrente), sia perché le prerogative
comunali restano salvaguardate dall'art. 1,
comma 7, L.R. n. 15/1996, che consente ai
Comuni stessi di escludere, con motivata
deliberazione, l'applicazione della
normativa sui sottotetti in determinate zone
del proprio territorio (principio rifluito
nell'ora vigente art. 65, L.R. n. 12/2005
sul governo del territorio) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 27.12.2010 n.
7709 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Diniego di permesso di
costruire in sanatoria - Art. 32 D.L. n.
269/2003 - Ultimazione dell'opera abusiva -
Termine - Destinazione del manufatto -
Legittimità.
L'ultimazione al rustico ed il
completamento della copertura devono
ritenersi requisiti di base per qualsiasi
opera, a prescindere dalla destinazione
funzionale della stessa, che aspiri al
condono edilizio, ed, in mancanza, risulta
legittimo il diniego di premesso di
costruire impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.12.2010 n.
7677 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Disciplina
urbanistica del territorio - Obbligo di
puntuale motivazione - Non sussiste.
1. Art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Perequazione
compensativa - Può essere prevista
unicamente con riferimento ad aree esterne
ai piani attuativi.
1. Non sussiste la necessità di una puntuale
motivazione delle scelte urbanistiche che
l'amministrazione compie per la disciplina
del territorio, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali di ordine
tecnico-discrezionale seguiti
nell'impostazione del piano, essendo
sufficiente l'espresso riferimento alla
relazione di accompagnamento al progetto di
modificazione del piano regolatore.
2. La perequazione compensativa di cui
all'art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005
può essere prevista unicamente con
riferimento ad aree esterne ai piani
attuative, mentre per quelle disciplinate da
piani attuativi o atti di programmazione
negoziata con valenza territoriale, il
Comune può prevedere il meccanismo
perequativo disciplinato al comma 1 del
medesimo articolo.
Si tratta, comunque, di
una facoltà, rimessa alla scelta
discrezionale dell'amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.12.2010 n.
7674 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Variante P.R.G. - Piano
Integrato d'Intervento - Legittimazione
attiva - Carenza interesse concreto -
Inammissibilità.
Non sussiste in relazione ad una variante
al P.R.G. che prevede, a mezzo di P.I.I.,
una riconversione di un comparto
industriale, un interesse concreto ed
attuale delle società ricorrenti la cui
attività si svolge in capannoni siti al di
fuori del perimetro della variante e del
P.I.I. (e non può subire compressioni dalla
scelta urbanistica pianificata), ed in
mancanza di una lesione concreta ed
immediata dei loro interessi a seguito dei
provvedimenti impugnati il ricorso risulta
inammissibile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.12.2010 n.
7672 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Espropriazione per
pubblica utilità - Reiterazione del vincolo
preordinato all'esproprio - Indennizzo -
Spettanza del pagamento - Non rileva ai fini
della legittimità del procedimento.
Il principio della spettanza di un
indennizzo al proprietario nel caso di
reiterazione del vincolo preordinato
all'esproprio non rileva per la verifica
della legittimità dei provvedimenti che
hanno disposto l'approvazione dello
strumento urbanistico con la conseguente
reiterazione o proroga del vincolo, atteso
che i profili attinenti alla spettanza o
meno dell'indennizzo e al suo pagamento non
attengono alla legittimità del procedimento,
ma riguardano questioni di carattere
patrimoniale, che presuppongono la
conclusione del procedimento di
pianificazione e sono devolute alla
cognizione della giurisdizione ordinaria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 20.12.2010 n.
7661 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Diniego di inizio
attività di D.I.A. - Art. 23 D.P.R. n.
380/2001 - Volontà dell'Amministrazione -
Principio di economicità del procedimento -
Illegittimità.
Sebbene l'art. 23 D.P.R. n. 380/2001 non
preveda parentesi procedimentali produttive
di sospensione del termine di trenta giorni
entro cui l'Amministrazione deve esercitare
il potere inibitorio, nel caso in cui
l'Amministrazione abbia espressamente
rinviato l'esame della D.I.A. al momento
della presentazione dell'autorizzazione per
l'attività industriale, non può la stessa
richiedere, in contrasto con il principio di
economicità del procedimento, la
presentazione della medesima D.I.A.
integrata dall'autorizzazione, risultando
conseguentemente illegittimo il diniego
impugnato motivato sulla base di tale
mancata ripresentazione della domanda (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 20.12.2010 n.
7630 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanatoria edilizia -
Art. 36, D.P.R. n. 380/2001 - Istanza di
sanatoria - Inefficacia dell'ordine di
demolizione originario - Sussiste - Rigetto
dell'istanza - Rappresenta l'unico atto
censurabile.
La presentazione di istanza di sanatoria
edilizia, ai sensi dell'art. 36, D.P.R. n.
380/2001, determina l'inefficacia
dell'ordine di demolizione originario, con
obbligo per il Comune di valutare ex novo la
domanda di sanatoria adottando un esplicito
provvedimento, che tenga luogo -in caso di
reiezione della sanatoria stessa- della
pregressa ingiunzione di demolizione
divenuta ormai priva di effetti. Di
conseguenza, in caso di rigetto dell'istanza
di sanatoria, le censure e le contestazioni
dell'autore dell'abuso edilizio si devono
necessariamente indirizzare contro tale
ultimo atto di diniego, avendo perso
efficacia il primo provvedimento di
demolizione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 20.12.2010 n.
7615 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Piano Integrato
d'Intervento - Artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005
- Finalità - Discrezionalità - Legittimità.
2. P.I.I. -
Approvazione oltre il termine - Art. 14 L.R.
n. 12/2005 - Inefficacia degli atti -
Interpretazione - Artt. 2 e 2-bis L. n.
241/1990 - Non sussiste.
3. P.I.I. - Parere
di compatibilità con il P.T.C.P. -
Incompetenza della Giunta Provinciale - Art.
42 d.lgs. n. 267/2000 - Valutazione tecnica
- Non sussiste.
1. Nel caso in cui il P.I.I. impugnato
persegua delle chiare finalità di
riorganizzazione dell'ambito urbano al fine
di una riqualificazione urbana ed ambientale
di aree produttive dismesse od obsolete
sussistono i presupposti normativi di cui
agli artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005, e visto
che la scelta di approvare un P.I.I. risulta
essere, nel rispetto degli ampi margini di
legge, rimessa alla discrezionalità
dell'Amministrazione, in mancanza di
manifesta illogicità ed irrazionalità
dell'azione amministrativa si deve ritenere
che lo stessa sia legittima.
2. L'art. 14 L.R. n. 12/2005, secondo cui il
P.I.I. deve essere approvato entro il
termine di sessanta giorni dalla scadenza
del termine delle osservazioni a pena
dell'inefficacia degli atti assunti, deve
essere interpretato in maniera da
armonizzarlo con la legislazione statale
concorrente e vincolante (per il legislatore
regionale) in materia di governo del
territorio ed in particolare con gli artt. 2
e 2-bis L. n. 241/1990 norme vincolanti per
il legislatore regionale e per le
Amministrazioni che impongono la conclusione
del procedimento con un provvedimento
espresso nonostante la scadenza del termine
di sessanta giorni previsto dalla legge
regionale (risultando peraltro aberrante che
oltre tale termine l'Amministrazione non
abbia altra scelta se non quella di
abbandonare il procedimento o di rinnovarlo
ex novo), salva l'eventuale responsabilità
dell'Amministrazione o del dirigente
incaricato del procedimento per il ritardo.
Conseguentemente l'inefficacia degli atti
deve essere ricondotta, tenuta anche in
considerazione la ratio della norma, alle
sole ipotesi in cui l'Amministrazione
comunale rimanga totalmente e colpevolmente
inattiva per sessanta giorni dalla scadenza
del termine per presentare le osservazioni
oppure qualora il piano sia approvato senza
alcuna decisione sulle osservazioni
medesime.
3. Il parere provinciale di compatibilità
del P.C.T.P. con il P.G.T. comunale o i suoi
piani attuativi, anche in variante, non
costituisce una manifestazione della
generale potestà di pianificazione
riconosciuta nel Testo Unico degli Enti
Locali all'organo consigliare, quanto
piuttosto una valutazione di ordine tecnico,
non riservata al Consiglio, risultando
conseguentemente competente la Giunta
Provinciale ad adottare il parere di
compatibilità del P.I.I. con il P.T.C.P.
impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 20.12.2010 n.
7614 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Recupero
abitativo dei sottotetti esistenti - Art.
64, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Piano
regolatore successivo all'edificazione dello
stabile - Altezza massima degli edifici -
Ulteriore innalzamento da recupero del
sottotetto - Non è ammissibile.
La ratio dell'art. 64 della L.R. 12/2005,
laddove vieta il superamento dei limiti di
altezza previsti dagli strumenti
urbanistici, è senza dubbio quella di
evitare che attraverso il recupero abitativo
dei sottotetti esistenti vengano nei fatti
eluse o violate le prescrizioni urbanistiche
vincolanti in tema di altezza massima di
edifici, giacché tale superamento finirebbe
per aggravare carichi urbanistici spesso
assai consistenti, ponendo così in
discussione equilibri urbanistici talora
fragili, soprattutto nell'agglomerato urbano
milanese. Di conseguenza, laddove uno
stabile già supera l'altezza massima
prevista da disposizioni di piano successive
alla sua edificazione, non può consentirsi
un ulteriore innalzamento, derivante dal
recupero del sottotetto, in quanto ciò
sarebbe eccessivamente lesivo dell'interesse
della collettività al rispetto dei carichi
urbanistici della zona (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 20.12.2010 n.
7612 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della p.a. - Gara - Determinazione della
soglia di anomalia - Taglio delle ali -
Esclusione delle offerte che presentano
ribassi identici - illegittimità.
Ai fini della determinazione della soglia di
anomalia delle offerte nelle gare
aggiudicate con il criterio del prezzo più
basso, ove nel corso delle operazioni
relative al c.d. taglio delle ali (ossia
all'esclusione del 10% delle offerte di
maggior ribasso e del 10% delle offerte di
minor ribasso, arrotondato all'unità
superiore) si verifichi il caso che, per
effetto di ribassi identici, rientrino,
nell'una o nell'altra ala, offerte in numero
superiore al predetto limite del 10%, non si
procede all'esclusione di quelle che
presentano la stessa percentuale di ribasso,
perché, diversamente operando, si violerebbe
il dettato letterale della norma che limita
l'esclusione automatica a detta percentuale
(10%), si falserebbe il successivo calcolo
della media aritmetica e di quella ponderale
(Nella sentenza il TAR dà
correttamente atto che vi è un diverso
filone giurisprudenziale secondo il quale,
ai fini del taglio delle ali e del calcolo
della media dei ribassi, ove siano
presentate due (o più) offerte di pari
ribasso, si procede all'esclusione delle 2
(o più) offerte identiche in quanto le
stesse devono essere considerate
"unitariamente", vale a dire come se si
trattasse di una sola offerta. Cfr. Cons.
Stato, sez. V, 03.06.2002, n. 3068)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.12.2010 n.
7610 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti della p.a. - Appalto -
Interventi di ristrutturazione edilizia,
recupero di sottotetti e riqualificazione di
spazi - Gara - Art. 86, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Offerte - Verifica di
anomalia delle offerte - Valutazione
discrezionale della p.a. - Esclusione -
Legittima.
Secondo quanto disposto dall'art. 86, D.Lgs.
12.04.2006, n. 163 le stazioni
appaltanti possono sottoporre alla verifica
di congruità l'offerta dell'aggiudicataria
che, in base a particolari elementi, sia
sospettata di essere particolarmente bassa,
posto che è rimessa alla valutazione
spiccatamente discrezionale della p.a. la
scelta in merito all'opportunità di
sottoporre o meno l'offerta
dell'aggiudicataria alla verifica di
anomalia (Nella fattispecie l'offerta è
stata ritenuta anomala in ragione
dell'elevata percentuale di sconto offerto
dalla ricorrente rispetto alla base d'asta,
pari al 31,771 %, anche in considerazione
della notevole complessità dell'intervento
consistente in lavori di ristrutturazione
edilizia, recupero di sottotetti a uso
abitativo e riqualificazione di spazi per
servizi e attività)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.12.2010 n.
7609 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti della p.a. - Art. 51 D.Lgs.
163/2005 - Affitto di ramo d'azienda -
Intervenuto prima dell'aggiudicazione -
Verifica immediata dei requisiti in capo
all'impresa subentrante - Obbligo in capo
alla stazione appaltante - Sussiste - Ratio.
L'art. 51 D.Lgs. 163/2005 (nel prevedere la
possibilità di una modifica soggettiva dei
partecipanti alla gara, a seguito di
cessioni o affitti di azienda (o di rami di
azienda), trasformazione, fusione o
scissione di società, superando così il
tradizionale principio della
immodificabilità delle imprese concorrenti)
impone alle stazioni appaltanti, nelle
ipotesi di modificazioni soggettive ivi
previste, l'immediata verifica dei requisiti
generali e speciali in capo al nuovo
soggetto, senza alcuna dilazione.
Ciò
risulta coerente con la stessa ratio della
disposizione, ispirata ad un giusto
contemperamento tra principio della massima
partecipazione alla gara, cui è preordinata
la modificazione soggettiva, e par condicio
fra i concorrenti, da garantirsi mediante
l'immediata verifica dei requisiti anche del
nuovo soggetto subentrante (Fattispecie
nella quale la modificazione soggettiva
realizzatasi a seguito di affitto di ramo
d'azienda da parte di un'impresa concorrente
era sopravvenuta mentre era ancora in corso
la fase di valutazione delle offerte, con la
conseguenza che la verifica in merito
all'esistenza dei requisiti generali e
speciali in capo all'impresa affittuaria
avrebbe dovuto precedere -e non seguire-
l'aggiudicazione)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 20.12.2010 n.
7600 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Atto amministrativo -
Annullamento - Effetti - Conservazione degli
atti giuridici - Necessità - Rinnovazione
del procedimento - Limite - Fasi
procedimentali effettivamente viziate -
Validità ed efficacia degli atti precedenti
a quello viziato - Sussiste.
2. Giustizia amministrativa - Risarcimento
dei danni - Per lesione di interessi
legittimi - Presupposto della colpa della
P.A. - Accertamento - Modalità - Onere
probatorio - Individuazione - Illegittimità
del provvedimento - Costituisce indice
presuntivo - Possibilità per la p.a. di
dimostrare l'esistenza di un errore
scusabile - Sussiste - Presupposti.
1. In virtù del generale principio della
conservazione degli atti giuridici, nonché
di quello di economicità dell'azione
amministrativa e del divieto di aggravio del
procedimento, la concreta portata
dell'annullamento degli atti amministrativi
deve essere limitata esclusivamente a quelli
effettivamente incisi dall'accertata
illegittimità; pertanto, la rinnovazione del
procedimento risulta circoscritta soltanto
alle fasi viziate e a quelle successive,
conservando i precedenti atti legittimi
dello stesso procedimento piena efficacia e
validità.
2.
Il privato danneggiato può invocare
l'illegittimità del provvedimento quale
indice presuntivo della colpa della p.a. o
anche allegare circostanze ulteriori, idonee
a dimostrare che si è trattato di un errore
non scusabile. Spetterà a quel punto
all'Amministrazione dimostrare che si è
trattato di un errore scusabile,
configurabile in caso di contrasti
giurisprudenziali sull'interpretazione di
una norma, di formulazione incerta di norme
da poco entrate in vigore, di rilevante
complessità del fatto, di influenza
determinante di comportamenti di altri
soggetti, di illegittimità derivante da una
successiva dichiarazione di
incostituzionalità della norma applicabile
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.12.2010 n.
7591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della p.a. - Danno da illegittima mancata
aggiudicazione - Quantificazione - Utile non
conseguito - È indice presuntivo -
Conseguenze - Possibile riduzione in via
equitativa del danno risarcibile - Sussiste
- In caso di mancata dimostrazione di un
danno effettivo.
L'imprenditore, in quanto soggetto che
esercita professionalmente una attività
economica organizzata finalizzata alla
produzione di utili, normalmente non rimane
inerte in caso di mancata aggiudicazione di
un appalto, ma si procura prestazioni
contrattuali alternative dalla cui
esecuzione trae utili.
Ciò implica che il
danno derivante ad una impresa
dall'illegittimo mancato affidamento di un
appalto è quantificabile nella misura
dell'utile non conseguito, soltanto se
l'impresa possa documentare di non aver
potuto utilizzare mezzi e maestranze,
lasciati disponibili, per l'espletamento di
altri servizi, mentre qualora tale
dimostrazione non sia stata offerta è da
ritenere che l'impresa possa avere
ragionevolmente riutilizzato mezzi e
manodopera per lo svolgimento di altri,
analoghi servizi, così vedendo in parte
ridotta la propria perdita di utilità, con
conseguente riduzione in via equitativa del
danno risarcibile
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.12.2010 n.
7591 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Lex specialis di gara -
Impugnazione immediata - In presenza di
clausole discriminatorie immediatamente
lesive - Interesse a ricorrere - Sussiste
indipendentemente dalla presentazione della
domanda di partecipazione.
Qualora la lex specialis di gara contenga
clausole discriminatorie e comunque ostative
alla partecipazione, per cui la
presentazione della domanda di
partecipazione da parte di un'impresa si
risolverebbe in un adempimento formale
inevitabilmente seguito da un atto di
esclusione, sussiste l'onere di impugnazione
immediata delle clausole della lex specialis
preclusive della partecipazione.
In tale
contesto, pertanto, l'interesse ad impugnare
il bando sussiste a prescindere dalla
mancata presentazione della domanda (cfr.
sul punto, Cons. Stato, Sez. V, 09.04.2010, n. 1999; id. Sez. V, 19.03.2009, n.
1624; id. Sez. IV, 30.05.2005, n. 2804.
In senso opposto v. Cons. Stato, Sez. V, 03.01.2002, n. 6)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 18.12.2010 n.
7590 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in
sanatoria - Calcolo oneri di urbanizzazione
- Art. 40 D.L. n. 269/2003 - Delibera di
Giunta n. 2493/2004 - Incremento dei diritti
e degli oneri di segreteria - Errata
applicazione - Illegittimità.
Considerato il tenore letterale dell'art.
32, comma 40, D.L. n. 269/2003, e della
connessa delibera di Giunta 2493/2004,
attuativa della previsione di legge,
l'incremento percentuale (del 10% sui
diritti ed oneri previsti per il rilascio
dei titoli abilitativi) è applicabile non
agli oneri concessori relativi
all'intervento edilizio, ma ai diritti ed
oneri correlati all'istruttoria delle
domande finalizzate al rilascio del titolo
abilitativo, risultando conseguentemente
illegittima la quantificazione degli oneri
urbanistici impugnata; diritti ed oneri che
il Comune ha facoltà di incrementare in
relazione al maggior impiego di risorse
(personale e mezzi) che qualsiasi sanatoria
-implicante un afflusso eccezionale di
istanze da istruire ed evadere in aggiunta
all'attività ordinaria- notoriamente
richiede (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 17.12.2010 n.
7589 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Valutazione ambientale strategica - Scelta
dell'autorità competente - Principio di
separazione dell'autorità competente
rispetto a quella procedente - Necessità -
Ratio.
Nell'ambito del procedimento amministrativo
di VAS devono risultare separate l'autorità
che approva il piano -autorità procedente-
e quella che esprime invece la valutazione
ambientale strategica sul medesimo -autorità competente- (cfr. TAR Milano,
sent. n. 1526/2010) (nel caso di specie il
TAR ha sospeso il giudizio, in attesa del
deposito della sentenza del Consiglio di
Stato sull'appello proposto avvero la
sentenza 1526/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7512 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Permesso di
costruire - Termine di impugnazione -
Decorrenza dalla percezione della lesività
dell'opera.
2. DIA - Duplice e
contestuale intervento di
demolizione/ricostruzione di immobile e
recupero di sottotetto - Legittimità -
Presupposti.
1.
In tema di tempestività dell'impugnazione
della DIA -o del permesso di costruire- il
termine di impugnazione decorre
dall'effettiva percezione della lesività
delle opere edilizie assentite (cfr. TAR
Milano, sent. nn. 1147/2010, 1149/2010 e
1150/2010).
2. L'intervento conseguente ad una DIA che,
in realtà, debba qualificarsi come una sorta
di doppio intervento edilizio, seppure
oggetto di un solo titolo abilitativo - da
una parte una ristrutturazione edilizia,
mediante demolizione e ricostruzione
dell'immobile, ex art. 27, comma 1, lettera
d) L.R. 12/2005, e dall'altra un contestuale
recupero ai fini abitativi del sottotetto
esistente, ex art. 63 della medesima legge
regionale - è legittimo, purché sussistano i
presupposti di legge per entrambi gli
interventi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanza minima
tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 -
Sopraelevazioni e recupero sottotetti -
Rispetto delle distanze - Necessità - Ratio.
2. Distanza minima
tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 -
Sopraelevazioni e recupero sottotetti -
Rispetto delle distanze - In caso di
demolizione e ricostruzione a medesima
distanza - Inapplicabilità.
1. In tema di distanze fra edifici, ed in
particolare la distanza minima di 10 metri
fra pareti finestrate, ex art. 9 D.M.
1444/1968, le porzioni di edificio
risultanti dal recupero ai fini abitativi
dei sottotetti esistenti devono
considerarsi, ai fini del rispetto dell'art.
9, quali nuove costruzioni, con la
conseguenza che dovranno necessariamente
essere collocate ad almeno 10 metri dalla
parete dell'edificio antistante: ciò, in
quanto l'art. 9 è norma di ordine pubblico,
insuscettibile di deroga negli strumenti
urbanistici e nei regolamenti locali, volta
ad impedire la realizzazione di
intercapedini nocive sotto il profilo
igienico, cosicché deve essere rispettata
anche in caso di sopraelevazioni o di
recupero di sottotetti (cfr. TAR Milano,
sent n. 3262/2010, n. 1991/2007; Cons. di
Stato, sent. n. 7731/2010).
2. L'art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile ai
nuovi edifici e tale non può essere
considerato lo stabile demolito e poi
ricostruito alla stessa distanza del
precedente (cfr. TAR Milano, sent. n.
1220/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7511 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Rilascio del
permesso di costruire - Termini del
procedimento ex art. 38 L.R. 12/2005 -
Natura ordinatoria - Conseguenze.
In materia di limiti temporali per il
rilascio del permesso di costruire, i
termini del procedimento di cui all'art. 38
della L.R. 12/2005 (al pari del resto di
quelli di cui alla normativa statale, art.
20 del DPR 380/2001), non hanno carattere
perentorio, bensì ordinatorio e la loro
inosservanza non implica di per sé
l'illegittimità del provvedimento adottato
tardivamente, ma semplicemente la scadenza
del termine consente all'interessato di
attivare la procedura sostitutiva per il
rilascio del titolo edilizio di cui
all'ultimo comma del citato art. 38 (cfr.
TAR, Milano, sent. n. 7220/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7510 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. PGT -
Osservazioni dei privati - Termine ultimo
per la decisione del Comune sulle
osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R.
12/2005 - Interpretazione letterale -
Inammissibilità.
2. PGT -
Osservazioni dei privati - Termine ultimo
per la decisione del Comune sulle
osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R.
12/2005 - Inefficacia degli atti assunti
fuori termine - Presupposti - Solo in caso
di adozione atti non preceduta dalla
decisione sulle osservazioni presentate
dagli interessati.
3. PGT -
Osservazioni dei privati - Termine ultimo
per la decisione del Comune sulle
osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R.
12/2005 - Natura ordinatoria.
4. Scelte della
P.A. in sede di PRG e sue varianti generali
- Ampia discrezionalità - Sindacato del
giudice amministrativo - Solo nei limiti di
errori di fatto o di abnormi illogicità.
5. PGT -
Destinazione a zona agricola - Utilizzo per
coltivazione - Non necessita - Finalità di
tutela ambientale - Legittimità.
1. Non è ammissibile un'interpretazione
letterale della previsione di cui all'art.
13, comma 7, L.R. 12/2005, poiché
individuando la ratio dell'art. 13
nell'esigenza di dettare una rigida
tempistica procedimentale a fini
acceleratori, correlando alla mera
violazione del termine previsto dal comma 7
l'inefficacia degli atti del p.g.t., si
otterrebbero esiti contrastanti con il
principio di buon andamento dell'azione
amministrativa, posto dall'art. 97 Cost.; in
particolare, qualora si ritenesse che
all'inutile scadenza del termine entro il
quale il Consiglio Comunale deve decidere
sulle osservazioni consegua la perdita di
efficacia del provvedimento di adozione del
p.g.t., allora l'attività amministrativa
precedentemente esercitata verrebbe posta
nel nulla, con conseguente obbligo per
l'amministrazione di rinnovare l'intero
procedimento, il tutto in contrasto con il
principio di economicità oltre che con la
stessa ratio acceleratoria sottesa alla
norma.
2. L'inefficacia prevista ex art. 13, comma
7, L.R. 12/2005 integra una sanzione dettata
non a tutela di adempimenti formali, come il
mero rispetto della tempistica
procedimentale, bensì di esigenze
sostanziali, emergenti nell'ipotesi in cui
il piano di governo del territorio sia
approvato in assenza di una decisione sulle
osservazioni o non recepisca le osservazioni
accolte, con la conseguenza che
l'inefficacia degli atti assunti dal Comune
si verifica solo quando la loro adozione non
sia stata preceduta dalla decisione delle
osservazioni presentate dagli interessati.
3. In materia di PGT, la mera violazione del
termine di novanta giorni previsto dall'art.
13, comma 7, L.R. 12/2005, in caso di
adozione di atti di pianificazione del
territorio preceduta dalla decisione del
Comune sulle osservazioni presentate dagli
interessati, non comporta conseguenza
alcuna, dovendo detto termine ritenersi
meramente ordinatorio.
4. Le scelte effettuate dalla P.A. in sede
di adozione-approvazione degli atti di
pianificazione del territorio costituiscono
apprezzamento di merito o, comunque,
espressione di ampia potestà discrezionale,
sottratto al sindacato di legittimità salvo
che tali scelte non siano inficiate da
errori di fatto o abnormi illogicità (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 2571/2007; TAR
Milano, sent. n. 1093/2010, n. 1277/2006).
5. La destinazione di un'area a zona
agricola a ragione può essere disposta a
salvaguardia del paesaggio o dell'ambiente e
non presuppone necessariamente che l'area
stessa venga utilizzata ad uso agricolo
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5478/2008; TAR Trento, sent. n. 41/2010; TAR
Pescara, sent. n. 33/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Distanze legali
tra fabbricati - In caso di ristrutturazione
con ampliamento di edifici all'esterno della
sagoma esistente - Applicabilità normativa
sulle distanze legali - Inderogabilità.
2. Distanze legali
tra fabbricati - In caso di modifica del
tetto incidente sulla sagoma esterna
dell'edificio con aumento di volumetria dei
piani sottostanti - Applicabilità normativa
sulle distanze legali - Necessità.
1. Sono soggetti alla disciplina delle
distanze tutti gli interventi edilizi,
ancorché definiti come "ristrutturazione"
(recupero del sottotetto) che comportino
l'ampliamento di edifici all'esterno della
sagoma esistente (cfr. TAR Milano, n.
1991/2007).
In particolare, l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, mirando ad evitare la
creazione di intercapedini in grado di
impedire la libera circolazione dell'aria,
come tali produttive di insalubrità oltreché
riduttive di luminosità e dunque non
autorizzabili per motivi igienico-sanitari,
risponde ad esigenze pubblicistiche che
sovrastano gli interessi dei singoli, per
soddisfare interessi generali, e non è
pertanto suscettibile di deroghe pattizie
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1565/1999;
TAR Catania, sent. n. 2373/1994).
2. Ogni modifica del tetto incidente sulla
sagoma esterna dell'edificio che produca
aumento della volumetria dei piani
sottostanti è soggetta all'osservanza delle
distanze legali (cfr. Cass. Civ., sent. n.
20786/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7505 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oneri di
urbanizzazione - Pattuizione negoziale tra
P.A. e privato - Ritardato pagamento rate -
Sanzione legale - Inapplicabilità.
A fronte di una pattuizione negoziale tra
P.A. e privato in materia di oneri di
urbanizzazione, pattuizione che ha
introdotto una disciplina diversa rispetto a
quella legale, non può applicarsi la norma
che introduce il regime sanzionatorio per
violazione di scadenze previste dalla legge,
in quanto la sanzione è legata al termine
legale (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7504 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono
edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di
determinazione degli oneri con esclusivo
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria - Non sussiste - Ratio.
In materia di condono edilizio ed oneri
concessori, relativamente alle relative
normative succedutesi nel tempo -art. 32,
D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art.
37, L. 47/1985- non è ravvisabile un
orientamento interpretativo consolidato da
cui possa ricavarsi un unico principio
fondamentale della legislazione statale,
secondo cui gli oneri di concessione debbano
essere determinati esclusivamente con
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria: infatti, gli oneri di concessione
potrebbero essere ancorati alle tariffe
vigenti, alternativamente, al momento in cui
l'abuso è iniziato, al momento in cui
l'immobile abusivo è completato, al momento
dell'entrata in vigore della normativa
statale sul condono, al momento dell'entrata
in vigore della normativa regionale sul
condono, al momento in cui è stata
effettuata la richiesta di condono o,
infine, al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria (cfr. TAR
Milano, sent. n. 6955/2010, n. 6957/2010, n.
833/2010 e sent. nn. 7385 - 7386 - 7388 -
7389 - 7390 - 7391 - 7392 del 2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 10.12.2010 n.
7503 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Gara - Clausole del bando di gara di
dubbia interpretazione - Ammissione di tutte
le offerte - Legittima -Applicazione del
principio del "Favor partecipationis".
In presenza di clausole del bando di dubbia
interpretazione e, come tali, idonee ad
indurre in errore i concorrenti, è legittimo
il comportamento dell'Amministrazione che
ammette alla procedura selettiva tutte le
imprese che hanno presentato l'offerta, in
applicazione del principio di matrice
comunitaria del favor partecipationis (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 09.12.2010 n.
7479 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Piano Regolatore
Generale - Misure di salvaguardia -
Decorrenza.
Le misure di salvaguardia decorrono dalla
data della deliberazione comunale di
adozione dei piani anche prima che la
delibera divenga esecutiva per effetto della
pubblicazione (massima tratta da
www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.12.2010 n.
7475 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. D.I.A. - Potere
della P.A. di inibire l'esecuzione dei
lavori - Grado di motivazione dell'atto in
autotutela - Principio di diretta
proporzionalità tra la motivazione ed il
trascorrere del tempo.
2. D.I.A. - Potere
sanzionatorio della P.A. - Presupposti.
1. In materia di D.I.A. e di relativo
annullamento in autotutela, tanto maggiore è
il lasso di tempo trascorso tra l'avvio
dell'attività e l'esercizio del potere di
autotutela, maggiore deve, dunque, essere il
grado di motivazione sulle ragioni di
pubblico interesse, diverse da quelle al
mero ripristino della legalità, che deve
connotare il relativo provvedimento
amministrativo (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 6465/2006, n. 5622/2006, n. 846/2006).
2. In materia di DIA, una volta decorso il
termine perentorio di 30 giorni previsto
dall'art. 23, D.P.R. 380/2001, la P.A., per
potere esercitare il potere sanzionatorio,
deve, in primis, incidere sul titolo
edilizio, intervenendo su di esso in
autotutela, sempre che ne ricorrano i
presupposti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 03.12.2010 n.
7474 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Denuncia di
inizio attività - Produzione effetti dal
trentesimo giorno dalla presentazione -
Presupposti.
2. Denuncia di
inizio attività - Modifiche normative
successive alla presentazione della DIA -
Principio della sensibilità della DIA - Ratio.
3. Denuncia di
inizio attività - Modifiche normative
successive alla presentazione della DIA -
Principio della sensibilità della DIA -
Applicabilità alle disposizioni
regolamentari.
1. La DIA, indipendentemente dalla qualifica
giuridica assegnata -punto su cui si
contrappongono due differenti orientamenti
che sostengono rispettivamente la natura di
autorizzazione implicita e di atto privato-
produce effetti al trentesimo giorno dalla
sua presentazione, purché, sia completa di
tutti gli elementi richiesti dalla legge
(cfr. TAR Milano, sent. n. 5737/2008).
2. Nello
spatium deliberandi dei 30
giorni dalla presentazione della DIA,
periodo durante il quale la P.A. ha un
compito di controllo, a conclusione del
quale può esercitare poteri inibitori dei
lavori non ancora avviati, le eventuali
modifiche normative devono trovare
applicazione, in quanto il procedimento non
è ancora perfezionato e la DIA non può
produrre effetti: vige allora il principio
del tempus regit actum, per cui la P.A. è
tenuta ad applicare la normativa in vigore
al momento dell'adozione del provvedimento
definitivo, quand'anche sopravvenuta, e non
già, salvo che espresse norme statuiscano
diversamente, quella in vigore al momento
dell'avvio del procedimento.
3. Il principio della "sensibilità" della
DIA alle modifiche legislative nei trenta
giorni tra la presentazione e l'inizio
dell'efficacia, deve trovare applicazione
anche rispetto ad eventuali variazioni delle
disposizioni regolamentari, tra cui la
disciplina pianificatoria e le tariffe degli
oneri (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 02.12.2010 n.
7467 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Acquiescenza -
Presupposti - Sussistenza dell'acquiescenza
per mera presunzione - Inconfigurabilità.
Sussiste acquiescenza ad un provvedimento
amministrativo solo in presenza di atti,
comportamenti o dichiarazioni univoci, posti
liberamente in essere dal destinatario
dell'atto, che dimostrino la chiara ed
incondizionata volontà dello stesso di
accettarne gli effetti e l'operatività;
pertanto, deve escludersi la possibilità di
affermare la sussistenza dell'acquiescenza
per mera presunzione, non potendosi in tal
caso trovare univoco riscontro della volontà
dell'interessato di accettare tutte le
conseguenze derivanti dall'atto
amministrativo (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 7031/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 02.12.2010 n.
7465 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Condono
edilizio - E' disciplina speciale ed
eccezionale - Ambito di applicazione -
Estensione della disciplina ad ipotesi non
previste dalla legge - Inconfigurabilità.
Il carattere speciale ed eccezionale
della disciplina del condono, derogatoria
degli ordinari istituti in materia di
rilascio dei titoli edilizi, è di
strettissima applicazione: in particolare,
l'art. 32, comma 25, L. 269/1993 contempla
in modo tassativo le classi di opere abusive
condonabili, specificando per le nuove
costruzioni la natura residenziale ed
escludendo l'estensione ad altre ipotesi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 02.12.2010 n.
7465 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Condono
edilizio - Dovere di provvedere del Comune
ex art. 32, comma 37, D.L. 269/2003 -
Decorrenza del biennio - Dies a quo -
Presentazione di istanza debitamente
documentata.
2. Condono
edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di
determinazione degli oneri con esclusivo
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria - Non sussiste - Ratio.
1. In materia di giusto procedimento e di
principi di economicità ed efficienza
dell'azione amministrativa, il biennio
assegnato al Comune per provvedere, decorso
il quale si forma il silenzio-assenso, -in
forza dell'art. 32, comma 37, D.L. 269/2003
e del relativo richiamo alle disposizioni di
cui alla L. 47/1985- decorre dalla
presentazione di un'istanza debitamente
documentata (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
4174/2010, n. 4671/2009, n. 1797/2007, n.
4946/2005).
2. In materia di condono edilizio ed oneri
concessori, relativamente alle relative
normative succedutesi nel tempo -art. 32,
D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art.
37, L. 47/1985- non è ravvisabile un
orientamento interpretativo consolidato da
cui possa ricavarsi un unico principio
fondamentale della legislazione statale,
secondo cui gli oneri di concessione debbano
essere determinati esclusivamente con
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria: infatti, gli oneri di concessione
potrebbero essere ancorati alle tariffe
vigenti, alternativamente, al momento in cui
l'abuso è iniziato, al momento in cui
l'immobile abusivo è completato, al momento
dell'entrata in vigore della normativa
statale sul condono, al momento dell'entrata
in vigore della normativa regionale sul
condono, al momento in cui è stata
effettuata la richiesta di condono o,
infine, al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria (cfr. TAR Milano,
sent. n. 6955/2010, n. 6957/2010, n.
833/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenze 02.12.2010 nn.
7464 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Chiusura di un portico con
edificazione di locale ristorante - Aumento
di volumetria - Sussiste - Nuova costruzione
- Permesso costruire - Necessità.
L'edificazione di un locale ristorante
attuata mediante la chiusura di un porticato
preesistente non può qualificarsi quale
intervento manutentivo e conservativo e
neppure quale ristrutturazione edilizia,
avendo determinato la creazione di un
manufatto del tutto nuovo, diverso anche
quanto a utilizzazione, comportante nuova
volumetria e superficie: pertanto, esso deve
essere qualificato come nuova costruzione,
soggetta al previo rilascio del permesso di
costruire (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 02.12.2010 n.
7462 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
1. Convenzione per
l'attuazione di un piano integrato di
intervento - Oneri di urbanizzazione -
Determinazione dell'importo condizionata ai
valori vigenti al momento del rilascio dei
titoli abilitativi edilizi - Successivi
mutamenti legislativi - Irrilevanza.
2. Oneri di
urbanizzazione - Determinazione dell'importo
- Art. 38, comma 7, L.R. 12/2005 e
determinazione oneri al momento
dell'approvazione di piani attuativi -
Efficacia - Solo per il futuro - Meccanismo
di inserzione automatica delle clausole ex
art. 1339 c.c. - Inapplicabilità.
1. In caso di convenzione stipulata tra il
comune ed il privato per l'attuazione di un
programma integrato di intervento in cui sia
stabilito che l'importo degli oneri di
urbanizzazione sarà quantificato in base ai
valori vigenti al momento del rilascio dei
titoli abilitativi edilizi, tale previsione
ha forza di legge tra le parti, ai sensi
dell'art. 1372 c.c., ed è insensibile ai
mutamenti legislativi intervenuti
successivamente (cfr. Cons. di Stato, sent.
n. 1032/1998).
2. L'art. 38, comma 7-bis, L.R.
n. 12/2005 -nel prevedere che "nel caso
di piani attuativi o di atti di
programmazione negoziata con valenza
territoriale, l'ammontare degli oneri è
determinato al momento della loro
approvazione, a condizione che la richiesta
del permesso di costruire, ovvero la
denuncia di inizio attività siano presentate
entro e non oltre trentasei mesi dalla data
della approvazione medesima"- dispone
solo per il futuro: pertanto, esso non può
trovare applicazione laddove prima della sua
entrata in vigore sia già stato approvato il
programma integrato di intervento e sia già
stata stipulata la relativa convenzione,
nella quale sia stato previsto il criterio
per la determinazione degli oneri in
conformità alle disposizioni a quell'epoca
vigenti.
Né può operare il meccanismo di inserzione
automatica delle clausole previsto dall'art.
1339 c.c. poiché si verte in tema di diritti
disponibili (cfr. Cons. Stato, sent. n.
1209/1999 e n. 4015/2005; TAR Milano, sent.
n. 196/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 02.12.2010 n.
7461 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio - Ingiunzione di
demolizione - Soggetti passivi - Esclusione
del proprietario - Presupposti.
Qualora l'attuale proprietario di un
immobile abusivo non sia responsabile
dell'abuso, non abbia mai ricevuto l'ordine
di demolizione e, una volta venuto a
conoscenza di quest'ultimo atto, abbia
provveduto a demolire le opere, ne consegue
che è illegittimo il provvedimento di
acquisizione dell'area, che contenga una
sanzione prevista per l'inottemperanza
all'ingiunzione di demolizione stessa:
infatti, quest'ultima può essere disposta
esclusivamente in danno del responsabile
dell'abuso edilizio e non può costituire
titolo per l'acquisizione gratuita al
patrimonio comunale dell'area di sedime
sulla quale insiste il bene abusivo qualora
risulti in modo inequivocabile la completa
estraneità del proprietario al compimento
dell'opera abusiva o che, essendo egli
venuto a conoscenza, si sia adoperato per
impedirlo con gli strumenti offerti
dall'ordinamento (cfr. TAR Napoli, sent. n.
17176/2010; TAR Cagliari, sent. n.
1352/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 29.11.2010 n.
7393 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Condono
edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di
determinazione degli oneri con esclusivo
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria - Non sussiste - Ratio.
2. Permesso di
costruire in sanatoria ex D.Lgs. n. 269/2003
- Contributo di urbanizzazione e costo di
costruzione - Tariffe vigenti - Art. 6 L.R.
n. 31/2004 - Legittimità costituzionale.
1. In materia di condono edilizio ed oneri
concessori, relativamente alle relative
normative succedutesi nel tempo -art. 32,
D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art.
37, L. 47/1985- non è ravvisabile un
orientamento interpretativo consolidato da
cui possa ricavarsi un unico principio
fondamentale della legislazione statale,
secondo cui gli oneri di concessione debbano
essere determinati esclusivamente con
riferimento alle tariffe vigenti alla data
di entrata in vigore della legge di
sanatoria: infatti, gli oneri di concessione
potrebbero essere ancorati alle tariffe
vigenti, alternativamente, al momento in cui
l'abuso è iniziato, al momento in cui
l'immobile abusivo è completato, al momento
dell'entrata in vigore della normativa
statale sul condono, al momento dell'entrata
in vigore della normativa regionale sul
condono, al momento in cui è stata
effettuata la richiesta di condono o,
infine, al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria (cfr. TAR
Milano, sent. n. 6955/2010, n. 6957/2010, n.
833/2010).
2. In relazione al fatto se gli oneri di
urbanizzazione ed il costo di costruzione
dovuti ai fini della sanatoria debbano
essere commisurati alle tariffe vigenti al
momento del deposito dell'istanza di
sanatoria o a quelle vigenti al tempo del
rilascio del titolo edilizio, dispone l'art.
4, c. 6, L.R. 3.11.2004 n. 31 nel senso che
la determinazione deve effettuarsi tenendo
conto del regime tariffario in vigore al
momento di adozione del permesso di
sanatoria, essendo stata tale soluzione
interpretativa ritenuta costituzionalmente
legittima (cfr. Corte Cost., ordinanza n.
105/2010) in quanto la scelta normativa
della Regione Lombardia rappresenta "un
bilanciamento di interessi che può solo
essere effettuato dal legislatore" (cfr.
TAR Milano, sent. n. 833/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenze 29.11.2010 nn.
7385,
7386,
7388,
7389,
7390,
7391,
7392 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Denuncia di inizio
attività - Autotutela - Decorso del termine
di legale per interdire i lavori - Esercitabilità del potere di autotutela -
Sussiste - Limiti.
In materia di D.I.A., una volta decorso il
termine legale per interdire i lavori,
decorrente dalla presentazione della stessa,
il Comune può agire -entro un ragionevole
lasso di tempo- solo nell'esercizio del
potere di autotutela, valutando gli
interessi in conflitto, ovverossia
raffrontando l'interesse pubblico alla
demolizione all'interesse del privato alla
conservazione dell'opera, ultimata senza
tempestiva opposizione del Comune stesso
(cfr. Cons. di Stato, sent. n. 717/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 24.11.2010 n.
7356 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Contratti
della p.a. - Omessa presentazione della
dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. 163/2005 -
Conseguenze - Esclusione - Limiti.
2. Contratti
della p.a. - Gara - Offerte - Tutela della
segretezza - Tenuta dei plichi - Obbligo per
la stazione appaltante di predisporre
adeguate cautele - Sussiste - Omissione -
Effetti - Invalidità della gara.
3. Contratti
della p.a. - Tenuta della documentazione di
gara - Inosservanza di norme precauzionali
da parte della p.a. - Rischio di
manomissione - Effetti - Invalidità delle
operazioni di gara - Sussiste.
1. Deve condividersi l'orientamento
maggioritario secondo il quale l'omessa
presentazione della dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. 163/2005 da parte di un'impresa
concorrente non comporta la sua esclusione,
a condizione che non ricorrano in concreto
situazioni ostative alla partecipazione e
salvo che la stazione appaltante,
nell'esercizio del proprio potere
discrezionale, non ritenga di ricollegare
l'adozione del provvedimento di esclusione
alla mera omissione della dichiarazione (conf.
v. Cons. Stato, Sez. VI, 22.02.2010,
n. 1017).
2. Sulla Commissione giudicatrice grava un
preciso dovere di predisporre idonee cautele
nella conservazione dei plichi a tutela
della loro integrità che devono, altresì,
risultare da apposita verbalizzazione, la
cui omissione comporta l'invalidità della
gara, senza che assumano rilevanza eventuali
tardive dichiarazioni circa le concrete
modalità di custodia dei plichi (conf. v.
Cons. Stato, Sez. V, 12.12.2009, n.
7804).
3. Qualora dalle risultanze processuali
emerga che, per inosservanza di norme
precauzionali, la documentazione di gara sia
rimasta esposta al rischio di manomissione,
devono ritenersi invalide le operazioni di
gara, senza che a carico dell'interessato
possa configurarsi un onere - del resto
impossibile da adempiere - di provare un
concreto evento di danno (conf. v. Cons. di
stato, Sez. V, 21.05.2010, n. 3203)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.11.2010 n.
7353 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Contratti
della p.a. - Appalto - Gara - Commissione -
Composizione - Art. 84, comma 2, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Esperienza dei
componenti - Interpretazione - Va valutata
in capo alla Commissione nel suo complesso.
2. Contratti
della p.a. - Appalto - Gara - Offerte -
Valutazione - Espressa mediante voto
numerico - Sufficienza - Obbligo di
giustificazione del punteggio attribuito -
Non sussiste.
3. Contratti
della p.a. - Appalto - Gara - Principio di
concentrazione e di continuità - Ratio -
Indipendenza della Commissione da influenze
esterne - Violazione - Effetti - Invalidità
della procedura - Sussiste - Limiti.
1. Il requisito generale dell'esperienza
«nello specifico settore cui si riferisce
l'oggetto del contratto» previsto, dall'art.
84, comma 2, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163,
per i componenti della Commissione
giudicatrice di una gara per l'affidamento
di un appalto pubblico, deve essere inteso
gradatamente e in modo coerente con la
poliedricità delle competenze di volta in
volta richieste in relazione alla
complessiva prestazione da affidare; non è
necessario, pertanto, che l'esperienza
professionale di ciascun componente copra
tutti i possibili ambiti oggetto di gara, in
quanto è la Commissione, unitariamente
considerata, che deve garantire quel grado
di conoscenze tecniche richiesto nel caso
specifico, in ossequio al principio di buon
andamento della pubblica amministrazione (conf.
v. TAR Sardegna Cagliari, sez. I, 04.06.2008, n. 1126).
2. Ai fini della legittima valutazione delle
offerte presentate in occasione di una gara
di appalto è sufficiente l'attribuzione di
un punteggio numerico sulla base di criteri
predeterminati e sufficientemente specifici,
non sussistendo in capo alla Commissione
giudicatrice l'obbligo di giustificare con
espressa motivazione i punti attribuiti per
differenziare le diverse proposte, dovendosi
ritenere l'obbligo della motivazione
soddisfatto dal solo voto numerico (conf. v.
TAR Lombardia Milano, sez. III, 25.02.2008, n. 424).
3.
Il principio della continuità e della
concentrazione della gara, espressione della
più generale regola della imparzialità e
della par condicio fra i concorrenti, mira
ad assicurare l'indipendenza di giudizio di
chi presiede la gara ed a sottrarlo a
possibili influenze esterne e la sua
violazione può comportare l'invalidità della
procedura soltanto nell'ipotesi in cui il
lasso di tempo che intercorre tra una seduta
e l'altra sia irragionevole e assolutamente
non giustificabile
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.11.2010 n.
7320 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Inquinamento acustico - Controlli
e sopralluoghi della P.A. - Partecipazione
di tutti i soggetti interessati - Necessità
- Esclusione - Presupposti.
In materia di inquinamento acustico e
relativi sopralluoghi delle P.A., non è
configurabile un obbligo per
l'amministrazione, nell'effettuazione dei
debiti controlli, accertamenti od ispezioni,
per cui essa debba operare con la necessaria
partecipazione di tutti i soggetti
interessati, laddove tale coinvolgimento
possa compromettere la genuinità
dell'attività istruttoria compiuta (cfr.
Cons. di Stato, sent. n. 1224/2003, sent. n.
3190/2004; TAR Bologna, sent. n. 1530/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7312 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Concessione
edilizia in sanatoria - Accertamento di
conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 -
Necessità del presupposto della c.d. doppia
conformità - Sussiste - Realizzazione di
ulteriori interventi per rendere l'opera
conforme alle norme vigenti - Illegittimità.
2. Concessione
edilizia in sanatoria - Accertamento di
conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 -
Estensione discrezionale della P.A. oltre i
limiti di legge - Possibilità - Non
sussiste.
1. Ai sensi dell'art. 36, D.P.R. n. 380/2001
il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria è subordinato al presupposto della
c.d. "doppia conformità": l'opera abusiva,
per poter essere sanata, deve, cioè, essere
conforme non solo allo strumento urbanistico
esistente al momento della domanda di
sanatoria, ma anche a quello vigente al
momento della realizzazione dell'opera.
Pertanto, laddove un'istanza di sanatoria
preveda la realizzazione di ulteriori
interventi per rendere l'opera conforme alle
norme vigenti, è palese l'insussistenza del
requisito della conformità al momento della
richiesta di rilascio del titolo in
sanatoria e per tale ragione sarebbe
illegittimo un provvedimento di sanatoria
che, al fine di rendere l'esistente conforme
alle prescrizioni urbanistiche vigenti,
preveda l'esecuzione di ulteriori lavori.
2. L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001 non
consente spazi interpretativi, nel senso che
la concessione in sanatoria è ammessa
soltanto entro i limiti delineati dal
legislatore, senza alcuna estensione
discrezionale da parte della P.A. (cfr. C.G.A.
Regione Sicilia, sent. n. 941/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7311 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Contributi
concessori - Omesso o ritardato pagamento -
Procedimento sanzionatorio - Comunicazione
di avvio del procedimento - Necessità - Non
sussiste - Ratio.
2. Contributi
concessori - Omesso o ritardato pagamento -
Escussione fideiussione - Obbligo - Non
sussiste.
3. Abusi edilizi -
Sanzioni pecuniarie - Produzione di
interessi legali - Legittimità - Ratio.
1. Nei procedimenti sanzionatori per omesso
o ritardato pagamento dei contributi
concessori, non è dovuta comunicazione di
avvio del procedimento, attesa la natura
vincolata dei provvedimenti afflittivi e
l'automatica messa in mora del debitore per
effetto del mancato pagamento alla scadenza,
per cui nessun avviso di avvio del
procedimento è dovuto al debitore stesso
(cfr. TAR Sardegna, sent. n. 70/2008 e
Cons. di Stato, sent. n. 4419/2007).
2. Nei procedimenti sanzionatori per omesso
o ritardato pagamento dei contributi
concessori, la garanzia fideiussoria, se da
un lato vale certamente a rafforzare la
posizione della P.A. quale creditore
pecuniario, dall'altro non impone però a
quest'ultima la preventiva escussione del
fideiussore né esclude un'attenuazione
dell'obbligo del debitore principale e
neppure vale a trasformare l'obbligazione di
quest'ultimo in una sorta di obbligazione
sussidiaria rispetto a quella del
fideiussore (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
2581/2009 e n. 4419/2007; TAR Brescia,
sent. 519/2010; TAR Milano, sent. n.
4405/2009 e n. 4306/2009).
3.
E' legittima la produzione di interessi
legali sulle sanzioni, considerato che il
credito per queste ultime è comunque un
credito liquido ed esigibile, produttivo
come tale di interessi legali secondo la
generale previsione dell'art. 1282 c.c.,
senza contare che, in mancanza del pagamento
degli interessi, il ritardo nel versamento
delle sanzioni andrebbe soltanto a danno
della P.A. (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
8345/2003) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7308 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire -
Apposizione di condizioni - Legittimità -
Limiti.
È legittima l'apposizione di condizioni agli
atti amministrativi ed anche ai titoli
edilizi, purché, in quest'ultimo caso, la
condizione trovi fondamento anche
indirettamente in una norma di legge o di
regolamento ed attenga alle modalità
dell'intervento e non a profili totalmente
estranei all'attività edificatoria assentita
(cfr. TAR Milano, sent. n. 5655/2010 e Cons.
di Stato, sent. n. 7344/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Asfaltatura di
superfici di ampia estensione - Titolo
edilizio Necessità - Ratio.
2. Asfaltatura di
superfici di ampia estensione - In presenza
di recinzione regolarmente assentita -
Titolo edilizio - Necessità.
1. Sussiste la necessità del titolo edilizio
per la copertura con asfalto di superfici
aventi un'ampia estensione, trattandosi di
opera permanente avente un significativo
impatto urbanistico (cfr. TAR Milano,
sent. n. 4514/2002; Cass. Pen., sent. n.
33002/2003).
2. La circostanza che il terreno
abusivamente asfaltato sia circondato da una
recinzione regolarmente assentita non fa
venir meno la necessità del titolo edilizio
per l'asfaltatura: infatti, la presenza
della recinzione non attribuisce
all'asfaltatura carattere di pertinenza ai
fini urbanistico-edilizi, dovendo la nozione
di "pertinenza" a tali fini essere
limitata ad interventi di modeste
dimensioni, tali da non incidere sul carico
urbanistico (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
7549/2010; TAR Milano, sent. n. 28/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7306 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Zona agricola -
Possibilità per Comune e Provincia di
dettare disciplina differenziata - Sussiste.
2. Zona agricola -
Indici edificatori - Possibilità di
fissazione di limiti inferiori - Sussiste.
1. In materia di edificazione nelle zone
agricole, la vigente L.R. 12/2005 sul
governo del territorio consente al Comune di
dettare una disciplina differenziata per le
zone agricole, dal momento che essa demanda
agli strumenti urbanistici comunali ed in
particolare al piano delle regole, la
definizione, per le aree destinate
all'agricoltura, della relativa disciplina
"d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia"
(cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009);
analogo potere conformativo sulle aree
agricole è attribuito alla Provincia,
attraverso il piano territoriale di
coordinamento provinciale (PTCP), dall'art.
15, comma 4, della L.R. 12/2005.
2. In ordine agli indici edificatori, ex
art. 59, comma 3, L.R. 12/2005, è previsto
soltanto un limite massimo di densità
fondiaria, con conseguente possibilità di
fissazione di limiti inferiori, nell'ambito
della potestà di pianificazione urbanistica
(cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 22.11.2010 n.
7305 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Concessione edilizia - Rilascio -
Presupposti - Idoneo titolo di godimento
sull'immobile da parte del richiedente -
Necessità - Consenso unanime dei
comproprietari - Necessità.
Nel procedimento di rilascio della
concessione edilizia la P.A. ha il potere ed
il dovere di verificare l'esistenza, in capo
al richiedente, di un idoneo titolo di
godimento sull'immobile, interessato dal
progetto di trasformazione urbanistica,
trattandosi di una attività istruttoria che
non è diretta, in via principale, a
risolvere i conflitti di interesse tra le
parti private in ordine all'assetto
proprietario degli immobili interessati, ma
che risulta finalizzata, più semplicemente,
ad accertare il requisito della
legittimazione del richiedente.
In caso di opere che vadano ad incidere sul
diritto di altri comproprietari, è,
pertanto, necessario il consenso degli
stessi (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
6529/2003; sent. n. 4972/2001; TAR Toscana,
n. 1651/2001; TAR Parma, sent. n. 183/2002) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 19.11.2010 n.
7292 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
P.G.T. -
Osservazioni dei privati - Natura
collaborativa - Rigetto delle osservazioni -
Motivazione particolare - Necessità - Non
sussiste.
Le osservazioni dei privati, quali apporto
collaborativo alla formazione degli
strumenti urbanistici che non creano
peculiari aspettative, non richiedono, in
caso di reiezione, una dettagliata
motivazione, poiché è sufficiente che esse
siano state esaminate e ragionevolmente
ritenute in contrasto con gli interessi e le
considerazioni generali poste a base della
formazione del piano regolatore o della sua
variante (cfr. Cons. di Stato, sent. n.
6911/2010, TAR Milano, sent. n. 1742/2010 e
n. 268/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 18.11.2010 n.
7289 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della p.a. - Appalto - Gara - Perdita del
rapporto di fiducia - Esclusione - In caso
di indizione di una nuova gara - Legittima.
In forza del principio ricavabile dall'art.
38, comma 1, lett. f), D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 la stazione appaltante, in caso
di indizione di nuova gara, ha la facoltà di
non invitare il soggetto che in precedenza
abbia svolto un servizio, qualora ritenga
compromesso il rapporto fiduciario tra le
parti (conf. v. Cons. Stato, Sez. V,
29.12.2009, n. 8913)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.11.2010 n.
7248 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: 1. Contratti
della p.a. - Appalto - Gara - Verifica di
anomalia dell'offerta - Modalità - Obbligo
di verificare l'inesattezza delle singole
voci - Non sussiste - Valutazione
complessiva dell'offerta - Legittima.
2. Contratti
della p.a. - Appalto - Gara - Offerte - Art.
88, comma 7, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 -
Verifica di anomalia - Finalità - Massima
collaborazione - Modificabilità delle
giustificazioni - È ammessa - Limiti -
Affidabilità complessiva dell'offerta.
1. Il giudizio di anomalia non ha per
oggetto la ricerca di specifiche e singole
inesattezze dell'offerta economica mirando,
invece, ad accertare se l'offerta, nel suo
complesso, sia attendibile o inattendibile
e, dunque, se dia o meno serio affidamento
circa la corretta esecuzione dell'appalto (conf.
v. Cons. Stato, sez. VI, 21.05.2009, n.
3146).
2. In base al tenore letterale dell'art. 88,
comma 7, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, che
esprime la finalità della verifica di
anomalia, possono trarsi i seguenti princìpi:
il procedimento di verifica è avulso da ogni
formalismo inutile ed è invece improntato
alla massima collaborazione tra stazione
appaltante e offerente; il contraddittorio
deve essere effettivo; non vi sono
preclusioni alla presentazione di
giustificazioni, ancorate al momento della
scadenza del termine di presentazione delle
offerte; mentre l'offerta è immodificabile,
modificabili sono le giustificazioni e sono
ammesse giustificazioni sopravvenute e
compensazioni tra sottostime e sovrastime,
purché l'offerta risulti nel suo complesso
affidabile al momento dell'aggiudicazione
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.11.2010 n.
7246 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Procedura di
ampliamento e concentrazione delle attività
aziendali - Art. 5 D.P.R. 20.10.1998 n. 447
- Delibera consiliare - Indirizzi - Ambito
applicativo - Illegittimità.
2. Procedura di
ampliamento e concentrazione delle attività
aziendali - Art. 5 D.P.R. 20.10.1998 n. 447
- Diniego di variante urbanistica - Esito
favorevole conferenza di servizi - Non
vincolante - Accessibilità sostenibile -
Edilizia di espansione - Legittimità.
1. E' illegittima la deliberazione
consiliare che, nel formulare indirizzi in
ordine all'applicazione dell'art. 5 del
D.P.R. n. 447/98, circoscriva l'ambito
applicativo della norma ai progetti di
ampliamento di attività produttive
preesistenti, escludendo nuovi insediamenti
(nuove iniziative).
2. Premesso che l'esito favorevole della
conferenza di servizi e la proposta di
variazione dello strumento urbanistico
assunta dalla conferenza non è vincolante
per il Consiglio comunale, che deve
autonomamente valutare se aderire o meno
alla stessa, si deve ritenere legittimo il
diniego di variante urbanistica impugnato,
motivato dalla volontà di non alterare i
connotati del paesaggio agricolo, in quanto
la c.d. accessibilità sostenibile (emersa in
conferenza di servizi) è condizione
necessaria ma non sufficiente, per
l'edilizia di espansione, e non vale a
rendere automaticamente edificabile un'area
agricola, ovvero a determinare in capo al
Comune l'obbligo di assentire la modifica di
destinazione di un'area da agricola in
industriale (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.11.2010 n.
7244 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
costruire in sanatoria - Oneri concessori -
Art. 4, c. 6, L.R. n. 31/2004 - Tariffa base
- Deve necessariamente tenere conto degli
adeguamenti periodici degli oneri di
urbanizzazione - Termine ex art. 4, comma 1,
L.R.n. 31/2004, per l'adozione della
delibera relativa a termini e modalità di
versamento - Non rileva rispetto al predetto
adeguamento.
Il criterio della determinazione degli
oneri concessori sulla base delle tariffe
vigenti al momento del perfezionamento del
procedimento di sanatoria è dettato
dall'art. 4, c. 6, della L.R. n. 31/2004,
sicché la tariffa-base deve necessariamente
tenere conto degli adeguamenti periodici
degli oneri di urbanizzazione, decisi dai
Comuni in virtù delle generali previsioni
dell'art. 16, comma 6, del DPR 380/2001 e
della L.R. 12/2005.
Tale adeguamento è, dunque, espressamente
previsto dalla legge regionale ed è
svincolato dal rispetto del termine
perentorio di trenta giorni dall'entrata in
vigore della legge stessa, previsto al comma
1, per l'adozione della delibera che
definisca i termini e le modalità di
versamento di oneri di urbanizzazione e
contributo sul costo di costruzione e
preveda un incremento percentuale degli
oneri relativi alla realizzazione di opere
abusive riconducibili alle tipologie 1, 2 e
3 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.11.2010 n.
7243 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
costruire in sanatoria - Calcolo oneri di
urbanizzazione - Art. 4 L.R. Lombardia n.
31/2004 - Termine perentorio per l'adozione
della delibera attuativa - Illegittimità
delibera n. 73/2007 - Non sussiste.
L'art. 4, comma 1, L.R. Lombardia n.
31/2004, dispone che la delibera con cui si
incrementano gli oneri di urbanizzazione
relativi alle pratiche di condono, debba
essere assunta entro il termine perentorio
di trenta giorni dall'entrata in vigore
della legge, ma in seguito all'adozione di
tale delibera attuativa (delibera G.M.
03.11.2004 n. 2493) non risulta illegittima
l'adozione di nuova delibera C.C. n. 37/2007
di adeguamento periodico degli oneri
concessori in quanto a tale adeguamento fa
espresso richiamo il comma 6 dello stesso
art. 4 che nel prevedere il criterio della
determinazione degli oneri sulla base delle
tariffe vigenti al momento del
perfezionamento del procedimento di
sanatoria si riferisce alle tariffe base
incrementate dagli adeguamenti periodici
degli oneri di urbanizzazione adottati dal
Comune (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.11.2010 n.
7242 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quantificazione costo di
costruzione ed oneri concessori relativi a
permesso di costruire in sanatoria -
Pagamento ed attestazioni entro il termine -
Silenzio assenso - Formazione tacita del
titolo in sanatoria - Diversa qualificazione
dell'abuso - Richiesta conguaglio -
Irrilevanza.
Nel caso in cui la documentazione prescritta
dai commi 35 e 37 dell'art. 32 D.L. n.
269/2003 sia stata presentata entro il
termine del 31.10.2005 (previsto dal comma
37) il decorso dei successivi ventiquattro
mesi, senza provvedimenti negativi del
Comune, determina la formazione tacita del
titolo in sanatoria, così come previsto
dall'art. 32, c. 37, D.L. n. 269/2003, non
potendo ritenersi che la formazione del
silenzio assenso sia impedita da una
successiva richiesta di conguaglio legata ad
una diversa qualificazione dell'abuso (o ad
un errore in sede di autoliquidazione), in
quanto la richiesta di conguaglio -che non
autorizza l'amministrazione a rimettere in
discussione l'intero rapporto e a riaprire
il procedimento di sanatoria, facendo
applicazione delle nuove tariffe
successivamente entrate in vigore- non
esclude la formazione del titolo tacito,
salvo il caso di dichiarazione dolosamente
infedele, o di carenze documentali che
impediscano agli uffici comunali di
esaminare tempestivamente la domanda di
sanatoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.11.2010 n.
7239 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di
costruire in sanatoria - Oneri concessori -
Art. 4, c. 1, L.R. n. 31/2004 - Incremento -
Violazione dell'art. 32, c. 34, D.L. n.
269/2003 - Non sussiste.
La circostanza che l'incremento massimo
degli oneri concessori dovuti in caso di
realizzazione di opere abusive in misura
pari al 50%, previsto dall'art. 4, c. 1, L.R.
n. 31/2004, operi, in virtù della previsione
di cui all'art. 4, c. 6 della medesima legge
regionale, sulle tariffe vigenti all'atto
del perfezionamento del procedimento di
sanatoria, non viola alcun principio della
legislazione statale.
L'art. 32, D.L. n. 269/2003, si limita,
difatti, a stabilire un limite massimo di
incremento degli oneri dovuti in caso di
sanatoria rispetto a quanto dovuto a seguito
di un rilascio di un regolare titolo
edilizio, senza individuare il momento cui
debba farsi riferimento per la
individuazione delle tariffe da applicare ai
fini della determinazione degli oneri.
Per contro, la legge regionale lombarda -con
una norma esente da censure di illegittimità
costituzionale, in quanto frutto di una
scelta discrezionale del legislatore- prende
a riferimento le tariffe vigenti al momento
del perfezionamento del procedimento di
sanatoria operato dall'art. 4, c. 6, l. reg.
n. 31/2004. Non sussiste, pertanto,
violazione del limite previsto dall'art. 32,
c. 34, D.L. n. 269/2003, poiché la norma
statale non dispone che gli oneri di
urbanizzazione debbano essere determinati
facendo applicazione delle tariffe vigenti
al momento dell'entrata in vigore della
legge di sanatoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 11.11.2010 n.
7238 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Permesso di
Costruire - Distanze tra i fabbricati - Art.
878 c.c. - Caratteristiche della costruzione
- Sopravvenuta carenza di interesse.
2. Permesso di
Costruire - D.I.A. in variante - Art. 41 L.R. n. 12/2005 - Interpretazione.
1. Considerato l'art. 878 c.c. secondo cui
il muro di cinta con altezza inferiore ai
tre metri non è considerato per il computo
delle distanze di cui all'art. 873 c.c., e
le caratteristiche del manufatto (modificate
con D.I.A.) si deve escludere la rilevanza,
ai fini delle distanze, di una costruzione
(muro di cinta, appunto) avente le
caratteristiche di cui alla citata norma del
codice civile, risultando conseguente improcedibile il gravame per sopravvenuta
carenza di interesse.
2. L'art. 41 L.R. n. 12/2005 deve essere
interpretata nel senso che la facoltà di
presentare D.I.A. senza interruzione dei
lavori per le varianti minori non esclude
comunque nel rispetto del principio generale
sull'alternatività tra D.I.A. e permesso di
costruire di cui all'art. 41, c. 1, L.R. n.
12/2005, la facoltà per il titolare di
permesso di costruire di presentare D.I.A.
anche per varianti sostanziali, con la
precisazione però che, non trattandosi
dell'ipotesi di cui al comma 2 dello stesso
articolo, per tali D.I.A. non è possibile la
presentazione dopo l'ultimazione dei lavori,
ma prima degli stessi, secondo il regime per
così dire ordinario della denuncia di inizio
attività (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.11.2010 n.
7236 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Permesso di
costruire in sanatoria - Calcolo oneri di
urbanizzazione - L.R. Lombardia n. 31/2004 -
Delibere comunali attuative - Tariffe
vigenti al momento del rilascio del titolo -
Corte Costituzionale - Legittimità.
2. Permesso di
costruire in sanatoria - Calcolo oneri di
urbanizzazione - Corte Costituzionale -
Pronuncia interpretativa di inammissibilità
- Valore di precedente - Sussiste.
1. Il conteggio degli oneri di
urbanizzazione per permessi di costruire in
sanatoria operato dal Comune in base alle
tariffe effettivamente vigenti al momento
del rilascio del titolo in sanatoria, come
prescrive il D.L. n. 269/2003 e la L.R.
Lombardia n. 31/2004, aumentate in ragione
dell'art. 4 L.R. n. 31/2004 e della delibera
comunale n. 2644 del 16.11.2004, si deve
ritenere legittimo alla luce dell'ordinanza
del 17.03.2010 n. 105 della Corte
Costituzionale secondo cui in un contesto di
pluralità di soluzioni possibili, la scelta
del legislatore regionale di privilegiare
l'interesse pubblico all'adeguatezza della
contribuzione dei costi reali da sostenere
rispetto a quello, ad esso antitetico, del
cittadino alla sua piena previsione dei
costi al momento della formazione del
consenso, risulta essere il frutto di una
scelta discrezionale implicante un
bilanciamento di interessi legittimamente
svolto dal legislatore.
2. Le pronunce della Corte Costituzionale,
anche se interpretative di rigetto o di
inammissibilità, come l'ordinanza del
17.03.2010 n. 105 della Corte Costituzionale
sulla eccezione di costituzionalità della L.R. Lombardia n. 31/2004, pur non dando
formalmente luogo ad un vincolo erga omnes,
previsto dall'art. 136 Costituzione per le
sole sentenze di accoglimento, costituiscono
però un autorevole precedente, soprattutto
per il Giudice che ha sollevato la questione
di legittimità costituzionale, come
evidenziato ripetutamente dalla Corte di
Cassazione che riconosce alle stesse valore
di precedente, teso ad orientare, in maniera
rafforzata, l'attività interpretativa delle
corti di merito (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenze 09.11.2010 nn.
7217,
7223
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Permesso di
costruire in sanatoria - Quantificazione
degli oneri - Aumento degli oneri - L.R. n.
31/2004 - Delibera Giunta comunale
16.11.2004 n. 2644 - Incompetenza - Art. 42
D.lgs. n. 267/2000 - Sviamento di potere -
Non sussiste.
2. Permesso di
costruire in sanatoria - Quantificazione
degli oneri - Aumento degli oneri - L.R. n.
31/2004 - Delibera consiliare n. 73/2007 -
Carenza di motivazione - Censure di merito -
Inammissibilità.
1. Posto che la competenza consiliare è
limitata, ai sensi dell'art. 42, c. 2, lett.
f, d.lgs. n. 267/2000 alla "disciplina
generale delle tariffe", e che la delibera
di Giunta n. 2644/2004 non detta alcuna
disciplina generale ma stabilisce soltanto
l'adeguamento alla disciplina regionale
degli oneri di urbanizzazione in relazione a
taluni abusi edilizi, questione sicuramente
riservata alla Giunta in virtù della
generale e residuale competenza di tale
organo prevista dall'art. 48 T.U. Enti
Locali, la delibera impugnata non è affetta
da incompetenza.
Peraltro la stessa non è
viziata da sviamento di potere nella parte
in cui avvalla la scelta del legislatore di
incrementare gli oneri per le opere abusive
perseguendo finalità sanzionatorie, per
evitare che l'autore di un illecito
edilizio, beneficiario della sanatoria, sia
chiamato a corrispondere, a titolo di oneri,
la stessa somma che corrisponderebbe chi
chiede un regolare titolo edilizio, senza
avere commesso nessun abuso.
2.
La delibera consiliare n. 73/2007 con cui il
Comune ha adeguato gli oneri di
urbanizzazione, costituisce atto a contenuto
generale, non soggetto come tale ad un
obbligo di specifica motivazione ai sensi
dell'art. 3, c. 2, L. n. 241/1990, e la
stessa rappresenta esercizio di un'attività
amministrativa caratterizzata da elevata
discrezionalità non sindacabile nel merito
ma suscettibile di censura solo in caso di
manifesta illogicità ed irrazionalità, non
riscontrabili nel caso di specie (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.11.2010 n.
7221 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in
sanatoria - Art. 38, comma 10, D.P.R.
380/2001 - Decorrenza dei termini per il
rilascio del titolo - Illegittimità del
titolo - Non sussiste.
L'art. 38, comma 10, D.P.R. 380/2001,
prevede, in caso di infruttuosa decorrenza
dei termini fissati per il rilascio del
titolo abilitativo, unicamente l'intervento
sostitutivo della Regione o della Provincia,
per cui sarebbe illogico ritenere che
l'eventuale ritardo nel rilascio implichi di
per sé l'illegittimità del titolo. Del
resto, i termini per la conclusione del
procedimento amministrativo sono normalmente
ordinatori, salvo i casi di perentorietà
espressamente indicati dalla legge, senza
contare che il citato art. 38 riguarda il
permesso di costruire per così dire
"ordinario", sicché potrebbero esservi dubbi
sulla sua applicabilità al procedimento per
il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria, previsto dall'art. 36 del DPR
380/2001 (massima
tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.11.2010 n.
7220 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in
sanatoria - Quantificazione oneri concessori
sulla base delle tariffe vigenti al rilascio
del titolo - Formazione tacita del titolo in
sanatoria - Termine per configurare il
silenzio assenso - Completamento istruttoria
- Legittimità.
E' legittima la comunicazione comunale di
rilascio del permesso di costruire in
sanatoria in cui gli oneri concessori
vengono quantificati sulla base delle
tariffe vigenti al momento del rilascio del
titolo in quanto non si può configurare
un'ipotesi di formazione di titolo
abilitativo tacito in sanatoria, secondo
quanto previsto dall'art. 32, c. 37, D.L. n.
269/2003, nel caso in cui il ritardo nella
definizione della domanda non sia
addebitabile al Comune in quanto risulta
essere stato attestato all'Amministrazione,
da parte del ricorrente, il completamento
dell'istruttoria (segnatamente con la
trasmissione dei documenti di denuncia ICI e TARSU) in un momento successivo al termine
di legge risultando, conseguentemente, la
comunicazione impugnata (adottata entro il
termine di due anni -il cui decorso
perfezionerebbe il silenzio assenso- dalla
integrazione documentale), legittima e di
ostacolo alla sussistenza di un tacito
titolo abilitativo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 09.11.2010 n.
7219 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
1. Permesso di
costruire in sanatoria - Art. 4, comma 6, L.R. n. 31/2004 - Oneri di urbanizzazione -
Calcolo - Applicabilità delle tariffe
vigenti all'atto del rilascio del permesso -
Sussiste.
2. Permesso di
costruire in sanatoria - Art. 32, comma 37,
L. n. 326/2003 - Silenzio-assenso - Termine
biennale - Decorre dalla presentazione di
un'istanza debitamente documentata.
1. In relazione alla disposizione dell'art.
4, comma 6, L.R. n. 31/2004, secondo cui gli
oneri di urbanizzazione e il contributo sul
costo di costruzione dovuti ai fini della
sanatoria sono determinati applicando le
tariffe vigenti "all'atto del
perfezionamento del procedimento di
sanatoria", appare legittima, anche alla
luce della Ordinanza della Corte
Costituzionale 17.03.2010 n. 105, la
pretesa dell'Amministrazione di determinare
gli oneri di urbanizzazione relativi al
titolo in sanatoria tenendo conto delle
tariffe vigenti all'atto del rilascio del
permesso, anziché delle tariffe vigenti al
momento di presentazione della domanda di
condono o al momento di deposito della
documentazione inerente alla domanda stessa.
2.
Il biennio assegnato al Comune dal comma 37
dell'art. 32, L. n. 326/2003 per provvedere
sulla domanda di condono edilizio, trascorso
il quale si forma il silenzio-assenso,
decorre dalla presentazione di un'istanza
debitamente documentata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenze 09.11.2010 nn.
7216,
7218,
7222,
7224 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Project financing - Asta -
Proroga del termine di presentazione delle
offerte - Condizioni e presupposti -
Comunicazione a tutte le imprese
partecipanti - Necessità - Violazione del
principio di par condicio - Non sussiste.
Nel caso in cui la stazione appaltante
disponga la proroga del termine per la
presentazione delle offerte, non risulta
violato il principio di par condicio tra i
concorrenti qualora la proroga medesima sia
stata comunicata alle imprese invitate,
dando a queste ultime la possibilità di
migliorare l'offerta già presentata, essendo
rimessa, in tal caso, alla stazione
appaltante la valutazione motivata in merito
all'opportunità della proroga medesima (Fattispecie relativa ad una procedura di project financing
per affidamento in concessione della
progettazione, ristrutturazione e successiva
gestione funzionale ed economica di un
fabbricato)
(massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 09.11.2010 n.
7214 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Contratti
della p.a. - Controversie in tema di
procedure ad evidenza pubblica - Prova di
resistenza - Mancato superamento -
Conseguenze - Inammissibilità del gravame -
Per carenza di interesse - Sussiste.
È inammissibile per carenza di interesse il
ricorso proposto avverso la procedura di
selezione per la scelta di un contraente,
qualora a priori risulti con certezza che il
ricorrente, anche in caso di annullamento
degli atti impugnati, non potrebbe risultare
vincitore, stante la mancata dimostrazione
del superamento della c.d. prova di
resistenza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 09.11.2010 n.
7211 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Impugnazione
preavviso di diniego - Atto meramente endoprocedimentale - Conferma diniego -
Provvedimento non impugnato -
Inammissibilità.
E' inammissibile il ricorso avverso
preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n.
241/1990, in quanto atto meramente endoprocedimentale
di per sé non immediatamente lesivo di
posizioni soggettive, anche nel caso in cui
il succitato preavviso di diniego fosse
stato confermato dal Comune con successivo
provvedimento prodotto dal ricorrente ma non
formalmente impugnato, in quanto incombe al
ricorrente l'onere di indicare espressamente
nell'atto introduttivo i provvedimenti che
si intendono impugnare, non potendosi in
alcun modo ipotizzare forme di implicita
estensione del gravame ad atti non oggetto
di specifica indicazione in ricorso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 08.11.2010 n.
7192 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Art. 2, L.R.
Lombardia n. 13/2009 - Applicabilità a unità
immobiliari ricavate, a mezzo di
ristrutturazione di edifici preesistenti, in
data posteriore al 31.03.2005 - Sussiste.
Ai fini dell'art. 2 della L.R. Lombardia n.
13/2009, che consente il recupero edilizio e
funzionale "di edifici o porzioni di
edifici ultimati alla data del 31.03.2005 e
non ubicati in zone destinate dagli
strumenti urbanistici vigenti
all'agricoltura o ad attività produttive,
anche in deroga alle previsioni quantitative
degli strumenti urbanistici comunali vigenti
o adottati e ai regolamenti edilizi,
comportante la utilizzazione delle
volumetrie e delle superfici edilizie per
destinazioni residenziali", non assume
rilievo la circostanza che l'unità
immobiliare interessata dall'intervento
edilizio, situata all'interno di un
edificio, sia stata ricavata a seguito di
ristrutturazione in data posteriore al
31.03.2005: con la generica indicazione di "edificio"
-da intendersi quale struttura edilizia
idonea alla permanenza al suo interno di
persone o cose- il legislatore ha, difatti,
voluto riferirsi alle sole strutture esterne
e ciò in considerazione della dichiarata
finalità della norma di consentire "l'utilizzo
del patrimonio esistente"; l'esistenza
dell'edificio è, dunque, data dalla
ultimazione della copertura, delle
tamponature esterne e delle strutture
orizzontali interne (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez.
II,
sentenza 08.11.2010 n.
7190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: L’integrazione
documentale deve riferirsi alla sola
“documentazione attestante il possesso dei
requisiti di partecipazione”, per cui non è
possibile rettificare o comunque modificare
gli elementi costitutivi dell'offerta
tecnica.
La possibilità di chiedere la
regolarizzazione delle dichiarazioni
lacunose e della documentazione incompleta
non è un dovere assoluto ed incondizionato,
ma incontra i seguenti precisi limiti
applicativi: a) l'inderogabile necessità del
rispetto della par condicio, in quanto
l'art. 6 della L. n. 241 del 1990, non può
essere invocato per supplire
all'inosservanza di adempimenti
procedimentali significativi o all'omessa
produzione di documenti richiesti a pena di
esclusione dalla gara; b) il c.d. limite
degli elementi essenziali, nel senso che la
regolarizzazione non può essere riferita
agli elementi essenziali della domanda,
salvo che gli atti tempestivamente prodotti
contribuiscano a fornire ragionevoli indizi
circa il possesso del requisito di
partecipazione non espressamente
documentato; c) l'ammissibilità nei casi di
equivoche clausole del bando relative alla
dichiarazione od alla documentazione da
integrare o chiarire.
I chiarimenti tecnici sull’offerta possono
essere “necessari a dirimere alcuni dubbi
emersi nel corso dell'esame dei progetti
presentati dai raggruppamenti concorrenti,
poiché, attraverso tali modalità, la
stazione appaltante riesce a contemperare il
rispetto del principio di segretezza con le
esigenze di partecipazione.
Sul potere-dovere della stazione appaltante
di chiedere chiarimenti, la giurisprudenza
amministrativa ha spesso affermato che
l’integrazione documentale debba riferirsi
alla sola “documentazione attestante il
possesso dei requisiti di partecipazione”,
per cui non è possibile rettificare o
comunque modificare gli elementi costitutivi
dell'offerta tecnica.
In tal senso, il Consiglio di Stato ha
sostenuto che “la possibilità di chiedere
la regolarizzazione delle dichiarazioni
lacunose e della documentazione incompleta
non è un dovere assoluto ed incondizionato,
ma incontra i seguenti precisi limiti
applicativi: a) l'inderogabile necessità del
rispetto della par condicio, in quanto
l'art. 6 della L. n. 241 del 1990, non può
essere invocato per supplire
all'inosservanza di adempimenti
procedimentali significativi o all'omessa
produzione di documenti richiesti a pena di
esclusione dalla gara; b) il c.d. limite
degli elementi essenziali, nel senso che la
regolarizzazione non può essere riferita
agli elementi essenziali della domanda,
salvo che gli atti tempestivamente prodotti
contribuiscano a fornire ragionevoli indizi
circa il possesso del requisito di
partecipazione non espressamente
documentato; c) l'ammissibilità nei casi di
equivoche clausole del bando relative alla
dichiarazione od alla documentazione da
integrare o chiarire” (cfr, C.d.S., sez.
V, 27.03.2009, n. 1840).
La giurisprudenza amministrativa ha tuttavia
anche osservato che i chiarimenti tecnici
sull’offerta possono essere “necessari a
dirimere alcuni dubbi emersi nel corso
dell'esame dei progetti presentati dai
raggruppamenti concorrenti, poiché,
attraverso tali modalità, la stazione
appaltante riesce a contemperare il rispetto
del principio di segretezza con le esigenze
di partecipazione” (cfr., TAR Lombardia,
Milano, sez. III, 30.06.2004, n. 2670)
(TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.10.2010 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: In
caso di raggruppamento temporaneo di imprese
cosiddetto orizzontale, nel quale tutti gli
operatori economici concorrono
all'esecuzione della medesima prestazione
oggetto di appalto, i requisiti di capacità
tecnica ed economica devono essere posseduti
da ciascuna impresa in R.T.I., “quantomeno
in una misura minima giuridicamente
apprezzabile, non essendo sufficiente il
possesso di tali requisiti unicamente da
parte di una sola delle imprese riunite”.
La valutazione dell'idoneità tecnica,
finanziaria ed economica dei raggruppamenti,
quando si riferisce ad aspetti di carattere
oggettivo, va effettuata, in via di
principio, cumulativamente, tenendo conto
della sommatoria dei mezzi e delle qualità
che fanno capo a tutte le imprese
raggruppate.
Il principio di corrispondenza sostanziale,
già in fase di offerta, tra quote di
qualificazione e quote di partecipazione
all'A.T.I. e tra quote di partecipazione e
quote di esecuzione, da tempo affermatosi in
materia di lavori e sancito nell'art. 37,
comma 6, D.Lgs. n. 163 del 2006, non è
estensibile agli appalti di servizi (per i
quali, come è noto, il nostro ordinamento
non contempla un rigido sistema normativo di
qualificazione dei soggetti esecutori) in
cui è riconosciuta alle Amministrazioni
aggiudicatrici una più ampia discrezionalità
nell'individuazione dei requisiti di
capacità tecnica e nella correlazione di
questi con l'istituto del raggruppamento di
imprese.
La
giurisprudenza amministrativa ha
concordemente affermato che in caso di
raggruppamento temporaneo di imprese
cosiddetto orizzontale, nel quale tutti gli
operatori economici concorrono
all'esecuzione della medesima prestazione
oggetto di appalto, i requisiti di capacità
tecnica ed economica devono essere posseduti
da ciascuna impresa in R.T.I., “quantomeno
in una misura minima giuridicamente
apprezzabile, non essendo sufficiente il
possesso di tali requisiti unicamente da
parte di una sola delle imprese riunite”
(cfr., TAR Lombardia, Milano, sez. I,
07.04.2009, n. 3227).
In tal senso, è stata considerata legittima
l'esclusione da una gara d'appalto di
un’associazione concorrente composta da
imprese parzialmente prive dei requisiti di
capacità tecnica richiesti dal bando ai fini
della partecipazione alla gara, “atteso
che, per costante orientamento
giurisprudenziale, non è sufficiente la
dimostrazione del possesso di detti
requisiti da parte dell'associazione nel suo
complesso, occorrendo invece la
dimostrazione da parte di ciascuna impresa
raggruppata” (cfr., TAR Lazio, Roma,
sez. III, 01.04.2003, n. 2878).
Sul punto, deve essere ancora osservato che,
nel vigente quadro normativo, le forme di
aggregazione dei soggetti aspiranti
all'affidamento di appalti pubblici hanno
essenzialmente lo scopo di aprire la
dinamica concorrenziale, consentendo la
coalizione di imprese di minori dimensioni
per favorire la loro crescita e soprattutto
l'ingresso su mercati più estesi.
In questa prospettiva, i raggruppamenti
temporanei sono comunque assoggettati ad un
trattamento tendenzialmente uguale, o
comunque non deteriore, rispetto a quello
previsto, in generale, per i soggetti che
partecipano alla gara singolarmente. “Pertanto,
relativamente ai requisiti per l'accesso
alla gara, salvo che non si tratti di
condizioni soggettive che, per prescrizione
di legge o per espressa disposizione di
bando, devono essere necessariamente
possedute singolarmente da ciascuna delle
imprese riunite, la valutazione
dell'idoneità tecnica, finanziaria ed
economica dei raggruppamenti, quando si
riferisce ad aspetti di carattere oggettivo,
va effettuata, in via di principio,
cumulativamente, tenendo conto della
sommatoria dei mezzi e delle qualità che
fanno capo a tutte le imprese raggruppate”
(cfr., TAR Campania, Napoli, sez. I,
14.07.2006, n. 7509).
Tuttavia, proprio per impedire che si
verifichino situazioni distorsive degli
assetti concorrenziali, è imprescindibile
l'esigenza di non trasformare la riunione di
imprese in uno strumento elusivo delle
regole impositive di un livello minimo di
capacità per la partecipazione agli appalti.
“Tale esigenza si presenta ancora più
impellente nel caso di raggruppamento
temporaneo orizzontale, nel quale tutti gli
operatori economici concorrono
all'esecuzione della medesima prestazione
oggetto di appalto, con la conseguenza che
analogo rigore deve essere osservato sia in
presenza di requisiti non frazionabili che
di quelli frazionabili, quali la capacità
tecnica ed economica. Ne deriva che,
nell'ipotesi di requisito frazionabile, esso
deve essere posseduto da ciascuna impresa in
A.T.I. nella misura prescritta dalla legge o
dal bando e, in mancanza, almeno in una
misura minima giuridicamente apprezzabile”
(cfr., TAR Campania, Napoli, sez. I,
07.10.2008, n. 13437).
Sull’ulteriore questione della
corrispondenza, perfetta o imperfetta, tra
requisiti per l’accesso alla gara e
ripartizione dei servizi futuri, il Collegio
fa propria la recente considerazione della
giurisprudenza amministrativa volta ad
osservare che “il principio di
corrispondenza sostanziale, già in fase di
offerta, tra quote di qualificazione e quote
di partecipazione all'A.T.I. e tra quote di
partecipazione e quote di esecuzione, da
tempo affermatosi in materia di lavori e
sancito nell'art. 37, comma 6, D.Lgs. n. 163
del 2006, non è estensibile agli appalti di
servizi (per i quali, come è noto, il nostro
ordinamento non contempla un rigido sistema
normativo di qualificazione dei soggetti
esecutori) in cui è riconosciuta alle
Amministrazioni aggiudicatrici una più ampia
discrezionalità nell'individuazione dei
requisiti di capacità tecnica e nella
correlazione di questi con l'istituto del
raggruppamento di imprese” (cfr., TAR
Sicilia, Catania, sez. III, 27.02.2009, n.
423).
Negli stessi termini è stato altresì
osservato che l'art. 37, comma 4, del
decreto legislativo n. 163 del 2006 “si
limita a stabilire che le associazioni
temporanee di imprese devono specificare le
parti del servizio che saranno eseguite da
ciascun singolo operatore, mentre il
successivo art. 42 nulla dispone in merito
al rapporto tra requisiti di capacità
tecnica e quota di partecipazione
all'associazione temporanea”, e che
pertanto, “in ipotesi di affidamento di
appalti di servizi ovvero di forniture”,
le ditte riunite in raggruppamento è
sufficiente che dimostrino “ai fini della
partecipazione e dell'ammissione delle
domande, il possesso dei requisiti indicati
nel bando e corrispondenti al tipo di
servizio o di fornitura da eseguirsi”
(cfr., TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.10.2009,
n. 9861) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.10.2010 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
legittimazione a rendere la dichiarazione
del possesso dei requisiti di cui all'art.
38 D.Lgs. 163/2006 spetta al legale
rappresentante dell’impresa ed essa assume
come destinatari "tutti coloro che, in
quanto titolari della rappresentanza
dell'impresa, siano in grado di trasmettere,
con il proprio comportamento, la
riprovazione dell'ordinamento nei riguardi
della loro personale condotta, al soggetto
rappresentato".
Il requisito della moralità professionale
deve essere valutato in capo ai soggetti che
svolgono funzioni rappresentative delle
ditte concorrenti nella gare pubbliche,
avuto riguardo alle funzioni sostanziali di
essi più che alle qualifiche formali e,
quindi, al concreto esercizio del potere di
rappresentanza della persona giuridica.
L’invocato art. 38 stabilisce, in
particolare, che devono essere esclusi dalla
partecipazione alle procedure pubbliche di
affidamento di lavori, forniture e servizi
le imprese con amministratori muniti del
potere di rappresentanza e direttore
tecnico, sia in carica che cessati nel
triennio antecedente la data di
pubblicazione del bando, nei cui confronti
sia stata pronunciata sentenza di condanna
passata in giudicato, o emesso decreto
penale di condanna divenuto irrevocabile,
oppure sentenza di applicazione della pena
su richiesta, per reati gravi in danno dello
Stato o della Comunità che incidono sulla
moralità professionale.
La legittimazione a rendere la dichiarazione
del possesso dei requisiti di cui al citato
art. 38 spetta dunque al legale
rappresentante dell’impresa ed essa assume
come destinatari, secondo la giurisprudenza
del Consiglio di Stato che il Collegio
condivide, “tutti coloro che, in quanto
titolari della rappresentanza dell'impresa,
siano in grado di trasmettere, con il
proprio comportamento, la riprovazione
dell'ordinamento nei riguardi della loro
personale condotta, al soggetto
rappresentato” (cfr., C.d.S., sez. V,
09.03.2010, n. 1373).
Non ignora il Tribunale il complesso
dibattito sviluppatosi sulla portata del
menzionato art. 38, le disposizioni del
quale possono essere integrate anche in
relazione alle ulteriori disposizioni
integrative contenute nei bandi di gara,
tema sul quale la giurisprudenza
amministrativa non ha ancora trovato
soluzioni unanimi. In proposito, questo
Tribunale ha già avuto occasione per
affermare che sussiste detto obbligo di
dichiarazione nei confronti “di chi
rivesta (o abbia rivestito) la carica di
amministratore, ma anche di colui che, in
qualità di vice presidente vicario, o di
institore, o di procuratore ad negotia,
abbia ottenuto il conferimento di poteri
consistenti nella rappresentanza
dell'impresa e nel compimento di atti
decisionali”.
In definitiva, valorizzando più
l’effettività del potere che la mera
titolarità, “il requisito della moralità
professionale deve essere valutato in capo
ai soggetti che svolgono funzioni
rappresentative delle ditte concorrenti
nella gare pubbliche, avuto riguardo alle
funzioni sostanziali di essi più che alle
qualifiche formali e, quindi, al concreto
esercizio del potere di rappresentanza della
persona giuridica” (cfr., T.R.G.A.,
24.06.2010, n. 162 e la giurisprudenza ivi
richiamata).
Il Tribunale ha precisato, altresì, che
presupposto indefettibile per l’esclusione
dalla gara, ai sensi del solo art. 38, è,
peraltro, la sussistenza di precedenti
penali per gravi reati in danno dello Stato
o della Comunità che incidano sulla moralità
professionale, mentre non assume alcun
rilievo, in assenza di una specifica
disposizione nella normativa di gara, “il
mero dato formale della non veridicità della
dichiarazione circa i soggetti che abbiano
ricoperto le cariche rilevanti nel periodo
di tempo all'uopo preso in considerazione
dalla disciplina normativa”.
Nella specie, nemmeno in corso di giudizio
alcun principio di prova è stato offerto
sull’esistenza o meno di precedenti penali a
carico dei nominati amministratori. Deve
pertanto concludersi che, in mancanza di
prove dirette ad evidenziare che le
dichiarazioni sul pregiudizio penale carenti
della specificazione di amministratori che
abbiano ricoperto cariche rilevanti abbiano
attribuito una posizione di vantaggio, anche
solo per il profilo morale, al concorrente
che le ha prodotte (e che quindi esse, anche
potenzialmente, abbiano inciso sul
procedimento fuorviando le statuizioni della
stazione appaltante - cfr., in termini,
C.d.S., sez. VI, 08.07.2010, n. 4436), debba
essere fatta applicazione del cosiddetto
falso innocuo.
Trattasi, in definitiva, “per mutuare
categorie penalistiche, di un falso privo di
qualsivoglia offensività rispetto agli
interessi presidiati dalle regole che
governano la procedura di evidenza pubblica,
come tale non stigmatizzabile con la
sanzione dell'esclusione” (cfr., C.d.S.,
sez. V, 13.02.2009, n. 829 e, in termini,
T.R.G.A. Trento, 07.10.2009, n. 251)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.10.2010 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di autorimesse e parcheggi
destinati al servizio di fabbricati
esistenti è soggetta ad autorizzazione
gratuita esclusivamente se effettuata
totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale.
Le autorimesse edificate fuori terra non
rientrano nell’ambito di operatività
dell’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, sicché
sono soggette alla disciplina urbanistica
come ordinarie nuove costruzioni.
Il carattere eccezionale della norma
contenuta nell’art. 9 della legge 122/1989,
in particolare laddove consente interventi
gratuiti ed anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi, fa sì
che essa debba trovare rigorosa applicazione
ai soli casi in essa espressamente previsti.
Non si spiegherebbe la deroga anche alla
disciplina delle distanze ove i manufatti di
cui si discute non fossero interamente
interrati né avrebbe giustificazione
l’esenzione dagli oneri urbanistici per la
realizzazione di volumetrie fuori terra.
Secondo il primo comma dell’art. 9 della
legge Tognoli, “I proprietari di immobili
possono realizzare nel sottosuolo degli
stessi ovvero nei locali siti al piano
terreno dei fabbricati parcheggi da
destinare a pertinenza delle singole unità
immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti. Tali parcheggi possono essere
realizzati, ad uso esclusivo dei residenti,
anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in
contrasto con i piani urbani del traffico,
tenuto conto dell'uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela
dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi
i vincoli previsti dalla legislazione in
materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima
legislazione alle regioni e ai Ministeri
dell'ambiente e per i beni culturali ed
ambientali.”
Con riferimento a tale disposizione la
Suprema Corte di Cassazione ha osservato che
la realizzazione di autorimesse e parcheggi
destinati al servizio di fabbricati
esistenti è soggetta ad autorizzazione
gratuita esclusivamente se effettuata
totalmente al di sotto del piano di campagna
naturale (Cass. Sez. III n. 26825 del 2003).
Aderisce a tale orientamento la più recente
giurisprudenza del Consiglio di Stato,
rilevando che le autorimesse edificate fuori
terra non rientrano nell’ambito di
operatività dell’art. 9 l. 24.03.1989 n.
122, sicché sono soggette alla disciplina
urbanistica come ordinarie nuove costruzioni
(cfr. CdS Sez. V n.1662 del 2004 e IV
6065/2006).
E’ opinione del Collegio che il carattere
eccezionale della norma contenuta nell’art.
9 della legge 122/1989, in particolare
laddove consente interventi gratuiti ed
anche in deroga agli strumenti urbanistici
ed ai regolamenti edilizi, fa sì che essa
debba trovare rigorosa applicazione ai soli
casi in essa espressamente previsti. Non si
spiegherebbe la deroga anche alla disciplina
delle distanze ove i manufatti di cui si
discute non fossero interamente interrati né
avrebbe giustificazione l’esenzione dagli
oneri urbanistici per la realizzazione di
volumetrie fuori terra (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.06.2010 n. 1056 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Può
attuarsi un intervento di ristrutturazione
edilizia (di demolizione e ricostruzione) in
quanto esista un organismo edilizio dotato
di mura perimetrali, strutture orizzontali e
copertura in stato di conservazione tale da
consentire la sua fedele ricostruzione,
mentre non è ravvisabile siffatto intervento
nei confronti di ruderi o edifici da tempo
demoliti, attesa la mancanza di elementi
sufficienti a testimoniare le dimensioni e
le caratteristiche dell'edificio da
recuperare, configurandosi in
quest'evenienza, invero, un intervento di
nuova costruzione, assoggettato ai limiti
stabiliti dalla vigente disciplina
urbanistica.
Può attuarsi un intervento di
ristrutturazione edilizia (di demolizione e
ricostruzione) in quanto esista un organismo
edilizio dotato di mura perimetrali,
strutture orizzontali e copertura in stato
di conservazione tale da consentire la sua
fedele ricostruzione, mentre non è
ravvisabile siffatto intervento nei
confronti di ruderi o edifici da tempo
demoliti, attesa la mancanza di elementi
sufficienti a testimoniare le dimensioni e
le caratteristiche dell'edificio da
recuperare, configurandosi in
quest'evenienza, invero, un intervento di
nuova costruzione, assoggettato ai limiti
stabiliti dalla vigente disciplina
urbanistica (Così Tar Veneto Venezia, Sez.
II, 1667/2008).
Ritiene,
infatti, il Collegio di aderire ad un
consolidato indirizzo, recentemente ribadito
in giurisprudenza, secondo il quale “Ai
sensi degli artt. 10 e 22, comma 3, t.u.
06.06.2001, n. 380, le attività edilizie
consistenti nella demolizione e
ricostruzione che non avvengano nel rispetto
della stessa volumetria e sagoma del
manufatto preesistente, sono da qualificare
come nuove costruzioni, assoggettate al
permesso di costruire” (cfr. Consiglio
di Stato, sez. IV, 16.03.2007, n. 1276 ma v.
anche TAR Marche, 07.04.2006, n. 139;
Consiglio Stato, sez. V, 01.04.2006, n.
2085).
Ora, poiché rispetto ad una costruzione che
sia ridotta allo stato di rudere non è
possibile compiere una valutazione in
termini di compatibilità delle
caratteristiche planovolumetriche tra lo
stato dell’edificio prima e dopo
l’intervento di riedificazione, appare
chiaro come la ricostruzione di un edificio
allo stato di rudere debba essere
qualificata come nuova costruzione e debba
essere assentita mediante permesso a
costruire (cfr. TAR Calabria Catanzaro, Sez.
II, 14.12.2004, n. 2381 e Tar Catanzaro
1486/2007)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 09.02.2010 n. 131 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
i balconi aggettanti sono quelli che
sporgono dalla facciata dall'edificio,
costituendo solo un prolungamento
dell'appartamento dal quale protendono, e
non svolgono alcuna funzione di sostegno né
di necessaria copertura, viceversa è a dirsi
per le terrazze a livello incassate nel
corpo dell'edificio, con la conseguenza che
mentre i primi, quelli aggettanti, non
determinano volume dell'edificio, nel
secondo caso essi costituiscono corpo
dell'edificio e contribuiscono quindi alla
determinazione del volume.
Il Collegio condivide il prevalente
orientamento giurisprudenziale secondo cui,
mentre i balconi aggettanti sono quelli che
sporgono dalla facciata dall'edificio,
costituendo solo un prolungamento
dell'appartamento dal quale protendono, e
non svolgono alcuna funzione di sostegno né
di necessaria copertura, viceversa è a dirsi
per le terrazze a livello incassate nel
corpo dell'edificio (come nel caso di
specie), con la conseguenza che mentre i
primi, quelli aggettanti, non determinano
volume dell'edificio, nel secondo caso essi
costituiscono corpo dell'edificio e
contribuiscono quindi alla determinazione
del volume (cfr. Consiglio Stato , sez. IV,
07.07.2008, n. 3381)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 02.02.2010 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Ha
rilevanza giuridica l’interesse del
progettista ricorrente a contestare non solo
i provvedimenti di annullamento dei progetti
da questo redatti ma anche le iniziative
procedimentali che possano costituire
definitivo impedimento alla realizzazione
dell’opera da lui progettata.
L’Amministrazione può chiaramente decidere
di non dare esecuzione al progetto del
ricorrente, così come può decidere di dar
corso a una nuova progettazione che sia
incompatibile con il primo progetto, ma deve
far ciò nel rispetto delle regole che
presidiano la sua attività e nel rispetto
dei giudicati nel frattempo intervenuti.
Al Comune non è impedito annullare le
delibere con cui sono stati approvati i
progetti del ricorrente, purché ciò avvenga
in modo legittimo e con la partecipazione
dell’interessato, così come non gli è
impedito affidare ad altri la progettazione
dell’intervento da realizzare nell’area, ma
a condizione che sia previamente e
legittimamente rimossa la procedura che
riguarda il progetto redatto dal ricorrente.
Il Collegio, richiamando la copiosa
giurisprudenza in materia di interesse
morale al ricorso (cfr., fra le più recenti,
Cons. St., IV, n. 434/ 2009, Cons. St., V.
n. 1328/2008, Cons. St., IV, n. 4251/2007),
non può che confermare le valutazioni già
espresse in precedenza da questo Tribunale e
dal Consiglio di Stato con riferimento alla
rilevanza giuridica dell’interesse del
ricorrente a contestare, non solo i
provvedimenti di annullamento dei progetti
da questo redatti, ma anche le iniziative
procedimentali che (come quelle di cui agli
atti impugnati) possano costituire
definitivo impedimento alla realizzazione
dell’opera da lui progettata.
---------------
Va, infine,
svolta un’ultima considerazione
sull’affermazione del Comune secondo cui il
progettista non ha, comunque, titolo per
richiedere l’esecuzione del progetto,
potendo a questi solo riconoscersi un
limitato diritto a non veder stravolto il
proprio lavoro, con il conseguente diritto
dell’Amministrazione di eseguire l’opera
secondo modalità differenti rispetto a
quelle definite in precedenza, ovvero di non
eseguirla affatto.
Il Collegio condivide pienamente tale
assunto.
L’Amministrazione può chiaramente decidere
di non dare esecuzione al progetto del
ricorrente, così come può decidere di dar
corso a una nuova progettazione che sia
incompatibile con il primo progetto, ma deve
far ciò nel rispetto delle regole che
presidiano la sua attività e nel rispetto
dei giudicati nel frattempo intervenuti.
In conseguenza, al Comune non è impedito
annullare le delibere con cui sono stati
approvati i progetti del ricorrente, purché
ciò avvenga in modo legittimo e con la
partecipazione dell’interessato, così come
non gli è impedito affidare ad altri la
progettazione dell’intervento da realizzare
nell’area, ma a condizione che sia
previamente e legittimamente rimossa la
procedura, tutt’oggi sospesa, che riguarda
il progetto redatto dal ricorrente
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 10.12.2009 n. 1432 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Una
volta accertato che vi è stata reiterazione
di un vincolo espropriativo senza previsione
di un’indennità occorre tuttavia precisare
che questa mancanza non determina
l’illegittimità dello strumento urbanistico.
Il diritto a ottenere un ristoro
dall’amministrazione si colloca su un piano
distinto da quello urbanistico e sorge ex
lege con l’approvazione dell’atto di
reiterazione del vincolo. Il proprietario ha
a disposizione la procedura amministrativa
ex art. 39, comma 2, del DPR 327/2001 per
provocare la liquidazione dell’indennità
qualora lo strumento urbanistico non abbia
provveduto.
Il vincolo conformativo viene tenuto
distinto da quello espropriativo sulla base
di alcune caratteristiche, non
necessariamente cumulative:
a) investe una generalità di beni e di
soggetti indipendentemente dal successivo
instaurarsi di procedure espropriative (v.
Cass. civ. Sez. I 27.02.2004 n. 3966);
b) destina parti del territorio comunale ad
usi pubblici operando nell'ambito della mera
zonizzazione (v. Cass. civ. SU 25.11.2008 n.
28051);
c) consente la realizzazione dell’intervento
di interesse pubblico a cura dei privati
senza necessità di previa espropriazione (v.
C.Cost. 20.05.1999 n. 179; CS Sez. IV
10.07.2007 n. 3880).
Facendo applicazione in concreto di questi
criteri si potrebbero qualificare come
soltanto conformative tutte le zonizzazioni
relative a servizi che costituiscono
standard urbanistico quando manchi la
contestuale localizzazione di un’opera
pubblica specifica o quando sia attribuita
ai privati la possibilità di realizzare
l’intervento in alternativa all’ente
pubblico.
Una simile interpretazione comporta tuttavia
il rischio di uno scontro tra il diritto
interno e la tutela della proprietà offerta
dalla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo, la quale
in base all’art. 6(F) par. 2 del Trattato di
Maastricht costituisce parte integrante dei
principi generali del diritto comunitario.
Nella giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell'uomo è costante il giudizio
negativo verso le forme indirette di
espropriazione, con particolare riguardo
all’accessione invertita, di cui viene
censurato sia lo scopo di ratifica di un
comportamento illegale sia l’effetto di
riduzione della sicurezza giuridica (v. CEDU
Sez. II 18.03.2008 n. 1717/03, Velocci,
punto 40).
Considerazioni analoghe sotto il profilo
della sicurezza giuridica sono svolte a
proposito dei vincoli espropriativi
contenuti negli atti di pianificazione
urbanistica. La Corte, pur escludendo che in
questo caso si verifichi un’espropriazione
di fatto, censura la situazione di
incertezza in cui sono posti i titolari del
diritto di proprietà nonché i disagi
derivanti dal divieto di costruire e dalla
diminuzione delle opportunità di vendita, in
particolare quando non sia dimostrato un
possibile uso alternativo del bene (v. CEDU
Sez. I 15.07.2004 n. 36815/97, Scordino,
punti 71, 94-99). Secondo la Corte,
verificandosi queste condizioni,
l’equilibrio deve essere ristabilito
mediante un indennizzo.
La necessità di un indennizzo è correlata
alla natura sostanzialmente espropriativa
del vincolo. Un vincolo sostanzialmente
espropriativo è equiparato a un vincolo
formalmente preordinato all’esproprio (art.
39 comma 1 del DPR 08.06.2001 n. 327).
Tenendo conto di quanto riportato sopra al
punto 16, si deve poi considerare
ininfluente la possibilità per il
proprietario di eseguire l’intervento in
luogo dell’amministrazione, tranne quando il
proprietario abbia delle qualità particolari
collegate alle destinazioni urbanistiche
ammesse o disponga di un’organizzazione e di
mezzi economici che gli consentano di
eseguire effettivamente, e in modo
vantaggioso, il suddetto intervento.
In sostanza deve trattarsi di un
imprenditore interessato ad assumere nei
confronti dell’amministrazione la posizione
di aggiudicatario o di concessionario di
lavori pubblici. Solo chi rientra in questa
categoria è in posizione di effettiva parità
con l’amministrazione, in quanto riceve dal
vincolo non una limitazione nell’uso del
bene ma l’opportunità di realizzare un
intervento edilizio utile sotto il profilo
economico (per conseguire questo fine il
soggetto privato potrebbe anche assumere il
ruolo di promotore o di beneficiario
dell’espropriazione). Chi invece non dispone
di caratteristiche o mezzi particolari, o
almeno di un interesse particolare, subisce
il vincolo e rimane in una situazione di
incertezza in attesa dell’espropriazione.
Conseguentemente si ritiene che la mancata
localizzazione nel PRG di una specifica
opera pubblica e la possibilità di subentro
dei privati non escludano la presenza di un
vincolo sostanzialmente espropriativo. La
tecnica di redazione della variante al PRG,
che si sostanzia in una pluralità di
microzone e di piani attuativi, individua
infatti in modo preciso l’interesse pubblico
e determina nella stessa misura la perdita
delle facoltà edificatorie dei privati.
D’altra parte non è stato dimostrato che la
ricorrente possieda le caratteristiche
descritte sopra al punto 17 per eseguire
direttamente e utilmente le opere che
costituiscono standard urbanistico secondo
le tipologie ammesse in zona F2, né accordi
in questo senso sono stati assunti dalla
ricorrente e dal Comune.
Una volta accertato che vi è stata
reiterazione di un vincolo espropriativo
senza previsione di un’indennità occorre
tuttavia precisare che questa mancanza non
determina l’illegittimità dello strumento
urbanistico (v. CS AP 24.05.2007 n. 7; TAR
Brescia 08.05.2006 n. 453; TAR Brescia
11.11.2005 n. 1144). Il diritto a ottenere
un ristoro dall’amministrazione si colloca
su un piano distinto da quello urbanistico e
sorge ex lege con l’approvazione
dell’atto di reiterazione del vincolo. Il
proprietario ha a disposizione la procedura
amministrativa ex art. 39, comma 2, del DPR
327/2001 per provocare la liquidazione
dell’indennità qualora lo strumento
urbanistico non abbia provveduto. Le
questioni relative all’inerzia
dell’amministrazione nella quantificazione
dell’indennità appartengono al giudice
ordinario ex art. 39 comma 4 del DPR
327/2001
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 08.07.2009 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Una
piscina è, di fatto, una cisterna di acqua:
una cisterna-vasca a cielo aperto, che si
differenzia dalle cisterne-deposito soltanto
per la destinazione al nuoto, per gli
abbellimenti, la impermeabilizzazione e le
attrezzature idriche connesse, ma che
concettualmente null'altro è se non un
contenitore di acqua.
L'art. 889 c.c. nel disciplinare la distanza
da osservare nella costruzione di
determinate opere (pozzi, cisterne, fosse,
tubi) presso il confine, tiene conto della
loro potenziale attitudine ad arrecare danno
alla proprietà contigua stabilendo per esse
una presunzione assoluta di pericolosità.
Tra dette opere non rientrano i contenitori
interrati, prefabbricati o realizzati in
loco (nella specie: serbatoio di eternit) a
tenuta impermeabile con la funzione di
contenere le infiltrazioni e i travasamenti
nel fondo finitimo, in quanto per tali
contenitori non soccorre la presunzione
assoluta di pericolosità, ed è, pertanto,
necessario accertare in concreto, sulla base
delle loro specifiche caratteristiche
(struttura e composizione del materiale,
distanza dal confine), se abbiano o meno
attitudine a cagionare danno.
L'elencazione di cui all'art. 889 c.civile è
tassativa. Sennonché, senza utilizzare in
alcun modo l'analogia, una piscina è, di
fatto, una cisterna di acqua: una
cisterna-vasca a cielo aperto, che si
differenzia dalle cisterne-deposito soltanto
per la destinazione al nuoto, per gli
abbellimenti, la impermeabilizzazione e le
attrezzature idriche connesse, ma che
concettualmente null'altro è se non un
contenitore di acqua.
Le disposizioni di cui agli art. 889 e 891
c.c. si riferiscono a fattispecie del tutto
diverse tra loro, in considerazione della
specificità sia della natura delle opere in
esse rispettivamente previste, sia della "ratio"
cui ciascuna è informata. Infatti, la
prescrizione di cui all'art. 889 c.c.
(distanze per pozzi, cisterne, fossi e tubi)
mira ad evitare il pericolo di infiltrazioni
a danno del fondo del vicino (nei cui
confronti prevede una presunzione assoluta
di danno), allorché le opere in essa
indicate siano eseguite a distanza inferiore
di due metri dal confine, mentre la norma di
cui all'art. 891 c.c. (distanze tra i
canali, i fossi ed il confine) è ispirata
all'esigenza di scongiurare il pericolo di
franamento che tali opere possono cagionare
nei confronti del fondo del vicino
(Cassazione civile, sez. II, 19.06.1995, n.
6928).
Dunque l'art. 889 mira a prevenire le
infiltrazioni; ma va ricordato che la
giurisprudenza ha escluso la presunzione di
pericolo per i contenitori in metallo o
cemento prefabbricato, ed anche per quelli
costruiti in loco purché in maniera
impermeabile.
L'art. 889 c.c. nel disciplinare la distanza
da osservare nella costruzione di
determinate opere (pozzi, cisterne, fosse,
tubi) presso il confine, tiene conto della
loro potenziale attitudine ad arrecare danno
alla proprietà contigua stabilendo per esse
una presunzione assoluta di pericolosità.
Tra dette opere non rientrano i contenitori
interrati, prefabbricati o realizzati in
loco (nella specie: serbatoio di eternit) a
tenuta impermeabile con la funzione di
contenere le infiltrazioni e i travasamenti
nel fondo finitimo, in quanto per tali
contenitori non soccorre la presunzione
assoluta di pericolosità, ed è, pertanto,
necessario accertare in concreto, sulla base
delle loro specifiche caratteristiche
(struttura e composizione del materiale,
distanza dal confine), se abbiano o meno
attitudine a cagionare danno (Cassazione
civile, sez. II, 08.04.1986, n. 2436).
Nel caso di specie la CTU ha accertato che
trattasi di piscina prefabbricata con pareti
in pannelli di acciaio, rivestiti con uno
strato di poliestere al silicone. L'insieme
dei pannelli e contrafforti reggispinta è
ancorato ad una soletta perimetrale.
L'impermeabilizzazione è assicurata da un
rivestimento in telo PVC saldato a caldo. Le
esondazioni sono prevenute mediante scarichi
di troppo pieno.
Il CTU ha poi chiarito che pericoli di
infiltrazioni potrebbero derivare soltanto
dall'abbandono prolungato del manufatto,
mentre un suo normale utilizzo non dà motivo
di temere infiltrazioni.
Quindi, seguendo la convincente
giurisprudenza sopra citata, l'ambito di
applicazione dell'art. 889 c.civ. va ridotto
alle cisterne e vasche non impermeabili, e
va escluso in ipotesi come quella di cui si
discute, nella quale si è in presenza di una
vasca con struttura in metallo
impermeabilizzata, e dotata di opportuni
scarichi
(Corte d'Appello di Firenze, Sez. I civile,
sentenza 19.06.2009 n. 814). |
COMPETENZE PROGETTUALI: E'
inibito al geometra occuparsi di strutture
in cemento armato, salvo nel caso di piccole
costruzioni accessorie di carattere rurale,
che per intrinseca destinazione non possano
implicare pericolo per l’incolumità delle
persone, con la conseguenza che, ove il
rapporto professionale abbia invece avuto
oggetto costruzioni per civile abitazione
con impiego di cemento armato, esso è
affetto da nullità e non può fondare la
pretesa di alcun compenso.
La competenza professionale dei geometri in
materia di progettazione e direzione dei
lavori di opere edili riguarda le
costruzioni rurali e degli edifici per uso
di industrie agricole, di limitata
importanza, di struttura ordinaria, comprese
piccole costruzioni accessorie in cemento
armato che non richiedono particolari
operazioni di calcolo e che per la loro
destinazione non possono comunque implicare
pericolo per la incolumità delle persone,
nonché il progetto, la direzione e vigilanza
di modeste costruzioni civili.
La competenza
dei geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione -anche parziale- di
strutture in cemento armato, mentre, in via
d'eccezione, si estende anche a queste
strutture solo con riguardo alle piccole
costruzioni accessorie nell'ambito degli
edifici rurali o destinati alle industrie
agricole, che non richiedano particolari
operazioni di calcolo e che per la loro
destinazione non comportino pericolo per le
persone, essendo riservata agli ingegneri la
competenza per le costruzioni civili, anche
modeste, che adottino strutture in cemento
armato. Pertanto, la progettazione e la
direzione di opere da parte di un geometra
in materia riservata alla competenza
professionale degli ingegneri o degli
architetti sono illegittime, a nulla
rilevando in proposito che un progetto
redatto da un geometra sia controfirmato o
vistato da un ingegnere ovvero che un
ingegnere esegua i calcoli in cemento
armato, atteso che il professionista
competente deve essere altresì titolare
della progettazione, trattandosi di
competenze inderogabilmente affidate dal
committente al professionista abilitato
secondo il proprio statuto professionale,
sul quale gravano le relative
responsabilità. Ne consegue che, qualora il
rapporto professionale abbia avuto ad
oggetto una costruzione per civili
abitazioni, è affetto da nullità il
contratto anche relativamente alla direzione
dei lavori affidata a un geometra, quando la
progettazione -richiedendo l'adozione anche
parziale dei calcoli in cemento armato- sia
riservata alla competenza degli ingegneri”.
La competenza dei geometri è limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili, con esclusione
di quelle che comportino l'adozione -anche
parziale- di strutture in cemento armato,
mentre, in via d'eccezione, si estende anche
a queste strutture con riguardo alle piccole
costruzioni accessorie nell'ambito degli
edifici rurali o destinati alle industrie
agricole, non richiedenti particolari
operazioni di calcolo e per la loro
destinazione non comportanti pericolo per le
persone, restando la suddetta competenza
comunque esclusa nel campo delle costruzioni
civili ove si adottino strutture in cemento
armato, la cui progettazione e direzione,
qualunque ne sia l'importanza, è pertanto
riservata solo agli ingegneri ed architetti
iscritti nei relativi albi professionali.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione
è consolidata nel ritenere che è inibito al
geometra occuparsi di strutture in cemento
armato, salvo nel caso di piccole
costruzioni accessorie di carattere rurale,
che per intrinseca destinazione non possano
implicare pericolo per l’incolumità delle
persone, con la conseguenza che, ove il
rapporto professionale abbia invece avuto
oggetto costruzioni per civile abitazione
con impiego di cemento armato, esso è
affetto da nullità e non può fondare la
pretesa di alcun compenso, come emerge
chiaramente dalle seguenti massime:
- “la competenza professionale dei
geometri in materia di progettazione e
direzione dei lavori di opere edili,
prevista dall'articolo 16 del r.d.
11.02.1929 n. 274, riguarda le costruzioni
rurali e degli edifici per uso di industrie
agricole, di limitata importanza, di
struttura ordinaria, comprese piccole
costruzioni accessorie in cemento armato che
non richiedono particolari operazioni di
calcolo e che per la loro destinazione non
possono comunque implicare pericolo per la
incolumità delle persone, nonché il
progetto, la direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili. (Nella specie la
S.C. ha rigettato il motivo di ricorso del
geometra -avverso la sentenza che gli aveva
negato i compensi per la ristrutturazione di
un fabbricato con travi e pilastri in
cemento armato- secondo cui erroneamente la
corte di merito aveva ritenuto che la
progettazione in cemento armato è esclusa
dalla competenza dei geometri
indipendentemente dalla modestia dell'opera)”
(Cass. 21.12.2006 n. 27441)
- “a norma dell'art. 16, lett. m), r.d.
11.02.1929, n. 274, che non è stato
modificato dalla legge n. 1068 del 1971, la
competenza dei geometri è limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili, con esclusione
di quelle che comportino l'adozione -anche
parziale- di strutture in cemento armato,
mentre, in via d'eccezione, si estende anche
a queste strutture, a norma della lett. l)
del medesimo articolo, solo con riguardo
alle piccole costruzioni accessorie
nell'ambito degli edifici rurali o destinati
alle industrie agricole, che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportino pericolo
per le persone, essendo riservata agli
ingegneri la competenza per le costruzioni
civili, anche modeste, che adottino
strutture in cemento armato.
Pertanto, la progettazione e la direzione di
opere da parte di un geometra in materia
riservata alla competenza professionale
degli ingegneri o degli architetti sono
illegittime, a nulla rilevando in proposito
che un progetto redatto da un geometra sia
controfirmato o vistato da un ingegnere
ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in
cemento armato, atteso che il professionista
competente deve essere altresì titolare
della progettazione, trattandosi di
competenze inderogabilmente affidate dal
committente al professionista abilitato
secondo il proprio statuto professionale,
sul quale gravano le relative
responsabilità.
Ne consegue che, qualora il rapporto
professionale abbia avuto ad oggetto una
costruzione per civili abitazioni, è affetto
da nullità il contratto anche relativamente
alla direzione dei lavori affidata a un
geometra, quando la progettazione
-richiedendo l'adozione anche parziale dei
calcoli in cemento armato- sia riservata
alla competenza degli ingegneri” (Cass.
26 luglio 2006 n. 17028);
- “a norma dell'art. 16, lett. m), r.d.
11.02.1929, n. 274 (d'attuazione della legge
n. 1395 del 1923), e come si ricava anche
dalle leggi n. 1068 del 1971 e n. 64 del
1974 (che hanno rispettivamente disciplinato
le opere in conglomerato cementizio e le
costruzioni in zone sismiche) nonché dalla
legge n. 144 del 1949 (recante la tariffa
professionale), la competenza dei geometri è
limitata alla progettazione, direzione e
vigilanza di modeste costruzioni civili, con
esclusione di quelle che comportino
l'adozione -anche parziale- di strutture in
cemento armato, mentre, in via d'eccezione,
si estende anche a queste strutture, a norma
della lett. l) del medesimo art., solo con
riguardo alle piccole costruzioni accessorie
nell'ambito degli edifici rurali o destinati
alle industrie agricole, non richiedenti
particolari operazioni di calcolo e per la
loro destinazione non comportanti pericolo
per le persone, restando la suddetta
competenza comunque esclusa nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture
in cemento armato, la cui progettazione e
direzione, qualunque ne sia l'importanza, è
pertanto riservata solo agli ingegneri ed
architetti iscritti nei relativi albi
professionali (In applicazione del
suindicato principio la Corte Cass. ha
escluso potersi considerare priva di
pericolo per la pubblica incolumità e
conseguentemente rientrare nella competenza
del geometra, la redazione di un piano di
lottizzazione comprendente la progettazione
di due complessi residenziali, ciascuno di
tre piani fuori terra, oltre a cantine e
boxes, trattandosi in tal caso di opere
comportanti la soluzione di problemi tecnici
non solo in ordine ai calcoli del cemento
armato, ma anche in relazione alle opere di
urbanizzazione primaria da realizzare)”
(Cass. 14.04.2005 n. 7778);
- “a norma dell'art. 16, lett. m), del
R.D. 11.02.1929 n. 274, la competenza dei
geometri è limitata alla progettazione,
direzione e vigilanza di modeste costruzioni
civili, con esclusione di quelle che
comportino l'adozione anche parziale di
strutture in cemento armato, mentre, in via
di eccezione, si estende anche a queste
strutture, a norma della lett. l) del
medesimo articolo, solo con riguardo alle
piccole strutture accessorie nell'ambito
degli edifici rurali o destinati alle
industrie agricole che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportino pericolo
per le persone, restando quindi esclusa la
suddetta competenza nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture
in cemento armato, la cui progettazione e
direzione, qualunque ne sia l'importanza, è
riservata solo agli ingegneri ed architetti
iscritti nei relativi albi professionali”
(Cass. 30.03.2005 n. 6649);
- “a norma dell'art. 16, lett. m), R.D.
11.02.1929, n. 274 (d'attuazione della legge
n. 1395 del 1923), e come si ricava anche
dalla legge n. 1068 del 1971 dalla legge n.
64 del 1974 (che hanno rispettivamente
disciplinato le opere in conglomerato
cementizio e le costruzioni in zone
sismiche) nonché dalla legge n. 144 del 1949
(recante la tariffa professionale), la
competenza dei geometri è limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili, con esclusione
di quelle che comportino l'adozione -anche
parziale- di strutture in cemento armato,
mentre, in via d'eccezione, si estende anche
a queste strutture, a norma della lett. l)
del medesimo art., solo con riguardo alle
piccole costruzioni accessorie nell'ambito
degli edifici rurali o destinati alle
industrie agricole, che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportino pericolo
per le persone, restando la suddetta
competenza comunque esclusa nel campo delle
costruzioni civili ove si adottino strutture
in cemento armato, la cui progettazione e
direzione, qualunque ne sia l'importanza è
pertanto riservata solo agli ingegneri ed
architetti iscritti nei relativi albi
professionali (Nel fare applicazione del
suindicato principio la Corte Cass. ha
rigettato l'impugnazione, considerando
infondata la tesi del ricorrente secondo cui
nel suindicato divieto per i geometri non
ricadrebbero i manufatti "isostatici", da
realizzare per intero in conglomerato, senza
iterazione con corpi di fabbrica in muratura
tradizionale, altresì escludendo che le
innovazioni introdotte nei programmi
scolastici degli istituti tecnici possano
ritenersi avere ampliato, mediante
l'inclusione tra le materie di studio
d'alcuni argomenti attinenti alle strutture
in cemento armato, le competenze
professionali dei medesimi)” (Cass.
15.02.2005 n. 3021).
Nella specie, l’esame della documentazione
prodotta e della relazione del consulente
tecnico d’ufficio rivela che le prestazioni
professionali si riferiscono ad una villetta
per civile abitazione, libera su quattro
lati e disposta su un piano scosceso,
composta di tre piani fuori terra (compreso
il sottotetto) oltre al piano seminterrato,
non realizzata in semplice muratura, ma con
getti di calcestruzzo in cemento armato, sia
per le strutture di sostegno delle terre
scoscese, sia per l’ossatura centrale
portante dell’edificio, avente una
volumetria complessiva stimabile per difetto
in almeno 1.500 mc.. La non trascurabile
complessità della struttura edilizia e la
sua destinazione a civile abitazione fanno
categoricamente escludere la competenza
professionale del geometra per la
progettazione e la direzione lavori. Ne
segue che nessun compenso può essere preteso
dal ... per prestazioni che non poteva e non
doveva svolgere, sicché, in applicazione dei
principi giuridici esposti, l’impugnazione
va decisamente respinta
(Corte d'Appello di Firenze, Sez. I,
sentenza 04.06.2009 n. 762). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di distanze nelle costruzioni, nel caso
di trasformazione del tetto in terrazzo,
munito di riparo o ringhiera, che venga a
trovarsi a distanza inferiore a quella
legale rispetto all'altrui fondo, il comodo
affaccio esercitabile su di questo
costituisce turbativa del possesso del
vicino. Tale possesso è reclamabile con
l'azione di manutenzione ed alla predetta
turbativa è possibile porre rimedio con
l'esecuzione di opere idonee, secondo
l'insindacabile apprezzamento del giudice di
merito in quanto sorretto da coerente
motivazione, ad evitare l'affaccio a
distanza inferiore a quella legale.
In tema di distanze
legali, sono da ritenere integrative delle
norme del codice civile solo le disposizioni
dei regolamenti edilizi locali relative alla
determinazione della distanza tra i
fabbricati in rapporto all'altezza e che
regolino con qualsiasi criterio o modalità
la misura dello spazio che deve essere
osservato tra le costruzioni, mentre le
norme che, avendo come scopo principale la
tutela d'interessi generali urbanistici,
disciplinano solo l'altezza in sé degli
edifici, senza nessun rapporto con le
distanze intercorrenti tra gli stessi,
tutelano, nell'ambito degli interessi
privati, esclusivamente il valore economico
della proprietà dei vicini; ne consegue che,
mentre nel primo caso sussiste, in favore
del danneggiato, il diritto alla riduzione
in pristino, nel secondo è ammessa la sola
tutela risarcitoria.
In linea di principio, una recente pronuncia
della Corte di Cassazione insegna che: “in
tema di distanze nelle costruzioni, nel caso
di trasformazione del tetto in terrazzo,
munito di riparo o ringhiera, che venga a
trovarsi a distanza inferiore a quella
legale rispetto all'altrui fondo, il comodo
affaccio esercitabile su di questo
costituisce turbativa del possesso del
vicino. Tale possesso è reclamabile con
l'azione di manutenzione ed alla predetta
turbativa è possibile porre rimedio con
l'esecuzione di opere idonee, secondo
l'insindacabile apprezzamento del giudice di
merito in quanto sorretto da coerente
motivazione, ad evitare l'affaccio a
distanza inferiore a quella legale”
(massima tratta da Cass. 07.05.2008 n.
11201).
In
ordine all’efficacia civilistica delle norme
urbanistiche, la giurisprudenza della
Suprema Corte si esprime nel senso che: “in
tema di distanze legali, sono da ritenere
integrative delle norme del codice civile
solo le disposizioni dei regolamenti edilizi
locali relative alla determinazione della
distanza tra i fabbricati in rapporto
all'altezza e che regolino con qualsiasi
criterio o modalità la misura dello spazio
che deve essere osservato tra le
costruzioni, mentre le norme che, avendo
come scopo principale la tutela d'interessi
generali urbanistici, disciplinano solo
l'altezza in sé degli edifici, senza nessun
rapporto con le distanze intercorrenti tra
gli stessi, tutelano, nell'ambito degli
interessi privati, esclusivamente il valore
economico della proprietà dei vicini; ne
consegue che, mentre nel primo caso
sussiste, in favore del danneggiato, il
diritto alla riduzione in pristino, nel
secondo è ammessa la sola tutela
risarcitoria” (massima tratta da Cass.
16.01.2009 n. 1073. (Corte
d'Appello di Firenze, Sez. I civile,
sentenza 04.06.2009 n. 758). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il
provvedimento di annullamento in autotutela
costituisce la manifestazione della
discrezionalità dell’Amministrazione, che
non è obbligata a ritirare gli atti
illegittimi o inopportuni, ma deve valutare,
di volta in volta, se esista un interesse
pubblico alla loro eliminazione, diverso dal
semplice ristabilimento della legalità
violate.
L'interesse pubblico all'annullamento
d'ufficio è il risultato di una scelta
discrezionale dell'amministrazione operata
in assenza di precisi parametri normativi,
poiché il legislatore si è astenuto
dall'identificare le situazioni che
costituiscono un interesse pubblico
rilevante ai fini della rimozione dell’atto.
La p.a. che agisce in via di autotutela deve
evidenziare la concretezza e l’attualità del
pubblico interesse che sostiene la scelta di
annullare il provvedimento anche a distanza
di tempo dalla sua adozione.
Il potere di esercitare l'autotutela non
soffre limiti temporali, ma il decorso del
tempo può consolidare situazioni di fatto
sorrette dall'apparenza di uno stato di
diritto basato sull’atto da ritirare. In
sostanza, rileva ai fini della decisione
sull’annullamento l’affidamento ingenerato
dall’atto nell’interessato in merito alla
legittimità del provvedimento.
Con la legge 11.02.2005, n. 15, è stato
aggiunto il Capo IV-bis alla legge
07.08.1990, n. 241, all’interno del quale
trovano collocazione le disposizioni in tema
di autotutela come l’art. 21-nonies, (avente
ad oggetto l’annullamento d’ufficio).
In sostanza, il provvedimento di
annullamento in autotutela costituisce la
manifestazione della discrezionalità
dell’Amministrazione, che non è obbligata a
ritirare gli atti illegittimi o inopportuni,
ma deve valutare, di volta in volta, se
esista un interesse pubblico alla loro
eliminazione, diverso dal semplice
ristabilimento della legalità violate.
---------------
Le ragioni di pubblico interesse, sottese
all’esercizio del potere di autotutela, non
sono specificate dall'art. 21-nonies della
L. 241/1990. Si richiede, quindi, alla p.a.
una comparazione tra l'interesse pubblico e
gli interessi dei destinatari e dei
controinteressati. Ciò significa che
l'interesse pubblico all'annullamento
d'ufficio è il risultato di una scelta
discrezionale dell'amministrazione operata
in assenza di precisi parametri normativi,
poiché il legislatore si è astenuto
dall'identificare le situazioni che
costituiscono un interesse pubblico
rilevante ai fini della rimozione dell’atto.
Tuttavia, un limite all’esercizio del potere
di annullamento consiste nella certezza
delle situazioni giuridiche originate dal
provvedimento annullabile in via di
autotutela. Infatti, se il provvedimento ha
prodotto effetti favorevoli ed è trascorso
un apprezzabile lasso di tempo, sufficiente
ad ingenerare un legittimo affidamento
nell’interessato, si deve ritenere che la
stabilità della situazione venutasi a creare
costituisca un limite all’autoannullamento.
Le svolte considerazioni evidentemente si
pongono in contrasto con l’aspirazione alla
costante legittimità dell'azione
amministrativa, ma le esigenze di certezza
del diritto e di affidamento ingenerato
dalla stessa p.a. attraverso l’emanazione
dell’atto illegittimo ed l’omesso tempestivo
ritiro, inducono a preferire una soluzione
che contemperi la necessità del ripristino
della legittimità e gli altri interessi
concorrenti.
---------------
Come costantemente affermato dalla
giurisprudenza, la p.a. che agisce in via di
autotutela deve evidenziare la concretezza e
l’attualità del pubblico interesse che
sostiene la scelta di annullare il
provvedimento anche a distanza di tempo
dalla sua adozione (Cfr. Cons. St., sez. IV,
07.11.2002, n. 6113; TAR Lazio, Latina,
12.01.2001, n. 81).
Circa la valutazione del lasso di tempo
intercorrente tra l’emanazione dell’atto da
ritirare ed il provvedimento di annullamento
assunto in via di autotutela, il potere di
esercitare l'autotutela non soffre limiti
temporali, ma il decorso del tempo può
consolidare situazioni di fatto sorrette
dall'apparenza di uno stato di diritto
basato sull’atto da ritirare.
In sostanza, rileva ai fini della decisione
sull’annullamento l’affidamento ingenerato
dall’atto nell’interessato in merito alla
legittimità del provvedimento. La
ragionevolezza del termine è un concetto
vago e indeterminato. Invero, l’art.
21-nonies, parla di ‘termine ragionevole’
senza fornire elementi per definire la ‘ragionevolezza’
del termine entro il quale può essere
esercitato il potere di autotutela. Quindi,
per un verso, la p.a. è tenuta a motivare
specificamente al riguardo e, per l’altro,
occorre procedere caso per caso ad eseguire
tale valutazione, esaminando gli elementi
che caratterizzano la vicenda (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 20.06.2008 n. 6078 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E' legittimo l'ordine di
rimozione rifiuti abbandonati lungo le
strade emesso da un comune nei confronti
dell'ANAS.
La legittimazione passiva dell’ANAS alla
rimozione dei rifiuti abbandonati nelle aree
di pertinenza delle strade statali trova
riconoscimento nella previsione dell’art. 14
del d.lgs. 285 del 1992 (codice della
strada) che recita:
“Gli enti proprietari delle strade, allo
scopo di garantire la sicurezza e la
fluidità della circolazione, provvedono: a)
alla manutenzione, gestione e pulizia delle
strade, delle loro pertinenze e arredo […]
Per le strade in concessione i poteri e i
compiti dell'ente proprietario della strada
previsti dal presente codice sono esercitati
dal concessionario […]”;
La previsione citata appare caratterizzata
da un rapporto di specialità rispetto alle
disposizioni del d.lgs. 152/2006 <<poiché,
più che il dato relativo alla materia dei
“rifiuti”, che costituiscono per così dire,
l’oggetto dell’attività cui il destinatario
dell’ordine è tenuto, sembra significativo
l’ulteriore dato del contesto spaziale
rispetto a cui l’attività in parola va
svolta: la circostanza che i rifiuti
interessino beni quali le strade, difatti,
per l’evidente peculiarità che le medesime
presentano sul piano strutturale, funzionale
e della sicurezza pubblica, giustifica
-anche sul piano costituzionale- la
configurabilità di speciali doveri di
vigilanza, controllo e conservazione in capo
al proprietario o concessionario, doveri
che, per quanto fin qui scritto, rivestono
carattere di oggettività e prescindono dai
profili di dolo o colpa>> (TAR
Puglia-Lecce, sez. I ord. 24.10.2007 n.
1027);
La rilevazione di una situazione di
abbandono incontrollato di rifiuti su aree
di pertinenza dell’ANAS impone indubbiamente
al concessionario l’obbligo di adottare
tutte le misure idonee a porre rimedio alla
situazione, così permettendo di ravvisare la
colpa della ricorrente nelle ipotesi, come
la presente, in cui le misure sopra
richiamate non siano state adottate (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
ordinanza 18.06.2008 n. 487 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Le imprese, le quali intendano
partecipare alle pubbliche gare d’appalto,
hanno l’onere, allorché rendono le
autodichiarazioni previste dalla legge o dal
bando, di rendersi particolarmente diligenti
nel verificare preliminarmente (attraverso
la documentazione in loro possesso o anche
accedendo ai dati dei competenti uffici) che
tali autodichiarazioni siano veritiere. La
falsa o incompleta attestazione dei
requisiti di partecipazione ha rilevanza
oggettiva, sicché il relativo inadempimento
non tollera ulteriori indagini da parte
dell’Amministrazione in ordine all’elemento
psicologico (se cioè la reticenza sia dovuta
a dolo o colpa dell’imprenditore) e alla
gravità della violazione.
Come ripetutamente rilevato dalla
giurisprudenza, in un contesto di positivo
rinnovamento della legislazione in tema di
rapporti tra cittadino e pubblici poteri, e
quindi in tema di certificazioni e di
autocertificazione, è indispensabile che il
cittadino stesso sia anche responsabile (e
responsabilizzato) delle dichiarazioni che
rilascia, all’evidente scopo di evitare che
un importante strumento di civiltà
giuridico-amministrativa, quale
l’autocertificazione, possa finire con
l’essere comodo mezzo per aggirare ben
precisi precetti di legge (TAR Sicilia,
Palermo, sez. III, 15.09.2005 n. 1590).
Da ciò si ricava che le imprese, le quali
intendano partecipare alle pubbliche gare
d’appalto, hanno l’onere, allorché rendono
le autodichiarazioni previste dalla legge o
dal bando, di rendersi particolarmente
diligenti nel verificare preliminarmente
(attraverso la documentazione in loro
possesso o anche accedendo ai dati dei
competenti uffici) che tali
autodichiarazioni siano veritiere.
La falsa o incompleta attestazione dei
requisiti di partecipazione ha rilevanza
oggettiva, sicché il relativo inadempimento
non tollera ulteriori indagini da parte
dell’Amministrazione in ordine all’elemento
psicologico (se cioè la reticenza sia dovuta
a dolo o colpa dell’imprenditore) e alla
gravità della violazione (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 17.04.2003 n. 2081; Id., 09.12.2002
n. 6768).
Con specifico riguardo alla dichiarazione di
regolarità nel versamento di imposte e
tasse, deve perciò distinguersi. E’
illegittima l’esclusione quando l'impresa
abbia tempestivamente impugnato, prima della
pubblicazione del bando, la richiesta di
pagamento del tributo, ma a diversa
conclusione si perviene nel caso in cui
l’impresa abbia dichiarato espressamente,
nella domanda di partecipazione, di essere
in regola con i doveri contributivi e
fiscali, nonostante l’effettiva presenza di
carichi pendenti: in tal caso infatti la
dichiarazione, a pena di esclusione, deve
essere completa dell’indicazione del
contenzioso pendente (in questo senso Cons.
Giust. Amm. Sicilia, 28.07.2006 n. 470)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 12.06.2008 n. 1479 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La correttezza contributiva e
fiscale è richiesta, all'impresa
partecipante alla selezione per
l’aggiudicazione dell’appalto, come
requisito indispensabile non per la
stipulazione del contratto, bensì per
l’ammissione alla gara, con la conseguenza
che, ai fini della valida partecipazione
alla selezione, l’impresa deve essere in
regola con tali obblighi fin dalla
presentazione della domanda e conservare la
correttezza del rapporto per tutto lo
svolgimento di essa, restando irrilevante un
eventuale adempimento tardivo della
obbligazione tributaria
Secondo
l’orientamento prevalente in giurisprudenza,
che il Collegio condivide, la correttezza
contributiva e fiscale è infatti richiesta,
alla impresa partecipante alla selezione per
l’aggiudicazione dell’appalto, come
requisito indispensabile non per la
stipulazione del contratto, bensì per
l’ammissione alla gara, con la conseguenza
che, ai fini della valida partecipazione
alla selezione, l’impresa deve essere in
regola con tali obblighi fin dalla
presentazione della domanda e conservare la
correttezza del rapporto per tutto lo
svolgimento di essa, restando irrilevante un
eventuale adempimento tardivo della
obbligazione tributaria (cfr. Cons. Stato,
sez. IV, 27.12.2004 n. 8215; Id., 20.09.2005
n. 4817; Id., 30.01.2006 n. 288).
Può considerarsi in regola solo l’impresa
che, incorsa in situazione di irregolarità
nel passato, abbia già condonato o in altro
modo sanato le sue posizioni al momento
della partecipazione. E’ infatti indiscusso
che il requisito di regolarità fiscale sia
richiesto dalla legge non già ai fini della
stipulazione del contratto, ma per la stessa
partecipazione alla gara: l’art. 38, comma
1, del Codice dispone che “sono esclusi
dalla partecipazione alle procedure di
affidamento… e non possono stipulare i
relativi contratti…” i soggetti ai quali
sia imputabile una delle situazioni elencate
nella norma.
L’impresa deve pertanto essere in regola con
gli obblighi fiscali fin dal momento di
presentazione della domanda, sicché deve
esservi necessaria coincidenza cronologica
tra correttezza fiscale e partecipazione
alla gara, con irrilevanza a tali fini di
ogni adempimento tardivo della obbligazione,
anche se riconducibile al momento della
scadenza del termine del pagamento.
La giurisprudenza ha chiarito che i
meccanismi di regolarizzazione tardiva,
tipici del diritto tributario, possono
rilevare nelle reciproche relazioni di
debito e credito tra l’impresa e
l’Amministrazione finanziaria, nel senso di
consentire al contribuente, con
l’adempimento successivo, di evitare le
conseguenze del ritardo e di conseguire i
medesimi benefici che avrebbe ottenuto in
caso di esatto adempimento. Tale finzione
giuridica non può però valere a costituire
nei confronti della stazione appaltante
quella correttezza fiscale e contributiva,
che la norma prescrive al momento di
partecipazione alla gara, come
qualificazione soggettiva dell’impresa in
termini di rispetto degli obblighi di legge,
e quindi come espressione di affidabilità
della stessa. La correttezza fiscale deve
pertanto storicamente e attualmente esistere
al momento della partecipazione alla gara,
ed essere verificabile con esclusivo
riferimento a tale momento.
D’altronde, a ritenere legittima una
regolarizzazione tardiva con efficacia
retroattiva, successiva al momento della
partecipazione, ne deriverebbe la modifica
della natura del requisito di
partecipazione, che si trasformerebbe in
requisito per la stipulazione del contratto;
si consentirebbe una violazione del
principio della par condicio tra i
concorrenti, in quanto l’aggiudicatario,
dapprima non in regola con gli adempimenti
di legge, potrebbe sanare ex post la
propria situazione di irregolarità, con
evidente disparità di trattamento nei
confronti delle imprese che, in conformità
della legge, avevano adempiuto agli obblighi
fiscali prima di produrre domanda per
partecipare alla gara.
Inoltre, ha osservato la giurisprudenza che
tale ampliamento della nozione di regolarità
avrebbe anche l’effetto deleterio di
indebolire l’osservanza della normativa
fiscale, che al contrario, pur nell’ambito
della normativa settoriale sull’espletamento
delle gare, si vuol rafforzare. Le imprese
sarebbero quasi incentivate alla violazione
di legge, considerando di poter poi
provvedere comodamente alla
regolarizzazione, con l’effetto vantaggioso
di poter scegliere se farlo o meno in
funzione dell’utile risultato
dell’aggiudicazione, senza il rischio di
pregiudizio per il conseguimento
dell’appalto
(TAR Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 12.06.2008 n. 1479 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'onere d'immediata impugnazione
di un bando di gara per un appalto pubblico,
da parte delle imprese partecipanti, si pone
soltanto per le clausole immediatamente
lesive, quali, per esempio, quelle che
comportino l'immediata esclusione
dell'aspirante dalla partecipazione, mentre
per le altre clausole, ivi compresa quella
che ponga un'illegittima composizione della
commissione giudicatrice, l’incidenza lesiva
sorge soltanto a conclusione della gara
stessa e per le imprese che non sono
risultate vincitrici, all'evidente scopo
-connaturato con le esigenze del diritto
alla difesa e dell'efficienza dell'agire
amministrativo- di evitare la contestazione
necessariamente preventiva di tutte le
clausole reputate illegittime.
Secondo un consolidato principio
giurisprudenziale (Cons. Stato A.P. 1/2003),
l'onere d'immediata impugnazione di un bando
di gara per un appalto pubblico, da parte
delle imprese partecipanti, si pone soltanto
per le clausole immediatamente lesive,
quali, per esempio, quelle che comportino
l'immediata esclusione dell'aspirante dalla
partecipazione, mentre per le altre
clausole, ivi compresa quella che ponga
un'illegittima composizione della
commissione giudicatrice, l’incidenza lesiva
sorge soltanto a conclusione della gara
stessa e per le imprese che non sono
risultate vincitrici, all'evidente scopo
-connaturato con le esigenze del diritto
alla difesa e dell'efficienza dell'agire
amministrativo- di evitare la contestazione
necessariamente preventiva di tutte le
clausole reputate illegittime (sullo
specifico punto, TAR Lazio II sez. 607/2008)
(TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 12.06.2008 n. 691 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Il fax rappresenta uno dei modi
in cui può concretamente svolgersi la
cooperazione tra i soggetti, in quanto essa
viene attuata mediante l'utilizzo di un
sistema basato su linee di trasmissione di
dati ed apparecchiature che consentono di
poter documentare sia la partenza del
messaggio dall’apparato trasmittente che,
attraverso il cosiddetto rapporto di
trasmissione, la ricezione del medesimo in
quello ricevente.
Tali modalità, garantite da protocolli
universalmente accettati, ne fanno uno
strumento idoneo a garantire l'effettività
della comunicazione.
Posto …che gli accorgimenti tecnici che
caratterizzano il sistema garantiscono, in
via generale, una sufficiente certezza circa
la ricezione del messaggio, ne consegue che…
un fax deve presumersi giunto al
destinatario quando il rapporto di
trasmissione indica che questa è avvenuta
regolarmente, senza che colui che ha inviato
il messaggio debba fornire alcuna ulteriore
prova. Semmai la prova contraria può solo
concernere la funzionalità dell'apparecchio
ricevente; ma questa non può che essere
fornita da chi afferma la mancata ricezione
del messaggio.
Ai sensi dell’art. 45, comma 1, del d.lgs.
17.03.2005, n. 82, recante il “Codice
dell’amministrazione digitale”, “I
documenti trasmessi da chiunque ad una
pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo
telematico o informatico, ivi compreso il
fax, idoneo ad accertarne la fonte di
provenienza, soddisfano il requisito della
forma scritta e la loro trasmissione non
deve essere seguita da quella del documento
originale” (l’ora riportata disposizione
legislativa è sostanzialmente reiterativa di
quella contenuta nell’art. 43, comma 6, del
d.p.r. 28.12.2000, n. 445, con il quale è
stato emanato il “Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in
materia di documentazione amministrativa”).
Sotto il versante giurisprudenziale,
premettendosi che “il fax rappresenta uno
dei modi in cui può concretamente svolgersi
la cooperazione tra i soggetti, in quanto
essa viene attuata mediante l'utilizzo di un
sistema basato su linee di trasmissione di
dati ed apparecchiature che consentono di
poter documentare sia la partenza del
messaggio dall’apparato trasmittente che,
attraverso il cosiddetto rapporto di
trasmissione, la ricezione del medesimo in
quello ricevente”, è stato affermato che
“tali modalità, garantite da protocolli
universalmente accettati, ne fanno uno
strumento idoneo a garantire l'effettività
della comunicazione” (cfr. CdS, VI,
04.06.2007, n. 2951, cui adde: Tar Lazio,
III-quater, 13.02.2008, n. 1254; Tar
Sicilia, Palermo, II, 07.02.2008, n. 197;
Tar Lazio, III-bis, 04.01.2008, n. 238; Tar
Lazio, I-bis, 27.10.2004, n. 17353; Tar
Piemonte, 10.06.2002, n. 1190).
E stato poi soggiunto, in ordine alla
presunzione che assiste la ricezione del fax
e della prova contraria che può essere
opposta dal destinarlo (presunzione che ha
riflessi sul thema decidendum),
quanto segue: “Posto …che gli
accorgimenti tecnici che caratterizzano il
sistema garantiscono, in via generale, una
sufficiente certezza circa la ricezione del
messaggio, ne consegue che… un fax deve
presumersi giunto al destinatario quando il
rapporto di trasmissione indica che questa è
avvenuta regolarmente, senza che colui che
ha inviato il messaggio debba fornire alcuna
ulteriore prova. Semmai la prova contraria
può solo concernere la funzionalità
dell'apparecchio ricevente; ma questa non
può che essere fornita da chi afferma la
mancata ricezione del messaggio” (cit.
sent. CdS n. 2951/2007, che fa riferimento a
una precedente decisione della Sez. V,
24.04.2002, n. 2202; nonché Tar Lazio, III,
11.02.2006, n. 1066).
Dunque, nel momento in cui il fax viene
trasmesso, e ciò risulti debitamente
documentato dal c.d. rapporto di
trasmissione, si forma la presunzione della
sua ricezione in capo al destinatario, il
quale può vincerla solo opponendo la mancata
funzionalità dell’apparecchio ricevente. E’
evidente –per incidens– che di tale
mancata funzionalità deve essere offerta
prova rigorosa non potendo evidentemente
darsi campo e giustificazione a circostanze
impeditive opposte in modo generico e non
seriamente documentate.
In coerente applicazione di quanto precede è
altresì evidente che il principio secondo
cui la comunicazione mediante telefax
rappresenta strumento idoneo –in carenza di
espresse previsioni che dispongano
altrimenti– a determinare la piena
conoscenza di un atto e/o documento
(principio che, come si è visto, trae il suo
fondamento positivo nel precitato d.lgs. n.
82/2005 e, in tema di documentazione
amministrativa, nel precitato T.U. n.
445/2000) non può essere vanificato da
semplici dichiarazioni del soggetto
destinatario che, come nella situazione
all’esame, opponga tout court di non
avere ricevuto il fax (cfr., per caso
analogo, Tar Friuli, I, 08.11.2007, n. 720)
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 27.05.2008 n. 5113 -
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ATTI AMMINISTRATIVI:
L'amministrazione che riceve le
controdeduzioni ai motivi ostativi
rappresentati ex art. 10-bis della legge n.
241/1990, ma che di esse non ne tiene conto
nella redazione del provvedimento finale,
vìola detta disposizione nella parte in cui
dispone che “dell’eventuale mancato
accoglimento di tali osservazioni è data
ragione nella motivazione del provvedimento
finale”.
La violazione di quella regola “non vizia
l’atto solo sotto il profilo formale, ma
incide anche sul contenuto sostanziale dello
stesso”.
L’Agenzia aveva
ricevuto le osservazioni comunicate dalla
Società in ordine ai motivi ostativi,
rappresentati ex art. 10-bis della legge n.
241/1990, ma che di esse non ha tenuto conto
nella redazione del provvedimento finale,
così violando detta disposizione nella parte
in cui dispone che “dell’eventuale
mancato accoglimento di tali osservazioni è
data ragione nella motivazione del
provvedimento finale”.
E’ nota la posizione del giudice
amministrativo sulla conseguenza della
violazione della regola procedimentale posta
dall’anzidetto art. 10-bis, che,
valorizzando il momento del contraddittorio
fra privato e p.a., incide sul contenuto del
provvedimento finale e, in particolare,
sulla sua motivazione.
E’ stato infatti affermato (proprio in
relazione a controversia nella quale era
parte l’attuale convenuta: cfr. CdS, VI,
22.05.2007, n. 2596) che la violazione di
quella regola “non vizia l’atto solo
sotto il profilo formale, ma incide anche
sul contenuto sostanziale dello stesso”.
Tanto premesso, non può dubitarsi del fatto
che nella specie, incidendo il diritto
partecipativo della Società ricorrente,
l’Agenzia abbia dato luogo a un
provvedimento carente di motivazione
omettendo di valutare, sia pure
succintamente, le articolare e analitiche
deduzioni che la Società aveva formulato con
l’atto trasmesso via fax
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis,
sentenza 27.05.2008 n. 5113 -
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EDILIZIA PRIVATA:
In materia di localizzazione sul
territorio delle stazioni radio-base di
telefonia mobile, i Comuni non possono,
attraverso atti regolamentari o di
pianificazione urbanistica, introdurre
divieti di localizzazione di ordine generale
per talune porzioni di territorio,
considerato che la potestà riconosciuta agli
enti locali dall’art. 8 della legge 36/2001
non può tradursi in divieti assoluti di
localizzazione di impianti di telefonia
mobile su parti del territorio non
interessate da obiettivi sensibili.
Ai sensi dell’art. 4, comma 7°, della l.r.
Lombardia 11/2001, gli impianti radiobase di
telefonia mobile di potenza totale non
superiore a 300 Watt non richiedono
specifica regolamentazione urbanistica, per
cui sono illegittime le disposizioni
pianificatorie comunali che introducono in
termini assoluti divieti di installazione
per simili impianti, anche solo su porzioni
del territorio comunale.
In ordine al profilo, relativo cioè alla
collocazione sul territorio delle stazioni
radio base di telefonia cellulare, la
giurisprudenza, anche della Sezione (TAR
Lombardia, sez. IV, 07.09.2007, n. 5777;
23.11.2006, n. 2833; 12.11.2007, n. 6260 e
17.03.2008 n. 554, costituenti tutti
precedenti conformi ai quali si rinvia;
oltre a Consiglio di Stato, sez. VI,
05.06.2006, n. 3332 e sez. VI, 15.06.2006,
n. 3534; TAR Lazio, sez. II-bis, 17.01.2007,
n. 323), è ormai giunta alla conclusione che
i Comuni non possono, attraverso atti
regolamentari o di pianificazione
urbanistica, introdurre divieti di
localizzazione di ordine generale per talune
porzioni di territorio, considerato che la
potestà riconosciuta agli enti locali
dall’art. 8 della legge 36/2001 non può
tradursi in divieti assoluti di
localizzazione di impianti di telefonia
mobile su parti del territorio non
interessate da obiettivi sensibili.
Nella Regione Lombardia, inoltre, assume
rilevanza fondamentale la previsione
dell’art. 4, comma 7°, della legge regionale
11/2001, per la quale gli impianti radiobase
di telefonia mobile di potenza totale non
superiore a 300 Watt (come quello di cui è
causa), non richiedono specifica
regolamentazione urbanistica, per cui sono
illegittime le disposizioni pianificatorie
comunali che introducono in termini assoluti
divieti di installazione per simili
impianti, anche solo su porzioni del
territorio comunale (v.si, oltre alle citate
sentenze della scrivente Sezione IV, anche
TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.05.2005,
n. 1106) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 20.05.2008 n. 1815 -
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COMPETENZE PROGETTUALI:
Contratto di progettazione e
direzione lavori comprendente opere in
cemento armato concluso da un geometra -
Progetto controfirmato o vistato da un
ingegnere - Illegittimità - Diritto al
compenso - Esclusione - Contratto in
generale - Nullità.
La progettazione e la direzione di opere da
parte di un geometra in materia riservata
alla competenza professionale degli
ingegneri e degli architetti sono
illegittime, e per esse non è dovuto al
geometra alcun compenso, non essendo
sufficiente a rendere legittimo il progetto
che esso sia controfirmato o vistato da un
ingegnere o che l’ingegnere rediga i calcoli
in cemento armato o che diriga i lavori
relativi alla realizzazione delle strutture
di cemento armato, in quanto il
professionista competente deve essere unico
autore e responsabile della progettazione.
Progettazione -
Direzione dei lavori - Competenza dei
geometri - Strutture in cemento armato.
A norma dell'art. 16 R.D. 11.2.1929 n. 274
la competenza dei geometri é limitata alla
progettazione, direzione e vigilanza di
modeste costruzioni civili, con esclusione
di quelle che comportino l'adozione anche
parziale di strutture in cemento armato,
mentre in via di eccezione si estende anche
a queste strutture solo con riguardo alle
piccole costruzioni accessorie nell'ambito
degli edifici rurali o destinati alle
industrie agricole che non richiedano
particolari operazioni di calcolo e che per
la loro destinazione non comportino pericolo
per le persone; invece per le costruzioni
civili, sia pure modeste, ove si adottino
strutture in cemento armato, ogni competenza
è riservata ex art. 1 R.D. 16.11.1939 n.
2229 agli ingegneri ed architetti iscritti
nell'albo.
Sicché, tale normativa, non modificata dalla
l. 05.11.1971 n. 1086, che si limita a
rinviare per gli ingegneri, architetti e
geometri alla previgente ripartizione di
competenza, implica che ai geometri non
possa comunque essere affidata la
progettazione e la direzione dei lavori di
costruzioni civili comportanti l'impiego del
cemento armato (vedi "ex multis"
Cass. 28.07.1992 n. 9044; Cass. 19.04.1995
n. 4364) (Corte di Cassazione, Sez. II
civile,
sentenza 26.07.2006 n. 17028 -
link a www.ambientediritto.it). |
AGGIORNAMENTO AL 06.06.2011 |
ã |
EDILIZIA PRIVATA:
"Decreto sviluppo": Regione
Lombardia, se ci sei batti un colpo!!
E' dallo scorso 14 maggio che il D.L.
70/2011 è in vigore e da quella data
(invero, prima ancora che il decreto -già di
dominio pubblico- fosse pubblicato in G.U.)
ci siamo posti due elementari domande e
cioè:
1) nell'istruire le
istanze di permesso di costruire, si applica
la procedura del novellato art. 20 del
D.P.R. n. 380/2001 oppure si continua ad
applicare la
procedura di cui all'art. 38
della L.R. n. 12/2005??
2) la Scia in materia edilizia adesso
esiste??
Orbene, martedì scorso 31.05 si è tenuta a
Bergamo una mezza giornata di studio
(organizzata da PTPL) circa le
novità introdotte in materia edilizio-urbanistica dal suddetto "decreto
sviluppo" con relatore l'Avv. Mario
VIVIANI del foro di Milano.
L'Amico Mario, come sempre brillante ed
arguto analizzatore della norma, ha chiarito
ai partecipati -seduti in platea- i dubbi di
maggior interesse ed ha fornito le
condivisibili risposte ai due quesiti sopra
elencati ... ma restiamo, comunque,
nell'attesa che la Regione Lombardia
fornisca chiarimenti ufficiali,
possibilmente prima di Natale p.v..
Ma andiamo con ordine ...
---------------
1)
L'art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 titola "Procedimento
per il rilascio del permesso di costruire"
ed in Lombardia è stato disapplicato ad
opera dell'art. 103, comma 1, della L.R. n.
12/2005 per cui l'iter istruttorio è quello
di cui all'art. 38 del medesima legge
regionale.
Se è vero che il legislatore nazionale ha
riscritto l'iter istruttorio de quo
ad opera dell'art. 5, comma 2, lett. a), del
D.L. n. 70/2011 è altrettanto vero che si
tratta di "materia di legislazione
concorrente" di competenza regionale (ex
art. 117 della Carta costituzionale) talché
la Regione Lombardia dal 2005 si è dotata
di una procedura speciale/differenziata da
quella nazionale. La novità nazionale, non
di poco conto, è l'introduzione del "silenzio-assenso"
con alcune eccezioni.
Ma fintantoché la Regione Lombardia non
modificherà/integrerà (semmai lo volesse
fare ...) la L.R. n. 12/2005 per recepire la
novità del "silenzio-assenso"
nazionale (e non solo)
si dovrà continuare ad applicare l'art. 38
della medesima legge regionale in relazione
alla procedura di istruttoria delle istanze
di permesso di costruire.
---------------
2)
Da questo sito abbiamo sempre sostenuto come il
nuovo istituto della Scia (segnalazione
certificata di inizio attività) in materia
edilizia non esistesse, e ciò per una serie
di motivazioni tecnico-giuridiche troppo lunghe da riportare
qui.
Ripercorriamo velocemente i trascorsi ...
Lo scorso 31.07.2010 è entrata in vigore la
Scia (L. 122/2010 di conversione del D.L.
78/2010). Il Ministero per la
Semplificazione Normativa esordiva "ufficialmente" per primo
(e ultimo) con la
nota 16.09.2010 n. 1340 di prot.
in risposta ad un quesito formulato dalla
Regione Lombardia, circa chiarimenti sulla
portata della Scia (Segnalazione Certificata
di Inizio Attività) in materia edilizia.
Successivamente, anche la Regione Lombardia
diceva la propria col
comunicato 08.10.2010 circa la
portata della Scia, in materia edilizia,
nell'ordinamento regionale.
Nell'AGGIORNAMENTO
AL 29.11.2010 scrivevamo la news
di seguito riportata:
Il
Governo, nella settimana del’08.11.2010, ha
presentato
l’emendamento n. 1.500 al ddl di
stabilità per il 2011 (A.C. 3778) e cioè la
Finanziaria 2011, il quale all’art. 4 recita
“Semplificazioni in materia di
urbanistica, edilizia e di segnalazione
certificata di inizio attività”.
Invero, l’art. 4 de quo è stato
ritenuto “inammissibile” dal
Presidente della Camera dei Deputati (si
legga la "Sintesi
del contenuto ed analisi degli effetti
finanziari" a cura della
Camera stessa).
E’ interessante, comunque, evidenziare ed
approfondire il contenuto del suddetto art.
4 in ordine alla volontà del legislatore di
introdurre ancòra novità nel panorama
legislativo in materia di edilizia ed
urbanistica. E ciò che preme qui evidenziare
è l’intenzione di chiarire la portata della
Scia (Segnalazione certificata di inizio
attività) anche nell’ambito edilizio di cui
al D.P.R. n. 380/2001 in virtù delle
numerose prese di posizione, da più parti-
in ordine alla non applicabilità della
stessa in materia edilizia.
Nella fattispecie, l’art. 4, comma 10, lett.
b), così recita:
«b)
all’art. 19, comma 1, primo periodo, dopo le
parole: “nonché di quelli”, sono aggiunte le
seguenti: “previsti dalla normativa per le
costruzioni in zone sismiche e di quelli” e
dopo il comma 6 sono aggiunti, in fine, i
seguenti commi:
“6-bis. Le disposizioni del presente
articolo si interpretano nel senso che le
stesse si applicano limitatamente alle
denunce di inizio attività in materia
edilizia disciplinate dal decreto del
Presidente della Repubblica 6 giugno 2001,
n. 380, con esclusione dei casi in cui le
denunce stesse, in base alla normativa
statale o regionale, siano alternative o
sostitutive del permesso di costruire, e che
non sostituiscano la disciplina prevista
dalle leggi regionali che, in attuazione
dell’articolo 22, comma 4, del decreto del
Presidente della Repubblica 6 giugno 2001,
n. 380, abbiano ampliato l’ambito
applicativo delle disposizioni di cui
all’articolo 22, comma 3, del medesimo
decreto.
6-ter. Nei casi di segnalazione certificata
di inizio attività in materia edilizia, il
termine di cui al periodo del comma 3 è
ridotto a trenta giorni. Fatta salva
l’applicazione delle disposizioni di cui al
comma 6, restano altresì ferme le
disposizioni relative alla vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia, alle
responsabilità e alle sanzioni previste dal
decreto del Presidente della Repubblica 6
giugno 2001, n. 380, e delle leggi
regionali.”».
Il Ragioniere Generale dello Stato (Canzio),
con
nota 11.11.2010 n. 95098 di prot.
di accompagnamento della relazione tecnica
di finanza pubblica all'emendamento de
quo, scrive -tra l'altro- che "Viene
altresì specificato meglio l'ambito di
applicazione della Scia, introducendo un
comma aggiuntivo all'articolo 19 della legge
241 del 1990, al fine di chiarire i dubbi
interpretativi emersi in sede di prima
applicazione dell'istituto, precisando che
esso si estende anche alla materia edilizia,
con esclusione dei casi di Superdia, in
linea con quanto già osservato nella nota
esplicativa del Ministero per la
semplificazione normativa. ...".
Ebbene,
che bisogno c'era di integrare
ulteriormente il novellato art. 19 della L.
n. 241/1990?? La circolare del Cons. Chinè
non era sufficiente, come dallo stesso
dichiarato pubblicamente, a fugare ogni
sorta di dubbio??
Evidentemente NO!!
Comunque, l'emendamento alla Finanziaria
2011 che avrebbe integrato l'art. 19 della
L. n. 241/1990 non è stato ammesso e,
quindi, siamo al punto di partenza:
ad oggi la SCIA, in materia
edilizia, NON ESISTE!!
Ora, il Governo ha emanato il noto
D.L. n. 70/2011 ove, nella
sostanza, ha riproposto le
modifiche/integrazioni alla L. n. 241/1990
siccome avanzate lo scorso fine anno e
precisamente:
"c) Le disposizioni di cui all’articolo
19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 si
interpretano nel senso che le stesse si
applicano alle denunce di inizio attività in
materia edilizia disciplinate dal decreto
del Presidente della Repubblica 6 giugno
2001, n. 380, con
esclusione dei casi in cui le denunce
stesse, in base alla normativa statale o
regionale, siano alternative o sostitutive
del permesso di costruire.
Le disposizioni di cui all’articolo 19 della
legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano
altresì nel senso che non sostituiscono la
disciplina prevista dalle leggi regionali
che, in attuazione dell’articolo 22, comma
4, del decreto del Presidente della
Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, abbiano
ampliato l’ambito applicativo delle
disposizioni di cui all’articolo 22, comma
3, del medesimo decreto e nel senso che, nei
casi in cui sussistano vincoli ambientali,
paesaggistici o culturali, la Scia non
sostituisce gli atti di autorizzazione o
nulla osta, comunque denominati, delle
amministrazioni preposte alla tutela
dell’ambiente e del patrimonio culturale."
[cfr. art. 5, comma 2, lett. c), D.L.
70/2011].
Ciò detto, sovvengono le seguenti
considerazioni:
1)
la norma di cui alla suddetta lett. c) è, di
fatto, una interpretazione autentica di
quanto dispone la L. 241/1990 siccome
modificata/integrata ad opera della
L. 122/2010 di conversione del D.L. 78/2010
e, quindi, con effetto retroattivo (cioè dal
31.07.2010).
Ciò avvalora ancor più la tesi secondo cui
la
nota 16.09.2010 n. 1340 di prot.
del Ministero per la Semplificazione
Normativa,
non appena di dominio pubblico,
non aveva per
niente convinto circa l'esistenza (dal
31.07.2010) della Scia in materia edilizia,
seppur con alcune limitazioni ...
altrimenti, che bisogno c'era -oggi- con il
D.L. 70/2011 di interpretare quella norma in
maniera autentica e cioè con effetto
retroattivo??
E' evidente che il legislatore nazionale si
è accorto di aver "toppato" lo scorso
anno nel redigere il testo della norma ed
ora è corso ai ripari ... tra l'altro, il
Cons. Chinè che ha sottoscritto la
nota 16.09.2010 n. 1340 di prot.
in risposta ad un quesito formulato dalla
Regione Lombardia, circa chiarimenti sulla
portata della Scia (Segnalazione Certificata
di Inizio Attività) in materia edilizia,
parrebbe che sia stato "sollevato"
dall'incarico di Capo Ufficio Legislativo
(forse, proprio per quell'infelice ed
alquanto discutibile e discussa nota??) visto che alla
data del 03.05.2011 il Capo Ufficio
Legislativo del Ministero della
Semplificazione Normativa risulta altra
persona (cfr.
nota 03.05.2011 n. 810 di prot.).
2)
l'odierno legislatore nazionale, col
decreto-legge de quo, ha scritto,
nero su bianco, che "...
Le
disposizioni di cui all’articolo 19 della
legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano
nel senso che le stesse si applicano alle
denunce di inizio attività in materia
edilizia disciplinate dal decreto del
Presidente della Repubblica 6 giugno 2001,
n. 380, con esclusione
dei casi in cui le denunce stesse, in base
alla normativa statale o regionale, siano
alternative o sostitutive del permesso di
costruire.".
Avete
capito bene??
Se è vero, come è vero, che in Lombardia la
DIA è alternativa al permesso di costruire
senza alcuna limitazione (a parte i nuovi
fabbricati in zona agricola ed i mutamenti
di destinazione d’uso di cui all’art. 52,
comma 3-bis, della L.R. n. 12/2005,
assoggettati unicamente al permesso di
costruire) e cioè, in altri
termini, non esistono interventi edilizi che
sono obbligatoriamente soggetti alla
DIA, ne deriva una conclusione evidente,
chiara, incontrovertibile:
in
Lombardia NON si può applicare l'istituto
della Scia!!
Paradossalmente, potremmo dire che il
Governo ha contribuito non poco ad un
clamoroso "autogol" laddove si
continuava a sostenere che la Scia, in
Lombardia, esistesse così come nel resto del
territorio nazionale ... tesi sostenuta
anche e soprattutto dal Cons. Chinè (in un convegno
pubblico, dello scorso anno, intervenuto
quale relatore) che additava la Lombardia
come caso esemplare di diffusa applicazione
(ma quando mai!!) del nuovo istituto.
E paradossalmente, altresì, la Regione
Lombardia se volesse far decollare sul
proprio territorio l'istituto della Scia
dovrebbe mettere mano alla L.R. n. 12/2005 e
prevedere alcuni interventi edilizi come
soggetti obbligatoriamente a DIA ... allora
sì che per quest'ultimi si applicherebbe la
Scia.
06.06.2011 - LA SEGRETERIA PTPL |
EDILIZIA PRIVATA:
Fotovoltaico: la convenienza inaspettata del
quarto Conto Energia. Concetti di base e
studio sulla convenienza economica per Nord,
Centro e Sud.
La redazione di BibLus-net propone ai propri
lettori uno speciale dedicato alle analisi
di convenienza del quarto Conto Energia.
Scopo della pubblicazione è quello di
evidenziare, dopo aver fornito rapidamente i
concetti basilari sugli impianti
fotovoltaici e sui meccanismi di
incentivazione, le differenze di
remunerazione tra i vari “Conti Energia”
e le differenze di produttività degli
impianti in diverse località rappresentative
del territorio italiano.
Ne viene fuori una visione “inaspettata”
del quarto Conto Energia che dimostra come
l’investimento fotovoltaico sia ancora molto
remunerativo (link a www.acca.it). |
DIPARTIMENTO
FUNZIONE PUBBLICA |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: procedura automatizzata per la
comunicazione degli scioperi relativi al
pubblico impiego (circolare
26.05.2011 n. 8/2011). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
ENTI LOCALI:
P. M. Zerman,
Il federalismo demaniale, tra interesse
della comunità e risanamento del debito
(link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
R. Bertuzzi,
RIFIUTI DA INCIDENTE STRADALE
(link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G. Amendola,
ART. 674 C.P., EMISSIONI MOLESTE E
INQUINAMENTI. E’ L’ORA DELLE SEZIONI UNITE?
(link a www.lexambiente.it). |
SINDACATI |
PUBBLICO IMPIEGO:
Lavoro pubblico e lavoro privato
- Il giano bifronte della politica
governativa
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 03.06.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Modifica del decreto "Brunetta" -
L'immediata applicazione delle norme su
merito e premi
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 30.05.2011). |
PUBBLICO IMPIEGO:
CONTINUANO LE REVOCHE
INDISCRIMINATE E SENZA MOTIVAZIONE DEI
PROVVEDIMENTI PART-TIME.
Continuano a pervenire dai territori e dalle
amministrazioni notizie preoccupanti
sull'applicazione spesso distorta ed
impropria della recente normativa contenuta
nel cosiddetto collegato lavoro (art. 16
legge 183/2010) che consente alle
amministrazioni di rivedere i provvedimenti
di part-time già concessi prima dell'entrata
in vigore del DL 112/2008 (25.06.2008).
Ciò sta determinando gravissime
ripercussioni sulla vita familiare e
sull'organizzazione di moltissimi
dipendenti, soprattutto lavoratrici, con
revoche immotivate e generalizzate dei
part-time in essere.
A questo proposito rammentiamo che sono da
considerare illegittimi e, dunque,
suscettibili di ricorso al giudice del
lavoro i provvedimenti di revoca che si
pongono in contrasto con la normativa
nazionale:
- disposti dopo il 23.05.2011;
- non supportati da adeguata motivazione che
ne abbia valutato nel concreto la permanenza
delle condizioni di attribuzione e
l'impossibilità di provvedere con altri
strumenti, nel rispetto dei principi di
buona fede e correttezza;
- revoca generalizzata per tutti i part-time
per aggirare il termine di 180 giorni.
Sono inoltre da considerare illegittime le
revoche basate su una eccessiva
discrezionalità delle amministrazioni che si
pongono in contrasto con la normativa
Europea, che attribuisce all'istituto del
part-time un particolare trattamento di
favore per il suo alto valore sociale.
Alleghiamo un articolato
parere 23.05.2011
dello studio legale Galleano, convenzionato
con la UIL-PA, al quale sarà possibile
rivolgersi per ricevere assistenza e
consulenza, ai recapiti indicati sul nostro
sito (commento tratto da www.uilpa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: conferimento incarichi
di collaborazione esterna
(CGIL-FP di Bergamo,
nota 22.05.2007). |
GURI - GUUE -
BURL (e anteprima) |
APPALTI: P.a., solo accordi tra simili.
Collaborazioni legittime se l'oggetto è
comune. Risoluzione del Parlamento Ue sui
nuovi sviluppi in materia di appalti.
Collaborazioni pubblico-pubblico soltanto
per servizi pubblici comuni alle autorità
locali coinvolte e senza alcuna presenza di
privati. Concessioni di servizi affidabili a
terzi anche in presenza di un rischio di
gestione limitato. Non è necessaria una
disciplina comunitaria delle concessioni di
servizi pubblici; nelle società miste
obbligo di scelta del socio privato in gara
e immutabilità dell'oggetto sociale o del
compito affidato alla società.
Sono questi alcuni dei punti sui quali si
sofferma la
Risoluzione del Parlamento europeo del
18.05.2010 sui nuovi sviluppi in
materia di appalti pubblici (2009/2175(INI)) (pubblicata
sulla GUUE
del 31.05.2011 n. C 161 E).
Per quel che
concerne i profili relativi alla
cooperazione pubblico-pubblico, il
parlamento preliminarmente ricorda che le
amministrazioni non hanno l'obbligo di
ricorrere ad una determinata forma giuridica
per svolgere in comune determinate attività,
ma per non essere soggette all'applicazione
delle direttive europee queste
collaborazioni devono rispondere ad alcuni
precisi criteri.
In primo luogo «lo scopo
del partenariato deve essere l'esecuzione di
un compito di servizio pubblico spettante ad
entrambe le autorità locali in questione»,
in secondo luogo le attività «devono essere
svolte esclusivamente dalle autorità
pubbliche in questione, cioè senza la
partecipazione di privati o imprese
private»; infine l'attività deve essere
finalizzata a soddisfare esigenze proprie
delle autorità coinvolte nell'accordo. Il
parlamento precisa anche che questi tre
criteri non si applicano soltanto alle
autorità locali, ma a tutte le
amministrazioni aggiudicatrici pubbliche.
Per quel che concerne le concessioni di
servizi il parlamento europeo afferma che lo
strumento della concessione appare efficace
e legittimo, «anche se il rischio associato
alla gestione è limitato ma comunque
integralmente trasferito al concessionario».
In via generale il Parlamento, rispondendo
espressamente alla Commissione europea,
boccia l'ipotesi di un atto giuridico ad hoc
per le concessioni di servizi (ad esempio
una direttiva), «non necessario fintantoché
non sia mirato a un chiaro miglioramento del
funzionamento del mercato interno».
Sul Ppp
(partenariato pubblico privato) il
parlamento con la sua risoluzione evidenzia
che sia la Commissione (comunicazione del 05.02.2008), che la Corte di giustizia
(sent. 15.10.2009, C-196/08), hanno
chiarito che per l'aggiudicazione di appalti
o per l'affidamento di determinati compiti a
partenariati pubblico-privato di nuova
costituzione (caso classico quello della spa
mista) non è necessaria una duplice
procedura di gara concorrenziale. La
risoluzione elenca le condizioni che
consentono l'affidamento di una concessione
senza gara concorrenziale a una società
mista pubblico-privato costituita
specificamente a tale scopo (cosiddetta,
società di scopo).
In primo luogo occorre esperire una gara per
la scelta del socio privato che garantisce
una selezione trasparente, con la
pubblicazione anticipata del contratto
previa verifica dei requisiti finanziari,
tecnici, operativi e amministrativi e delle
caratteristiche dell'offerta in
considerazione dello specifico servizio da
fornire. In secondo luogo è necessario che
la società mista mantenga lo stesso oggetto
sociale durante l'intera durata della
concessione; con la conseguenza che
qualsiasi modifica sostanziale dell'oggetto
sociale o del compito affidato fa scattare
l'obbligo di indire una nuova procedura di
gara concorrenziale
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
G.U. 30.05.2011 n. 124 "Proroga del
termine di cui all’articolo 12, comma 2, del
decreto 17.12.2009, recante l’istituzione
del sistema di controllo della tracciabilità
dei rifiuti"
(Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 26.05.2011). |
CORTE DEI
CONTI |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale - Rapporto lavoro a
tempo parziale - Aumento di ore -
Assimilabilità ad assunzione.
La trasformazione di un rapporto di lavoro a
tempo parziale, con aumento di ore del
part-time, è assimilabile ad una nuova
assunzione. Conseguentemente il sindaco, nel
valutare la possibilità di trasformazione
del contratto, dovrà tenere conto dei limiti
posti dalla legge alle assunzioni, oltre che
alle spese di personale.
Quanto sopra trova conferma nella nota n.
46078/2010 del Dipartimento della Funzione
pubblica, secondo la quale "sono
subordinate ad autorizzazione ad assumere
anche gli incrementi di part-time"; la
circolare richiamata è diretta alle
amministrazioni statali, ma contiene
indicazioni che possono considerarsi alla
stregua di principi generali (massima tratta
da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 29.04.2011 n.
226). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Cumulo indennità, giudici divisi.
La Corte conti è per il divieto. Ma i Tar
non sono d'accordo. I magistrati contabili
della Lombardia mettono in guardia dal
rischio di danno erariale.
Non sono cumulabili i
gettoni di presenza per mandati elettivi
ricoperti dallo stesso soggetto in due enti
locali diversi.
La Corte dei Conti, Sez. regionale di
controllo per la Lombardia, col parere
31.03.2011 n. 166, risolve in modo molto
netto il problema derivante dall'abolizione
dell'articolo 82, comma 6, del dlgs 267/2000
ed apre, contestualmente, uno scontro
interpretativo molto profondo con la
giurisdizione dei Tar.
Infatti, la questione della cumulabilità è
stata vista e risolta in maniera
diametralmente opposta, in particolare dalle
sentenze Tar Puglia, Lecce, Sez. I,
12/02/2009, n. 219, Tar Veneto, sez. I,
19/02/2009, n. 3464 e Tar Piemonte,
03/12/2010, n. 4377.
La tesi dei Tar.
L'articolo 2, comma 25, della legge 244/2007
ha abolito il comma 6 dall'articolo 82 del
dlgs 267/2000, il quale permetteva
espressamente a un medesimo amministratore
di cumulare gettoni di presenza relativi a
mandati elettivi presso enti diversi.
Secondo i giudici amministrativi, non è
sufficiente il mero dato dell'abolizione
dell'articolo 82, comma 6.
Infatti, il dlgs 267/2000 pone un principio
di remuneratività delle funzioni pubbliche
elettive, sicché qualsiasi eccezione alla
remunerazione di tali cariche deve essere
disposta espressamente ed inequivocabilmente
manifestata, non ricavabile indirettamente
dalla ratio legis o da un'intenzione
del legislatore, che nel caso di specie
consiste nell'intento di ridurre i costi
della politica.
I Tar, dunque, rilevano che se da un lato è
stata abolita la norma che permetteva
espressamente il cumulo, dall'altro la legge
finanziaria 244/2007 non aveva previsto
alcun divieto espresso di corrispondere i
gettoni di presenza nel caso una stessa
persona svolgesse incarichi elettivi presso
due enti locali.
La posizione della Corte
dei conti.
La sezione Lombardia muove una serie di
efficaci critiche giuridiche alla posizione,
effettivamente poco persuasiva, delineata
dai Tar, che viene esplicitamente
qualificata come non condivisibile dai
magistrati contabili, in quanto fondata su
presupposti erronei.
In primo luogo, la sezione Lombardia si
sofferma sugli effetti delle norme di
abrogazione, rilevando lucidamente che se
una disposizione, una volta che sia stata
abrogata, non è più applicabile, a maggior
ragione non può ritenersi applicabile una
norma «implicita», ricavata aliunde
per via interpretativa, che avesse lo stesso
contenuto. In altre parole, se il
legislatore manifesta chiaramente di non
volere più gli effetti di una disposizione
allo scopo abolita, non occorre che,
contestualmente vieti espressamente di
applicare ciò che ha già abolito. Anche
laddove, comunque, fosse ricavabile
nell'ordinamento una regola implicita che
consenta il cumulo essa, afferma la sezione,
non può aver resistito all'abrogazione
espressa della disposizione medesima.
In secondo luogo, il principio secondo il
quale se il legislatore avesse voluto
vietare il cumulo avrebbe dovuto dirlo
espressamente non può operare: infatti,
esiste una disposizione abrogatrice che
esprime pienamente la voluntas legis
contraria al cumulo. Ancora, la sezione
Lombardia ritiene pienamente fondata
l'interpretazione sull'intento del
legislatore: la legge 244/2007 ha inteso
approvare norme finalizzate a contenere i
costi per la rappresentanza nei consigli
circoscrizionali, comunali, provinciali e
degli assessori comunali e provinciali, così
da ridurre il gravame di tali costi sulla
finanza pubblica.
Il parere della sezione conclude ricordando
che a conferma del divieto del cumulo è
recentemente entrato in vigore l'articolo 5,
comma 11, del dl 78/2010, convertito in
legge 122/2010 ai sensi del quale «chi è
eletto o nominato in organi appartenenti a
diversi livelli di governo non può comunque
ricevere più di un emolumento, comunque
denominato, a sua scelta». La norma non
può che andare nella conferma della
direzione del divieto del cumulo.
Questioni applicative.
L'inusitato scontro tra giurisdizioni pone
questioni operative non secondarie.
L'indirizzo della magistratura contabile è
chiaro: mantenere in piedi il cumulo non
risponde a corretti canoni di gestione
finanziario-contabile e potrebbe esporre ad
azioni di responsabilità. D'altro canto, le
amministrazioni nei confronti delle quali si
sono pronunciati i Tar debbono dare
esecuzione a quelle sentenze.
Appare evidente la maggiore fondatezza della
posizione della magistratura contabile,
appunto rafforzata di recente dalla manovra
2010. Le amministrazioni coinvolte dalle
sentenze pare abbiano un vero e proprio
onere di proporre nei loro confronti
appello. Le altre è opportuno che si
riferiscano alle conclusioni della Corte dei
conti, per evitare problemi di
responsabilità (articolo ItaliaOggi del
15.04.2011). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Responsabilità amministrativa –
Elementi costitutivi – Comportamento
illecito – Mancato controllo sui rimborsi
spese da parte del responsabile della
ragioneria – Visto di regolarità – Natura –
Costituisce atto di controllo di legittimità
– Responsabilità – Sussistenza –
Fattispecie.
Il visto o parere di regolarità contabile
del responsabile del servizio ragioneria di
un comune deve ritenersi, a tutti gli
effetti, un visto di legittimità del
relativo provvedimento di spesa, sulla base
del principio di contabilità pubblica
contenuto nell’art. 20 del T.U. della Corte
dei conti, R.D. 12.07.1934, n. 1214 e la
stessa, diversa interpretazione offerta in
proposito nelle circolari del Ministero
dell’interno deve ritenersi non vincolante
per gli enti locali; conseguentemente, il
funzionario medesimo è responsabile del
danno cagionato al comune per il mancato
controllo sul rimborso di spese illegittime
a favore del sindaco (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Sicilia,
sentenza 23.03.2011 n.
1058 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
1)
Danno all’immagine di un ente
pubblico, collegato con episodi oggetto di
contemporaneo processo penale –
Perseguibilità innanzi alla Corte dei conti
a seguito della riforma di cui all’art. 17,
comma 30-ter, decreto-legge n. 78/2009, conv.
con legge 03.08.2009 n. 102 e succ. mod. -
Sentenza n. 355/2010 della Corte
Costituzionale – Portata e limiti.
2) Danno all’immagine di un ente pubblico, a
seguito della commissione di reati comuni –
Perseguibilità innanzi alla Corte dei conti,
anche successivamente all’entrata in vigore
dell’art. 17, comma 30-ter decreto-legge n.
78/2009, conv. con legge 03.08.2009 n. 102 e
succ.mod. – Ambito operativo delle nuove
norme.
3) Azione per danno all’immagine di un ente
pubblico, a seguito della commissione di
reati comuni – Prescrizione – Decorrenza -
Dalla data in cui il procuratore regionale è
venuto a conoscenza della sentenza penale
passata in giudicato.
4) Danno all’immagine di un ente pubblico –
Nozione e caratteristiche –
Danno-conseguenza di carattere patrimoniale.
5) Danno all’immagine di ente pubblico –
Agenti di P.S. – Dolosa violazione delle
norme sul contrasto all’immigrazione
clandestina – Sussistenza - Fattispecie.
1) La sentenza della Corte costituzionale n.
355 del 2010 è una sentenza di rigetto e
dunque -a differenza di quelle dichiarative
di illegittimità costituzionale, che hanno
invece efficacia erga omnes-
determina un vincolo (nemmeno assoluto) solo
per il giudice del procedimento nel quale la
relativa questione è stata sollevata; negli
altri procedimenti, invece, il giudice
conserva il potere-dovere di interpretare in
piena autonomia la norma denunciata (anche
in difformità dall’interpretazione fatta
propria dalla Corte costituzionale), sempre
che il risultato ermeneutico sia adeguato ai
principi costituzionali (1).
In conseguenza di ciò, resta possibile per
il Giudice contabile scegliere
un’interpretazione dell’art. 17, comma
30-ter, diversa da quella fatta propria
dalla Corte costituzionale nella sentenza n.
355 del 2010 (secondo cui l’azione
risarcitoria per danni all’immagine
dell’ente pubblico, da parte della procura
contabile, potrebbe essere attivata soltanto
in presenza di un reato ascrivibile alla
categoria dei «delitti dei pubblici
ufficiali contro la pubblica amministrazione»,
cioè i delitti previsti dal capo I del
titolo II del libro II del codice penale).
2) La Corte dei conti ben può pronunziare
condanna al risarcimento di un danno
all’immagine, a seguito della novella
legislativa di cui all’art. 17, comma 30-ter
decreto-legge n. 78/2009, conv. con legge
03.08.2009 n. 102 e succ. mod., anche se il
danno deriva non da un reato contro la
pubblica amministrazione ma da un reato
comune; ed infatti, la norma in esame non
indica direttamente i casi in cui può essere
esercitata l’azione contabile per danno
all’immagine, ma rinvia ai “casi” e “modi”
previsti dall’art. 7 della legge 27.03.2001,
n. 97 e tale riferimento implica, da un
lato, la comunicazione al P.M. contabile
della sentenza irrevocabile di condanna
pronunciata per i delitti contro la pubblica
amministrazione previsti nel capo I, titolo
II del libro II del codice penale e,
dall’altro, l’obbligo per il P.M. penale di
comunicare al P.M. contabile, ex art. 129
delle norme di attuazione c.p.p.,
l’esercizio dell’azione penale per i reati,
di qualsiasi natura, che abbiano cagionato
un danno per l’erario (2).
3) Poiché nelle ipotesi di danno
all’immagine pubblica conseguente alla
commissione di reati comuni l’azione
contabile può essere esercitata solo in
presenza di una sentenza irrevocabile di
condanna, il relativo termine quinquennale
di prescrizione non decorre dal clamor fori,
ma dalla data in cui il procuratore
regionale è venuto a conoscenza della
sentenza patteggiata passata in giudicato,
come del resto confermato dallo stesso art
17, comma 30-ter D.L. n. 78/2009, laddove
dispone che il “decorso del termine di
prescrizione di cui al comma 2 dell'art. 1
della legge 14.01.1994, n. 20, e' sospeso
fino alla conclusione del procedimento
penale”.
4) Il danno all’immagine perseguibile
dinanzi la Corte dei conti va configurato
come danno patrimoniale da “perdita di
immagine”, di tipo contrattuale, avente
natura di danno-conseguenza (tale, comunque,
da superare una soglia minima di
pregiudizio) e la cui prova può essere
fornita anche per presunzioni e mediante il
ricorso a nozioni di comune esperienza (3);
trattasi, in particolare, di danno
conseguente alla grave perdita di prestigio
ed al grave detrimento dell’immagine e della
personalità pubblica che, anche se non
comporta una diminuzione patrimoniale
diretta, è tuttavia suscettibile di
valutazione sotto il profilo della spesa
necessaria al ripristino del bene giuridico
leso (4).
5) Sussiste il danno all’immagine dell’ente
pubblico –nella specie, Ministero
dell’interno, amministrazione della Pubblica
sicurezza– a seguito del comportamento di
agenti i quali, in violazione delle norme
sul contrasto all’immigrazione clandestina
[art. 12, c. 3-bis, lett. a) e c) del D. Lgs.
n. 286/1998], favorivano la permanenza
illegale nel territorio nazionale di
numerose giovani straniere, prive di
permesso di soggiorno.
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(1) In terminis, cfr. Cassazione penale,
Sezioni Unite, n. 23016 del 2004.
(2) Cfr., in terminis, Corte dei conti,
Sezione giurisdizionale Lazio, n. 462/2009;
Sezione giurisdizionale Lombardia, nn. 640 e
641/2009; nn. 16, 50, 130, 131, 132, 318 e
813/20010.
(3) Cfr., in terminis, Corte dei conti,
Sezione III app., n. 143/2009; Sezione
giurisdizionale Toscana, n. 481/2010.
(4) Cfr., in terminis, Cassazione civile,
Sezioni Unite, n. 5668/1997; id., n.
744/1999; id., n. 17078/2003; id., n.
14990/2005; id., n. 20886/2006; id., n.
8098/2007.
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Il danno all’immagine delle
amministrazioni pubbliche dopo la sentenza
della Corte Costituzionale n. 355/2010.
L’importante pronunzia della Corte toscana
riapre il dibattito sulla sorte del danno
all’immagine delle pubbliche
amministrazioni, che sembrava
irrimediabilmente compromessa all’indomani
della sentenza n. 355/2010 della Corte
Costituzionale.
Quella decisione –oggetto di ampia disamina
su nostro sito (in data 30.12.2010)– ha
infatti dichiarato infondate le numerose
questioni di legittimità costituzionale che
erano state sollevate da varie Sezioni
giurisdizionali della Corte dei conti con
riferimento alla norma di cui all’art. 17,
comma 30-ter del D.L. n. 78/2009, conv. con
L. n. 102/2009 e succ. mod. (c.d. “Lodo
Bernardo”, dal nome del parlamentare
proponente), ai sensi del quale “Le
procure della Corte dei conti esercitano
l'azione per il risarcimento del danno
all'immagine nei soli casi e nei modi
previsti dall'articolo 7 della legge
27.03.2001, n. 97. A tale ultimo fine, il
decorso del termine di prescrizione di cui
al comma 2 dell'articolo 1 della legge
14.01.1994, n. 20, è sospeso fino alla
conclusione del procedimento penale”; a
sua volta, l’art. 7 richiamato dispone che “La
sentenza irrevocabile di condanna
pronunciata nei confronti dei dipendenti
indicati nell'articolo 3 per i delitti
contro la pubblica amministrazione previsti
nel capo I del titolo II del libro secondo
del codice penale è comunicata al competente
procuratore regionale della Corte dei conti
affinché promuova entro trenta giorni
l'eventuale procedimento di responsabilità
per danno erariale nei confronti del
condannato. Resta salvo quanto disposto
dall'articolo 129 delle norme di attuazione,
di coordinamento e transitorie del codice di
procedura penale, approvate con decreto
legislativo 28.07.1989, n. 271”.
Orbene, nella pronunzia ricordata la Corte
Costituzionale si preoccupava di precisare
che l’art. 17, comma 30-ter, cit., ha lo
scopo di “… circoscrivere oggettivamente
i casi in cui è possibile, sul piano
sostanziale e processuale, chiedere il
risarcimento del danno in presenza della
lesione dell'immagine dell'amministrazione
imputabile a un dipendente di questa”;
la norma, cioè, secondo il Giudice delle
leggi deve essere interpretata “… nel
senso che, al di fuori delle ipotesi
tassativamente previste di responsabilità
per danni all'immagine dell'ente pubblico di
appartenenza, non è configurabile siffatto
tipo di tutela risarcitoria”.
Dunque, sempre secondo la Consulta,
solamente nelle ipotesi in cui ricorrano
taluni, specifici reati (peculato,
concussione, corruzione, etc.) è in astratto
ipotizzabile una concorrente lesione
dell’immagine pubblica; in tutti gli altri
casi non sarebbe ammissibile, in radice,
alcuna tutela dell’immagine pubblica: e tale
scelta legislativa di limitare la tipologia
dei reati ritenuti rilevanti ai fini del
danno all'immagine è stata giudicata, dalla
medesima Corte Costituzionale, non
contrastante con i principi della Carta
fondamentale, ma anzi è possibile “…
ricondurre anche la norma ora in esame,
limitativa della particolare forma di
responsabilità per i danni da lesione
dell’immagine della pubblica
amministrazione, all’alveo dei meccanismi,
previsti con il citato decreto-legge, aventi
lo scopo di introdurre nell’ordinamento
misure dirette al superamento della attuale
crisi in cui versa il Paese”.
I Giudici della Sezione contabile Toscana
hanno ritenuto di non seguire –non del
tutto, per lo meno– le indicazioni
ermeneutiche offerte dal Giudice delle leggi
in ordine all’interpretazione da dare alla
norme del Lodo Bernardo. E ciò hanno
ritenuto di poter fare, in considerazione
del fatto che la sentenza della Corte
Costituzionale è una sentenza di rigetto e
non comporta quindi -a differenza di quelle
che dichiarano l’illegittimità
costituzionale, che hanno invece efficacia
erga omnes- alcun vincolo di
carattere assoluto, per i Giudici di merito
diversi da quello che ha rimesso la
questione di costituzionalità,
nell’interpretazione delle norme al suo
esame: è dunque possibile proporre, della
norma ritenuta costituzionalmente legittima,
un’interpretazione diversa e difforme da
quella fatta propria dalla Corte
Costituzionale, sempre che tale
interpretazione risulti costituzionalmente
orientata.
A tal fine, è stata richiamata la sentenza
n. 23016 del 2004 delle sezioni unite penali
della Corte di cassazione, che riguardava la
vicenda relativa al computo dei termini di
custodia cautelare, su cui la Consulta aveva
assunto una posizione interpretativa non
condivisa dalla Cassazione. Alla fine, sono
intervenute le sezioni unite penali, le
quali hanno appunto precisato che, in base
all’ordinamento vigente, le decisioni
interpretative di rigetto della Corte
costituzionale non hanno efficacia erga
omnes, a differenza di quelle
dichiarative dell’illegittimità
costituzionale di norme e, pertanto,
determinano solo un vincolo negativo per il
giudice del procedimento in cui è stata
sollevata la relativa questione; in tutti
gli altri casi, il giudice conserva invece
il potere-dovere di interpretare in piena
autonomia le disposizioni di legge, a norma
dell’articolo 101, comma 2, della
Costituzione, purché ne dia una lettura
costituzionalmente orientata (ancorché
differente da quella indicata nella
decisione interpretativa di rigetto).
In definitiva, secondo le SS.UU. non basta
che il Giudice delle leggi definisca una
certa interpretazione come
costituzionalmente obbligata e la sola
compatibile con le norme della Costituzione
perché questa possa imporsi all’osservanza
dei giudici, essendo questi ultimi tenuti
autonomamente a verificare, con l’uso di
tutti gli strumenti ermeneutici dei quali
dispongono, se la norma possa realmente
assumere quel significato e quella portata;
pertanto, qualora le premesse ermeneutiche
della soluzione proclamata dal Giudice delle
leggi come costituzionalmente obbligata
travalichino i limiti dell’interpretazione
letterale-logico-sistematica, i giudici
hanno il dovere di non attenersi a quella
soluzione, per la decisiva ragione che, in
caso contrario, disapplicherebbero una norma
vigente e arrecherebbero un vulnus ai
principi di legalità e di soggezione alla
legge.
Tale posizione appare, a chi scrive, del
tutto corretta. In effetti, come anche
ricorda la Cassazione nella sentenza appena
richiamata, è unanime anche in dottrina
l’opinione che esclude il valore vincolante
delle decisioni interpretative di rigetto,
in quanto sprovviste dell’efficacia erga
omnes attribuita dall’articolo 136,
comma 1, della Costituzione alle sentenze
che dichiarano l’illegittimità
costituzionale di una norma di legge:
infatti, se a dette decisioni dovessero
riconoscersi effetti vincolanti per i
giudici, la Corte costituzionale sarebbe
investita di un potere di interpretazione
autentica che, nel sistema vigente, è
riservato in via esclusiva al solo
legislatore.
Orbene, nel caso di specie il Collegio della
Corte toscana ha ritenuto (a differenza di
quanto opinato dalla Consulta) che il Lodo
Bernardo, laddove consente la risarcibilità
del danno all'immagine “nei soli casi e
nei modi previsti dall'articolo 7 della
legge 27.03.2001, n. 97”, non abbia
affatto inteso limitare l’azionabilità del
risarcimento in questione soltanto in
presenza di un reato ascrivibile alla
categoria dei delitti previsti dal capo I
del titolo II del libro II del codice penale
– cioè i “casi” indicati nell’art. 7
L. n. 97/2001 - perché il medesimo art. 7
norma lascia espressamente salva
l’operatività dell’art. 129 disp. att.
c.p.p. con riferimento a reati di qualunque
natura (i “modi” richiamati dall’art.
17, comma 30-ter).
Insomma, per i reati compresi nel capo I del
titolo II del libro secondo del codice
penale è consentita la risarcibilità del
danno all’immagine se vi è stata una
sentenza irrevocabile di condanna, mentre
per tutti gli altri resta salva (come
appunto stabilisce l’art. 7 L. n. 97/2001,
cit.) l’applicazione dell'art. 129 delle
norme di attuazione, di coordinamento e
transitorie del codice di procedura penale:
quest’ultima norma, al punto 3, dispone che
“quando esercita l'azione penale per un
reato che ha cagionato un danno per
l'erario, il pubblico ministero informa il
procuratore generale presso la Corte dei
conti, dando notizia della imputazione”:
dunque, il risarcimento del danno
all’immagine deve ritenersi possa essere
esercitato, dalle Procure della Corte dei
conti, non solo nei casi di delitti contro
la P.A., accertati con sentenza
irrevocabile, ma in tutte le ipotesi di “reato
che ha cagionato un danno per l'erario”,
senza limitazioni (in quest’ultimo caso,
cioè, la perseguibilità del danno non
patrimoniale non è limitata dalla tipologia
dei reati, né deve attendere il passaggio in
giudicato della sentenza penale).
Nel caso particolare, ha ritenuto il
Collegio toscano che sussistesse
l’ipotizzato danno all’immagine dell’ente
pubblico -amministrazione della Pubblica
sicurezza- per una vicenda che aveva avuto
notevole risalto mediatico nella zona
interessata: si trattava del comportamento
di alcuni poliziotti che, in violazione
delle norme sul contrasto all’immigrazione
clandestina, avevano dolosamente favorito la
permanenza illegale di giovani straniere
prive del permesso di soggiorno.
L’interpretazione della sezione Toscana
riprende quella già fatta propria dalla
sezione Lombardia nelle sentenze n.
641/2009, a suo tempo commentata sul nostro
sito (in data 03.11.2009) e nella successiva
sentenza n. 132/2010 (anch’essa riportata
sul sito, il 20.05.2010); sentenze peraltro
espressamente richiamate, assieme a numerose
altre, nella pronunzia qui in commento. Per
giungere a tale soluzione, la sentenza opera
un’attenta e minuziosa esegesi di tutte le
possibili alternative ermeneutiche, per
concludere poi che solo la scelta sopra
illustrata risulta coerente ed armonica con
il complessivo quadro normativo in materia.
Non possono che condividersi le affermazioni
della sentenza in esame. L’interpretazione
da essa offerta –come del resto evidenziammo
nel commento a Sez. Lombardia, n. 641/2009,
cit.- si inserisce coerentemente nel sistema
normativo vigente, caratterizzato
dall’autonomia tra i giudizi penale e
contabile, e deve ritenersi confermata dalla
stessa lettera della novella legislativa,
laddove ha previsto che il decorso del
termine di prescrizione sia sospeso fino
alla conclusione del relativo procedimento
penale (“… A tale ultimo fine, il decorso
del termine di prescrizione di cui al comma
2 dell'articolo 1 della legge 14.01.1994, n.
20, è sospeso fino alla conclusione del
procedimento penale”): è evidente,
infatti, che se l’unica ipotesi in cui la
Procura regionale potesse dar corso al
procedimento di responsabilità per danno
erariale fosse quella prevista dalla prima
parte dell’art. 7 della legge n. 97 del
2001, come ipotizzato dalla Consulta, la
norma sulla sospensione del termine di
prescrizione sarebbe inutile e senza senso,
giacché la facoltà per la Procura regionale
di promuovere il procedimento di
responsabilità amministrativo per danno
all’immagine sarebbe già subordinata alla
conclusione del processo penale conclusosi
con sentenza irrevocabile.
Se questa linea interpretativa dovesse
consolidarsi e affermarsi come prevalente,
lo scenario complessivo della risarcibilità
del danno all’immagine delle pubbliche
amministrazioni -che sembrava essere,
all’indomani della pubblicazione della
pronunzia della Consulta, quello di un
nettissimo (e non del tutto giustificato)
ridimensionamento- potrebbe mutare e
articolarsi ben diversamente, come
osservavamo all’inizio: con la speranza che
vicende di enorme portata per l'immagine
pubblica, come quella trattata nella
sentenza della Sezione Lombardia n.
641/2009, prima ricordata, non debbano
concludersi con la sostanziale impunità,
sotto il profilo risarcitorio, degli autori
del danno.
La sentenza in esame, in realtà, offre altri
passaggi interessanti, evidenziati nella
massima da noi redatta.
In punto di esordio del termine di
prescrizione dell’azione contabile per danno
all’immagine, la pronunzia in questione
provvede a chiarire che, poiché nelle
ipotesi di danno all’immagine pubblica
conseguente alla commissione di reati comuni
l’azione contabile può essere esercitata
solo in presenza di una sentenza
irrevocabile di condanna, il termine
quinquennale di prescrizione non può decorre
dal c.d. clamor fori (cioè da quando
la vicenda ha avuto rilevo sui mass-media),
ma dalla data in cui il procuratore
regionale è venuto a conoscenza della
sentenza patteggiata passata in giudicato:
viene richiamato, in proposito, il testo
dello stesso art. 17, comma 30-ter, D.L. n.
78/2009, il quale dispone appunto che il
decorso del termine di prescrizione è
sospeso fino alla conclusione del
procedimento penale. Anche tale affermazione
appare corretta, e del tutto in linea con le
premesse argomentative dell’intera
pronunzia.
I Giudici toscani, da ultimo, non rinunziano
a precisare la natura del danno all’immagine
perseguibile dinanzi la Corte dei conti, che
a loro avviso va configurato come danno
patrimoniale da perdita di immagine, di tipo
contrattuale, avente natura di
danno-conseguenza e che deve superare una
soglia minima di pregiudizio; tale danno –è
poi precisato- anche se non comporta una
diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia
suscettibile di valutazione sotto il profilo
della spesa necessaria al ripristino del
bene giuridico leso.
Su tale aspetto (che per la verità
meriterebbe ben più ampia trattazione) ci si
limita qui ad osservare, brevemente, che si
tratta della posizione ultimamente assunta
dalla prevalente giurisprudenza contabile
(v., ex multis, Sezione III app., n.
143/2009) la quale, sulla scorta delle
ultime pronunzie della Cassazione civile in
materia, ha rimeditato la propria iniziale
posizione, che parlava invece di danno non
patrimoniale, sotto il profilo del c.d.
danno-evento (che rileva, cioè, di per se
stesso e a prescindere dalle eventuali
conseguenze negative per il soggetto leso):
SS.RR., n. 10/QM/2003.
Anche quest’ultimo profilo, tra gli altri,
potrà ricevere dalla future pronunzie della
giurisprudenza –se, appunto, verrà
confermata l’interpretazione qui proposta
circa la perseguibilità del danno
all’immagine per la p.a.- ulteriori
precisazioni ed essere oggetto degli
opportuni approfondimenti (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 18.03.2011 n.
90 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI: «Punito»
l'incarico immotivato e troppo costoso.
IL CASO - Forte compenso aggiuntivo al
segretario comunale nominato anche direttore
generale: responsabilità del sindaco e del
diretto interessato.
La remunerazione in misura eccessiva e non
motivata dell'incarico di direttore generale
al segretario determina il maturare di
responsabilità amministrativa in capo allo
stesso e al sindaco, chiamati in misura
paritaria al suo risarcimento.
Sono questi i
più rilevanti principi dettati dalla
sentenza 15.03.2011 n.
146 della Corte dei Conti della
Lombardia,
resa nota solo nei giorni scorsi.
Nel caso specifico il compenso aggiuntivo
erogato come direttore generale a un
segretario era, su base annua, di circa
120mila euro e il trattamento economico
complessivo ammontava a oltre 200mila euro
all'anno. Il primo elemento rilevato dalla
sentenza è l'anomalia tra il compenso
aggiuntivo erogato al direttore generale
negli anni 2007 e 2008 e quelli erogati,
tanto in precedenza (aumento di circa il
500%) che successivamente.
Nel merito la sentenza rileva che ci si
trova sicuramente nel l'ambito di
un'attività discrezionale, sia per il
conferimento del l'incarico che per la sua
remunerazione. Ma aggiunge che «l'attività
discrezionale è attività non libera ma
vincolata nel fine», per cui le
amministrazioni non sono dotate di poteri da
esercitare in modo arbitrario. Viene
ricordato che in tali casi «l'eccesso di
potere è il tipico vizio della
discrezionalità amministrativa, lo strumento
che consente al giudice di controllare la
corretta applicazione dei canoni di
legittimità da parte di chi agisce per conto
della Pa, e di valutare la compatibilità e
l'adeguatezza delle scelte di merito con i
fini pubblici dell'ente». Tale attività di
controllo «segue i parametri della
razionalità e della ragionevolezza» e si
deve fermare sulla soglia della cosiddetta
riserva di amministrazione, cioè non può mai
entrare nel merito, ma si deve limitare alla
sola verifica della legittimità.
E, ancora, «il controllo giurisdizionale
delle modalità di esercizio del potere
discrezionale, sotto il profilo della palese
illogicità e della irragionevolezza, è
effettuato ex ante». Per cui non ha senso
sostenere che il compenso è stato fissato in
misura elevata in relazione ai risparmi
conseguiti dall'ente, visto che questi esiti
sono successivi e non erano conosciuti al
momento del conferimento dell'incarico e
della scelta del compenso. Anzi, i benefici
raggiunti devono essere considerati come
«irrilevanti», visto che l'obbligazione del
segretario, come per i dirigenti, è quella
di risultato. Siamo in presenza, infine, di
una condotta gravemente colposa anche alla
luce del principio del contenimento della
spesa pubblica.
Da rilevare, infine,
l'assenza di una «particolare motivazione
della scelta di aumentare l'emolumento e in
assenza di problematiche gestionali
specifiche, di carenze di organico o di
altre ragioni che potessero determinare tale
esigenza –a prescindere dalla totale
carenza di motivazione nell'atto di nomina–
per la remunerazione di attività che erano
sostanzialmente sovrapponibili a quelle
poste in essere dal segretario/direttore
generale precedente»
(articolo Il Sole 24
Ore del 30.05.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Responsabilità amministrativa –
Elementi – Danno erariale – Erogazione di
contributi economici a privati sine titulo,
per una causale non prevista – Violazione
delle norme regolamentari in materia –
Sussistenza.
Responsabilità amministrativa – Elementi –
Colpa grave – Irregolare erogazione di
contributi economici a privati – Violazione
delle norme regolamentari in materia –
Parere contrario del segretario comunale –
Fattispecie - Sussistenza.
La concessione di sussidi e contributi
economici da parte di un ente pubblico
(nella specie, comune) deve avvenire nel
rispetto delle norme regolamentari interne,
le quali rivestono carattere inderogabile,
essendo preordinate alla corretta e sana
amministrazione delle risorse pubbliche e
non possono essere interpretate
estensivamente, in linea peraltro con il
rigore dell’art. 12, L. 07.08.1990, n. 241
(ai sensi del quale “La concessione di
sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili
finanziari e l'attribuzione di vantaggi
economici di qualunque genere a persone ed
enti pubblici e privati sono subordinate
alla predeterminazione ed alla pubblicazione
da parte delle amministrazioni procedenti,
nelle forme previste dai rispettivi
ordinamenti, dei criteri e delle modalità
cui le amministrazioni stesse devono
attenersi”); pertanto, l’erogazione di
un contributo non rientrante tra le
previsioni del regolamento comunale in
materia (nella specie, si trattava del
pagamento dei debiti di una società sportiva
privata) è da ritenere illegittimo e dà
luogo alla fattispecie dell’erogazione
sine titulo, in quanto tale causativa di
danno ingiusto per l’ente.
Sussiste colpa grave nel comportamento dei
componenti di una Giunta comunale, che hanno
deliberato la concessione di un contributo a
ente privato in assenza dei requisiti
stabiliti dal regolamento comunale in
materia e disattendendo il parere contrario
espresso dal segretario comunale, avendo
essi agito in modo acritico e senza tenere
conto degli interessi pubblici alla corretta
e imparziale destinazione delle risorse
dell’ente (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 15.03.2011 n.
145 - link a www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Rimborso delle spese di viaggio a
favore del sindaco - Interpretazione delle
norme relative – Limitazione alle sole
presenze che rivestano carattere di
necessarietà – Tipologia - Fattispecie.
L’art. 84, comma 3, del D. Lgs. 267/2000,
laddove prevede il rimborso delle spese di
viaggio a favore del sindaco residente fuori
dal comune capoluogo per gli spostamenti
finalizzati alla "… presenza necessaria
presso la sede degli uffici per lo
svolgimento delle funzioni proprie o
delegate", va interpretato nel senso che
deve trattarsi di oggettive esigenze
connesse allo svolgimento del proprio
mandato; di conseguenza, il rimborso delle
spese di viaggio riguarda la sola presenza "necessaria"
del soggetto, che si contrappone alla
presenza facoltativa o discrezionale,
rimessa all'apprezzamento soggettivo
dell'interessato, ed è qualificata dalla
preesistenza di un obbligo giuridico, che
elimina in detto soggetto qualsiasi facoltà
di una scelta diversa per l'esercizio della
funzione.
E' da intendersi, quindi, presenza
necessaria, la partecipazione del Sindaco,
oltre che alle riunioni di Giunta, anche a
quelle di Consiglio, così come per gli
Assessori, quando siano trattate materie
inerenti alla loro carica e alle deleghe
ricevute e, comunque, in tutti i casi in cui
la loro presenza alle sedute del Consiglio
sia espressamente richiesta da norme
statutarie o regolamentari dell'Ente di
appartenenza (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. controllo Emilia Romagna,
parere 17.02.2011 n. 3). |
LAVORI PUBBLICI:
Giudizio di responsabilità
amministrativa – Rapporto con altri giudizi
- Rapporto con il giudizio civile attivato
per gli stessi fatti - Sospensione del
processo di responsabilità in attesa della
definizione di quello civile – Non
necessità.
Responsabilità amministrativa – Elementi –
Colpa grave – Direttore dei lavori e
progettista di opera pubblica – Palesi
difformità dell’opera eseguita rispetto al
progetto appaltato - Sussistenza.
Attesa l'autonomia del giudizio
amministrativo-contabile, va esclusa la
necessità, da parte della Corte dei conti di
sospendere il giudizio, in attesa della
definizione di quello instaurato in sede
civile da un Comune per la restituzione
delle somme indebitamente corrisposte ad una
ditta appaltatrice; peraltro, eventuali
somme recuperate in sede civile, in caso di
esito favorevole del predetto giudizio,
potranno eventualmente essere fatte valere
in sede esecutiva di quello contabile. (1)
Nel caso di opera pubblica eseguita in
difformità rispetto al progetto appaltato,
con ingiustificato aumento di costi, non
appare idonea ad escludere la colpa grave
del funzionario direttore dei lavori e
responsabile del procedimento, la scusante
della difficoltà dell’opera e la circostanza
che la stessa sia stata realizzata in luoghi
difficilmente raggiungibili, a fronte di
carenze nello svolgimento dell’incarico,
rivelatesi macroscopiche (vistosa
discordanza fra i lavori effettuati e quelli
indicati nel progetto; contabilizzazioni
particolarmente approssimative) e che quindi
non sarebbero potute sfuggire ad un
direttore dei lavori che avesse usato la
benché minima diligenza, tanto più che era
stato anche il progettista dell’opera.
---------------
(1) Giurisprudenza pacifica: v. nello
stesso senso, ex plurimis, Corte dei conti,
Sez. II app., 13.05.2008, n. 149; Sez. III
app., 10.09.2003, n. 392; Sez. reg.
Lombardia, 17.03.2009, n. 156; Sez. reg.
Abruzzo, 07.02.2008, n. 49; Sez. reg.
Sardegna, 09.08.2007, n. 869. Cfr., inoltre,
nello stesso senso, per i rapporti con il
giudizio penale, Sez. app. Sicilia,
20.07.2010, n. 189; Sez. I app., 19.03.2010,
n. 195; id., 05.05.2006, n. 104 (massima
tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei
Conti, Sez. II giurisdiz. d'appello,
sentenza 27.01.2011 n.
52 - link a www.corteconti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Responsabilità
amministrativo-contabile - Conferimento di
incarichi esterni – Collaborazioni
coordinate e continuative - Requisiti.
Responsabilità amministrativo-contabile –
Conferimento di incarichi esterni –
Collaborazioni coordinate e continuative -
Difetto dei requisiti di cui all’art. 7,
comma 6, d.lgs. n. 165/2001 - Sussistenza -
Fattispecie.
Conformemente alla consolidata
giurisprudenza di questa Corte, deve
ritenersi antigiuridico e produttivo di
danno erariale il conferimento di incarichi
mediante contratti di co.co.co., aventi ad
oggetto attività alle quali si possa far
fronte con personale interno dell'ente, o
estranee ai fini istituzionali, o troppo
onerose in rapporto alle disponibilità di
bilancio.
Deve considerarsi conferito in difetto delle
condizioni previste dall’art. 7, comma 6,
del d.lgs. n. 165/2001, e quindi illecito e
produttivo di un danno ingiusto all’erario,
l’incarico co.co.co. attribuito ad un
professionista esterno, rispetto al quale
non sia rinvenibile un ambito d’intervento
connotato da un oggetto ben definito, bensì
relativo ad un’attività professionale di
consulenza ad ampio spettro ("analisi e
studio dei contesti amministrativi e tecnici
del settore distaccato di ... , sotto
l'aspetto gestionale..." ), che avrebbe
potuto svolgere il personale in organico (1)
---------------
(1) In merito all’illecito conferimento
di incarichi esterni, vedi anche, su questo
sito, la sentenza della Sez. Giurisdizionale
Lombardia n. 627/2010 e le sentenze della
Sez. Prima Centrale d’Appello n. 393/2008 e
n. 25/2010 (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 18.01.2011 n. 83 - link a
www.corteconti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Incarichi esterni - Manovra
economica di cui al d.l. n. 78/2010 -
Riduzione della spesa per studi e consulenze
- Interpretazione.
L'art. 6, co. 7, del d.l. n. 78/2010,
convertito in legge n. 122/2010, prevede
che, "al fine di valorizzare le
professionalità interne alle
amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011
la spesa annua per studi ed incarichi di
consulenza...non può essere superiore al 20%
di quella sostenuta nell'anno 2009".
La Sezione propende per l'interpretazione
più restrittiva del riferimento a "studi
e incarichi di consulenza", escludendo
quindi le collaborazioni coordinate e
continuative, nonché gli incarichi di
ricerca.
Il taglio percentuale della spesa si
riferisce non a quella stanziata, ma a
quella effettivamente sostenuta, cioè
impegnata, anche se non erogata nell'anno di
riferimento.
Il fine, perseguito dal legislatore, "di
valorizzare le professionalità interne alle
amministrazioni", induce a ritenere che
la riduzione del costo della spesa per gli
incarichi, non ricomprenda le consulenze
talmente specialistiche da non poter essere
affidate a professionalità interne
all'Amministrazione (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. controllo Lombardia,
parere 10.01.2011 n. 6). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Responsabilità - Danno indiretto
- Istanza di accesso agli atti - Mancata
risposta nei termini - Sussistenza.
Si configura un danno all'erario indiretto
qualora, a seguito dell'omessa evasione di
un'istanza di accesso agli atti, l'istante
ricorra al TAR ottenendo la condanna
dell'Amministrazione all'esibizione, nonché
al pagamento degli onorari e spese di lite.
La gravità della colpa risiede nella totale
assenza di ogni attività di riscontro
all'istanza di accesso, inattività che è
perdurata anche dopo la prosecuzione del
giudizio dinanzi al TAR.
Il danno va posto in parti uguali a carico
dell'impiegato che ha ricevuto l'istanza e
del dirigente preposto alla struttura per le
carenze organizzative a lui riconducibili.
---------------
Nota a sentenza.
L’art. 25, comma 4, della legge n. 241
prevede che “decorsi inutilmente trenta
giorni dalla richiesta (di accesso), questa
si intende respinta”.
Sia la giurisprudenza che la dottrina, si
sono divise nell’interpretare tale
disposizione.
1- Il giudice amministrativo configura
prevalentemente tale ipotesi come un caso di
silenzio rifiuto, mero presupposto
processuale per un ricorso giurisdizionale,
previsto per evitare una situazione di
stallo. Non si tratterebbe, quindi, di un
provvedimento tacito.
Parte della giurisprudenza penale condivide
questa ricostruzione e ritiene che l’omessa
evasione di una richiesta di accesso non
costituisca un provvedimento idoneo ad
escludere la rilevanza penale dell’inerzia,
la quale contrasterebbe con il principio di
correttezza della P.A., configurando il
reato di omissione di atti d’ufficio.
In effetti, non sembra al passo con i tempi
considerare legittimo il comportamento
inerte di una P.A. a fronte di un’istanza: è
un principio di civiltà giuridica la pretesa
per l’amministrato di conoscere le ragioni
per le quali una sua richiesta è disattesa,
senza essere costretto ad un ricorso per
avere lumi. Non può inoltre omettersi di
ricordare come la legge n. 69/2009 abbia
normativizzato l’obbligo di conclusione del
procedimento mediante provvedimento
espresso.
2- La migliore dottrina amministrativista,
invece, afferma che la norma, lì ove prevede
che la richiesta in caso di inerzia
s’intende “respinta” e non “rifiutata”,
configura un silenzio rigetto. Il silenzio
rigetto, equivalente al compimento
dell’atto, si realizza quando la legge
attribuisce all’inerzia della P.A. il
significato di un diniego dell’accoglimento
dell’istanza. Anche una giurisprudenza
penale aderisce a quest’ultima
ricostruzione, considerando lecito il
comportamento inerte della P.A.
Tuttavia il Consiglio di Stato ha
recentemente affermato che neanche il
silenzio rigetto equivale ad un
provvedimento, costituendo un mero
comportamento presupposto di effetti
processuali.
Il quadro rimane incerto.
Alla luce della esistenza di due diverse
linee di pensiero circa il significato da
attribuire all’inerzia in argomento, la
sentenza è stata un po’ severa quantomeno
nel non utilizzare il potere riduttivo, al
quale la Corte dei conti ricorre nella quasi
totalità dei casi caratterizzati da colpa
grave. Nell’esercitare tale potere, infatti,
il giudice può tenere conto di tutte le
circostanze soggettive ed oggettive, tra le
quali la complessità della normativa:
- responsabilità
conseguente alla decisione temeraria di
resistere dinanzi al TAR
(Sez. Giurisdizionale per la Toscana, n.
832/2006). La riconosciuta temerarietà
deriva dal fatto che il diniego
dell’accesso, che aveva determinato il
ricorso al giudice amministrativo, non era
stato motivato adeguatamente. Il danno è
stato ravvisato nelle spese di giudizio e
nella parcella dell’avvocato.
- responsabilità
conseguente alla mancata ottemperanza
all’ordine di esibizione del TAR
(Sez. Centrale d’Appello, sent. n. 73/200).
Alla base della pronuncia vi sono i
comportamenti dilatori e pretestuosi attuati
dalla P.A., al fine di non eseguire la
disposizione del giudice. Anche in questo
caso, il danno cagionato è stato ravvisato
nelle spese di soccombenza e di difesa. La
condotta illecita, tuttavia, si colloca in
un momento successivo rispetto a quello in
rilievo nelle altre due pronunce esaminate,
conseguendo alla mancata ottemperanza ad una
sentenza.
La decisione della Sezione Giurisdizionale
per la Campania è interessante giacché
consegue direttamente al comportamento
inerte tenuto dalla P.A., a seguito di
un’istanza di accesso. La decisione può
essere da monito per i pubblici dipendenti,
i quali dovrebbero prendere atto di come non
possano più esimersi dal concludere ogni
procedimento con un provvedimento espresso,
se non vogliono rischiare di incorrere in
una responsabilità.
Altra riflessione deriva da una lettura
parallela della pronuncia della Sezione
Campania, unitamente a quella della Sezione
Toscana.
La prima ha spiegato che la gravità della
colpa è stata conseguente alla “assenza
di ogni attività di riscontro alla domanda
di accesso…inattività che è perdurata anche
dopo la proposizione del giudizio dinanzi al
TAR”; nella sentenza della Sezione per
la Toscana, leggiamo che il Procuratore
regionale ha stigmatizzato l’atteggiamento
colpevole, “tenacemente mantenuto anche
dopo la notifica del ricorso al TAR, che
poteva costituire un’occasione per
rimeditare la questione”.
Se si esclude l’ipotesi, teorica, in cui un
danno consegue semplicemente al decorso del
tempo, ingiustificatamente atteso per
esercitare il diritto di accesso, nella
generalità dei casi il danno (in presenza di
un’istanza di accesso) deriva dalle spese di
giudizio e di difesa.
Pertanto il funzionario, a fronte di un
ricorso giurisdizionale conseguente ad un
rigetto (esplicito o tacito), bene farebbe a
“rimeditare la questione” ed a porre
rimedio ad eventuali omissioni o errori,
evitando il concretizzarsi di un danno del
quale potrebbe essere chiamato a rispondere
(massima tratta da www.centrostudi-sv.org -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania,
sentenza 21.12.2010 n.
2884 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Pronuncia per grave irregolarità
– principio di attendibilità e prudenza –
valutazione del trend triennale di entrate
per rilascio del permesso di costruire -
bilancio preventivo.
Il principio di attendibilità del bilancio
postula che le previsioni delle entrate
siano effettuate in relazione alla
accertabilità delle stesse, tenendo conto
degli atti che predeterminano il diritto
alla riscossione e sulla base di idonei ed
obiettivi elementi di riferimento (tra cui
rilevano anche i flussi storici della
specifica voce di finanziamento) nonché su
fondate aspettative di acquisizione ed
utilizzo delle risorse.
Il principio della prudenza esige poi che
nel bilancio di previsione debbano essere
iscritte solo le entrate che si prevede
siano accertabili nel periodo amministrativo
considerato.
Nella specie, la previsione delle entrate
derivanti dai contributi per il rilascio del
permesso di costruire presenta un valore
molto più alto rispetto agli importi
registrati nell’ultimo triennio.
Il bilancio di previsione 2010 non risulta
rispondente, secondo valutazioni ex ante,
ai principi di attendibilità e di prudenza
sotto i profili sopra enunciati (massima
tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei
Conti, Sez. controllo Liguria,
parere 29.11.2010 n.
85). |
ENTI LOCALI:
Responsabilità amministrativa –
Comune - Concessione impianto sportivo –
Gratuità – Danno erariale – Sussiste –
Misura – Ratei pregressi.
La concessione dello stadio comunale ad una
società sportiva, a fronte di norme
regolamentari che ne prevedono l'onerosità,
non può essere deliberata senza previsione
del canone, talché rappresenta danno
erariale il mancato introito dei canoni
relativi al periodo intercorso fra il primo
rateo non riscosso (gennaio 1996) e la data
della citazione (gennaio 2010), ancorché
l'illegittima convenzione disponga anche per
anni futuri, nella misura dell'ultimo canone
riscosso prima della delibera di gratuità.
---------------
La convenzione relativa all'uso del campo di
calcio, per la quale la Giunta Comunale
aveva previsto la soppressione del canone
dal 2006, è stata ritenuta dal giudice
contabile veneto produttiva di danno
erariale con la sentenza in commento, che
presenta almeno due profili di specifico
interesse.
Il primo consiste nella affermazione che gli
Amministratori non potevano ritenere di
poter esercitare un potere discrezionale in
proposito, stante l'esplicita previsione di
un canone nel “Regolamento comunale per
la concessione di sovvenzioni, contributi e
agevolazioni economiche” e nel “Regolamento
disciplina sportiva gioco calcio – Gestione
sportiva campo comunale”,
precedentemente approvati con delibere
consiliari, ancorché la delibera giuntale in
questione tenga in realtà conto del
controvalore di alcuni compiti, affidati al
concessionario pur essendo stati in
precedenza ritenuti dover gravare sul Comune
(ad es. manutenzione del tappeto erboso,
manutenzione dell’impianto di irrigazione a
esclusione del gruppo di pompaggio).
Il giudice ha dunque ritenuto in ogni caso
illegittima e dannosa la decisione assunta
dalla giunta, sottolineandone più la formale
antigiuridicità (violazione di normativa
secondaria) che l'eventuale antieconomicità,
che non appare del tutto approfondita.
D'altra parte, soltanto facendo riferimento
alla violazione di una norma espressa era
possibile negare in radice la possibilità di
una scelta discrezionale da parte degli
Amministratori (in proposito è pacifica
giurisprudenza che sussiste discrezionalità
solo quando vi è alternativa fra più
comportamenti leciti e non quando uno dei
comportamenti sia escluso normativamente).
La medesima sezione Veneto aveva più
diffusamente motivato in una recente
consimile fattispecie (sent. 21.04.2009 n.
323); dopo aver precisato che
l’illegittimità dell’atto amministrativo, in
via di principio “non implica la
dannosità dello stesso” ha poi
specificamente rilevato che l’omessa
previsione di un canone di concessione,
ancorché di importo esiguo rispetto (si
trattava di un “canone ricognitorio”
dovuto dalla FIN per l'uso delle piscine
comunali) “si traduce, comunque, in un
mancato introito per le casse dell’Ente”,
con diretta integrazione di danno erariale
(e assolveva poi sul punto i convenuti,
funzionari che avevano reso il parere
tecnico).
L'altro aspetto da segnalare riguarda la
quantificazione del danno. Infatti a fronte
di una richiesta attorea che abbracciava
l'importo dei canoni di tutto il periodo a
cui si riferiva la convenzione approvata
dalla Giunta (fino all'anno 2013), il
giudice contabile ha negato l'attualità
della mancata riscossione dei ratei
successivi alla citazione in giudizio,
ancorché l'attuale regolazione pattizia del
rapporto Comune–Società sportiva ne escluda
fin d'ora la reclamabilità da parte
dell'Ente. Ancorché la prospettazione sia
peculiare, la soluzione risulta del tutto
conforma alla consolidata giurisprudenza,
dovendosi applicare inderogabilmente il
criterio della attualità del danno.
Le distinzioni operate in alcune decisioni,
in materia di erogazioni dannose, fra
assunzione dell'obbligazione ed effettivo
pagamento (v. per tutte SS.RR. 29.01.1997 n.
12/A e 3/2003/QM), finalizzate ad
individuare l'exordium praescriptionis,
non sono infatti valide nella presente
fattispecie: quando la giurisprudenza ha
voluto distinguere il sorgere del debito in
capo all'amministrazione dal pagamento della
relativa somma, ha comunque precisato che ai
fini della responsabilità per danno non è
sufficiente una lesione del patrimonio
dell'amministrazione inteso in senso
meramente giuridico, come complesso di
rapporti giuridici attivi e passivi, e che
dunque il danno è attuale almeno in presenze
di un titolo esecutivo azionato dal
creditore dell'Amministrazione; la
prerogativa del terzo di non pagare il
canone in futuro non è evidentemente
provvista della stessa cogenza
deterministica, potendo nel futuro essere
ridiscussa alla luce di eventuali esercizi
delle potestà di autotutela dell'Ente Locale
o di altre evenienze modificative.
Resta da aggiungere che l’importo presuntivo
dei canoni non riscossi è stato determinato
prendendo in considerazione gli ultimi
canoni incassati, sotto la vigenza della
precedente convenzione cessata nel 2005, con
un automatismo che può sembrare sbrigativo
(massima tratta da www.centrostudi-sv.org -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto,
sentenza 25.11.2010 n.
725 - link a www.corteconti.it). |
ENTI LOCALI:
Responsabilità – Elementi - Danno
– Spese di rappresentanza – Mancanza di
titoli giustificativi – Semplici
dichiarazioni postume - Legittimità –
Esclusione.
Responsabilità – Elementi - Danno – Spese di
rappresentanza – Mancanza di impegno –
Classificabilità tra le spese economali –
Esclusione - Fattispecie.
Responsabilità – Elementi – Comportamento –
Illiceità - Insindacabilità nel merito delle
scelte discrezionali – Esclusione -
Fattispecie.
Costituiscono danno ingiusto per le finanze
dell’ente locale spese di rappresentanza
disposte in occasione di cerimonie,
ricorrenze civili e religiose, riunioni con
funzionari regionali, personalità politiche
di alto livello, tecnici e consulenti,
sfornite però di titoli giustificativi
(nella specie, erano state fornite solo
semplici dichiarazioni postume, che il
collegio giudicante non ha ritenuto valide).
Non sono legittime e costituiscono danno
ingiusto per le finanze dell’ente locale
spese (nella specie, di rappresentanza)
sostenute senza previo impegno; né dette
spese potrebbero essere ritenute
assimilabili alle spese economali, in
mancanza del relativo, apposito regolamento
in materia, la cui emanazione era prescritta
dal regolamento di contabilità del comune.
In una fattispecie di illegittima
effettuazione di spese, non può essere
invocata da parte degli amministratori la
regola della insindacabilità nel merito
delle scelte discrezionali (art. 1, comma 1,
della legge n. 20/1994, come novellato
dall’art. 3 della legge n. 639/1996), poiché
tale principio potrebbe operare solo
nell’ipotesi di alternativa tra più azioni,
tutte del pari legittime, ma non nel caso di
condotte connotate da illegittimità formali
e sostanziali (massima tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti,
Sez. III centrale d'appello,
sentenza 02.11.2010 n.
750 - link a www.corteconti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Responsabilità amministrativa e
contabile - Conferimento di incarichi di
consulenza da parte di pubbliche
amministrazioni – Requisiti.
Responsabilità amministrativa e contabile –
Conferimento di incarichi di consulenza da
parte di pubbliche amministrazioni –
Svolgimento di attività continuativa -
Illiceità - Fattispecie.
Responsabilità amministrativa e contabile –
Elementi – Colpa grave - Conferimento di
incarichi di consulenza in difetto dei
requisiti previsti dalle norme in materia -
Sussistenza - Fattispecie.
Responsabilità amministrativa e contabile -
Conferimento di incarichi di consulenza da
parte di pubbliche amministrazioni –
Compensatio lucri cum damno - Esclusione -
Fattispecie.
La disciplina in tema di conferimento di
incarichi di consulenza da parte di enti e
organismi pubblici è intesa ad evitare che
si possa verificare uno spreco di risorse
dell’ente pubblico, mascherando per
consulenza un’attività che può essere svolta
da personale interno dell’amministrazione e
già da quest’ultima retribuito; la pubblica
amministrazione, in conformità al dettato di
cui all’art. 97 della Costituzione, deve
infatti uniformare i propri comportamenti ai
criteri di legalità, economicità, efficienza
ed imparzialità, dei quali diviene
corollario il principio secondo cui la
stessa, nell’assolvimento dei propri compiti
istituzionali, deve avvalersi
prioritariamente delle proprie strutture
organizzative e del personale che vi è
preposto (1).
E’ illecito e fonte di danno erariale un
incarico di consulenza che si sia
sostanzialmente risolto nella direzione e di
gestione di una struttura amministrativa –peraltro protrattasi per oltre un
quinquennio- trattandosi nella specie di
attività del tutto incompatibile con i
requisiti, previsto dalle norme in materia,
della temporaneità e della necessaria
specificità dell’incarico, da intendere
soprattutto come apporto per la soluzione di
specifiche problematiche e non implicante
svolgimento di attività continuativa.
Sussiste l’elemento soggettivo della colpa
grave nei confronti del vertice
amministrativo di una struttura pubblica
(nella fattispecie, ASL), che abbia
conferito un incarico di consulenza in
violazione delle prescrizioni di legge, da
ritenere chiarissime in materia; ciò in
quanto, secondo consolidato orientamento
giurisprudenziale di questa Corte, la
determinazione del grado della colpa deve
essere compiuta tenendo soprattutto conto
della qualità del soggetto agente: a tal
fine assumono peculiare rilevo la qualifica
professionale rivestita, le specifiche
competenze ed attribuzioni, la posizione
funzionale, essendo fuori discussione che a
funzionari di elevata professionalità e con
attribuzioni di direzione sia richiesto un
particolare grado di perizia e diligenza
nella trattazione degli affari sottoposti
alla loro valutazione.
Nel caso di spesa illegittima sostenuta da
un ente pubblico (ASL) per il conferimento
di un incarico di consulenza in contrasto
con la disciplina normativa nella materia,
non vi è titolo a compensatio lucri cum
damno, neppure parziale, con riferimento
alle prestazioni fornite dal consulente,
dalle quali l’ente danneggiato non ha tratto
alcuna utilità, in ragione della non
compiuta utilizzazione e valorizzazione
delle professionalità interne (2).
---------------
(1) Cfr., in terminis, Corte dei conti,
Sezione giurisdizionale Lazio, 12.05.2008,
n. 787 e 18.08.2009, n. 1660; Sezione
giurisdizionale Sardegna, 18.09.2008, n.
1831
(2) Cfr., in terminis, Corte dei conti,
Sezione giurisdizionale Lazio, 12.05.2008,
n. 787; Sezione giurisdizionale
Emilia-Romagna, 15.01.2008, n. 21
(massima tratta da www.centrostudi-sv.org -
Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia,
sentenza 02.11.2010 n.
627 - link a www.corteconti.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Personale delle amministrazioni
pubbliche - Conferimento di incarico
dirigenziale di seconda fascia - Art. 19,
comma 6, D.Lgs. n. 165/2001.
L’art. 19, sesto comma, del d.lgs. n.
165/2001, come modificato dall’art. 40 della
L. n. 150/2009, consente il conferimento di
incarichi esterni a persone di particolare e
comprovata qualificazione professionale solo
nell’ipotesi in cui tale qualificazione non
sia rinvenibile nell’ambito del personale
dirigenziale dell’Amministrazione, con
conseguente onere di previa verifica della
sussistenza di risorse interne
all'Amministrazione in possesso dei
requisiti professionali richiesti per
quell’incarico e, soltanto ove tale indagine
dia esito negativo, sarà possibile
attribuire il posto vacante a soggetto
esterno, se dotato della particolare
specializzazione richiesta (nella
fattispecie, la Sezione ha ricusato il
visto, e la conseguente registrazione, al
provvedimento di conferimento di un incarico
dirigenziale di seconda fascia a soggetto
estraneo ai ruoli, essendo stata accertata,
a seguito di procedura selettiva intrapresa
dall'Amministrazione, la presenza di
dirigenti interni in possesso della
richiesta professionalità) (massima
tratta da
www.centrostudi-sv.org - Corte dei
Conti, Sez. centrale di controllo di
legittimità sugli atti del Governo e delle
amministrazioni dello Stato,
deliberazione
04.10.2010 n. 18/2010/P). |
COMPETENZE GESTIONALI: Il
principio di netta separazione tra autorità
politica e direzione amministrativa non
elide una responsabilità diretta del Sindaco
qualora egli venga meno a doverosi compiti
di sovrintendenza degli uffici comunali o
non formuli chiari indirizzi.
Prevedeva l’art. 36 della legge n. 142/1990
“1. Il sindaco e il presidente della
provincia rappresentano l'ente, convocano e
presiedono il consiglio e la giunta,
sovrintendono al funzionamento dei servizi e
degli uffici nonché all'esecuzione degli
atti 2. Essi esercitano le funzioni loro
attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai
regolamenti e sovrintendono altresì
all'espletamento delle funzioni statali e
regionali attribuite o delegate al comune e
alla provincia.” distinguendo così le
loro competenze da quelle dei dirigenti
(art. 51) “2. Spetta ai dirigenti la
direzione degli uffici e dei servizi secondo
i criteri e le norme dettati dagli statuti e
dai regolamenti che si uniformano al
principio per cui i poteri di indirizzo e di
controllo spettano agli organi elettivi
mentre la gestione amministrativa è
attribuita ai dirigenti. 3. Spettano ai
dirigenti tutti i compiti, compresa
l'adozione di atti che impegnano
l'amministrazione verso l'esterno, che la
legge e lo statuto espressamente non
riservino gli organi di governo dell'ente.
Spettano ad essi in particolare, secondo le
modalità stabilite dallo statuto, la
presidenza delle commissioni di gara e di
concorso, la responsabilità sulle procedure
d'appalto e di concorso, la stipulazione dei
contratti. 4. I dirigenti sono direttamente
responsabili, in relazione agli obiettivi
dell'ente, della correttezza amministrativa
e dell'efficienza della gestione” da
quello dei Segretari Comunale (art. 52) “3.
Il segretario, nel rispetto delle direttive
impartitegli dal sindaco o dal presidente
della provincia da cui dipende
funzionalmente, oltre alle competenze di cui
all'art. 51, sovraintende allo svolgimento
delle funzioni dei dirigenti e ne coordina
l'attività, cura l'attuazione dei
provvedimenti, è responsabile
dell'istruttoria delle deliberazioni,
provvede ai relativi atti esecutivi e
partecipa alle riunioni della giunta e del
consiglio”.
A seguito dell’entrata in vigore del
T.U.E.L., le attribuzioni del Sindaco sono
previste dall’art. 50 che, ai primi tre
commi afferma “1. Il sindaco e il
presidente della provincia sono gli organi
responsabili dell'amministrazione del comune
e della provincia.
2. Il sindaco e il presidente della
provincia rappresentano l'ente, convocano e
presiedono la Giunta, nonché il consiglio
quando non è previsto il presidente del
consiglio, e sovrintendono al funzionamento
dei servizi e degli uffici e all'esecuzione
degli atti.
3. Salvo quanto previsto dall'articolo 107
essi esercitano le funzioni loro attribuite
dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti
e sovrintendono altresì all'espletamento
delle funzioni statali e regionali
attribuite o delegate al comune e alla
provincia.”
L’assetto normativo che precede ha, quindi,
sostanzialmente innovato non solo in tema di
specifica attribuzione delle funzioni
sindacali ma, anche, l’assoggettabilità del
“primo cittadino” a specifiche
fattispecie di responsabilità
amministrativa.
Ad avviso del Collegio, però, ritenere –come
fa la difesa– che ogni e qualsivoglia
responsabilità di tipo gestionale gravi sul
dirigente preposto al settore d’interesse e
affranchi, da ogni obbligo relativo il
vertice politico, appare conclusione che va
oltre la ratio e la lettera della
norma.
Entrambe le disposizioni, seppur attuative
di quell’orientamento legislativo che ha
voluto una netta separazione tra autorità
politica e direzione amministrativa, non
elidono una responsabilità diretta del
Sindaco qualora egli venga meno a doverosi
compiti di sovrintendenza degli uffici
comunali o non formuli chiari indirizzi.
Quello che il Legislatore ha voluto (e
certamente si è realizzato) è, da un lato,
svincolare il Sindaco da gravosi e
burocratici impegni di ordinaria
amministrazione e, dall’altro, conferire
dignità adeguata alla professionalità del
dirigente, in un assetto dicotomico che non
vuol significare deresponsabilizzazione
(Corte di Conti, Sez. giurisdiz Lazio,
sentenza 02.03.2009 n. 262 - link a www.corteconti.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Le
Sezioni Riunite di questa Corte muovendo
dall’affermazione che la colpa grave
consiste nella evidente e marcata
trasgressione di obblighi di servizio o di
regole di condotta, che si sostanzia
nell’inosservanza di quel minimo di
diligenza richiesto nel caso concreto, o in
una marchiana imperizia o una irrazionale
imprudenza, hanno individuato la fattispecie
trasgressiva laddove, nel caso di illecito
che si concreti in comportamento omissivo,
questo sia pervicace ed ingiustificato, tale
da rendere ostensiva la volontà del soggetto
di disinteressarsi deliberatamente di
adempimenti che gli fanno carico.
La colpa consiste nell'avere violato un
criterio medio di diligenza, il quale deve
essere più o meno elastico per adattarsi
alla circostanze del caso concreto e, nel
caso di colpa professionale, la limitazione
al dolo e alla colpa grave si giustifica
proprio perché si impone all'agente un
rischio che egli non si assumerebbe se
sapesse di dover rispondere per colpa lieve.
In conseguenza, la limitazione delle
responsabilità ai casi di dolo o colpa grave
va visto come la realizzazione di un
principio di ragionevolezza consistente nel
fatto che la forma di colpa alla quale si
deve riferire è quella in concreto cioè
quella che si accerta in base ai criteri
della prevedibilità ed evitabilità della
serie causale produttiva del danno. Ciò
comporta che la colpa grave nella
responsabilità amministrativa va individuata
in relazione ai poteri e alle funzioni
attribuite ai convenuti nella fattispecie
concreta.
Il direttore
dei lavori per conto del committente presta
un’opera professionale in esecuzione di una
obbligazione di mezzi e non di risultati,
ma, essendo chiamato a svolgere la propria
attività in situazioni involgenti l’impiego
di particolari e peculiari competenze
tecniche, deve utilizzare le proprie risorse
intellettive ed operative per assicurare,
relativamente all’opera in corso di
realizzazione, il risultato che il
committente preponente si aspetta di
conseguire, onde il suo comportamento deve
essere valutato non con riferimento al
normale concetto di diligenza, ma alla
stregua della “diligentia quam” in
concreto”. Egli “è tenuto ad effettuare una
ricognizione del luogo sul quale verrà
effettuata l'opera pubblica. Se da tale
omissione, e da carenze nell'attività
progettuale, derivano sospensioni dei lavori
e difformità dal progetto originario, questi
risponde dei conseguenti oneri”.
Premesso che non ogni comportamento
censurabile può integrare gli estremi della
colpa grave, ma solo quelli contraddistinti
da precisi elementi qualificanti, che –nella
inconfigurabilità di un criterio generale–
vanno accertati caso per caso dal giudice in
relazione alle modalità del fatto, all’
atteggiamento soggettivo dell’autore, nonché
al rapporto tra tale atteggiamento e
l’evento dannoso, occorre rammentare che le
Sezioni Riunite di questa Corte muovendo
dall’affermazione che la colpa grave
consiste nella evidente e marcata
trasgressione di obblighi di servizio o di
regole di condotta, che si sostanzia
nell’inosservanza di quel minimo di
diligenza richiesto nel caso concreto, o in
una marchiana imperizia o una irrazionale
imprudenza (Corte conti Sezioni Riunite
10.06.1997 n. 56/A), hanno individuato la
fattispecie trasgressiva laddove, nel caso
di illecito che si concreti in comportamento
omissivo, questo sia pervicace ed
ingiustificato, tale da rendere ostensiva la
volontà del soggetto di disinteressarsi
deliberatamente di adempimenti che gli fanno
carico.
In altri termini, secondo l’orientamento più
di recente espresso dalle Sezioni d’Appello
di questa Corte, (cfr. Corte Conti, II^ app.
n. 8/2007) la colpa grave consiste in un
giudizio di rimproverabilità per
l'atteggiamento antidoveroso della volontà
che era possibile non assumere; trattasi di
concetto normativo che esprime il rapporto
di contraddizione tra la volontà del
soggetto e la norma. Il fatto colposo è un
fatto involontario che non si sarebbe dovuto
produrre e tale tesi non solo fonda o
esclude la responsabilità, ma la gradua
secondo criteri di valore.
“In sostanza, la colpa consiste
nell'avere violato un criterio medio di
diligenza, il quale deve essere più o meno
elastico per adattarsi alla circostanze del
caso concreto e, nel caso di colpa
professionale, la limitazione al dolo e alla
colpa grave si giustifica proprio perché si
impone all'agente un rischio che egli non si
assumerebbe se sapesse di dover rispondere
per colpa lieve. In conseguenza, la
limitazione delle responsabilità ai casi di
dolo o colpa grave va visto come la
realizzazione di un principio di
ragionevolezza consistente nel fatto che la
forma di colpa alla quale si deve riferire è
quella in concreto cioè quella che si
accerta in base ai criteri della
prevedibilità ed evitabilità della serie
causale produttiva del danno. Ciò comporta
che la colpa grave nella responsabilità
amministrativa va individuata in relazione
ai poteri e alle funzioni attribuite ai
convenuti nella fattispecie concreta”
(Corte Conti, II^ app. n. 8/2007).
---------------
Come è ben
noto, il Direttore dei Lavori è una figura
professionale scelta dal committente proprio
con lo scopo di seguire l'andamento regolare
del cantiere tanto che esso svolge, per
conto di questi, un’ opera di controllo e
verifica della regolarità e del buon
andamento dell’opera e rappresenta la cd.
longa manus dell’amministrazione. Una
volta nominato, diviene, da un lato, il
fiduciario del committente per gli aspetti
di carattere tecnico e, dall’altro, il
garante, nei confronti del medesimo,
dell’osservanza e del rispetto dei contenuti
dei titoli abilitativi all’esecuzione dei
lavori. L’obbligazione a cui egli è tenuto
nei confronti del committente costituisce
un'obbligazione di mezzi “in quanto ha
per oggetto la prestazione di un'opera
intellettuale che non si estrinseca in un
risultato di cui si possa cogliere
tangibilmente la consistenza”. (Cass.
sent. n. 3264/1995).
Al Direttore dei lavori fanno capo una serie
di responsabilità -delineate nell’art. 124
del DPR n. 554/1999- nonché tutte le
attività ed i compiti normativamente
previsti. In particolare deve curare che i
lavori cui è preposto siano eseguiti a
regola d’arte ed in conformità al progetto e
al contratto, è responsabile del
coordinamento e della supervisione
dell'attività di tutto l'ufficio di
direzione dei lavori, e interloquisce in via
esclusiva con l’appaltatore in merito agli
aspetti tecnici ed economici del contratto.
All’uopo “il direttore dei lavori per
conto del committente presta un’opera
professionale in esecuzione di una
obbligazione di mezzi e non di risultati,
ma, essendo chiamato a svolgere la propria
attività in situazioni involgenti l’impiego
di particolari e peculiari competenze
tecniche, deve utilizzare le proprie risorse
intellettive ed operative per assicurare,
relativamente all’opera in corso di
realizzazione, il risultato che il
committente preponente si aspetta di
conseguire, onde il suo comportamento deve
essere valutato non con riferimento al
normale concetto di diligenza, ma alla
stregua della “diligentia quam” in concreto”
(Cass. sent. n. 10728/2008).
Egli “è tenuto ad effettuare una
ricognizione del luogo sul quale verrà
effettuata l'opera pubblica. Se da tale
omissione, e da carenze nell'attività
progettuale, derivano sospensioni dei lavori
e difformità dal progetto originario, questi
risponde dei conseguenti oneri” (Corte
dei conti, Sez. Giurisd. Veneto, sent. n.
530/2004)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto,
sentenza 13.02.2009 n. 121 - link
a www.corteconti.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
L'art. 25 della Legge 724/1994
vieta alle amministrazioni di affidare
incarichi a proprio personale cessato per
pensionamento di anzianità.
Il divieto copre ogni forma di incarico
compreso il rapporto di lavoro subordinato e
non solo il rapporto di consulenza, studio,
ricerca od altro.
... emerge anzitutto la necessità di
stabilire quale sia la reale portata del
divieto di conferire incarichi al personale
cessato dal servizio per pensionamento di
anzianità, di cui all'art. 25 della l. n.
724/1994, perché qualora fosse vero che esso
ha valore assoluto, sia con riferimento
all'oggetto, che ai “soggetti attivi”
e “passivi”, nel senso che
l'Amministrazione non può mai, in nessun
caso ed in nessun tempo, conferire incarichi
ai propri ex dipendenti cessati dal servizio
a domanda, come lascerebbe intendere parte
attrice (v. pag. 11 della citazione e
successivi, conformi interventi), allora
apparirebbero del tutto superflue, per la
risoluzione dell'odierna controversia, le
ulteriori norme invocate da parte attrice
medesima sulla disciplina generale degli
incarichi, stante le peculiarità del caso.
I resistenti, come detto poc'anzi, hanno
sostenuto che difettano, nella fattispecie
all'esame, i presupposti applicativi del
precitato art. 25, sia perché si verte in
ipotesi di lavoro subordinato, e non già di
vera e propria consulenza, sia perché l'art.
72, comma 1, della l. n. 388/2000 avrebbe
modificato, a loro avviso, il ripetuto
articolo art. 25, dando luogo “ad una
sostanziale equiparazione delle pensioni
liquidate con anzianità contributiva pari o
superiore ai 40 anni, alle pensioni di
vecchiaia” (v. precedente paragrafo XI).
Il Collegio ritiene che per poter ben
comprendere la reale porta dell'art. 25
della l. n. 724/1994, che indubbiamente
contiene una “norma di divieto”,
occorra anzitutto individuare quale siano i
beni-valori a tutela dei quali è stato posto
il divieto stesso.
Soccorre al riguardo la lettera della norma
che, nel suo incipit, espressamente
correla il divieto in discorso al dichiarato
fine di “garantire piena ed effettiva
trasparenza e imparzialità (alla) azione
amministrativa”; in tal senso, del resto, la
stessa Corte costituzionale ha chiarito che
“la disposizione tende ad arginare il
fenomeno di dimissioni accompagnate da
incarichi ad ex dipendenti, sì da garantire
la piena ed effettiva trasparenza e la
imparzialità dell'azione amministrativa”
(cfr. sent. n. 406/1995, pure richiamata da
parte attrice).
Nel contesto dell'art. 25 della l. n.
724/1994, dunque, la “trasparenza” e
l'“imparzialità” passano da attributi
generali dell'azione amministrativa a
specifici beni-valori da tutelare, in
relazione agli abusi intrinsecamente
presenti nel conferimento di incarichi a
chi, già dipendente dall'Amministrazione che
gli incarichi stessi attribuisce, ha
volontariamente posto fine al suo rapporto
di servizio con l'Amministrazione medesima,
così manifestando un chiaro disinteresse
all' espletamento di ulteriori attività
lavorativa con essa.
In altri termini, a fronte di un siffatto
disinteresse, il citato art. 25 recepisce e
positivizza l'idea, diffusa tra i
consociati, secondo la quale è oltremodo
contraddittorio, e perciò contrario ai
canoni di giustificatezza e ragionevolezza
che presiedono alla trasparenza ed
all'imparzialità amministrativa, ex artt. 3
e 97 cost., affidare incarichi ai dipendenti
pubblici che volontariamente cessino dal
servizio, in quanto costoro se avessero
voluto ancora lavorare per la loro ex
Amministrazione di appartenenza non
avrebbero certo chiesto di andare in
pensione.
E' evidente infatti l'irrazionalità, anche
economica, del conferimento di un incarico
in simili condizioni, ove si consideri che
l'attività commissionata con l'incarico
stesso sarebbe stata remunerata con il solo
stipendio, se il dipendete fosse rimasto
ancora in servizio, laddove -dopo le
dimissioni- il compenso per il ripetuto
incarico si aggiunge alla pensione, ossia
alla “retribuzione differita” dall'ex
dipendente medesimo, con un sensibile
aumento dei costi complessivi e,
soprattutto, senza assicurare una nuova
professionalità di ricambio, alla
conclusione dell'incarico. E ciò poi, è
appena il caso di rilevarlo, è ancora più
ingiusto ed incomprensibile ove si consideri
che di regola è lo stesso ex dipendente ad
aver creato l'esigenza lavorativa che
l'incarico tende a superare, come nel caso
di specie, cessando volontariamente dal
servizio.
Così individuata la ratio, le
finalità e l'oggetto specifico della tutela
del “divieto” posto dall'art. 25
della l. n. 724/1994, è evidente che esso
copre ogni forma di incarico, e non solo
quelle di “consulenza” in senso
stretto, contrariamente a quanto sostenuto
in proposito dai difensori dei convenuti.
D'altronde se, ai fini di una diversa
conclusione, può indurre a dubbi
l'intestazione dell'art. 25, che menziona
solo gli “incarichi di consulenza”,
la lettera della norma elimina ogni
incertezza, riferendosi chiaramente oltre
che agli “incarichi di consulenza, studi e
ricerca”, anche agli incarichi di “collaborazione”
tout-court, nei quali sicuramente si
collocano anche quelli che danno luogo ad un
rapporto di lavoro subordinato.
Per questi ultimi, anzi, l'irrazionalità è
ancora maggiore -dal lato
dell'Amministrazione che conferisce
l'incarico-, visto che l'incarico stesso
riveste la medesima natura del rapporto di
lavoro appena dismesso, mentre -dal lato
dell'ex dipendente- può trovare
giustificazione solo nel compenso che egli
percepisce in aggiunta alla pensione (Corte
dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria,
sentenza 27.07.2006 n. 235 - link
a www.corteconti.it). |
NEWS |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Salvi i vecchi emolumenti.
Gettoni e indennità cumulabili fino al
30/05/2010.
La giurisprudenza ha escluso un'applicazione
retroattiva del divieto.
È possibile il cumulo dei gettoni di
presenza con l'indennità di funzione, a
favore di consiglieri provinciali che
espletano il proprio mandato politico in
enti diversi, per il periodo compreso dal
gennaio 2008 al maggio 2010?
Con l'entrata in vigore del dl 31/05/2010, n.
78, convertito in legge, con modificazioni
dall'art. 1, comma 1, della legge 30/07/2010,
n. 122, chi è eletto o nominato in organi
appartenenti a diversi livelli di governo
non può ricevere più di un emolumento,
comunque denominato, a sua scelta.
Ne deriva
che il legislatore, estendendo il divieto di
cumulo originariamente contemplato solo tra
due diverse indennità di funzione, ha
precluso la possibilità di percepire
contemporaneamente indennità di funzione e
gettoni di presenza previsti per le cariche
ricoperte presso enti diversi.
La nuova
disciplina non consente più il suddetto
cumulo a decorrere dal 31.05.2010. Prima
di tale data, tuttavia, la giurisprudenza
amministrativa ha ritenuto che tale cumulo
fosse possibile, nonostante l'avvenuta
abrogazione dell'art. 82, comma 6, del Tuel
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Richiesta di trasferimento.
È possibile applicare il beneficio di cui
all'art. 78, comma 6, del Tuel nei confronti
di dipendenti della polizia di stato,
delegati a rappresentare enti locali presso
società di natura consortile che, in
relazione a tale carica, hanno prodotto
istanza di trasferimento?
L'art. 78, comma 6, del Tuel introduce una
disposizione di garanzia a favore di tutti i
lavoratori dipendenti per evitare loro
restrizioni o limitazioni all'esercizio
delle funzioni connesse all'espletamento del
proprio mandato. In proposito stabilisce che
«la richiesta dei predetti lavoratori di
avvicinamento al luogo in cui viene svolto
il mandato amministrativo deve essere
esaminata dal datore di lavoro con criteri
di priorità».
L'art. 77, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000 statuisce
poi che, ai fini dell'applicazione delle
norme di cui al capo IV, status degli
amministratori locali (artt. 77-87), nel
novero degli amministratori locali sono
compresi anche «i componenti degli organi
dei consorzi fra enti locali».
Va precisato che occorre di volta in volta
esaminare se il rappresentante dell'ente
locale sia stato designato a partecipare ad
organi di un consorzio fra enti locali o
piuttosto di altro ente: infatti non tutti
gli enti cui partecipino più comuni o altri
enti locali possono essere definiti
«consorzi fra enti locali».
Solo in quest'ultimo caso, ai componenti dei
relativi organi può ritenersi applicabile il
citato art. 78
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Indennità di funzione.
Può essere rideterminata in aumento
l'indennità di funzione da corrispondere
agli amministratori comunali, alla luce di
quanto stabilito dall'art. 1, comma 54,
della legge n. 266/2005, con particolare
riferimento alla riduzione del 10%?
L'art. 1, comma 54, della legge finanziaria
2006 ha introdotto una disposizione che di
fatto ha prodotto un effetto di
«sterilizzazione permanente» del sistema di
determinazione delle indennità e dei gettoni
di presenza.
Tale sistema, che peraltro male
si conciliava, sia dal punto di vista logico
che normativo, con le sopravvenute novelle
agli art. 82 e 83 del Tuel apportate
dall'art. 2, comma 25, della Finanziaria
2008, ha successivamente trovato una
decisiva conferma negli artt. 61, comma 10,
secondo periodo, e 76, comma 3, della legge
06.08.2008, n. 133, di conversione del
decreto legge 25.06.2008, n. 112.
Pertanto non è più possibile per gli enti
locali rideterminare in aumento l'attuale
misura dell'indennità e dei gettoni di
presenza, benché la medesima risulti
inferiore a quanto previsto dal dm 119/2000,
al lordo della riduzione del 10% disposta
dalla legge finanziaria 2006
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Rimborso spese di viaggio.
È legittimo corrispondere il rimborso delle
spese di viaggio sostenute dal sindaco che,
per partecipare alle celebrazioni religiose
tenutesi nel comune dove svolge il mandato,
ha dovuto lasciare la località dove
soggiornava in vacanza?
L'art. 84, comma 3, del decreto legislativo
n. 267/2000 prevede solo per gli
amministratori che risiedono fuori dal
capoluogo del comune ove ha sede l'ente, il
rimborso delle spese di viaggio
effettivamente sostenute per la
partecipazione a ognuna delle sedute del
rispettivo organo assembleare, nonché per la
presenza necessaria (cioè riconducibile ad
oggettive esigenze connesse allo svolgimento
del mandato) presso la sede dell'ufficio per
lo svolgimento delle funzioni proprie o
delegate.
La fattispecie in esame non è riconducibile
alle oggettive condizioni sopra esposte che
danno titolo al rimborso delle spese di
viaggio, che pertanto deve escludersi
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: I comuni scivolano sul personale.
Errori à gogo, dalle progressioni ai
contratti decentrati. La Ragioneria dello
stato ha riunito in un dossier le criticità
rilevate nell'attività di controllo.
Gli errori più frequentemente commessi dagli
enti locali riguardano l'applicazione delle
regole dettate dal legislatore e dai
contratti collettivi nazionali in materia di
personale.
Sono queste le principali
indicazioni che si possono trarre dal
massimario in cui sono riassunti, per la
prima volta, i rilievi che servizi ispettivi
della Ragioneria generale dello stato hanno
formulato nella loro attività di controllo
svolta nel corso del 2010.
Sono numerose le amministrazioni che hanno
assegnato progressioni orizzontali a tutto
il personale in servizio. Tale comportamento
è formalmente vietato dal dlgs n. 150/2009,
cosiddetta legge Brunetta, il quale
espressamente limita il ricorso a questo
istituto a una quota limitata. Per il
periodo precedente, le norme contrattuali
richiedevano comunque, in modo implicito,
che il riconoscimento del beneficio fosse
limitato a un numero ridotto di dipendenti,
in considerazione del carattere
meritocratico. In questo senso si sono
pronunciate tanto l'Aran che la Corte dei
conti della Basilicata.
Sono assai frequenti
anche le violazioni riscontrate nelle
progressioni verticali. In particolare, in
molte realtà esse sono state effettuate
senza rispettare il vincolo di garantire
comunque un adeguato accesso dall'esterno.
Analoga censura viene mossa per le procedure
di stabilizzazione del personale precario.
Nelle procedure di contrattazione decentrata
continuano a essere frequenti i seguenti
errori: presenza nella delegazione trattante
di parte pubblica del sindaco e/o di
assessori, mancata adozione da parte della
giunta di una direttiva alla delegazione
trattante, mancanza della deliberazione
della giunta di autorizzazione alla
sottoscrizione, mancata stipula del
contratto dopo la deliberazione della
giunta, mancanza della relazione
illustrativa, mancata espressione del parere
da parte dei revisori dei conti, mancata
trasmissione all'Aran della copia del
contratto decentrato.
In materia di
costituzione del fondo del personale, in
molte amministrazioni non sono state
considerate le risorse necessarie per il
finanziamento del reinquadramento dei vigili
dalla quinta alla sesta qualifica funzionale
e dei dipendenti di 1a e 2a in 3a qualifica
funzionale, disposto dal Ccnl 31/03/1999. E
ancora, non sono state tolte dal fondo le
risorse relative al trattamento economico
accessorio in godimento da parte del
personale Ata trasferito alle dipendenze del
ministero della pubblica istruzione
dall'anno 2000. Alcune amministrazioni hanno
inoltre indebitamente consolidato nel fondo
gli aumenti previsti dai Ccnl del 2006 e del
2008 consentiti alle amministrazioni in
possesso delle condizioni di particolare
virtuosità, ma limitatamente a quegli
esercizi.
In molti casi l'incremento del
fondo sulla base delle previsioni di cui
all'articolo 15, comma 2, Ccnl 01/04/1999 è
stato disposto «in carenza del preventivo
accertamento, da parte del servizio di
controllo interno o del nucleo di
valutazione, delle effettive disponibilità
di bilancio create a seguito di processi di
razionalizzazione o riorganizzazione delle
attività ovvero espressamente destinate
dall'ente al raggiungimento di specifici
obiettivi di produttività e qualità». Sulla
costituzione del fondo dei dirigenti vengono
frequentemente contestati gli aumenti
disposti per l'attivazione di nuovi servizi,
sulla base delle regole contenute
nell'articolo 26, comma 3, del Ccnl
23/12/1999, in particolare per l'assenza di
motivazioni e per il consolidamento di tali
risorse.
Sul versante della costituzione e della
erogazione delle risorse stanziate dal fondo
il rapporto evidenzia che in numerosi casi i
progetti di produttività, soprattutto quelli
finanziati con l'inserimento di risorse
ulteriori nel fondo, ex articolo 15, comma
5, Ccnl 01/04/1999, in modo particolare quelli
destinati al personale della vigilanza, non
hanno rispettato i vincoli previsti dai Ccnl,
vuoi perché non sono stati effettivamente
adottati in via preventiva, vuoi per
l'assenza di un effettivo miglioramento
della qualità dei servizi, vuoi per l'avere
stanziato risorse non determinate in modo
motivato.
Quanto alla erogazione delle
risorse, una censura assai diffusa riguarda
la corresponsione ai vigili che prestano
attività in giorno festivo del compenso per
lavoro straordinario ex art. 24 del Ccnl
14/09/2000, anziché dell'indennità di turno
maggiorata per le giornate festive. Occorre
comunque evidenziare che in questa materia
vi sono contrasti interpretativi nella
giurisprudenza del lavoro. Sempre sul
versante della erogazione del fondo è
frequente la censura della «illegittima
attribuzione dell'indennità di rischio a
favore di tutto il personale anziché, come
previsto dalla legge, ai soli soggetti
esposti in maniera continua e diretta a
rischi pregiudizievoli per la salute e per
l'integrità personale», ambito in cui
frequentemente viene contestata la
erogazione di tale compenso ai dipendenti
che utilizzano i personal computer.
Analoga
censura, anche per la determinazione
dell'importo, viene avanzata frequentemente
per la corresponsione della indennità di
disagio. E ancora, la erogazione della
indennità per specifiche responsabilità in
modo indiscriminato a tutti o alla gran
parte dei dipendenti delle categorie D e C,
così da remunerare il semplice affidamento
di incarichi di responsabilità di
procedimento. Per i dirigenti in molte
realtà la indennità di posizione non è stata
tagliata a fronte degli aumenti dello
stipendio disposti dal Ccnl 2002 e viene
spesso superata la soglia massima della
indennità di posizione, senza una adeguata e
convincente motivazione della complessità
dell'incarico.
Quanto ai segretari le
censure più frequenti riguardano le modalità
di determinazione della indennità cosiddetta
di galleggiamento, cioè della differenza tra
la sua indennità di posizione e quella più
elevata in godimento nell'ente, in modo da
non tenere conto della eventuale
maggiorazione. E ancora, spesso si
contestata la corresponsione di compensi per
i nuclei di valutazione, in modo da eccedere
il tetto massimo di incremento della
retribuzione di posizione fissato dal
contratto integrativo nazionale del dicembre
2003
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
APPALTI: Regolarità
contributiva allargata.
Durc per tutti i contratti pubblici, salva
l'esplicita deroga.
Nuove regole sul Durc negli appalti
pubblici. La certificazione di regolarità
contributiva va richiesta anche nei
confronti di fondazioni e università; ogni
attestazione, inoltre, è vincolata alla
richiesta (contratto) per cui è stata
emessa, con la sola eccezione dell'ipotesi
di acquisizioni in economia di beni e
servizi con affidamento diretto da parte del
responsabile del procedimento (valore al di
sotto dei 20 mila euro).
Le novità arrivano
dall'entrata in vigore (dall'08.06.2011) del
nuovo regolamento di attuazione del codice
dei contratti pubblici.
Il nuovo
regolamento.
Le nuove regole sul Durc sono
previste dal regolamento attuativo del
codice dei contratti pubblici, dpr n. 207
del 05.10.2010 che dà attuazione al dlgs
n. 163/2006, in vigore dall'08 giugno, il
quale dedica l'intero Titolo H alla materia
del Durc.
Riprendendo la definizione finora
vigente, l'articolo 6 del regolamento
stabilisce che per Durc s'intende «il
certificato che attesta contestualmente la
regolarità di un operatore economico per
quanto concerne gli adempimenti Inps, Inail,
nonché cassa edile per i lavori, verificati
sulla base della rispettiva normativa di
riferimento».
Gli operatori economici.
L'obbligo della regolarità contributiva,
dunque, gira attorno alla figura di
«operatore economico», in quanto è nei
confronti di questo soggetto che il
certificato funge da certificazione e perché
riguardo ai lavori di tale soggetto che le
amministrazioni sono tenute a verificare la
regolarità contributiva. Per operatore
economico. soggetto obbligato alla
regolarità contributiva, s'intende
«l'imprenditore, il fornitore e il
prestatore di servizi o un raggruppamento o
consorzio di essi», siano essi persone
fisiche o persone giuridiche.
Ai sensi del
codice dei contratti pubblici (articolo 3) i
termini relativi a «imprenditore»,
«fornitore» e «prestatore di servizi»
designano una persona fisica o una persona
giuridica o un ente senza personalità
giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di
interesse economico (Geie), che offra sul
mercato, rispettivamente, la realizzazione
di lavori oppure opere, la fornitura di
prodotti, la prestazione di servizi. Il
termine «raggruppamento temporaneo» designa
un insieme di imprenditori, o fornitori, o
prestatori di servizi, costituito, anche
mediante scrittura privata, allo scopo di
partecipare alla procedura di affidamento di
uno specifico contratto pubblico, mediante
presentazione di una unica offerta. Il
termine «consorzio» si riferisce ai consorzi
previsti
dall'ordinamento, con o senza personalità
giuridica.
Secondo l'autorità di vigilanza
sui contratti pubblici (determinazione n.
7/2010) la nozione di «operatore economico»
in ambito europeo è molto ampia e tende ad
abbracciare tutta la gamma dei soggetti che
potenzialmente possono prender parte a una
pubblica gara. Pertanto sono operatori
economici anche le fondazioni, gli istituti
di ricerca e le Università in quanto «per il
diritto comunitario, la nozione di impresa
comprende qualsiasi ente che esercita
un'attività economica consistente
nell'offerta di beni e servizi su un
determinato mercato, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue
modalità di
finanziamento (Corte di giustizia Ue,
sentenza 26.03.2009, causa C-113/07)».
Soggetti tenuti a richiedere il Durc.
In
base al nuovo regolamento la regolarità
contributiva si riferisce a tutti i
contratti pubblici, siano essi di lavori, di
servizi o di forniture. Restano esclusi,
pertanto, i soli contratti pubblici per i
quali lo stesso codice prevede espressamente
una deroga (Parte I, Titolo II del Codice
avente ad oggetto «contratti esclusi in
tutto o in parte dall'ambito di
applicazione del codice», come ad esempio i
contratti di servizi di arbitrato e
conciliazione, di cui all'articolo 19, comma
1, lettera c).
È questa una previsione,
dunque, che conferma che il Durc va sempre
richiesto, senza alcuna eccezione, per ogni
tipologia di contratto pubblico e, dunque,
anche nel caso degli acquisti in economia
odi modesta entità (interpello n. 10/2009
del ministero del lavoro). Spetta alla p.a.
procedente stabilire se la fattispecie
rientri nella tipologia del contratto
pubblico e, quindi, se debba essere
acquisito il Durc. In caso affermativo, le
stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono
d'ufficio, anche attraverso strumenti
informatici, il documento unico di
regolarità contributiva (il regolamento,
infatti, stabilisce che il Durc nei
contratti pubblici deve essere richiesto
d'ufficio dalle «amministrazioni
aggiudicatrici»).
Nei confronti dei soggetti
diversi dalle amministrazioni
aggiudicatrici, invece, il nuovo regolamento
dispone che il Durc sia prodotto dagli
stessi operatori economici. Pertanto, le
imprese pubbliche, che non sono
amministrazioni aggiudicatrici, non sono
tenute ...
(articolo ItaliaOggi del 30.05.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
CIRCOSCRIZIONI/ Nel nuovo regolamento nessun
cenno a eventuali tagli. Indennità ai
presidenti. Il dl 78/2010 ha cancellato il
gettone solo ai consiglieri.
Deve essere corrisposta l'indennità di
funzione ai presidenti dei consigli
circoscrizionali, ai sensi dell'art. 82 del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, dopo
la modifica introdotta dal decreto-legge
31.05.2010, n. 78, convertito con
modificazioni dalla legge 30.07.2010, n.
122?
La recente manovra finanziaria varata con il
decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito
con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n.
122, ha disposto, all'art. 5, comma 7, che
con decreto del ministro dell'interno (da
emanarsi ai sensi dell'art. 82, comma 8, del
decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e
successive modificazioni ed integrazioni, di
concerto con il ministero dell'economia e
delle finanze) siano rideterminati in
riduzione gli importi delle indennità di
funzione degli amministratori comunali e
provinciali già previsti nel decreto
ministeriale 04.04.2000, n. 119, e siano
determinati gli importi dei gettoni di
presenza per i consiglieri comunali e
provinciali per la partecipazione a consigli
e commissioni.
Il comma 6 dell'art. 5 del citato
decreto-legge 31.05.2010, n. 78 ha, poi,
statuito che nessuna indennità è più dovuta
ai consiglieri circoscrizionali. È tuttora
in corso l'iter di emanazione del nuovo
regolamento per la determinazione della
misura delle indennità di funzione e dei
gettoni di presenza da corrispondere agli
amministratori degli enti locali, mentre
nessuna nuova disposizione è stata dettata
dalla normativa di riforma con riferimento
ai presidenti dei consigli circoscrizionali.
Pertanto permane, a norma del primo comma
del citato art. 82, il diritto all'indennità
di funzione per i presidenti dei consigli
circoscrizionali dei comuni capoluogo di
provincia
(articolo ItaliaOggi
del 13.05.2011). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ ODG
del consiglio.
Quali norme disciplinano l'inserimento,
nell'ordine del giorno del Consiglio
comunale, di una mozione presentata da un
gruppo consiliare?
L'art. 43, comma 1, del dlgs n. 267/2000
riconosce ai «consiglieri comunali e
provinciali» il diritto di iniziativa su
ogni questione sottoposta alla deliberazione
del Consiglio, stabilendo che «hanno inoltre
il diritto di chiedere la convocazione del
Consiglio secondo le modalità dettate
dall'art. 39, comma 2, e di presentare
interrogazioni e mozioni».
La dottrina definisce «mozioni» gli atti
approvati dal Consiglio per esercitare
un'azione di indirizzo, esprimere posizioni
e giudizi su determinate questioni,
organizzare la propria attività,
disciplinare procedure e stabilire
adempimenti dell'Amministrazione nei
confronti del Consiglio.
Il Tar Puglia –sezione di Lecce– I sez.,
sentenza n. 1022/2004, chiarisce che la
mozione è un «istituto a contenuto non
specificato trattandosi di un potere a
tutela della minoranza per situazioni non
predefinibili, a differenza di altri
strumenti più a valenza di mera conoscenza
(quali l'interrogazione o la interpellanza),
essendo strumento di «introduzione a un
dibattito che si conclude con un voto che è
ragione ed effetto proprio della mozione».
Alla luce della giurisprudenza e della
dottrina, pertanto, a differenza della
interrogazione e dell'interpellanza a cui
rispondono il sindaco e la giunta, la
mozione è diretta al consiglio comunale che
deve esprimersi nelle forme della
deliberazione, rappresentando una forma di
controllo politico-amministrativo (art. 42,
comma 1, del dlgs n. 267/2000).
L'art. 38 del dlgs n. 267/2000 prevede che
il funzionamento dei consigli «nel quadro
dei principi stabiliti dallo statuto, è
disciplinato dal regolamento»; occorre,
quindi, verificare quale disciplina detta il
regolamento comunale nel caso di specie, e
in particolare se la previsione
regolamentare non pone limiti all'oggetto
della mozione, nel senso che la stessa può
essere riferita all'esercizio delle funzioni
di indirizzo e controllo politico-
amministrativo o se può avere un oggetto
molto ampio nel caso di una risposta «non
soddisfacente» a un'interpellanza posta al
sindaco con la quale si chiede di conoscere
i motivi o gli intendimenti della condotta
dell'amministrazione.
In ogni caso, in assenza di previsioni
normative e regolamentari, la possibilità da
parte del presidente del consiglio, di una
preventiva valutazione dell'oggetto della
mozione al fine di inserirla o meno
nell'ordine del giorno, va esercitata
tenendo in considerazione il potere sovrano
delle assemblee politiche (Tar per la Puglia
sent. ult. cit.) al quale spetta di
decidere, in via pregiudiziale,
sull'ammissibilità della discussione sugli
argomenti inseriti nell'ordine del giorno
(articolo ItaliaOggi
del 13.05.2011). |
ENTI LOCALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Sì al
referendum sul cimitero se non modifica il
piano regolatore.
È possibile ricorrere all'istituto del
referendum consultivo, previsto dallo
statuto comunale, per decidere circa il
mantenimento di un'area cimiteriale
destinata alla sepoltura di defunti
appartenenti a culti diversi da quello
cattolico, in particolare di religione
musulmana?
I referendum locali si configurano come
tipici istituti di democrazia diretta, forme
di partecipazione popolare di carattere
opzionale, previsti dall'ente locale tra gli
elementi facoltativi dello statuto comunale.
Rispetto alla normativa previgente, è stata
ampliata la valenza dell'istituto del
referendum popolare che, secondo la
dottrina, è ora configurabile non più solo
come consultivo -unica tipologia già
presente nell'originale formulazione della
legge 142 del 1990- utilizzato per
consentire la consultazione della
popolazione su rilevanti questioni di
interesse locale, ma anche come referendum
abrogativo di provvedimenti a carattere
generale degli organi istituzionali e
burocratici dell'ente oppure propositivo,
confermativo, di indirizzo, o infine
oppositivo-sospensivo.
Il referendum popolare di tipo consultivo
non sembra possa avere, allo stato attuale,
quella efficacia politicamente vincolante
che parte della dottrina ritiene debba
essergli attribuita allorquando dai suoi
risultati si evinca in modo inequivocabile e
assoluto la prevalenza della volontà
popolare. Il decreto legislativo 267/2000
nulla dice circa l'effetto dei risultati del
referendum consultivo e gli statuti, in
genere, hanno escluso che l'esito sia
vincolante per l'amministrazione, preferendo
precisare che l'ente locale possa
discostarsi dall'esito referendario,
motivando adeguatamente, con pieno
riconoscimento dell'autonomia politica del
consiglio.
In realtà, gli effetti del referendum
consultivo si risolvono in una pressione di
fatto sugli organi di governo dell'ente. In
tal senso, si è anche affermato che il
potere statutario in materia resta ampio per
quanto riguarda l'oggetto, il numero di
partecipanti per la sua validità e la
possibilità di prevedere effetti
consequenziali per l'amministrazione, legati
all'esito del referendum e tuttavia con il
limite della conservazione, in ogni caso,
del potere decisionale in capo agli organi
di governo.
La giurisprudenza ha sottolineato che «le
consultazioni costituiscono strumento di
partecipazione popolare all'elaborazione
delle scelte amministrative, non strumento
di verifica della condivisione da parte dei
cittadini di scelte già definite con formali
provvedimenti amministrativi. L'attività
consultiva, per propria natura, deve
anteporsi all'attività decisionale, non
seguirla» (Cds 29.07.2008, n. 3768). Il
referendum popolare locale, avente natura
consultiva, non può «dispiegare alcuna
giuridica influenza, atteso che impone solo
all'amministrazione che lo ha indetto di
tener conto della volontà popolare ma non
esplica alcun effetto sull'azione
amministrativa che ne è stato oggetto, né
tanto meno su vicende successive o di altre
amministrazioni, né la volontà popolare
espressa con il referendum è idonea ad
attribuire all'ente locale poteri estranei
alla sfera di attribuzioni fissate con legge»
(Cds sez. VI, 20.05.2004, n. 3263).
Nel caso di specie occorre verificare come
le fonti normative locali, lo statuto e i
regolamenti, abbiano disciplinato l'istituto
del referendum. Posto che lo statuto
comunale abbia previsto il referendum di
tipo consultivo su questioni a rilevanza
generale interessanti l'intera collettività
comunale, disciplinandone alcuni aspetti
relativi alla presentazione della proposta
di referendum e alle condizioni per la sua
validità, nonché alle materie escluse
-disponendo che, in caso di esito
favorevole, il sindaco è tenuto a proporre
al consiglio comunale un provvedimento
avente per oggetto il quesito sottoposto a
referendum, salva la facoltà del consiglio
di non accogliere il quesito referendario
con adeguata motivazione- è necessario
verificare se il quesito proposto incida,
sostanzialmente, sulla modifica del Piano
regolatore cimiteriale; in tal caso,
infatti, il referendum si configurerebbe
come consultazione popolare di tipo
abrogativo -e non meramente consultivo-
tipologia che, se non è prevista dalla
normativa dell'ente, presenta profili di
dubbia ammissibilità.
Inoltre, sebbene l'oggetto del quesito
referendario rientri tra i settori di
specifica competenza comunale, occorre
valutare se la sua formulazione non sia in
contrasto con gli articoli del regolamento
(articolo ItaliaOggi del 15.04.2011). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sanzione amministrativa e non
penale per l'assenza del Durc.
Le omissioni
contributive legate al Durc non prevedono
sanzioni penali ma esclusivamente
amministrative.
Lo precisa la Corte di Cassazione, III Sez.
penale, con la
sentenza 31.05.2011 n. 21780.
I giudici hanno precisato
che “il legislatore non ha inteso
prevedere sanzioni penali per le omissioni
riferite alla trasmissione del DURC e
sanzioni siffatte non possono essere
introdotte facendo ricorso alla previsione
dell’articolo 44, primo comma, lettera a)
del testo unico n. 380/2001”.
La norma prevista dall’articolo 44 del Dpr
380/2001 risponde “all’esigenza di
evitare che vadano esenti da pena condotte
di aggressione al territorio che si
traducono nella violazione sostanziale delle
norme che prescrivono le modalità con cui
possono concretamente essere effettuate le
trasformazioni del suolo”.
Ma il Durc è un certificato che attesta la
regolarità dell’impresa nei pagamenti e
negli adempimenti previdenziali,
assistenziali e assicurativi. Infatti, in
caso di assenza del Durc il comma 10
dell’articolo 90 del Dlgs 81/2008 prevede
una sanzione amministrativa e non penale
(massima tratta e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).
---------------
Il D.P.R. n.
380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a),
sanziona attualmente "l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità
esecutive previste dal presente titolo, in
quanto applicabili, nonché dai regolamenti
edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal
permesso di costruire".
Tale fattispecie penale trova i propri
precedenti normativi nella L. n. 47 del
1985, art. 20, lett. a), e nella L. n. 1150
del 1942, art. 41, lett. a), e le Sezioni
Unite di questa Corte -con la sentenza
12.11.1993, Borgja, riferita alla previsione
della L. n. 47 del 1985- hanno posto in
rilievo che, nell'ambito dell'organico
quadro della disciplina urbanistica posta
dalla L. n. 1150 del 1942, "appariva
evidente che l'oggetto della tutela penale
s'identificasse nel bene strumentale del
controllo della disciplina degli usi del
territorio".
Dopo l'entrata in vigore della L. n. 765 del
1967 (introduttiva, tra l'altro, degli
standard urbanistici e della salvaguardia
degli usi pubblici e sociali del territorio)
e della legge di tutela paesaggistica n.
431/1985, però, "l'urbanistica non può
farsi solo consistere nella disciplina
dell'attività edilizia, dovendosi la
relativa nozione estendere alla disciplina
degli usi del territorio in senso sociale,
economico e culturale, ivi compresa la
valorizzazione delle risorse ambientali,
nonché alle relazioni che devono instaurarsi
tra gli elementi del territorio e non
soltanto dell'abitato" (concetto
riaffermato da Cass., sez. 3^, 10.06.1997,
n. 5514).
Nel contesto della L. n. 47 del 1985, art.
20, le Sezioni Unite hanno ravvisato "una
gradualità crescente delle pene edittali in
rapporto al grado di lesione dell'interesse
tutelato", rilevando in particolare che
"la previsione della lettera a) comprende
le trasgressioni residuali, sempreché
apprezzabili penalmente, cioè non
depenalizzate".
Trattasi di considerazioni sicuramente
pertinenti anche rispetto alla nuova
formulazione del D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, comma 1, lett. a), con la
necessaria precisazione che il concetto di "residualità"
deve essere interpretato alla stregua del
principio di tassatività delle fattispecie
penali incriminataci, che porta comunque ad
escludere dall'ambito di operatività della
contravvenzione in oggetto inosservanze
diverse da quelle individuabili secondo il
tenore letterale della norma.
Nella ricostruzione delle singole ipotesi di
inosservanza che integrano il precetto della
disposizione sanzionatoria in esame
-comunemente e pacificamente considerata
quale "norma penale in bianco" (vedi
Cass., Sez. Unite: 29.05.1992, Aramini e
12.11.1993, Borgja)- e con precipuo
riferimento alla "inosservanza delle
norme, prescrizioni e modalità esecutive",
ritiene il Collegio che inosservanze
siffatte devono pur sempre riguardare la
condotta di trasformazione urbanistica o
edilizia del territorio.
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1,
lett. a), si riferisce testualmente alle
disposizioni di legge "previste nel
presente titolo", vale a dire il titolo
4^ della prima parte del testo unico in
materia edilizia, comprendente gli artt. da
27 a 51, e ciò si palesa come una
formulazione riduttiva rispetto alla
corrispondente fattispecie incriminatrice
previgente (la L. n. 47 del 1985, art. 20,
lett. a), che, punendo "l'inosservanza
delle norme, prescrizioni e modalità
esecutive previste dalle presente legge,
dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150 e
successive modificazioni e integrazioni",
veniva interpretata come un rinvio aperto a
tutta la legislazione urbanistico-edilizia,
comprensiva - secondo parte della
giurisprudenza (vedi Cass., sez. 3^:
07.03.1993, Gorraz e 07.03.1995, Garofalo)-
anche delle leggi regionali che
costituiscano integrazione dette norme per
il controllo dell'attività urbanistica ed
edilizia.
Nel precetto attualmente vigente (più
aderente al principio di tassatività della
fattispecie penale) manca qualsiasi
riferimento espresso alla possibilità di
integrazione del D.P.R. n. 380 del 2001,
artt. da 27 a 51 da parte della legislazione
regionale (tenendo sempre conto, comunque,
della preclusione posta dall'art. 10, u.c.
nei casi in cui sia la legge regionale ad
individuare ulteriori interventi sottoposti
al preventivo rilascio del permesso di
costruire).
Quello che più costa, però, nella
valutazione della vicenda in esame, è che la
violazione contestata afferisce ad un
adempimento di carattere amministrativo che
non riguarda la condotta di trasformazione
del territorio.
Il DURC documento unico di regolarità
contributiva, disciplinato attualmente, per
le opere edilizie, dal D.Lgs. 09.04.2008, n.
81, art. 90 (in materia di tutela della
salute e della sicurezza sui luoghi di
lavoro) come modificato dal D.Lgs. n. 106
del 2009 è un certificato che attestala
regolarità di un'impresa nei pagamenti e
negli adempimenti previdenziali,
assistenziali e assicurativi nonché in tutti
gli altri obblighi previsti dalla normativa
vigente nei confronti di INPS, INAIL e Casse
Edili, verificati sulla base della
rispettiva normativa di riferimento.
Esso, ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008,
stesso art. 90, comma 9, lett. c), deve
essere trasmesso dal committente o dal
responsabile dei lavori "all'amministrazione
concedente, prima dell'inizio dei lavori
oggetto del permesso di costruire o della
denuncia di inizio attività".
La normativa nazionale in materia di
regolarità contributiva è spesso integrata
da leggi regionali che individuano ulteriori
fasi o particolari motivazioni che rendano
necessario acquisire il DURC (ad es.:
richiesta del certificato, nei casi di
lavori privati in edilizia, anche alla fine
dei lavori).
Il DURC rappresenta, dunque, un utile
strumento per l'osservazione delle dinamiche
del lavoro ed una forma di contrasto al
lavoro sommerso e consente il monitoraggio
dei dati e delle attività delle imprese
affidatane di appalti.
Tutto ciò non ha nulla in comune con il
governo del territorio (anche nella sua
accezione più ampia) e la previsione del
D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 90, comma 10,
-secondo la quale "in assenza del
documento unico di regolarità contributiva
delle imprese o dei lavoratori autonomi, è
sospesa l'efficacia del titolo abilitativo"- ha carattere di sanzione amministrativa
ulteriore rispetto alla sanzione
amministrativa pecuniaria comminata, per la
violazione dell'art. 90, comma 9, lett. c),
dall'art. 157, lett. c), medesimo D.Lgs. in
esame.
Il legislatore, dunque, non ha inteso
prevedere sanzioni penali per le omissioni
riferite alla trasmissione del DURC e
sanzioni siffatte non possono essere
surrettiziamente introdotte facendo ricorso
alla previsione del D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, comma 1, lett. a).
Una norma residuale in materia di reati
edilizi ed urbanistici -quale è
pacificamente considerata quella di cui al
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1,
lett. a),- risponde, infatti, all'esigenza
di evitare che vadano esenti da pena
condotte di aggressione al territorio che si
traducono nella violazione sostanziale delle
norme che prescrivono le modalità con cui
possono concretamente essere effettuate le
trasformazioni del suolo.
Nella specie, in conclusione, il Tribunale
ha correlato la sanzione penale alla
inosservanza di una normativa prevista dalla
legislazione statale e da quella regionale
non a fini urbanistici ed in relazione ad un
comportamento omissivo per il quale, in sede
propria, il legislatore statale ha inteso
comminare soltanto sanzioni amministrative.
---------------
Niente
condanna penale se non si presenta il Durc.
Non possono essere applicate le regole a
tutela del territorio.
L'omessa presentazione
del Durc non è un reato. E, di conseguenza,
non può essere sanzionata sul piano penale,
ma solo su quello amministrativo. No quindi
a tentativi surrettizi di inasprimento del
trattamento punitivo utilizzando la
disciplina di contrasto agli illeciti
edilizi o urbanistici.
Lo chiarisce la Corte di Cassazione, Sez.
III penale, con la
sentenza 31.05.2011 n. 21780
(link a www.diritto24.ilsole24ore.com).
La pronuncia ha così annullato la condanna
che era stata inflitta dal giudice unico di
Firenze a due rappresentanti legali di
società cooperative che, titolari di
permessi a costruire, avevano trascurato di
presentare il documento di regolarità
contributiva della srl cui erano stati
subappaltati i lavori.
Il giudice fiorentino aveva ritenuto di
dovere applicare la lettera a) dell'articolo
44 del Dpr 380/2001, una sorta di "norma
penale in bianco" che colpisce le
illecite condotte di trasformazione
urbanistica o edilizia del territorio. La
Cassazione, però, nell'affrontare la
questione, fa notare come la mancata
presentazione del Durc «afferisce a un
adempimento di carattere amministrativo che
non riguarda la condotta di trasformazione
del territorio». Il Durc è, infatti, un
certificato che attesta la regolarità di
un'impresa nei pagamenti e negli adempimenti
previdenziali, assistenziali e assicurativi
previsti dalla disciplina in vigore a favore
di Inps, Inail e casse edili. Deve essere
trasmesso dal committente o dal responsabile
dei lavori all'amministrazione concedente,
prima dell'inizio dei lavori oggetto del
permesso di costruire o della denuncia di
inizio attività.
Il Durc costituisce così «un utile
strumento per l'osservazione delle dinamiche
del lavoro ed una forma di contrasto al
lavoro sommerso e consente il monitoraggio
dei dati e delle imprese affidatarie di
appalti». Nulla però che abbia a che
vedere con il governo del territorio,
neppure in senso ampio. La sospensione del
titolo abilitativo, come misura per l'omessa
presentazione, ha natura di sanzione
amministrativa che va a sommarsi all'altra
sanzione amministrativa pecuniaria.
La conclusione è così per l'esclusione
assoluta di qualsiasi rilevanza penale per
la condotta di mancata presentazione del
documento. La norma che è stata utilizzata
dal giudice unico di Firenze è invece una
disposizione residuale contro i reati edilizi
e urbanistici e risponde all'esigenza di
colpire comportamenti di aggressione al
territorio in violazione delle norme che
disciplinano le trasformazioni del suolo
(articolo Il Sole 24
Ore dell'01.06.2011). |
APPALTI: Nelle
procedure per l’aggiudicazione degli appalti
pubblici sussiste sempre in capo
all’amministrazione appaltante un margine di
discrezionalità tecnica che può investire le
componenti dell’offerta nella loro serietà e
congruità, in relazione allo specifico
oggetto della gara ed alle modalità di
esecuzione del contratto, e che consente,
quindi, di disporre quelle offerte che
presentino aspetti di inattendibilità.
La validità della costituzione di un’A.T.I.
deve essere giudicata con esclusivo
riferimento al momento della formulazione
dell’offerta, dovendo ritenere legittime le
offerte congiuntamente presentate da imprese
appositamente e tempestivamente raggruppate,
singolarmente invitate, anche quando la loro
costituzione in ATI sia intervenuta dopo la
fase di prequalificazione.
L’obbligo di dichiarare l’assenza del c.d.
pregiudizi penali può ritenersi assolto dal
legale rappresentante dell’impresa anche
avuto riguardo ai terzi (direttori tecnici o
altri soggetti comunque muniti di poteri di
rappresentanza anche se cessati nel triennio
antecedente), nel presupposto che anche in
questo caso operino le previsioni di
responsabilità penale ed il potere di
verifica da parte della stazione appaltante.
Come precisato dalla giurisprudenza, nelle
procedure per l’aggiudicazione degli appalti
pubblici sussiste sempre in capo
all’amministrazione appaltante, a
prescindere da una regola puntualmente
fissata da disposizioni di legge, di
regolamento e rinvenibili nella stessa
lex spcialis, un margine di
discrezionalità tecnica che può investire le
componenti dell’offerta nella loro serietà e
congruità, in relazione allo specifico
oggetto della gara ed alle modalità di
esecuzione del contratto, e che consente,
quindi, di disporre quelle offerte che
presentino aspetti di inattendibilità
(C.d.S., sez. V, 18.09.2009, n. 5597;
21.04.2009, n. 2402).
Come precisato
dalla giurisprudenza, la validità della
costituzione di un’A.T.I. deve essere
giudicata con esclusivo riferimento al
momento della formulazione dell’offerta,
dovendo ritenere legittime le offerte
congiuntamente presentate da imprese
appositamente e tempestivamente raggruppate,
singolarmente invitate, anche quando la loro
costituzione in ATI sia intervenuta dopo la
fase di prequalificazione (C.d.S., sez. V,
18.09.2003, n. 5309); più recentemente tale
indirizzo è stato confermato, precisandosi
che non sussiste alcun divieto in tal senso,
emergendo per contro un preciso indirizzo
legislativo volto a favorire il fenomeno del
raggruppamento e ad individuare la
presentazione dell’offerta come momento
della procedura da cui decorre il divieto di
modificabilità soggettiva della composizione
dei partecipanti, divieto che non opera per
la fase di prequalificazione (C.d.S., sez.
VI, 20.02.2008, n. 588).
Come puntualizzato recentemente dalla
giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 15.10.2010,
n. 7524; 19.11.2009, n. 7244), l’obbligo di
dichiarare l’assenza del c.d. pregiudizi
penali può ritenersi assolto dal legale
rappresentante dell’impresa anche avuto
riguardo ai terzi (direttori tecnici o altri
soggetti comunque muniti di poteri di
rappresentanza anche se cessati nel triennio
antecedente), nel presupposto che anche in
questo caso operino le previsioni di
responsabilità penale ed il potere di
verifica da parte della stazione appaltante
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.05.2011 n. 3256 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Sull'interpretazione della
disposizione di cui all'art. 23-bis, c. 9,
ultimo periodo, del d.l. n. 112 del 2008,
convertito dalla l. n. 133 del 2008, nel
testo successivamente riformato dal d.l. n.
135/2009, convertito dalla l. n. 166/2009.
L'ultimo periodo del c. 9, dell'art. 23-bis,
del d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito
dalla l. 06.08.2008, n. 133, nel testo
successivamente riformato dal d.l.
25.09.2009, n. 135, convertito dalla l.
20.11.2009, n. 166, tempera il divieto
contenuto nel medesimo c. 9 con una
disposizione derogatoria, di diritto
transitorio, consentendo ai soggetti
affidatari diretti di servizi pubblici
locali di concorrere su tutto il territorio
nazionale alla prima gara successiva alla
cessazione del servizio, avente ad oggetto i
servizi da essi forniti.
Il problema ermeneutico è rappresentato
principalmente dal significato attribuibile
all'espressione "prima gara successiva
alla cessazione del servizio"; se cioè
essa rilevi sul piano soggettivo
(riguardando l'impresa-concorrente), ovvero
oggettivo (riguardando la prima gara indetta
dalla stazione appaltante dopo
l'introduzione dell'art. 23-bis).
Si ritiene che la norma designi, come
parametro di rilevanza ermeneutica, quello
dell'impresa affidataria. La ratio
della disposizione sembra verosimilmente
quella di evitare che le società che hanno
fornito servizi ad un'amministrazione ed
hanno acquisito esperienza "sul
territorio" siano automaticamente
estromesse dalle gare per l'affidamento
concorrenziale di quei servizi, e non già
quella di elargire a tutti gli affidatari
diretti una moratoria generalizzata.
In altri termini, posto che, a regime, tali
imprese non possono godere, in virtù dei
principi comunitari in materia di tutela
della concorrenza, della possibilità di
ottenere affidamenti diretti e di
partecipare a gare in libero mercato, si è
ritenuto che l'esclusione di tali soggetti
dalle gare indette dalle amministrazioni per
i servizi da essi già forniti, avrebbe
creato un'improvvisa soluzione di
continuità, foriera di disparità di
trattamento alla rovescia, con la
cancellazione ex abrupto degli investimenti
effettuati specialmente nell'ambito
territoriale di riferimento.
---------------
Non compatibile con il principio di parità
concorrenziale la tesi secondo cui dovrebbe
ritenersi consentita la partecipazione alle
prime gare, bandite da qualsivoglia Comune
sul territorio, da parte di tutti gli
affidatari diretti, in quanto tale soluzione
non farebbe altro che protrarre nel tempo la
loro condizione di privilegio, senza
produrre alcun vantaggio nella prospettiva
della concorrenza per il mercato, obiettivo
della norma in esame.
Diversa è la situazione del precedente
gestore, anche affidatario diretto, cui in
via transitoria si consente di partecipare
per salvaguardare il patrimonio gestionale
acquisito; ed infatti la volontà della
norma, in qualche misura compromissoria, è
quella di superare gli affidamenti diretti,
e non già di eliminare le imprese
affidatarie dirette.
Tale sembra essere l'interpretazione
proporzionata e ragionevole, ed anche
costituzionalmente orientata, dell'ultimo
periodo del c. 9, dell'art. 23-bis, del d.l.
25.06.2008, n. 112, inserita nel contesto di
una disposizione che persegue il dichiarato
scopo di tutelare la concorrenza, evitando
dunque che soggetti dotati di privilegi
operino in mercati concorrenziali,
costituendo inevitabili fattori di
distorsione della stessa (TAR Umbria, Sez.
I,
sentenza 31.05.2011 n. 152 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Il danno da perdita di chance
non è liquidabile in via equitativa.
Il danno da perdita di chance, come
chiarito dalla giurisprudenza, consiste in
un danno patrimoniale relativo alla perdita
non di un vantaggio economico, ma della mera
possibilità di conseguirlo secondo una
valutazione ex ante collegata al
momento in cui il comportamento illegittimo
ha inciso su tale possibilità; pertanto si
configura come danno attuale e risarcibile,
sempreché ne sia provata la sussistenza
anche secondo un calcolo di probabilità o
per presunzioni, sicché alla mancanza di
tale prova non è possibile sopperire con una
valutazione equitativa ai sensi dell’art.
1226 cod. civ., infatti diretta a
fronteggiare l’impossibilità di provare non
l’esistenza del danno risarcibile, bensì del
suo esatto ammontare.
In altri termini, la perdita di chance
di rilievo risarcitorio, in quanto entità
patrimoniale giuridicamente ed
economicamente suscettibile di autonoma
valutazione e non mera aspettativa di fatto
o generiche ed astratte aspirazioni di
lucro, deve correlarsi a dati reali, senza i
quali risulta impossibile il calcolo
percentuale di possibilità delle concrete
occasioni di conseguire un determinato bene,
e che dunque il danneggiato ha l’onere di
fornire (cfr. Cons. St., Sez. IV, 27.11.2010
n. 8253). (Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza
30.05.2011 n. 3243 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Annullamento nulla-osta
paesaggistico da parte della
Soprintendenza per i beni architettonici.
Va ribadito il costante principio
giurisdizionale, condiviso dal Collegio,
secondo il quale nel sistema successivo
all'entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del
2004 la comunicazione di avvio del
procedimento finalizzato all'annullamento
del nulla-osta paesaggistico da parte del
competente organo statale non richieda più
la previa comunicazione ex art. 7 legge n.
241 del 1990.
Tanto, in base al disposto di cui al comma 1
dell'art. 159, d.lgs. 42, cit. il quale
(innovando in parte qua rispetto al
previgente disposto di cui all'art. 151 del
d.lgs. 490 del 1999) stabilisce in modo
espresso che la comunicazione relativa
all'avvenuto rilascio del nulla osta da
parte dell'Ente a ciò competente “costituisce
avviso di inizio di procedimento, ai sensi e
per gli effetti della legge 07.08.1990, n.
241” (per tutte, Cons. Stato, sez. VI,
27.08.2010, n. 5980) (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza
30.05.2011 n. 3223 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La stazione appaltante
ha l’obbligo di comunicare l’aggiudicazione.
La sentenza impugnata merita conferma
laddove ha respinto l’eccezione,
argomentando dalla mancata comunicazione
dell’aggiudicazione, che costituisce preciso
obbligo della stazione appaltante secondo
quanto dispone l’art. 79, comma 5, d.lgs. n.
163 del 2006. Tale norme impone
all’amministrazione procedente di comunicare
l'aggiudicazione, “tempestivamente e
comunque entro un termine non superiore a
cinque giorni, all'aggiudicatario, al
concorrente che segue nella graduatoria, a
tutti i candidati che hanno presentato
un'offerta ammessa in gara, nonché a coloro
la cui offerta sia stata esclusa, se hanno
proposto impugnazione avverso l'esclusione,
o sono in termini per presentare detta
impugnazione”.
Pertanto, come è stato già stabilito (cfr.
Consiglio Stato, sez. VI, 11.11.2008, n.
5624), essendo puntualmente disciplinata la
fase di comunicazione dell'atto di
aggiudicazione, la legale conoscenza dello
stesso non può ricondursi a forme diverse di
partecipazione dell'esito del concorso, né
può esserne valorizzata la conoscenza
comunque conseguita dall’interessato, al
fine di calcolare la tempestività
dell’impugnazione (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza
30.05.2011 n. 3222 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Per impugnare l’esclusione da
una procedura concorsuale basta la notifica
del ricorso alla stazione appaltante.
Nelle gare di appalto pubblico, invero, il
ricorso avverso il provvedimento di
esclusione non deve essere notificato ad
alcun controinteressato, salvo che lo stesso
non sia intervenuto quando la gara si era
già conclusa, nel qual caso il gravame deve
essere notificato all'impresa aggiudicataria
(C.g.a., 29.01.2007 n. 7; Cons. Stato,
sez. V, 28.05.2005 n. 5200); per
l'ammissibilità del ricorso è sufficiente,
sempre che si tratti di provvedimento di
esclusione adottato prima
dell'aggiudicazione, che il ricorso sia
stato notificato alla stazione appaltante,
non sussistendo alcun onere per l'impresa
esclusa di seguire gli sviluppi del
procedimento al quale è ormai estranea ed
impugnare gli atti conseguenti, ricercando i controinteressati successivi, salva la
facoltà per questi ultimi di proporre
l'opposizione di terzo.
Infatti, nelle procedure ad evidenza
pubblica, la posizione di controinteressato,
ossia del titolare di un interesse
qualificato alla conservazione dell'atto,
emerge esclusivamente al momento
dell'aggiudicazione, con la conseguenza che
l'esclusione dalla gara che sia stata
pronunciata in un momento anteriore vulnera
soltanto l'interesse di colui che sia stato
estromesso dalla gara, ma non incide sotto
alcun profilo neppure potenziale su quello
degli altri partecipanti alla gara.
Da quanto detto consegue che il ricorso
contro l'esclusione da una procedura
concorsuale è rettamente introdotto con la
notifica alla sola stazione appaltante,
mentre solo quando la gara si sia già
conclusa il ricorso deve essere notificato
all'impresa aggiudicataria al fine di
consentirle la difesa della posizione di
futura contraente dell'Amministrazione che
ha indetto la pubblica gara.
Pertanto, nel caso di specie, non sono
configurabili i presupposti affinché
l’aggiudicatario provvisorio debba essere
già considerato quale controinteressato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
27.05.2011 n. 3193 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
pubblica amministrazione può avvalersi
dell’istituto dell’accesso ai documenti nei
confronti del concessionario quando il
documento sia di contenuto scorporabile.
L’azione esperita dal Comune appellante,
nella pronuncia in commento, era intesa ad
ottenere, dall’affidataria del servizio
pubblico di distribuzione del gas nel suo
territorio, l’ostensione della
documentazione necessaria a permettere di
indire la gara che lo stesso Ente aveva
deciso di svolgere ai fini del nuovo
affidamento del servizio.
Per potere
impostare la procedura di gara il Comune
aveva bisogno di ottenere dal gestore in
uscita la documentazione riguardante la
struttura del servizio e lo stato dei
relativi impianti, stante la necessità di
fornire ai partecipanti gli elementi loro
occorrenti ai fini della formulazione delle
offerte. Da qui la sua richiesta di accesso,
respinta dalla ditta resistente poiché i
dati richiesti si riferivano ad un impianto
unitario di distribuzione servente più
comuni; il rilascio delle informazioni
domandate, pertanto, avrebbe pregiudicato il
corretto svolgimento della futura gara
d’ambito e leso anche l’interesse della
società stessa a parteciparvi, in quanto
sarebbero stati previamente svelati alcuni
dati riservati.
Il Comune ricorrente
sottolineava, in particolare: la propria
necessità di indicare nel bando di gara lo
stato di consistenza e le caratteristiche
degli impianti oggetto di gara, onde
permettere ai concorrenti di formulare
un’offerta; la valenza ostruzionistica del
diniego di accesso impugnato; la circostanza
che l’esibizione dei documenti richiesti
doveva reputarsi dovuta dall’attuale gestore
sia sul piano del rapporto tra concedente e
concessionario di pubblico servizio,
relazione implicante un dovere di
collaborazione del secondo con il primo, sia
sulla scorta del principio di leale
cooperazione istituzionale previsto
dall’art. 22, comma 5, della legge n.
241/1990 ed estensibile anche ai gestori di
servizi, e sia comunque, infine, in base al
principio del diritto di accesso agli atti
amministrativi.
Secondo i giudici del
Consiglio di Stato, sul punto, riveste
carattere prioritario la disamina del
richiamo che parte appellante fa al
principio di leale cooperazione
istituzionale di cui all’art. 22, comma 5,
della legge n. 241/1990 (“L’acquisizione di
documenti amministrativi da parte di
soggetti pubblici … si informa al principio
di leale cooperazione istituzionale”).
Gli
stessi giudici, infatti, osservano che la
menzione legislativa del principio della
“leale cooperazione istituzionale” non può
essere intesa come preclusiva
dell’applicabilità dell’istituto
dell’accesso nei confronti dei soggetti
pubblici aspiranti ad un’acquisizione
documentale. Specialmente in presenza di un
“sistema” di soggetti pubblici tanto
pletorico e disarmonico come quello
nazionale, non vi sarebbe infatti ragione di
ritenere riservato ai privati tale istituto,
che offre il non trascurabile vantaggio di
uno statuto di precise garanzie e di tutela
giuridica anche in sede giudiziale, e di
abbandonare invece in toto i soggetti
pubblici che siano interessati ad ottenere
un’ostensione documentale alle incognite di
una collaborazione spontanea
–inevitabilmente non sempre sollecita e
puntuale- dell’Amministrazione di volta in
volta legittimata passiva.
Non pare invero
dubbio, affermano i giudici di Palazzo
Spada, che l’esigenza di accesso avvertita
da una Pubblica amministrazione debba
disporre di una tutela di base almeno
equivalente a quella accordata dalle norme
generali del diritto pubblico alla
generalità dei consociati, a meno di non
incorrere in un inopinato quanto illogico
ribaltamento di rapporti, in fatto di
intensità di tutela, tra interessi privati e
pubblici. Atteso allora che l’art. 22, comma
1, lett. b) della legge n. 241/1990 annovera
pur sempre tra i soggetti “interessati”
anche i portatori di interessi pubblici,
anche un “soggetto pubblico” può quindi
avvalersi, ove ritenga, dell’istituto
dell’accesso ai documenti (in tal senso,
almeno in parte, cfr. C.d.S., V, n. 5573 del
07.11.2008).
Le quante volte ciò
accada, il richiamo legislativo al principio
di leale cooperazione istituzionale non è
però privo di valenza. Tale canone, pur
nella sua elasticità, esige comportamenti
coerenti e non contraddittori, un confronto
su basi di correttezza e apertura alle
altrui posizioni e al contemperamento degli
interessi, e, d’altro canto, non tollera
atteggiamenti dilatori, pretestuosi,
ambigui, incongrui o insufficientemente
motivati (cfr., tra le tante, C.Cost. n. 379
del 27/07/1992 e n. 242 del 18/07/1997).
Lo
stesso principio è allora suscettibile di
rilevare non solo come criterio orientativo
per l’interpretazione specifica delle norme
generali in tema di accesso, ma anche quale
regola ulteriore, complementare e di diritto
speciale, ossia come canone aggiuntivo per
stabilire se la singola richiesta ostensiva
del soggetto pubblico debba avere corso.
Canone che acquista precisione di contorni
specialmente se calato all’interno del
particolare modulo relazionale di diritto
pubblico che (eventualmente) intercorra tra
i soggetti attivo e passivo dell’accesso, e
che integra una cornice di particolare
ausilio per decifrare la misura della
cooperazione istituzionale dovuta. Uno degli
schemi relazionali che possono presentarsi,
a questo riguardo, può essere anche quello
tipicamente intercorrente tra concedente e
concessionario (benché questo sia
normalmente una comune società di capitali,
piuttosto che un’Amministrazione pubblica).
Il richiedente l’accesso è infatti designato
dall’art. 22, comma 5, legge cit., come
“soggetto pubblico”, mentre nella veste di
possibile soggetto passivo dello stesso
accesso vengono in rilievo tutte le
categorie individuate dall’art. 23 della
legge n. 241, ivi inclusi, quindi, anche i
gestori di pubblici servizi. Il richiamo
alla “leale cooperazione istituzionale” vale
perciò anche nei confronti di questi ultimi,
avuto riguardo alla loro pur limitata
posizione pubblicistica (che è lo stesso
fattore, peraltro, che ha giustificato la
loro sottoposizione all’obbligo di dare
accesso alla stessa stregua delle PP.AA., in
forza dell’art. 23 legge cit.).
Di riflesso,
e più operativamente, mentre l’art. 2, comma
2, ult. periodo, del d.P.R. n. 184 del 2006
detta la regola generale che “La pubblica
amministrazione non è tenuta ad elaborare
dati in suo possesso al fine di soddisfare
le richieste di accesso”, nella peculiare
prospettiva, invece, della “leale
cooperazione istituzionale”, e avuto
riguardo alla natura del rapporto specifico
corrente tra le parti, si deve riconoscere
che il compimento di una ragionevole
attività di elaborazione può non essere in
concreto rifiutabile. Ebbene, le
considerazioni appena svolte portano a
ritenere che il canone della leale
cooperazione, nello specifico, non consenta
al concessionario Gas di sottrarsi
–invocando le regole generali- all’attività
di elaborazione occorrente a scorporare, in
tutti i casi in cui ciò sia possibile, i
dati documentali di interesse
dell’Amministrazione richiedente da quelli
complessivamente attinenti all’impianto
(avvalendosi eventualmente anche della
collaborazione offerta dalla richiedente per
la bisogna).
Quando, cioè, il documento
richiesto in accesso esista, ma si riferisca
unitariamente all’intero impianto, il Comune
ha in linea di principio titolo ad ottenere
lo scorporo ed estrazione dei dati
documentali di proprio interesse, cui abbia
limitato la propria richiesta ostensiva, da
quelli che si riferiscono allo svolgimento
del servizio negli altri Comuni. Quando,
invece, il documento non sia di contenuto
scorporabile, e la domanda abbia ad oggetto
i soli dati concernenti l’ambito comunale
della richiedente, l’accesso non potrà
trovare corso.
E la richiesta ostensiva
neppure potrà trovare corso, come si è
visto, allorché la documentazione richiesta
non esista (neppure in proporzioni più ampie
e con contenuti aggregati), ma occorrerebbe
costruirla ab origine attraverso un’apposita
istruttoria, atteso che l’istituto
dell’accesso deve pur sempre avere ad
oggetto documenti, e non pure informazioni
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza
27.05.2011 n. 3190 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso agli atti ed
individuazione dei controinteressati.
Poiché la richiesta di accesso non deve
indicare in modo puntuale i documenti, in
quanto molto spesso il privato non sa in
quali fonti siano contenute le informazioni
ricercate, spetta proprio
all'Amministrazione individuare i documenti
recanti le informazioni richieste, sempre
che sussistano i presupposti per consentire
l'accesso.
.. occorre misurarsi con il disposto
dell'art. 22, comma 1, lett. c), legge n.
241/1990 (come sostituito con la legge n.
15/2005).
Ai sensi di tale previsione, per "controinteressati"
in materia di accesso devono intendersi "tutti
i soggetti, individuati o facilmente
individuabili in base alla natura del
documento richiesto, che dall'esercizio
dell'accesso vedrebbero compromesso il loro
diritto alla riservatezza".
Prima dell’avvento di tale norma, la
giurisprudenza tendeva a considerare come
controinteressati tutti i soggetti
determinati cui –semplicemente- si
riferissero i documenti richiesti in accesso
(C.d.S., V, 02.12.1998, n. 1725; VI,
08.07.1997, n. 1117; IV, 11.06.1997, n. 643;
VI, 05.10.1995, n. 1085; VI, 20.05.1995, n.
506; VI, 06.02.1995, n. 71; IV, 15.09.1994,
n. 713; IV, 07.03.1994, n. 216; A.P., n. 16
del 1999).
La novella definizione appena riportata ha
però un’indubbia portata innovativa, in
quanto impone di riconoscere qualità di
controinteressato (cfr. sul punto C.d.S., VI,
n. 3601 del 2007) non già a tutti coloro
che, a qualsiasi titolo, siano nominati o
comunque coinvolti nel documento oggetto
dell'istanza ostensiva, ma, appunto, solo a
coloro che per effetto dell'ostensione
vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla
riservatezza. Non basta, perciò, che taluno
venga chiamato in qualche modo in causa dal
documento in richiesta, ma occorre in capo a
tale soggetto un quidpluris, vale a
dire la titolarità di un diritto alla
riservatezza sui dati racchiusi nello stesso
documento.
La veste di controinteressato in tema di
accesso è una proiezione, perciò, del valore
della riservatezza, e non già della mera
oggettiva riferibilità di un dato alla sfera
di un certo soggetto.
Se ne desume che non tutti i dati riferibili
ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti
ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto
ai quali sussista, per la loro inerenza alla
personalità individuale, o per i pregiudizi
che potrebbero discendere da una loro
diffusione, una precisa e ben qualificata
esigenza di riserbo.
---------------
La
giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire
che, poiché la richiesta di accesso non deve
indicare in modo puntuale i documenti, in
quanto molto spesso il privato non sa in
quali fonti siano contenute le informazioni
ricercate, spetta proprio
all'Amministrazione individuare i documenti
recanti le informazioni richieste, sempre
che sussistano i presupposti per consentire
l'accesso (C.d.S., VI, 04.09.2007, n. 4638 e
13.07.2006, n. 4505).
Ed è stato altresì precisato, nello stesso
spirito collaborativo, che ciò che rileva ai
fini dell'accoglimento dell'istanza di
accesso non è il "nomen iuris" di un
determinato atto o documento
dell'Amministrazione, ma è l'informazione in
esso contenuta, indipendentemente dal modo
in cui l'atto sia stato denominato: di
conseguenza, al di là del termine con cui
siano stati indicati gli atti cui si intende
accedere, l'accesso deve essere consentito a
tutti gli atti esistenti contenenti le
informazioni indicate (C.d.S., VI,
26.01.2006, n. 229) (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza
27.05.2011 n. 3190
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulla legittimità dell'istanza di
accesso, da parte di un Comune, alla
documentazione necessaria ad indire una
gara, da svolgere ai fini di un nuovo
affidamento del servizio di distribuzione
del gas, nei confronti dell'impresa attuale
affidataria.
E' legittima l'istanza di accesso alla
documentazione necessaria ad indire una
gara, da svolgere ai fini di un nuovo
affidamento del servizio di distribuzione
del gas, da parte di un Ente Comunale nei
confronti dell'impresa attuale affidataria.
L'esigenza di accesso avvertita da una P.A.,
deve disporre di una tutela di base
equivalente a quella accordata dalle norme
generali di diritto pubblico alla generalità
dei consociati. Atteso che l'art. 22, c. 1,
lett. b), l. n. 241/1990, annovera tra i
soggetti legittimati anche i portatori di
interessi pubblici, anche un "soggetto
pubblico" può quindi avvalersi,
dell'istituto di accesso ai documenti.
Il principio di leale cooperazione
istituzionale, rileva non solo come criterio
orientativo per l'interpretazione specifica
delle norme generali in tema di accesso, ma
anche quale canone aggiuntivo per stabilire
se la singola richiesta ostensiva del
soggetto pubblico debba, o meno, avere
corso. E ciò, soprattutto, se calato
all'interno del particolare modulo
relazionale di diritto pubblico
intercorrente tra i soggetti attivo e
passivo dell'accesso. Nell'ipotesi di
rapporto tra concedente e concessionario, il
richiedente l'accesso è infatti designato
dall'art. 22, c. 5, legge cit., quale
soggetto pubblico, mentre nella veste di
possibile soggetto passivo dello stesso
accesso vengono in rilievo tutte le
categorie individuate dall'art. 23, l. n.
241/1990, ivi inclusi, quindi, anche i
gestori di pubblici servizi.
Il richiamo alla "leale cooperazione
istituzionale" vale perciò anche nei
confronti di questi ultimi. Di riflesso,
mentre l'art. 2, c. 2, ult. periodo, del
d.P.R. n. 184/2006 detta la regola generale
secondo cui la P.A. non è tenuta ad
elaborare dati in suo possesso, al fine di
soddisfare le richieste di accesso, nella
peculiare prospettiva, invece, della "leale
cooperazione istituzionale", si deve
riconoscere che il compimento di una
ragionevole attività di elaborazione può non
essere in concreto rifiutabile.
Pertanto, il canone della leale
cooperazione, nel caso di specie, non
consente all'affidataria di sottrarsi
all'attività di elaborazione occorrente a
scorporare i dati documentali di interesse
della P.A. richiedente (Consiglio di Stato,
Sez. V,
sentenza 27.05.2011 n. 3190 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Le dichiarazioni relative
all'insussistenza di sentenze di condanna
passate in giudicato, per reati che incidano
sull'affidabilità dei concorrenti, non
implicano l'insussistenza di provvedimenti
di condanna di cui all'art. 45, par. 1, dir.
CE 2004/18.
Secondo consolidata giurisprudenza
amministrativa, in materia di gare
d'appalto, le dichiarazioni, rese dai
concorrenti, di insussistenza a proprio
carico di sentenze di condanna passate in
giudicato, per reati che incidano
sull'affidabilità morale e professionale
delle imprese stesse, non implicano anche
l'insussistenza di provvedimenti di condanna
per uno o più reati di partecipazione ad
un'organizzazione criminale, corruzione,
frode, riciclaggio, quali definiti dagli
atti comunitari citati all'articolo 45, par.
1, dir. CE 2004/18.
L'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, distingue
infatti due categorie di reati: quelli di
cui al predetto art. 45, e quelli definiti
dalla stessa norma senza individuare precise
fattispecie criminose come "reati gravi
in danno dello Stato o della Comunità che
incidono sulla moralità professionale".
Le rispettive condanne comportano
conseguenze diverse, in quanto le prime
costituiscono causa automatica di
esclusione, laddove le seconde, invece,
lasciano alla stazione appaltante un ampio
margine di apprezzamento sia sulla incidenza
del reato sulla moralità professionale, sia
in ordine all'offensività per lo Stato o per
la Comunità, sia sulla gravità del fatto.
Non è peraltro consentito, nel caso di
specie, ricorrere all'integrazione
documentale, ciò in quanto, trattandosi di
dichiarazione mancante, l'amministrazione
non vanta spazi di apprezzamento
discrezionale (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 27.05.2011 n. 1325 -
link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
L’impugnazione delle clausole del
bando è ammissibile solo se l'impresa
interessata ha partecipato alla gara.
Secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, formatosi sulla scorta
della decisione della Adunanza Plenaria n. 1
del 29.01.2003, l’impugnazione immediata
delle clausole del bando è ammissibile solo
in presenza di due inderogabili condizioni
concorrenti: che l'impresa interessata abbia
presentato una rituale domanda di
partecipazione alla gara; che le clausole
contestate definiscono in modo puntuale i
requisiti soggettivi e/o oggettivi di
partecipazione, impedendo, in modo assoluto,
la partecipazione a determinati soggetti
(massima tratta da
www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR
Sicilia-Palermo, Sez. I,
sentenza 27.05.2011 n. 1003 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazioni "estreme" senza
innovazioni.
La ristrutturazione, se
può spingersi fino all'estremo della
demolizione e successiva ricostruzione del
fabbricato, sconta però in tal caso il
vincolo che il nuovo edificio deve essere
del tutto fedele a quello preesistente.
In relazione alla previsione di cui all’art.
31, comma 1, lett. d), della legge
05.08.1978, n. 457 –il quale definiva lavori
di ristrutturazione edilizia "quelli
rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme sistematico di opere che
possono portare ad un organismo edilizio in
tutto o in parte diverso dal precedente.
Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi
costitutivi dell'edificio, la eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi
impianti"- la giurisprudenza aveva
ripetutamente chiarito che, ai sensi della
norma avanti citata, il concetto di
ristrutturazione edilizia comprendeva anche
la demolizione seguita dalla fedele
ricostruzione del manufatto, purché tale
ricostruzione assicurasse la piena
conformità di sagoma, di volume e di
superficie tra il vecchio ed il nuovo
manufatto e venisse, comunque, effettuata in
un tempo ragionevolmente prossimo a quello
della demolizione (cfr. fra le tante, Cons.
St., Sez. V, 03.04.2000 n. 1906).
È poi intervenuto, a definire siffatto
intervento edilizio, l'art. 3 del D.P.R.
06.06.2001 n. 380, che, nel testo
originario, menzionava il criterio della "fedele
ricostruzione" come indice tipico della
tipologia di ristrutturazione edilizia
consistente nella demolizione e
ricostruzione.
Per effetto, poi, della normativa introdotta
dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002 n. 301, il
vincolo della fedele ricostruzione è venuto
meno, così estendendosi ulteriormente il
concetto della ristrutturazione edilizia,
che, per quanto riguarda gli interventi di
ricostruzione e demolizione ad essa
riconducibili, resta distinta
dall'intervento di nuova costruzione per la
necessità che la ricostruzione corrisponda,
quanto meno nel volume e nella sagoma, al
fabbricato demolito (cfr. Cons. St., Sez. IV,
28.07.2005 n. 4011; Cons. St., V,
30.08.2006, n. 5061).
In altri termini, come da ultimo ribadito
(cfr. Cons. St., Sez. V, 07.04.2011 n. 2180)
la ristrutturazione, se può spingersi fino
all'estremo della demolizione e successiva
ricostruzione del fabbricato, sconta però in
tal caso il vincolo che il nuovo edificio
deve essere del tutto fedele a quello
preesistente .
Nel caso di specie, se così è deve
escludersi che l’edificio realizzato con il
permesso di costruire possa in alcun modo
essere ricollegato al precedente, essendosi
trattato della realizzazione di una nuovo
edificio, distinto e diverso dal precedente,
sicché si è prodotta una soluzione di
continuità fra i due edifici (commento
tratto da www.ipsoa.it - TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 27.05.2011 n. 791 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: I
consiglieri comunali hanno diritto di
accesso alla registrazione audio delle
sedute consiliari anche quando non è
prevista dal regolamento.
Il ricorrente, nella sua qualità di
consigliere di un comune piemontese, ha
chiesto al Sindaco di quel Comune, la
trascrizione completa della registrazione
riguardante una delibera [consiliare], al
fine di verificarne la corrispondenza con
quanto trascritto nel relativo verbale.
Il
Sindaco, ha respinto l’istanza sul rilievo
che, “in assenza di specifiche norme al
riguardo nel vigente Regolamento del
Consiglio Comunale, le registrazioni su
supporto magnetico delle sedute di tale
consesso sono assimilabili a semplici
appunti, non ancora tradotti in atti, che il
segretario utilizza per la formazione del
verbale della seduta, con la conseguenza che
la registrazione non può qualificarsi come
documento amministrativo, ai sensi dell’art.
22, comma 2, della legge 241/1990, dovendosi
attribuire tale qualità solo al verbale
della seduta”.
L’interessato, pertanto, ha
adito il Tribunale amministrativo di Torino
al fine di ottenere l’annullamento dei
predetti dinieghi e la condanna del Comune
all’esibizione della registrazione
magnetofonica richiesta, con facoltà per
l’interessato di estrarne copia. Il ricorso,
ad avviso dei giudici del Tribunale
amministrativo piemontese, è fondato,
infatti, la registrazione sonora delle
sedute consiliari è suscettibile di essere
inclusa nella nozione di “documento
amministrativo” rilevante, ai sensi
dell’art. 22, comma 1, lettera d), della L.
241/1990, ai fini dell’esercizio del diritto
di accesso, dal momento che in tale nozione
è espressamente ricompresa, tra l’altro,
“ogni rappresentazione…elettromagnetica… del
contenuto di atti…detenuti da una pubblica
amministrazione” (in senso analogo, con
riferimento a fattispecie similari: Cons.
Stato, sez. IV, 04.07.1996, n. 820; TAR
Lombardia Milano, sez. III, 13.03.2009,
n. 1914; TAR Umbria Perugia, sez. I, 30.01.2009, n. 21; TAR Piemonte Torino,
sez. II, 18.04.2006, n. 1862).
Del
resto, continuano i giudici sabaudi, anche a
prescindere dalla predetta considerazione,
appare assorbente il rilievo che il
ricorrente, in quanto consigliere comunale,
ha un diritto di accesso più esteso e più
tutelato di quello spettante alla generalità
dei cittadini, posto che l'art. 43, comma 2,
del t.u. n. 267/2000 prevede che “i
consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all'espletamento del proprio mandato”.
Ciò
significa che il diritto di accesso dei
consiglieri comunali non è strettamente
limitato agli atti qualificabili come
“documento amministrativo” in senso stretto,
ma si estende ad ogni ulteriore “notizia” o
“informazione” in possesso degli uffici che
possa essere di utilità all'espletamento del
loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare con piena cognizione
la correttezza e l'efficacia dell'operato
dell'Amministrazione, nonché per esprimere
un voto consapevole sulle questioni di
competenza del Consiglio e per promuovere,
anche nell'ambito del Consiglio stesso, le
iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale.
È vero che la registrazione audio delle
sedute consiliari non è richiesta dalla
legge e neppure (nel caso in esame) dal
regolamento consiliare, ma se di fatto gli
uffici comunali vi provvedono non si vede
per quale ragione le registrazioni non
debbano essere messe a disposizione dei
membri del consiglio; né si può negare che i
consiglieri comunali abbiano un apprezzabile
interesse ad avere accesso alle
registrazioni, se non altro per poter
verificare -come nella specie in questione- la correttezza della verbalizzazione
ufficiale, prima di approvarla; ma anche, e
più in generale, per poter disporre
nell’espletamento del proprio mandato di una
documentazione più completa ed accurata
(commento tratto da
www.documentazione.ancitel.it - TAR Piemonte,
Sez. I,
sentenza
27.05.2011 n. 563 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Accesso, il consigliere può
disporre delle registrazioni audio delle
sedute.
Il consigliere comunale
ha diritto ad ottenere la trascrizione
completa della registrazione riguardante una
delibera consiliare.
Lo ha riconosciuto il TAR Piemonte, Sez. I,
nella
sentenza 27.05.2011 n. 563.
Il diritto di accesso del consigliere
comunale trova riferimento all’art. 43,
comma 2, D.Lgs. 267/2000 (testo unico degli
enti locali) nel punto in cui prevede che i
consiglieri comunali e provinciali hanno
diritto di ottenere dagli uffici,
rispettivamente, del comune e della
provincia, nonché dalle loro aziende ed enti
dipendenti, tutte le notizie e le
informazioni in loro possesso, utili
all’espletamento del proprio mandato. Si
tratta dunque di un diritto di accesso più
esteso e più tutelato di quello spettante
alla generalità dei cittadini.
Infatti, secondo quanto interpretato dalla
giurisprudenza la previsione dell’art. 43
citato sta ad intendere che il diritto di
accesso dei consiglieri comunali non è
strettamente limitato agli atti
qualificabili come documento amministrativo
in senso stretto, ma si estende ad ogni
ulteriore notizia o informazione in possesso
degli uffici che possa essere di utilità
all’espletamento del loro mandato. Il fine è
quello di permettere di valutare con piena
cognizione la correttezza e l’efficacia
dell’operato dell’Amministrazione, nonché di
esprimere un voto consapevole sulle
questioni di competenza del Consiglio e allo
stesso tempo, promuovere, anche nell’ambito
del Consiglio stesso, le iniziative che
spettano ai singoli rappresentanti del corpo
elettorale locale (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
04.07.1996, n. 820; TAR Lombardia Milano,
sez. III, 13.03.2009, n. 1914; TAR Umbria
Perugia, sez. I, 30.01.2009, n. 21; TAR
Piemonte Torino, sez. II, 18.04.2006, n.
1862).
Nella sentenza in rassegna, il collegio
piemontese ha ritenuto la registrazione
sonora delle sedute consiliari suscettibile
di essere inclusa nella nozione di documento
amministrativo rilevante, ai sensi dell’art.
22 L. 241/1990 (legge sul procedimento
amministrativo), ai fini dell’esercizio del
diritto di accesso, dal momento che in tale
nozione è espressamente ricompresa, tra
l’altro, ogni rappresentazione
elettromagnetica del contenuto di atti
detenuti da una pubblica amministrazione.
Se è vero che la registrazione audio delle
sedute consiliari non è richiesta dalla
legge e neppure (come nella fattispecie
all’esame del Tar) dal regolamento
consiliare, tuttavia -osserva il collegio- ,
se di fatto gli uffici comunali vi
provvedono, non si vede per quale ragione le
registrazioni non debbano essere messe a
disposizione dei membri del consiglio; né si
può negare -prosegue l’organo giudicante-
che i consiglieri comunali abbiano un
apprezzabile interesse ad avere accesso alle
registrazioni, se non altro per poter
verificare la correttezza della
verbalizzazione ufficiale, prima di
approvarla; ma anche, e più in generale, per
poter disporre nell’espletamento del proprio
mandato di una documentazione più completa
ed accurata (commento tratto da
www.diritto.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il porticato è un’opera che, in
quanto destinata ad incrementare la
superficie del manufatto cui inerisce, ne
costituisce una sua parte, condividendone
così la natura.
La Sezione condivide quell’orientamento
giurisprudenziale secondo cui il porticato
non costituisce pertinenza, ma un’opera che,
in quanto destinata ad incrementare la
superficie del manufatto cui inerisce, ne
costituisce una sua parte, condividendone
così la natura, nella fattispecie scrutinata
di intervento di nuova costruzione
(Consiglio di Stato IV Sezione 13.10.2010 n.
7481); d’altronde, il porticato risulta
privo di quel carattere funzionale di
autonomia e indipendenza necessario per
poterlo qualificare come pertinenza.
Né può essere accolta la tesi prospettata
dalla ricorrente, circa la natura di opera
accessoria dei predetti porticati e quindi
la loro non computabilità ai fini del volume
complessivo del fabbricato; al riguardo,
secondo giurisprudenza anche di questa
Sezione, per porticato deve intendersi una
struttura edilizia costituita da un piano di
copertura sostenuto da pilastri o altri
sistemi di supporto, con apertura su almeno
tre lati, che ha una funzione accessoria
rispetto al corpo di fabbrica principale e,
quanto alla destinazione, assolve la
funzione di protezione degli accessi
all’edificio (o a parte di esso) dagli
agenti atmosferici, ovvero di temporaneo
deposito di cose e stazionamento dei
residenti (TAR Campania Sezione II,
08.05.2009 n. 2457).
Ebbene, con riferimento a tale impostazione
i porticati de quibus, anche in base
ai dati che emergono dal progetto, non
assolvono affatto ad una funzione
accessoria, essendo invece destinati ad
essiccatoi e quindi proprio all’esercizio
dell’attività agricola cui la realizzazione
dell’intervento è preordinata; ne consegue
che il loro volume deve conteggiarsi in
quello complessivo del fabbricato (TAR
Campania Napoli Sezione IV, n. 11048 del
2003 e n. 10593 del 2005).
Infine, nemmeno può essere invocata
l’applicazione dell’art. 37, sesto comma
lettera g) del regolamento edilizio comunale
che esclude i porticati dal computo delle
superfici lorde, trattandosi di una
disposizione su cui è destinata a prevalere,
ai sensi dell’art. 3, secondo comma del
d.p.r. 06.06.2001 n. 380, la diversa
definizione di porticato come evincibile dal
primo comma del medesimo art. 3 secondo i
richiamati arresti giurisprudenziali (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza
26.05.2011 n. 2862
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Bando di gara. La rettifica
va pubblicizzata con le stesse forme con cui
è stata data pubblicità al bando.
Ogni rettifica del contenuto del bando di
gara, dove tale concetto va esteso anche
agli atti allegati, “è priva di efficacia
nei confronti delle imprese partecipanti
alla gara ove non sia portata a conoscenza
delle stesse nelle medesime forme attraverso
le quali è stata data pubblicità al bando”.
Tale statuizione è espressione del principio
di reciproca correttezza che deve improntare
i rapporti tra stazione appaltante ed
imprese partecipanti alla selezione,
correttezza idonea a fondare l’affidamento
del privato.
La possibilità che, conseguentemente, le
modifiche alla disciplina di gara possano
avere forme di pubblicità attenuata, sebbene
non possa escludersi a priori, deve però
essere guardata con disfavore e comunque
giustificata da esigenze cogenti che siano
idonee a giustificare, in astratto ma anche
in concreto, i detti principi che improntano
la disciplina delle procedure ad evidenza
pubblica.
Nel caso in specie, deve quindi ritenersi
non condivisibile l’ipotesi che la semplice
divulgazione di una modifica del
disciplinare sul sito internet della
stazione appaltante possa costituire forma
fattualmente e giuridicamente idonea di
conoscenza.
Infatti, in primo luogo, proprio in
relazione all’evolversi della fattispecie si
è data prova che il meccanismo divulgativo
predisposto si è dimostrato fallace,
adottando un sistema di comunicazione che
non è stato idoneo a permettere l’effettiva
conoscenza dell’intervenuta modificazione.
E, in secondo luogo, perché si è trattato di
un sistema che, in concreto, ha gravato le
imprese partecipanti di un onere di
diligenza ulteriore, del quale è arduo
individuare la fonte normativa, potendosi
richiedere alle imprese un onere
collaborativo solo nei limiti degli
strumenti di legge, salvo voler trasformare
il bando di gara da strumento di autovincolo
della stazione appaltante in semplice atto
introduttivo di una procedura, che
diventerebbe così suscettibile di ulteriori
modifiche anche in assenza di ulteriore
controllo (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza
25.05.2011 n. 3139
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Occupazione appropriativa.
Requisiti per l’indennizzo e risarcimento
dei danni.
In linea generale, il danno spettante al
proprietario ai sensi dell’art. 2043 c.c.,
per illegittima occupazione di un fondo
implica:
a.
l’azione restitutoria del bene o in
alternativa, l’azione risarcitoria per
equivalente conseguente alla perdita
definitiva del terreno, in modo da ristorare
integralmente il bene perduto. Questa è la
fattispecie disciplinata dal comma 1
dell'art. 55 del Testo unico delle
espropriazioni –n. 327/2001 e s.m.i.– nella
quale in base ai principi esattamente
ricordati dall’appellante il ristoro va
commisurato al valore venale per la perdita
dei proprietari del diritto sul bene
dominicale quale che ne sia la natura
(agricola o edificatoria);
b.
un’azione risarcitoria per il mancato
utilizzo del bene per tutto il periodo
dell’illegittima occupazione, la quale è in
sostanza diretta ad indennizzare i
proprietari della perdita dei frutti del
loro terreno, naturali e civili,
conseguenti, ai sensi dell’art. 1148 c.c. a
causa dell’illegittima occupazione.
Entrambe costituiscono la restaurazione
sotto due profili, dell'ordine giuridico
violato, la prima in sostanza concerne il
capitale perduto e, quindi, al valore di
mercato del suolo illegittimamente acquisito
alla mano pubblica, mentre la seconda
concerne i proventi dello stesso o comunque
il pagamento di un’indennità equitativamente
fissata per il periodo di occupazione
illegittima.
Nel caso di specie, posto che nel caso la
Società ricorrente ha implicitamente
rinunciato alla restituzione, l’azione sub
a. è stata azionata innanzi alla competente
Corte di Appello di Bari, che ha disposto
CTU al fine di determinare il valore venale
del bene ai sensi dell’art. 55, 1° co, del
T.U. n. 327/2001.
In tale ambito dunque è evidente che la
pretesa di applicarlo anche alla
restaurazione dei danni derivanti dalla
perdita del bene in conseguenza
dell’occupazione illegittima si
risolverebbe, sotto il profilo processuale
in un “bis in idem” del medesimo
giudizio azionato in sede ordinaria, e sotto
quello sostanziale in un indebito
arricchimento, perché la perdita di un unico
cespite capitale sarebbe sostanzialmente
indennizzato due volte.
In tale scia per la determinazione del
risarcimento dei restanti danni da
occupazione illegittima, si deve fare
riferimento ai canoni comuni operanti in
tema di risarcimento del danno (arg. ex
Cassazione civile, sez. I, 11.02.2008, n.
3189) ed avendo come riferimento il valore
venale dell’immobile.
Al proprietario, per il risarcimento del
danno per l'utilizzazione illegittima del
suolo per tutto il periodo, il risarcimento
ex art. 2043 ben può essere determinato, in
via equitativa, in misura pari agli
interessi legali annualmente calcolati in
relazione al valore venale del bene (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza
25.05.2011 n.
3137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’obbligazione
di pagamento degli oneri concessori sorge
con il rilascio della concessione edilizia e
la giurisprudenza è concorde nel ritenere
che la determinazione del contributo dovuto
per gli oneri in questione debba essere
riferita al momento in cui sorge
l’obbligazione.
Il considerevole lasso di tempo decorso tra
la presentazione della domanda di sanatoria
ed il rilascio della concessione non può
essere utilmente valorizzato nell’ottica
della individuazione di decorrenze del
termine per la formazione del
silenzio-assenso (e, così, del decorso della
prescrizione) diverse da quelle
normativamente indicate né per sollecitare
una non meglio specificata “giusta
mediazione” che tenga conto delle tariffe
eventualmente più favorevoli esistenti
all’epoca della presentazione della domanda
di sanatoria.
L’obbligazione di pagamento degli oneri
concessori sorge con il rilascio della
concessione edilizia e la giurisprudenza è
concorde nel ritenere che la determinazione
del contributo dovuto per gli oneri in
questione debba essere riferita al momento
in cui sorge l’obbligazione.
In tale contesto, il considerevole lasso di
tempo decorso tra la presentazione della
domanda di sanatoria ed il rilascio della
concessione non può essere utilmente
valorizzato nell’ottica della individuazione
di decorrenze del termine per la formazione
del silenzio-assenso (e, così, del decorso
della prescrizione) diverse da quelle
normativamente indicate né per sollecitare
una non meglio specificata “giusta
mediazione” che tenga conto delle
tariffe eventualmente più favorevoli
esistenti all’epoca della presentazione
della domanda di sanatoria (quanto a quelle
vigenti al momento di realizzazione
dell’opera abusiva, lo stesso ricorrente
riconosce che sarebbe ingiusto agevolare il
responsabile)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.05.2011 n. 3116 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Non
rientra nel concetto di ristrutturazione
edilizia l’intervento con il quale viene
mutata, a seguito di sopraelevazione del
tetto, la cubatura e la sagoma
dell’edificio, giacché la ristrutturazione
al massimo comporta la demolizione e
successiva ricostruzione del fabbricato in
modo fedele al preesistente.
Se è vero che non rientra nel concetto di
ristrutturazione edilizia l’intervento con
il quale viene mutata, a seguito di
sopraelevazione del tetto, la cubatura e la
sagoma dell’edificio, giacché la
ristrutturazione al massimo comporta la
demolizione e successiva ricostruzione del
fabbricato in modo fedele al preesistente,
nella specie si è trattato soltanto di
sostituzione di parte di scala, di alcune
parti di muro degradate, della copertura di
un solaio degradato, di sostituzione di una
parete al primo piano in tufo.
L’intervento ha comportato la sola modesta
modifica della sagoma esterna, consistente
nell’innalzamento della sagoma esterna del
fabbricato contenuto (in venti centimetri
per la parte appellata, in un metro per la
parte appellante), pari allo spessore dello
strato isolante, che prima non esisteva.
L’intervento è stato giustificato anche
richiamando la normativa regionale sui
consumi energetici e sugli impianti
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 24.05.2011 n. 3112 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Nelle
gare pubbliche le regole stabilite dalla lex specialis vincolano
rigidamente anche l’amministrazione, che è
tenuta ad applicarle senza alcun margine di
discrezionalità a garanzia della par
condicio dei concorrenti, con la conseguenza che
le clausole di un bando di gara devono
essere necessariamente interpretate, nel
rispetto dei principi fissati dagli artt.
1362 e ss. c.c., dando
prevalenza alle espressioni letterali e
restando preclusa qualsiasi forma di
interpretazione analogica o estensiva,
eventualmente finalizzata a consentire la
più ampia partecipazione possibile, opzione
che può ammettersi solo in presenza di
clausole equivoche o di imperfetta
formulazione.
La Sezione osserva che la questione
controversa consiste nello stabilire
l’esatta interpretazione del contenuto della
autodichiarazione di cui al predetto punto 5
del disciplinare di gara ed in particolare
se per “forniture” effettuate negli ultimi
tre anni deve intendersi la fornitura
specifica di filobus, come ha
sostanzialmente ritenuto l’amministrazione,
ovvero se si riferisca a forniture in
generali, comunque attinenti i mezzi di
trasporto urbano, come sostanzialmente
sostiene l’appellante.
Ai fini del corretto svolgimento
dell’operazione ermeneutica deve
innanzitutto tenersi conto del consolidato
indirizzo giurisprudenziale secondo cui
nelle gare pubbliche le regole stabilite
dalla lex specialis vincolano
rigidamente anche l’amministrazione, che è
tenuta ad applicarle senza alcun margine di
discrezionalità a garanzia della par
condicio dei concorrenti (ex multis,
C.d.S., sez. V, 02.08.2010, n. 5075;
29.01.2009, n. 498), con la conseguenza che
le clausole di un bando di gara devono
essere necessariamente interpretate, nel
rispetto dei principi fissati dagli artt.
1362 e ss. c.c. (notoriamente applicabili
anche agli atti amministrativi), dando
prevalenza alle espressioni letterali e
restando preclusa qualsiasi forma di
interpretazione analogica o estensiva,
eventualmente finalizzata a consentire la
più ampia partecipazione possibile, opzione
che può ammettersi solo in presenza di
clausole equivoche o di imperfetta
formulazione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 23.05.2011 n. 3100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Sono
legittime le determinazioni delle
amministrazioni appaltanti che, allo scopo
di ottenere la dimostrazione della capacità
economica, finanziaria e dei tecnica dei
partecipanti, limitano l’ammissione ai soli
concorrenti che abbiano svolto servizi
identici a quelli dell’appalto nei tre anni
precedenti.
La
giurisprudenza di questo consesso ha più
volte ribadito la legittimità delle
determinazioni delle amministrazioni
appaltanti che, allo scopo di ottenere la
dimostrazione della capacità economica,
finanziaria e dei tecnica dei partecipanti,
limitano l’ammissione ai soli concorrenti
che abbiano svolto servizi identici a quelli
dell’appalto nei tre anni precedenti
(C.d.S., sez. V, 29.03.2006, n. 1599;
15.02.2001, n. 919; 06.08.2001, n. 4237, sia
pur riferite alle disposizioni di cui agli
artt. 13 e 14 del d.lgs. 17.03.1995, n. 157)
(Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 23.05.2011 n. 3100 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
mancata dettagliata indicazione nei verbali
di gara delle specifiche modalità di
custodia dei plichi e degli strumenti
utilizzati per garantire la segretezza delle
offerte non costituisce, di per sé, motivo
di illegittimità del verbale e della
complessiva attività posta in essere dalla
commissione di gara, dovendo invece aversi
riguardo al fatto che, in concreto, non si
sia verificata un'alterazione della
documentazione.
Il rigoroso orientamento giurisprudenziale
secondo il quale la tutela dell’integrità
dei plichi contenenti gli atti di gara deve
essere assicurata in astratto, e sarebbe
quindi sufficiente che la documentazione di
gara sia stata sottoposta a rischio di
manomissione per ritenere invalide le
operazioni di gara, non può essere seguito
quando in concreto non sia stato fornito
alcun principio di prova della eventuale
manomissione dei plichi o quanto meno di un
concreto pericolo di manomissione.
La Sezione ritiene di dover ribadire le
proprie recenti enunciazioni (decisione
22.02.2011, n. 1094) secondo le quali:
- la mancata dettagliata indicazione nei
verbali di gara delle specifiche modalità di
custodia dei plichi e degli strumenti
utilizzati per garantire la segretezza delle
offerte non costituisce, di per sé, motivo
di illegittimità del verbale e della
complessiva attività posta in essere dalla
commissione di gara, dovendo invece aversi
riguardo al fatto che, in concreto, non si
sia verificata un'alterazione della
documentazione (cfr. sezione IV, 05.10.2005,
n. 5360; sez. V, 20.09.2001, n. 4973;
10.05.2005, n. 2342; 25.07.2006, n. 4657);
- il rigoroso orientamento giurisprudenziale
secondo il quale la tutela dell’integrità
dei plichi contenenti gli atti di gara deve
essere assicurata in astratto, e sarebbe
quindi sufficiente che la documentazione di
gara sia stata sottoposta a rischio di
manomissione per ritenere invalide le
operazioni di gara (Consiglio Stato, Sezione
V, 06.03.2006, n. 1068 e 21.05.2010, n.
3203), non può essere seguito quando in
concreto non sia stato fornito alcun
principio di prova della eventuale
manomissione dei plichi o quanto meno di un
concreto pericolo di manomissione (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 23.05.2011 n. 3079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: I principi di pubblicità e trasparenza delle
sedute della commissione di gara non sono
assoluti, ma, appunto, derogabili
dalla lex specialis, la quale, ove
trattisi di gara svolta con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
ben può –e, anzi, deve- prevedere la
valutazione in seduta riservata dell'offerta
tecnica, e, per esigenze di economicità
della procedura, può altresì prevedere
(anche per implicito) che tanto sia
effettuato previa apertura delle relative
buste nel corso della stessa seduta.
L'obbligo inderogabile di pubblicità delle
sedute delle commissioni di gara riguarda
infatti esclusivamente la fase dell'apertura
dei plichi contenenti la documentazione
amministrativa e l'offerta economica dei
partecipanti, e non anche la fase di
apertura e valutazione delle offerte
tecniche.
La
giurisprudenza ammette che il principio di
pubblicità della gara possa essere derogato
allorché si debba procedere, da parte della
commissione, ad una specifica valutazione
tecnica delle offerte, specie quando si
debba aggiudicare con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa
(cfr. Sez. IV, 05.04.2003, n. 1787; Sez. V,
30.05.1997, n. 576 e 27.02.2001, n. 1067).
I principi di pubblicità e trasparenza delle
sedute della commissione di gara non sono
difatti assoluti, ma, appunto, derogabili
dalla lex specialis, la quale, ove
trattisi di gara svolta con il criterio
dell'offerta economicamente più vantaggiosa,
ben può –e, anzi, deve- prevedere la
valutazione in seduta riservata dell'offerta
tecnica, e, per esigenze di economicità
della procedura, può altresì prevedere
(anche per implicito) che tanto sia
effettuato previa apertura delle relative
buste nel corso della stessa seduta.
L'obbligo inderogabile di pubblicità delle
sedute delle commissioni di gara riguarda
infatti esclusivamente la fase dell'apertura
dei plichi contenenti la documentazione
amministrativa e l'offerta economica dei
partecipanti, e non anche la fase di
apertura e valutazione delle offerte
tecniche (si vedano, tra le più recenti,
Cons. Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7470;
14.10.2009, n. 6311; 11.05.2007 n. 2355;
cfr. anche 13.07.2010, n. 4520) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 23.05.2011 n. 3079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: La
piena conoscenza dell’atto censurato si
concretizza con la cognizione dei suoi
elementi essenziali, quali l’autorità
emanante, l’oggetto, il contenuto
dispositivo ed il suo effetto lesivo,
essendo tali elementi sufficienti a rendere
il soggetto legittimato all’impugnativa
consapevole dell’incidenza dell’atto nella
sua sfera giuridica, ed avendo egli la
concreta possibilità di rendersi conto della
lesività del provvedimento, senza che sia
necessario l’ulteriore elemento della
compiuta conoscenza della motivazione e
degli atti del procedimento, che può
rilevare solo ai fini della proposizione dei
motivi aggiunti.
Il termine per l'impugnazione dei
provvedimenti amministrativi non è collegato
alle convinzioni dei destinatari circa
l'illegittimità dell'attività
amministrativa, ma solo all’insorgenza della
piena conoscenza, come sopra intesa, del
provvedimento da contestare.
Il Collegio
aderisce, invero, al tradizionale e tuttora
prevalente insegnamento giurisprudenziale
secondo cui la piena conoscenza dell’atto
censurato si concretizza con la cognizione
dei suoi elementi essenziali, quali
l’autorità emanante, l’oggetto, il contenuto
dispositivo ed il suo effetto lesivo,
essendo tali elementi sufficienti a rendere
il soggetto legittimato all’impugnativa
consapevole dell’incidenza dell’atto nella
sua sfera giuridica, ed avendo egli la
concreta possibilità di rendersi conto della
lesività del provvedimento, senza che sia
necessario l’ulteriore elemento della
compiuta conoscenza della motivazione e
degli atti del procedimento, che può
rilevare solo ai fini della proposizione dei
motivi aggiunti (cfr. Cons. Stato, sez. V,
22.09.2009, nr. 5639 e 7247 del 2010; Cons.
Stato, sez. VI, 19.03.2009, nr. 1690; Cons.
Stato, sez. V, 26.01.2009, nr. 367; Cons.
Stato, sez. IV, 29.07.2008, nr. 3750; del
2010, 26.01.2010 n. 292).
E, soprattutto, è principio consolidato
quello per cui il termine per l'impugnazione
dei provvedimenti amministrativi non è
collegato alle convinzioni dei destinatari
circa l'illegittimità dell'attività
amministrativa, ma solo all’insorgenza della
piena conoscenza, come sopra intesa, del
provvedimento da contestare (VI, 21.05.2007,
n. 2543, e 22.04.2008, n. 1853; V,
02.04.1996, n. 381 e 04.10.1994, n. 1120).
D’altra parte, il valorizzare ai fini della
decorrenza del termine per insorgere in
giudizio il momento della cognizione di un
possibile vizio del provvedimento
sposterebbe intollerabilmente in avanti, ed
esporrebbe ad eccessiva incertezza, il
dies a quo dell’azione giudiziaria, e,
correlativamente, il momento del
consolidamento di qualsiasi atto
amministrativo (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 23.05.2011 n. 3079 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Tutti i soggetti che a qualunque
titolo concorrano a pubblici appalti devono
non solo essere in possesso dei requisiti
previsti dalla legge ma anche dichiararlo.
L’art. 49, co. 2, lett. c), del codice dei
contratti pubblici, onera l’impresa che
concorre ad una gara di appalto di allegare
una <<dichiarazione sottoscritta da parte
dell’impresa ausiliaria attestante il
possesso da parte di quest’ultima dei
requisiti generali di cui all’art. 38>>.
La chiarezza della norma e la sua ratio,
inducono la sezione a non discostarsi dal
consolidato indirizzo giurisprudenziale
secondo cui tutti i soggetti che a qualunque
titolo concorrono a pubblici appalti (in
veste di affidatari, sub affidatari,
consorziati, componenti di a.t.i., ausiliari
in sede di avvalimento), devono non solo
essere in possesso dei requisiti previsti
dall’art. 38 cit., ma anche dichiararlo,
assumendosi le relative responsabilità (cfr.
da ultimo Cons. St., sez. V, 15.06.2010, n.
3759; ad. plen., 15.04.2010, n. 2155, cui si
rinvia a mente dell’art. 74 c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza
23.05.2011
n. 3077 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
La richiesta di
regolarizzazione documentale non può essere
formulata dalla stazione appaltante se vale
ad integrare documenti che in base a
previsioni univoche del bando o della
lettera di invito avrebbero dovuto essere
prodotte a pena di esclusione.
La richiesta di
regolarizzazione non può essere formulata
dalla stazione appaltante se vale ad
integrare documenti che in base a previsioni
univoche del bando o della lettera di invito
avrebbero dovuto essere prodotte a pena di
esclusione; che è quanto accaduto nel caso
di specie dove non si può configurare alcun
margine di ambiguità che renda ammissibile
la richiesta di integrazione intesa come
riflesso della responsabilità
dell’amministrazione e non come
ingiustificato strumento diretto a
promuovere indistintamente una più ampia
partecipazione alle gare in una logica
collaborativa fra l’amministrazione e le
imprese interessate che appare travalicare i
limiti imposti dall’antagonista principio di
formalità vigente in materia di procedimenti
concorsuali.
Oltretutto in tal modo si finirebbe per
addivenire ad una inammissibile
disapplicazione di provvedimenti
autoritativi, al di fuori di qualsiasi
previsione normativa espressa, da parte
della p.a. prima e del giudice
amministrativo poi .
A diverse conclusioni non si giunge pur
volendo considerare, per assurdo,
inesistente, ovvero di portata ambigua ed
incompleta, la clausola della lex
specialis (si ribadisce mai impugnata
dalla ditta), che comminava l’esclusione per
il caso di omessa dichiarazione.
Anche in questo caso, infatti,
l’amministrazione non ha l’obbligo
inderogabile di invitare i concorrenti a
regolarizzare la documentazione esibita, ma
ha soltanto la facoltà, nell’ambito dei
propri poteri discrezionali, di rivolgere
detto invito se ritenuto confacente con
l’irregolarità riscontrata, con i tempi del
procedimento e nel rispetto del principio
della parità di trattamento.
Sotto tale angolazione si è affermato che:
a) il mancato esercizio di tale facoltà è
insindacabile da parte del giudice
amministrativo, salvo il limite della
abnormità;
b) il suo esercizio in concreto non può
determinare una alterazione della par
condicio delle imprese, attraverso una
modifica dell’offerta incidente su elementi
o formalità essenziali della stessa;
c) può riguardare solamente documenti già
presentati ma non dichiarazioni o
documentazioni omesse, trovando altresì un
limite temporale nel termine perentorio
individuato dal bando per la presentazione
delle offerte e del relativo corredo
documentale (Consiglio di Stato, Sez.
V,
sentenza
23.05.2011
n. 3077 - link a
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COMPETENZE GESTIONALI:
È illegittima per incompetenza la
delibera con la quale il Consiglio comunale
abbia approvato il progetto per la
realizzazione di un parcheggio che comporta
variante allo strumento urbanistico.
La giurisprudenza ha chiarito che in base al
disposto degli articoli 32 e 35 della legge
08.06.1990, n. 142, l’approvazione dei
progetti di opere pubbliche rientra nella
competenza della giunta comunale anche
quando l’approvazione comporta variante allo
strumento urbanistico ex art. 1 della legge
03.01.1978, n. 1 (C.d.S., sez. IV,
26.04.2006, n. 2293), con conseguente
illegittimità, sotto il profilo proprio
dell'incompetenza, della delibera con la
quale il Consiglio comunale abbia approvato
il progetto per la realizzazione di un
parcheggio, che comporta variante allo
strumento urbanistico (C.d.S., sez. IV,
20.03.2000, n. 1471).
E’ stato anche precisato che appartengono
alla competenza della giunta comunale gli
atti che non siano riservati per legge al
consiglio comunale, cui spetta l'adozione di
atti di programmazione e di indirizzo, tra
cui non può annoverarsi l'approvazione dei
progetti di opera pubblica (C.d.S., sez. V,
16.06.2009, n. 3853) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
23.05.2011
n. 3075 - link a
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LAVORI PUBBLICI:
L’approvazione di un progetto di opera
pubblica equivale ex lege a dichiarazione di
pubblica utilità, nonché indifferibilità ed
urgenza dei relativi lavori, ai sensi
dell’articolo 1 della legge 03.01.1978, n.
1, solo allorquando l’opera stessa sia
conforme alle previsioni del vigente
strumento urbanistico, con la conseguenza
che laddove tale conformità difetta il
progetto stesso deve essere approvato in
variante al piano regolatore, ai sensi del
comma 5, del citato articolo 1 della legge
03.01.1978, n. 1, dal competente consiglio
comunale.
L’approvazione di un progetto di opera
pubblica equivale ex lege a
dichiarazione di pubblica utilità, nonché
indifferibilità ed urgenza dei relativi
lavori, ai sensi dell’articolo 1 della legge
03.01.1978, n. 1, solo allorquando l’opera
stessa sia conforme alle previsioni del
vigente strumento urbanistico, con la
conseguenza che laddove tale conformità
difetta il progetto stesso deve essere
approvato in variante al piano regolatore,
ai sensi del comma 5, del citato articolo 1
della legge 03.01.1978, n. 1, dal competente
consiglio comunale (C.d.S., sez. IV,
16.03.2010, n. 1540; 17.12.2003, n. 8264).
Poiché nel caso di specie difettava proprio
la conformità urbanistica del progetto da
realizzare la dichiarazione di pubblica
utilità, indifferibilità ed urgenza dei
relativi lavori, quest’ultima è divenuta
efficace, e dunque capace di svolgere tutti
i suoi effetti propri, solo con l’effettiva
approvazione della variante urbanistica
(adottata con la delibera consiliare n. 52
del 27.10.1993 ed approvata dalla Regione
Lombardia con la delibera di giunta n.
V/54150 del 21.06.2004).
Pertanto non sussiste il dedotto vizio di
violazione degli articoli 7 e seguenti della
legge 07.08.1990, n. 241: infatti, la
necessità che l’approvazione di progetti di
opere pubbliche equivalente a dichiarazione
di pubblica utilità, urgenza ed
indifferibilità dei lavori, ai sensi
dell’articolo 1 della legge 03.01.1978, n.
1, sia preceduta dalla comunicazione di
avvio del procedimento (tra le più recenti,
C.d.S., sez. IV, 08.06.2007, n. 2999;
22.03.2005, n. 1236) si ricollega alla
immediata efficacia della dichiarazione
stessa che consegue solo alla conformità
urbanistica del progetto di opera pubblica
approvato, laddove le garanzie partecipative
risultano pienamente assicurate, come nel
caso di specie, con l’adempimento delle
formalità previste per il procedimento di
approvazione della variante urbanistica
(deposito della delibera di adozione della
variante nella segreteria comunale, adeguata
pubblicità del deposito stesso nel B.U.R.L.,
possibilità di proporre osservazioni e
opposizioni al progetto di variante
urbanistica), allorquando il progetto
approvato comporta una variante al piano
regolatore (con conseguente approvazione del
progetto ai sensi del comma 5 dell’articolo
1 della legge 03.01.1978, n. 1) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
23.05.2011
n. 3075 - link a
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URBANISTICA:
Le determinazioni assunte
dall'amministrazione all'atto dell'adozione
del piano regolatore generale o di una
variante al piano stesso sono riservate alla
sua discrezionalità e costituiscono
apprezzamenti di merito sottratti al
sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o abnormi
illogicità, e non necessitano neppure di
apposita motivazione, oltre quella che si
può evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nella
impostazione del piano, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato
aspettative o ingenerato affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni.
Secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal
quale non vi è motivo di discostarsi, le
determinazioni assunte dall'amministrazione
all'atto dell'adozione del piano regolatore
generale o di una variante al piano stesso
sono riservate alla sua discrezionalità
(spettando solo ad essa il coordinamento
delle esigenze che si presentano in concreto
nel territorio della comunità sottoposto
alla sua cura) e costituiscono apprezzamenti
di merito sottratti al sindacato di
legittimità, salvo che non siano inficiate
da errori di fatto o abnormi illogicità, e
non necessitano neppure di apposita
motivazione, oltre quella che si può
evincere dai criteri generali, di ordine
tecnico-discrezionale, seguiti nella
impostazione del piano, salvo che
particolari situazioni non abbiano creato
aspettative o ingenerato affidamenti in
favore di soggetti le cui posizioni appaiano
meritevoli di specifiche considerazioni (tra
le più recenti, C.d.S., sez. IV, 04.05.2010,
n. 2545; 07.04.2010, n. 1986; marzo 2009, n.
1652) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
23.05.2011
n. 3075 - link a
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ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI:
I pareri di
regolarità tecnica e contabile non
costituiscono requisito di legittimità delle
deliberazioni (consiliari e/o giuntali) cui
si riferiscono, essendo preordinati
all'individuazione sul piano formale, nei
funzionari che li formulano, della
responsabilità eventualmente in solido con i
componenti degli organi politici in via
amministrativa e contabile.
Il mancato inserimento dei pareri di
regolarità tecnica e contabile nella
deliberazione impugnata costituisce mera
irregolarità, ai sensi dell'art. 53, l.
08.06.1990 n. 142, allorquando non si
contesta l'effettiva esistenza dei pareri
medesimi.
... gli atti
impugnati non erano muniti dei pareri
previsti dalla legge per la loro validità,
pareri che non risultavano acquisiti agli
atti di causa e dei quali non si conosceva
in ogni caso il loro effettivo contenuto,
incerta essendo anche la loro effettiva
provenienza.
E' sufficiente ricordare sul punto il
condivisibile indirizzo giurisprudenziale
secondo cui i pareri in questione non
costituiscono requisito di legittimità delle
deliberazioni cui si riferiscono, essendo
preordinati all'individuazione sul piano
formale, nei funzionari che li formulano,
della responsabilità eventualmente in solido
con i componenti degli organi politici in
via amministrativa e contabile (C.d.S.,
22.06.2006, n. 3388); d’altra parte è stato
anche osservato che il mancato inserimento
dei pareri di regolarità tecnica e contabile
nella deliberazione impugnata costituisce
mera irregolarità, ai sensi dell'art. 53, l.
08.06.1990 n. 142, allorquando non si
contesta l'effettiva esistenza dei pareri
medesimi (C.d.S., sez. IV, 11.02.2004, n.
548) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza
23.05.2011
n. 3075 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’obbligo per le autorità
competenti di assicurare la tutela del
vincolo è permanente.
Il principio di diritto affermato dalla
sentenza impugnata (per cui un intervento di
ripristino in area vincolata richiederebbe
una valutazione di compatibilità
paesaggistica ‘meno approfondita’ se
relativo ad opere preesistenti non
completamente distrutte da una mareggiata)
non è condivisibile.
Da un lato, infatti, l’obbligo per le
autorità competenti di assicurare la tutela
del vincolo è permanente, e, dall’altro, il
contesto di fatto in cui si colloca l’opera
può essersi modificato nel corso del tempo,
comportando un diverso impatto paesaggistico
la ricostruzione del manufatto e, perciò,
una valutazione diversa da quella che sia
stata eventualmente espressa in precedenza.
In questo quadro, rileva la giurisprudenza
consolidata per la quale:
a)
il potere di annullamento della
Soprintendenza non consente il riesame nel
merito delle valutazioni discrezionali
compiute dalla Regione o da un ente
sub-delegato (il Comune nella specie), ma si
esprime in un controllo di legittimità,
esteso a tutte le ipotesi riconducibili
all'eccesso di potere, anche per difetto di
motivazione o di istruttoria;
b)
il Comune deve quindi esercitare il proprio
potere motivando adeguatamente sulla
compatibilità con il vincolo paesaggistico
dell’opera specificamente assentita, in
relazione a tutte le circostanze rilevanti
nel caso di specie, sussistendo, in caso
contrario, illegittimità per carenza di
motivazione o di istruttoria;
c)
l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio
nell’atto oggetto del suo riesame, nel
proprio provvedimento, perché sia a sua
volta immune da vizi di legittimità, motiva
sulla non compatibilità degli interventi
programmati rispetto ai valori paesaggistici
compendiati nel vincolo (Cons. Stato: VI,
13.02.2009, n. 772; 14.10.2009, n. 6294;
04.12.2009, n. 7609) (Consiglio di Stato, Sez.
VI,
sentenza
23.05.2011 n. 3037
- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Sulla dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione ex
art. 38 d.lgs. 163/06: distinzione tra un
bando che richieda una dichiarazione
generica ed un bando più preciso che
specifichi che vanno dichiarate tutte le
condanne o tutte le violazioni.
Qualora il bando di gara richieda
genericamente una dichiarazione di
insussistenza delle cause di esclusione
dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/06, esso
giustifica una valutazione di gravità/non
gravità compiuta dal concorrente, sicché il
concorrente non può essere escluso per il
solo fatto dell'omissione formale, cioè di
non aver dichiarato tutte le condanne penali
o tutte le violazioni contributive; andrà
escluso solo ove la stazione appaltante
ritenga che le condanne o le violazioni
contributive siano gravi e definitivamente
accertate. La dichiarazione del concorrente,
in tale caso, non può essere ritenuta falsa.
Diversamente, nel caso in cui il bando sia
più preciso, e non si limiti a chiedere una
generica dichiarazione di insussistenza
delle cause di esclusione di cui al citato
art. 38, ma specifichi che vanno dichiarate
tutte le condanne penali, o tutte le
violazioni contributive, la dichiarazione
del concorrente deve avere un contenuto più
ampio e più puntuale rispetto a quanto
prescritto dall'art. 38 codice, all'evidente
fine di riservare alla stazione appaltante
la valutazione di gravità o meno
dell'illecito, al fine dell'esclusione.
In siffatta ipotesi, la causa di esclusione
non è solo quella, sostanziale, dell'essere
stata commessa una grave violazione, ma
anche quella, formale, di aver omesso una
dichiarazione prescritta dal bando (TAR
Puglia-Bari, Sez. I,
sentenza 20.05.2011 n. 752 - link
a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Ordinanze
ko per vizio di incompetenza.
Orario d'apertura, Sindaci limitati.
Non è consentito al sindaco vietare
l'utilizzo degli apparecchi da
intrattenimento dopo le 22 e neppure
anticipare l'orario di chiusura del kebab.
Con due distinte sentenze emanate
rispettivamente dai Tar Piemonte e
Lombardia, i rispettivi collegi hanno messo
il freno alle iniziative dei comuni in
quanto, seppur con motivazioni diverse, in
ambedue i casi è stato violato il principio
della competenza.
Nel primo caso, la
sentenza 20.05.2011 n. 513
(TAR Piemonte, Sez. II) puntualizza che
con la previsione di un orario di
disattivazione degli apparecchi da gioco «il
comune si è arrogato una potestà normativa
che non trova sostegno in alcuna
disposizione legislativa e che, anzi, si
svela integrare un'invasione delle
competenze rimesse allo stato».
Peraltro, ha
osservato la sezione già la Corte
costituzionale (sent. n. 237 del 2006),
seppur con riferimento al contingentamento,
«aveva statuito che i profili relativi
all'installazione degli apparecchi e
congegni automatici da gioco presso esercizi
aperti al pubblico, sale giochi e circoli
privati, disciplinati dall'art. 110 del rd
n. 773 del 1931, afferiscono alla materia
ordine pubblico e sicurezza che l'art. 117,
comma 2, lett. h, Cost. riserva alla
competenza esclusiva dello stato».
Connesso
al profilo dell'incompetenza peraltro, ha
aggiunto il collegio, è anche quello della
mancanza di una legge di copertura, tale da
consentire al comune di incidere
negativamente su situazioni soggettive dei
privati connesse alla libertà di iniziativa
economica. Infatti, non può essere ritenuto
tale l'art. 50, comma 7, del dlgs n.
267/2000, il quale consente al sindaco di
esercitare il potere di fissare gli orari
degli esercizi pubblici, ma unicamente «al
fine di armonizzare l'espletamento dei
servizi con le esigenze complessive e
generali degli utenti» e non anche per
finalità inerenti alla sicurezza pubblica,
di competenza dello stato.
Con la
sentenza
18.05.2011 n. 739, invece, Il TAR Lombardia-Brescia,
Sez. II,
ha dichiarato l'illegittimità dell'ordinanza
del sindaco di Bergamo motivata dal fatto
che era stata emessa in «stretta
correlazione tra schiamazzi serali e
notturni, disturbo della quiete pubblica e
modalità di gestione del locale, il cui
gestore sarebbe stato, peraltro, titolare di
una responsabilità oggettiva».
Secondo la
sezione II far anticipare la chiusura serale
dell'attività alle 16, il sabato e la
domenica, comporta l'illegittimo esercizio
del potere ex art. 54 del dlgs 267/2000
(articolo ItaliaOggi
del 03.06.2011). |
APPALTI:
L’esistenza di false
dichiarazioni sul possesso dei requisiti
rilevanti per l’ammissione ad una gara
d’appalto, quali la mancata dichiarazione di
sentenze penali di condanna, si configura
come causa autonoma di esclusione dalla
gara.
La riabilitazione (combinato disposto dagli
artt. 683 cpp e 178 cp) e l'estinzione del
reato (combinato disposto dagli artt. 676
cpp e 151 seg. cp) per decorso del termine
di legge devono essere giudizialmente
dichiarate, giacché il giudice di
sorveglianza nel primo caso ed il giudice
dell'esecuzione nel secondo caso sono gli
unici soggetti al quale l'ordinamento
conferisce la competenza a verificare che
siano venuti in essere tutti i presupposti e
sussistano tutte le condizioni per la
relativa declaratoria, con la conseguenza
che, in mancanza, la dichiarazione di
assenze di condanne penali equivale a
dichiarazione mendace e giustifica
l'esclusione dalla gara del concorrente che
l'abbia resa.
Considerato:
- che il punto 17, II comma, del
disciplinare di gara richiedeva all’impresa
ausiliaria, in caso di avvalimento ai sensi
dell’art. 49 del DLgs n. 163/2006, la “dichiarazione
attestante il possesso da parte di
quest’ultima dei requisiti generali di cui
all’art. 38 del DLgs 163/2006…”,
dichiarazione da rendersi “con le
modalità previste per il concorrente”
(cfr. il disciplinare, pagg. 11);
- che, giusta il punto 6, I comma, n. 8, del
disciplinare, il concorrente doveva
attestare l’insussistenza delle cause di
esclusione dalla partecipazione alla gare
d’appalto di cui all’art. 38, comma 1, del
DLgs n. 163/2006 indicando comunque tutte le
eventuali sentenze definitive, anche quelle
per le quali abbia beneficiato della non
menzione, decreti penali di condanna e
sentenze di applicazione della pena su
richiesta…;
- che in sede di controllo, ai sensi
dell’art. 71 del DPR n. 445/2000, delle
dichiarazioni sostitutive rese dai
concorrenti veniva acquisito, fra l’altro,
il certificato del casellario giudiziale
relativo al sig. ... (legale rappresentante
della ditta ..., della quale la ricorrente
si è avvalsa ai fini della partecipazione
alla gara), da cui risultava una sentenza ex
art. 444 cpp irrevocabile e non estinta,
pronuncia giudiziale di condanna, questa,
che l’interessato aveva omesso di
dichiarare;
- che la necessità, anche per il
rappresentante dell’impresa ausiliaria, di
dichiarare tutte le sentenza di condanna,
ivi comprese quelle patteggiate (con la sola
eccezione di quelle estinte e di quelle per
le quali era intervenuta la riabilitazione),
derivava inequivocabilmente dal chiaro
tenore del disciplinare di gara, il quale
stabiliva che le dichiarazioni attestanti il
possesso dei requisiti di cui all’art. 38
del codice dei contratti dovevano “essere
rese con le modalità previste per il
concorrente” e, dunque, nei termini
imposti a quest’ultimo dal punto 17, II
comma del disciplinare di gara:
- che il Collegio, in punto di diritto,
aderendo ad un consolidato e prevalente
orientamento giurisprudenziale -che afferma
che l’esistenza di false dichiarazioni sul
possesso dei requisiti rilevanti per
l’ammissione ad una gara d’appalto, quali la
mancata dichiarazione di sentenze penali di
condanna, si configura come causa autonoma
di esclusione dalla gara (cfr., da ultimo,
CdS, VI, 06.04.2010 n. 1909; V, 02.02.2010,
n. 428; TAR Veneto, I, 24.01.2011 n. 75)-,
non può esimersi dall’osservare che la
circostanza che il rappresentante legale
della ditta ...
abbia oggettivamente omesso di dichiarare i
propri precedenti penali ha senza dubbio
integrato la violazione della lex
specialis di gara (è appena il caso di
osservare che quest’ultima richiedeva
qualcosa di più della mera indicazione dei “reati
gravi in danno dello Stato o della Comunità
che incidono sulla moralità professionale”
pretesa dall’art. 38, I comma, lett. “c” del
DLgs n. 163/2006, in quanto imponeva di
specificare, a pena di esclusione –sanzione,
questa, prevista dal citato art. 38, I
comma, espressamente richiamato dalla lex
specialis-, tutte le pregresse vicende
giudiziarie dei soggetti interessati,
demandando così alla stazione appaltante
ogni valutazione in ordine alla gravità del
reato e alla sua incidenza sulla moralità
professionale), comportando legittimamente
l’esclusione della ditta ricorrente da parte
della stazione appaltante, anche avuto
riguardo alla previsione di cui all’art. 75
del D.P.R. 28.12.2000 n. 445, secondo cui “il
dichiarante decade dai benefici
eventualmente conseguenti al provvedimento
emanato sulla base della dichiarazione non
veritiera” (e che giustifica pienamente,
sul piano normativo, la richiamata
prescrizione contenuta nel disciplinare);
- che l’art. 75, I comma, del D.P.R. citato,
del tutto chiaro nella formula letterale,
prescinde, infatti, per la sua applicazione
dalla condizione soggettiva del dichiarante,
attestandosi sul dato oggettivo della "non
veridicità", apprezzato ex ante e
rispetto al quale è, pertanto, irrilevante
il complesso delle giustificazioni poi
addotte dal dichiarante;
- che, peraltro, è appena il caso di
evidenziare che la riabilitazione (combinato
disposto dagli artt. 683 cpp e 178 cp) e
l'estinzione del reato (combinato disposto
dagli artt. 676 cpp e 151 seg. cp) per
decorso del termine di legge devono essere
giudizialmente dichiarate, giacché il
giudice di sorveglianza nel primo caso ed il
giudice dell'esecuzione nel secondo caso
sono gli unici soggetti al quale
l'ordinamento conferisce la competenza a
verificare che siano venuti in essere tutti
i presupposti e sussistano tutte le
condizioni per la relativa declaratoria, con
la conseguenza che, in mancanza, la
dichiarazione di assenze di condanne penali
equivale a dichiarazione mendace e
giustifica l'esclusione dalla gara del
concorrente che l'abbia resa (cfr., da
ultimo, CdS, V, 20.10.2010 n. 7581);
- che è affatto irrilevante in causa
–diversamente ne rimarrebbe leso il
principio della par condicio- la circostanza
che la dichiarazione di estinzione del reato
sia intervenuta successivamente alla
dichiarazione resa in sede di gara e,
comunque, alla scadenza del termine per la
proposizione della domanda di partecipazione
alla gara;
- che non può richiamarsi la buona fede del
ricorrente e la scusabilità dell’errore in
relazione alla circostanza che il
certificato del casellario giudiziale non
riportava alcunché a carico dei soggetti
interessati: è noto, infatti, che i
certificati del casellario rilasciati ai
privati sono incompleti, potendosi comunque
effettuare presso il competente Ufficio una
visura ai sensi dell’art. 33 del DPR n.
313/2002, da cui emerge il quadro completo
della propria situazione penale ...
(TAR Veneto, Sez. I,
sentenza 19.05.2011 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - F.O.S. - Natura di
rifiuto urbano - Esclusione - Ragioni -
Classificazione tra i rifiuti speciali ex
art. 184, c. 3, d.lgs. n. 152/2006 -
Abrogazione dell’art. 184, c. 1, lett. n) ad
opera del d.lgs. n. 4/2008 - Conseguenze.
La natura di rifiuto speciale ex art. 184,
comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 152/2006,
da riconoscere alla F.O.S., deriva dal
diritto positivo e precisamente dal medesimo
d.lgs. n. 152/2006. Quest’ultimo, infatti,
tra gli Allegati alla Parte IV contiene
l’Allegato D, il quale reca l’elenco delle
diverse categorie di rifiuti, classificati
in base ad un codice a sei cifre.
E mentre i rifiuti prodotti dal trattamento
meccanico dei rifiuti -quale la F.O.S.-
risultano classificati con i codici: a)
19.12.11 e b) 19.12.12,. la categoria dei
rifiuti urbani è identificata, invece, con
il codice 20 e le varie tipologie di rifiuti
che la compongono sono identificate da
codici a sei cifre, tutti recanti come prime
due cifre il codice 20.
Ne segue che, per esplicita previsione di
diritto positivo, i rifiuti derivati dal
trattamento meccanico dei rifiuti non
appartengono alla categoria dei rifiuti
urbani, Ciò, d’altro lato, è confermato,
sempre sul piano del diritto positivo, dal
fatto che la F.O.S. - e, più in generale, i
rifiuti derivati dal trattamento meccanico
dei rifiuti - non sono compresi nell’elenco
dei rifiuti urbani di cui all’art. 184,
comma 2, del d.lgs. n. 152/2006.
E’, invece, indubbiamente corretta la
classificazione della F.O.S. -e, più in
generale, dei rifiuti derivati dal
trattamento meccanico dei rifiuti- tra i
rifiuti speciali ex art. 184, comma 3, lett.
g), del d.lgs. n. 152/2006: tale
disposizione vi comprende, infatti, i
rifiuti derivanti dall’attività di recupero
e smaltimento dei rifiuti. Detta conclusione
non è in alcun modo infirmata
dall’intervenuta abrogazione della lett. n)
dell’art. 184, comma 3, del d.lgs. n. 152
cit. operata dal d.lgs. n. 4/2008.
A tale abrogazione non può, infatti,
attribuirsi l’inserimento della F.O.S. tra i
rifiuti urbani, quanto, invece, il
significato di un riconoscimento legislativo
dell’inutilità della succitata lett. n),
dovendo, per quanto esposto, i rifiuti
derivati dal trattamento meccanico dei
rifiuti considerarsi rifiuti speciali già ai
sensi dell’art. 184, comma 3, lett. g), di
cui la lett. n) costituiva (in parte qua)
un’inutile duplicazione (TAR Toscana, Sez.
II,
sentenza 18.05.2011 n. 917 - link
a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO -
Zonizzazione - Scelte pianificatorie -
Discrezionalità amministrativa - Limiti -
Artt. 97 e 113 Cost..
Se è vero che le scelte di pianificazione, e
tra queste, la zonizzazione acustica,
rientrano nella discrezionalità
amministrativa della Pubblica
Amministrazione, esse sono sempre
assoggettate, come principio generale del “sistema”
delle garanzie comunemente discendenti dagli
artt. 97 e 113 Cost., al sindacato
giurisdizionale nei limiti della loro
(ritenuta) irrazionalità, contraddittorietà
e manifesta incongruenza (cfr. sul punto,
ex plurimis, le decisioni Cons. Stato,
n. 664 dd. 06.02.2002 n. 4920 dd.
27.07.2010).
INQUINAMENTO ACUSTICO -
Classi di zonizzazione - DPCM 14.11.1997 -
Comuni - Pianificazione conforme - Regione
Piemonte - L.r. n. 52/2000.
La definizione delle classi di zonizzazione
acustica è disciplinata nella Tabella A
allegata al D.P.C.M. 14.11.1997, alla quale
sono tenuti a conformarsi i Comuni nella
conseguente pianificazione di loro
competenza; in Piemonte, ai sensi dell’art.
6, comma 1, lett. e) della L.R. 52 del 2000,
la zonizzazione è attuata secondo le linee
guida regionali approvate con deliberazione
della Giunta Regionale 06.08.2001 n.
85-3802.
INQUINAMENTO ACUSTICO -
Zonizzazione - Parametri di riferimento -
Destinazione d’uso futura - Livelli di
rumore sussistenti di fatto - Illegittimità.
E’ illegittima la zonizzazione acustica del
territorio che viene compiuta non già
tenendo conto dell’attuale destinazione
d’uso delle varie porzioni di territorio, ma
di quella che si prevede o si auspica esse
possano avere nel prossimo futuro, e non già
tenendo conto dei livelli di rumore
tollerabili in relazione alle destinazioni
esistenti, ma di quelli superiori
eventualmente sussistenti di fatto (cfr. in
tal senso la decisione Cons. Stato n. 9302
dd. 31.12.2009) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 16.05.2011 n. 2957 -
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EDILIZIA PRIVATA:
Trasformazione di balcone in
veranda.
La
trasformazione di un balcone o di un
terrazzino circondato da muri perimetrali in
veranda, o di un terrapieno et similia
mediante chiusura a mezzo di installazione
di pannelli di vetro su intelaiatura
metallica od altri elementi costruttivi, non
costituisce intervento di manutenzione
straordinaria ,di restauro o pertinenziale,
ma è opera già soggetta a concessione
edilizia ed attualmente a permesso di
costruire (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 11.05.2011 n. 18507 -
link a www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
materia di DIA, il potere inibitorio,
previsto dall’art. 23, comma 6, T.U.
06.06.2001 n. 380 è esercitabile entro il
termine perentorio di 30 giorni, potendo
successivamente essere emanati soltanto
provvedimenti d’autotutela e sanzionatori,
in quanto alla scadenza del detto termine
matura l’autorizzazione implicita ad
eseguire i lavori progettati ed indicati
nella denuncia di inizio attività, restando
fermo al contempo il potere
dell’Amministrazione comunque di provvedere
non più con provvedimento inibitorio ma con
un provvedimento di tipo ripristinatorio o
pecuniario, in base alla normativa che
disciplina la repressione degli abusi
edilizi.
La denuncia di inizio attività edilizia -che
non è una domanda ma una informativa cui è
subordinato l’esercizio di un diritto-
costituisce species (la cui
disciplina prevale su quella generale) di un
particolare tipo di procedimento
semplificato e accelerato, introdotto in via
generale dall’art. 19 della Legge 241 del
1990, che consente al privato l’esercizio di
una certa attività comunque rilevante per
l’ordinamento, già subordinato a
qualsivoglia forma di autorizzazione, a
prescindere dalla emanazione di un espresso
provvedimento amministrativo, comunque
assimilabile ad una istanza autorizzatoria,
che con il decorso del termine di legge
provoca la formazione di un titolo che rende
lecito l’esercizio dell’attività, e cioè di
un provvedimento tacito di accoglimento di
una siffatta istanza.
Il potere inibitorio, previsto dall’art. 23,
comma 6, T.U. 06.06.2001 n. 380 è
esercitabile entro il termine perentorio di
30 giorni, potendo successivamente essere
emanati soltanto provvedimenti d’autotutela
e sanzionatori, in quanto alla scadenza del
detto termine matura l’autorizzazione
implicita ad eseguire i lavori progettati ed
indicati nella denuncia di inizio attività,
restando fermo al contempo il potere
dell’Amministrazione comunque di provvedere
non più con provvedimento inibitorio ma con
un provvedimento di tipo ripristinatorio o
pecuniario, in base alla normativa che
disciplina la repressione degli abusi
edilizi.
Va da sé, quindi, per quanto innanzi
chiarito, che condizione necessaria perché
sia validamente presentata una DIA è che i
lavori oggetto della stessa non siano stati
già interamente o in parte realizzati
essendo la denuncia finalizzata
esclusivamente alla predisposizione di uno
strumento più agile ed efficace di
determinati interventi edilizi.
La norma in materia prevede, infatti, che la
denuncia debba essere presentata almeno 30
giorni prima dell’effettivo inizio dei
lavori, termine entro il quale
l’Amministrazione competente può esercitare
il controllo sulla sussistenza delle
condizioni legittimanti l’attività e
conseguentemente inibire l’attività stessa
in caso di mancanza delle condizioni
necessarie.
In altri termini, non è ipotizzabile una
denuncia di inizio di attività per opere già
realizzate non potendosi utilizzare tale
procedimento quale strumento per ottenere un
titolo abilitativo in sanatoria.
Nella specie, invece, risulta in modo
incontrastato che il sig. ... ha presentato
la denuncia di inizio attività in data
22.06.2005 relativamente ad opere di
ristrutturazione edilizia di un sottotetto
già interamente realizzate e quindi senza
che all’Amministrazione fosse consentito di
esercitare tempestivamente il già citato
potere di inibizione.
Inappropriato era da considerarsi, quindi,
lo strumento della DIA, nel mentre poteva
invece utilizzarsi il diverso istituto
dell’accertamento di conformità ex art. 36,
comma 1, del DPR 380/2001
(TAR Basilicata,
sentenza 11.05.2011 n. 301 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
Sezione condivide l'orientamento
giurisprudenziale che ritiene il terzo leso
dall’attività denunciata legittimato
all'instaurazione di un giudizio di
cognizione: ciò sul presupposto che la
denuncia di inizio attività non è
formalmente né sostanzialmente un’istanza,
ma uno strumento di massima semplificazione,
il quale resta sottoposto all’esercizio di
un potere amministrativo successivo,
finalizzato sia al riscontro della
sussistenza dei presupposti in fatto ed in
diritto meramente allegati nella previa
denuncia del privato che all’eventuale
repressione dell’illecito edilizio.
Sulla configurazione della D.I.A. esistono
due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Secondo uno, il procedimento avviato con la
D.I.A. darebbe luogo ad una fattispecie
provvedimentale a formazione progressiva e a
determinazione implicita (cfr., C.d.S., sez.
IV, 25.11.2008, n. 5811) ed al conseguente
formarsi del titolo abilitativo -avverso
cui possono insorgere i terzi dallo stesso
danneggiati- per effetto del decorso del
termine fissato dalla legge (art. 91-bis
della l.p. n. 22 del 1991), entro cui
l'Amministrazione può impedire gli effetti
della D.I.A. (cfr., C.d.S., sez. IV,
13.01.2010, n. 72; sez. IV, 29.07.2008, n.
3742; sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; sez. VI,
05.04.2007, n. 1550). Secondo tale teoria,
pertanto, trattandosi di provvedimento ampliativo della sfera giuridica del
privato, il suo autoannullamento d’ufficio,
pur non ristretto entro termini di decadenza
o prescrizione, deve tuttavia essere
opportunamente coordinato con il principio
di certezza dei rapporti giuridici e di
salvaguardia del legittimo affidamento del
privato.
Secondo un’altra costruzione, il
procedimento connesso alla D.I.A. presentata
dal privato non dà luogo ad un atto
implicito di natura provvedimentale,
trattandosi, al contrario, di un atto del
privato, come tale non immediatamente
impugnabile innanzi al Tar, con la
conseguenza che l'azione a tutela del terzo
che si ritenga leso dall'attività svolta
sulla base della denuncia non è un’azione di
annullamento, ma di accertamento
dell'inesistenza dei presupposti della
D.I.A. Tale azione (che, sebbene non
legalmente tipizzata, troverebbe il suo
fondamento nel principio di effettività
della tutela giurisdizionale sancito
dall'art. 24 Cost.) andrebbe proposta nei
confronti del soggetto pubblico che ha il
compito di vigilare sulla D.I.A. e verso il
quale si produrranno poi gli effetti
conformativi derivanti dall'eventuale
sentenza di accoglimento, da pronunciarsi in
contraddittorio con il presentatore, contro
interessato processuale.
Di conseguenza, è a questo specifico aspetto
di situazioni create ed affidamenti indotti
che dovrebbe rivolgersi l’obbligo di
motivazione, per il resto essendo
sufficiente la constatata violazione delle
regole edilizie poste in essere dal
denunciante (cfr., C.d.S., sez. IV,
13.05.2010, n. 2919; sez. VI, 15.04.2010, n.
2139; sez. IV, 12.03.2009, n. 1474; sez. VI,
09.02.2009, n. 717, con ampi riferimenti
dottrinari e normativi; sez. IV, 19.09.2008,
n. 4513; sez. V, 22.02.2007, n. 948).
Questo Tribunale si è attestato sulla
seconda tesi ricostruttiva dell’istituto,
condividendo l'orientamento
giurisprudenziale sopra sintetizzato, che
ritiene il terzo leso dall’attività
denunciata legittimato all'instaurazione di
un giudizio di cognizione: ciò sul
presupposto che la denuncia di inizio
attività non è formalmente né
sostanzialmente un’istanza, ma uno strumento
di massima semplificazione, il quale resta
sottoposto all’esercizio di un potere
amministrativo successivo, finalizzato sia
al riscontro della sussistenza dei
presupposti in fatto ed in diritto meramente
allegati nella previa denuncia del privato
che all’eventuale repressione dell’illecito
edilizio (cfr., TRGA Trento, 14.05.2008,
n. 111, ed anche 10.11.2008, n. 286;
07.05.2009, n. 150; 05.10.2009, n. 248;
18.11.2009, n. 281; 17.12.2009, n. 310;
05.02.2010, n. 38; 16.11.2010, n. 219).
Qualunque sia la corretta costruzione
teorica da dare all’istituto della D.I.A. -per la quale l’ordinanza n. 14 del
05.01.2011
della IV Sezione del Consiglio di Stato ha
chiesto l’intervento chiarificatore ed
unificante dell’Adunanza Plenaria dello
stesso Consiglio- resta comunque il fatto
che a fronte di un procedimento attivato
mediante una denuncia di inizio attività del
privato i noti orientamenti
giurisprudenziali in tema di motivazione
degli atti di annullamento dei titoli
edilizi debbono essere adattati alla
particolarità della fattispecie della D.I.A.
La giurisprudenza, infatti, si è sempre
preoccupata di dare effettività alla tutela
dell'affidamento ingenerato nel cittadino
dopo il rilascio di un titolo abilitativo
esplicito e con il successivo trascorrere
del tempo in assenza di provvedimenti
inibitori dell'attività edilizia formalmente
assentita dalla stessa Amministrazione;
nonché di assicurare la necessità, per il
potere pubblico, di esercitare la propria
discrezionalità tecnica nel procedimento di
riesame del permesso rilasciato mediante un
adeguato iter istruttorio. Ha considerato
pertanto abnorme, soprattutto in casi di non
particolare complessità dell'istruttoria, il
provvedimento di annullamento che fosse
intervenuto a distanza di vari anni dal
rilascio dell'atto annullato in sede di
autotutela (cfr., con riferimento alla
concessione edilizia, C.d.S., sez. IV,
21.12.2009, n. 8529).
Se, dunque, l’affidamento del privato si
correla ad un’attività amministrativa
esplicita al fine di delimitare tempi e
contenuti dei successivi atti di autotutela,
per una serie di effetti incidenti
sull’azione e la responsabilità della
Pubblica amministrazione (motivazione dell’autoannullamento,
tempestività dell’esercizio del relativo
potere, risarcimento del danno, ecc. ) è
evidente che quell’affidamento subisce un
affievolimento -rispetto agli ordinari
canoni del potere repressivo dell’attività
edilizia illegittima o illecita- nel caso
di dichiarazione di inizio attività che, se
incompleta o inesatta rispetto alla
fattispecie teorica legislativamente
predeterminata, non produce alcun effetto di
legittimazione dell’intervento.
Con l’introduzione della D.I.A, infatti, il
Legislatore ha sostituito il principio di
imperatività con quello dell'autoresponsabilità
dell'amministrato, il quale è sì legittimato
a procedere in via autonoma, a prescindere
dall’emanazione di un provvedimento di
formale autorizzazione, ma, al contempo,
accollandosi la valutazione, in prima
battuta, dell'esistenza dei presupposti e
dei requisiti richiesti dalla normativa per
porre in essere l’attività in tal modo
liberalizzata.
Secondo la ricordata impostazione la D.I.A.,
in definitiva, è un atto di un soggetto
privato e non di una pubblica
amministrazione, che ne è invece
destinataria; essa non costituisce,
pertanto, esplicazione di una potestà
pubblicistica (cfr., C.d.S., sez. VI, n. 717
del 2009, cit.). Da ciò consegue che la
fiducia che il privato nutre circa la bontà
e la conformità alla legge del proprio
operato denunciato con la D.I.A. è meno
consistente e tutelabile di quanto non sia
l’ordinario affidamento -peraltro già di
per sé limitato in materia edilizia, stante
la natura vincolata ed obbligatoria dei
provvedimenti repressivi degli abusi-
connesso all’emanazione di un formale ed
espresso provvedimento di autorizzazione,
concessione, presa d’atto e, in genere, ampliativo della sfera giuridica del
privato.
In aggiunta a ciò, non si può non osservare
che lo stesso Legislatore, ove in ordine
alla disciplina generale dell’istituto della
D.I.A. ha precisato che è comunque “fatto
salvo il potere dell’amministrazione
competente di assumere determinazioni in via
di autotutela” (cfr., art. 23, comma 1-bis,
della l.p. 30.11.1992, n. 23, e, in termini,
art. 19, comma 3, della l. 07.08.1990, n.
241), per la particolare fattispecie della
D.I.A. edilizia ha inteso invece
ulteriormente precisare che “è fatto salvo
l’esercizio dei poteri di vigilanza di cui
al titolo X” (cfr., commi 6 e 10 dell’art.
91-bis della l.p. n. 22 del 1991), e che gli
imposti controlli successivi alla
presentazione delle denunce di inizio
attività sono quantificati solo nel minimo
(almeno il 20 per cento degli interventi in
corso, o realizzati, scelti a campione),
così lasciando all’organizzazione
amministrativa di ogni Comune la potestà di
scegliere modalità e tempi per la verifica,
anche sistematica, delle denunce di inizio
attività pervenute.
In tale prospettiva, dunque, l’ordinario
affidamento che governa i rapporti sociali
non è collocato sull’operato
dell’Amministrazione bensì in capo al
progettista. Non si può non ricordare, a
questo proposito, che la “dettagliata
relazione” di accompagnamento della D.I.A.
per opere a tale istituto soggette, la quale
“assevera la conformità delle opere da
realizzare agli strumenti urbanistici e ai
regolamenti edilizi vigenti” (cfr., comma 4
dell’art. 91-bis della l.p. n. 22 del 1991),
comporta che l’ordinamento riponga uno
specifico affidamento sulla relazione
tecnica del progettista e sulla sua
veridicità, atteso che quella relazione si
sostituisce, in via ordinaria, ai controlli
dell'ente territoriale ed offre le garanzie
di legalità e correttezza dell'intervento;
con il termine <asseverare> il legislatore
ha inteso affermare con solennità la
particolare rilevanza formale della
dichiarazione del tecnico di parte e il suo
particolare valore nei confronti dei terzi
quanto a verità ed affidabilità del
contenuto (cfr., Cass. Pen., sez. III,
16.07.2010, n. 27699)
(TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 11.05.2011 n. 135 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
l’annullamento d’ufficio del provvedimento
implicito formatosi sulla D.I.A., così come
per l’autoannullamento della concessione
edilizia o del permesso di costruire, è di
norma irrilevante -salvi casi di spazi
temporali esagerati- il tempo trascorso
dall’attività edilizia posta in essere, in
quanto la repressione degli abusi edilizi è
un preciso obbligo dell’Amministrazione
pubblica la quale, a fronte
dell’accertamento della violazione delle
norme edilizie, non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo; pertanto,
l’atto di repressione degli abusi non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva che il tempo non può giammai
legittimare.
Per
l’annullamento d’ufficio del provvedimento
implicito formatosi sulla D.I.A., così come
per l’autoannullamento della concessione
edilizia o del permesso di costruire, è di
norma irrilevante -salvi casi di spazi
temporali esagerati- il tempo trascorso
dall’attività edilizia posta in essere, in
quanto la repressione degli abusi edilizi è
un preciso obbligo dell’Amministrazione
pubblica la quale, a fronte
dell’accertamento della violazione delle
norme edilizie, non gode di alcuna
discrezionalità al riguardo; pertanto,
l’atto di repressione degli abusi non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l'esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva che il tempo non può giammai
legittimare (cfr., C.d.S., sez. IV,
01.10.2007, n. 5049 e n. 5050; 10.12.2007, n.
6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009,
n. 5229 e 11.01.2011, n. 79)
(TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 11.05.2011 n. 135 - link
a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Impianti di distribuzione
carburante.
Gli impianti di distribuzione di carburante
sono compatibili con qualsiasi destinazione
di zona, stante la loro attitudine a servire
in relazione a ogni tipo di attività. La
loro localizzazione, ai sensi dell’art. 2
del D.Lv. n. 32/1998, non è esclusa neppure
dalla destinazione dell’area a verde
pubblico o a verde attrezzato (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2011 n. 17873 -
link a www.lexambiente.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Rifiuti. Ecopiazzole e titolo
abilitativo.
Al fine di verificare la necessità o meno
dell’autorizzazione regionale per le c.d.
ecopiazzole, occorre in concreto anzitutto
verificare se si sia in presenza di un
centro di raccolta dei rifiuti e se il
centro sia rispondente ai requisiti indicati
dai decreti ministeriali di riferimento
dovendosi escludere, in caso affermativo, la
necessità di autorizzazione regionale e,
dunque la configurabilità del reato per il
mancato rilascio.
Solo nel caso in cui si verifichi la non
rispondenza alle previsioni indicate o si
accerti l’effettuazione presso il centro di
raccolta di attività che esulano dalla
funzione propria di essi, si potrà valutare
la necessità dell’autorizzazione regionale
traendo le necessarie conseguenze sul piano
penale dalla sua mancanza (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.05.2011 n. 17864 -
link a www.lexambiente.it). |
URBANISTICA:
Lottizzazione e anticipazione dei
lavori di costruzione degli edifici
residenziali, rispetto alle opere di
urbanizzazione primaria.
La
anticipazione dei lavori di costruzione
degli edifici residenziali, rispetto alla
compiuta realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria poste a carico dei
lottizzanti, integra inadempimento della
convenzione di lottizzazione e non
costituisce violazione di un mero obbligo
civilistico, poiché le convenzioni di
lottizzazione si presentano quale momento
indefettibile del complesso procedimento di
pianificazione urbanistica che si conclude
con l’approvazione del piano di
lottizzazione, sicché le stesse configurano
un modulo organizzativo attraverso il quale
si imprime un determinato statuto ai beni
che ne formano oggetto (Corte di cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 09.05.2011 n. 17834 -
link a www.lexambiente.it). |
APPALTI:
Mancanza di un documento -
Addebitabilità alla formulazione della lex
specialis - Tutela della par condicio e del
principio di massima partecipazione - Invito
a completare e chiarire la documentazione.
Nel caso in cui la mancanza di un documento
è da addebitarsi innanzitutto alla
formulazione della lex specialis,
piuttosto che alla colpa del privato, la
stazione è tenuta ad invitare il concorrente
a completare e chiarire la documentazione
presentata, a tutela della par condicio e
del principio di massima partecipazione,
senza che possa assumere rilievo la
distinzione, in altri casi dirimente, tra
mancanza della dichiarazione ed
incompletezza della stessa, che finirebbe
per violare la ratio stessa dell’art.
46 del d.lgs. 163/2006.
Condotta colposa della
stazione appaltante - Conseguenze -
Traslazione a carico del soggetto
concorrente - Esclusione - Fattispecie.
La tutela dell’affidamento e la correttezza
dell’azione amministrativa impediscono che
le conseguenze di una condotta colposa della
stazione appaltante (quale, nel caso di
specie, finisce per essere l’imprecisa
dizione letterale del disciplinare) possano
essere traslate a carico del soggetto
concorrente, comminandogli la sanzione
dell’esclusione dalla gara (fattispecie
relativa alla previsione, nel disciplinare,
della causa di esclusione ex art. 38, c. 1,
lett. b), del d.lgs. n. 163/2006; mentre la
legge fa riferimento alla posizione degli
amministratori muniti di poteri di
rappresentanza, il disciplinare di gara si
riferiva invece agli amministratori muniti
di potere di firma e di rappresentanza
legale) (TAR Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 09.05.2011 n. 2587 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso di costruire in
sanatoria - Istanza dell’interessato -
Necessità - Abusi edilizi - Amministrazione
- Obbligo di valutare la sanabilità -
Insussistenza.
Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36
del D.P.R. n. 380/2001 si desume che il
rilascio del permesso di costruire in
sanatoria consegue necessariamente ad
un’istanza dell’interessato, mentre al
Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma
1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della
vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia
che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione
di opere in assenza del prescritto permesso
di costruire, l’Amministrazione comunale
deve senz’altro disporne la demolizione, non
essendo tenuta a valutare preventivamente la
sanabilità delle stesse (ex multis,
TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006,
n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Ordine di demolizione -
Presupposto - Motivazione.
Presupposto per l’adozione dell’ordine di
demolizione di opere abusive è soltanto la
constatata esecuzione di un intervento
edilizio in assenza del prescritto titolo
abilitativo, con la conseguenza che, essendo
tale ordine un atto dovuto, esso è
sufficientemente motivato con l’accertamento
dell’abuso, e non necessita, quindi, di una
particolare motivazione in ordine alle
disposizioni normative che si assumono
violate, né in ordine all’interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso, che è in re
ipsa, consistendo nel ripristino
dell’assetto urbanistico violato (ex
multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV,
28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n.
7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987).
Ordine di demolizione -
Motivazione - Indicazione dei dati catastali
dell’immobile - Necessità - Esclusione.
Nella motivazione dell’ordine di demolizione
è necessaria e sufficiente l’analitica
descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle
spontaneamente, mentre non è necessaria una
puntuale identificazione - mediante i dati
catastali - della superficie occupata dalle
stesse (TAR Toscana Firenze, Sez. III,
06.02.2008, n. 117; TAR Campania Napoli,
Sez. III, 17.12.2007, n. 16311) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 06.05.2011 n. 2562 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO -
Impianti di telecomunicazione - DIA -
Incompletezza documentale - Rigetto
dell’istanza - Illegittimità - Onere
dell'amministrazione di invitare
l'interessato ad integrare la documentazione
mancante.
La mancata allegazione, alla denuncia di
inizio attività (d.i.a) presentata ai sensi
del d.lgs. n. 259 del 2003, di taluni
documenti, non è idonea a sorreggere la
decisione, di dichiarare "improcedibile",
"inefficace e come mai presentata" la
stessa denuncia.
L'incompletezza documentale non è infatti di
per sé solo causa di rigetto di istanze
prodotte alla pubblica amministrazione, in
quanto sussiste, per principio generale del
procedimento amministrativo desumibile
dall'art. 6, lett. b), della legge n. 241
del 1990, l'onere dell'amministrazione di
invitare l'interessato ad integrare la
documentazione mancante (cfr. per tutte, Tar
Campania, sez. IV, n. 500/2004).
Tale principio è pacificamente applicabile
anche alla d.i.a. relativa ad impianti di
telecomunicazioni, posto che l'art. 87,
comma 5, del d.lgs. n. 259 del 2003, recante
il Codice delle comunicazioni elettroniche,
espressamente prevede la possibilità di
integrazioni documentali.
INQUINAMENTO
ELETTROMAGNETICO - Potestà regolamentare del
Comune - Sospensione generalizzata degli
interventi di installazione di stazioni
radio base nelle more dell’approvazione del
regolamento - Illegittimità.
Ferma la potestà regolamentare dei Comuni
-nell'ambito del perimetro delineato dagli
artt. 86 ed 87 del d.l.vo 259/2003 e l. 36
del 2001 nell'interpretazione operatane
dalla giurisprudenza costituzionale (cfr.,
in particolare, Corte cost., sentenze n. 307
e n. 331 del 2003; n. 336 del 2005 e n. 103
del 2006)- nelle more dell'adozione dei
regolamenti non può ritenersi sussistere un
potere, generale ed assoluto, di sospensione
della realizzabilità degli interventi
finalizzati all’installazione degli impianti
di telefonia mobile (v. anche C.d.S., Sez.
VI, 27.12.2010, n. 9414).
INQUINAMENTO
ELETTROMAGNETICO - DIRITTO URBANISTICO -
Formazione del titolo abilitativo -
Sospensione dell’efficacia per mancanza del
certificato di regolarità contributiva.
Formatosi il titolo abilitativo, anche per
silentium, prima dell'inizio dei
lavori deve essere prodotto il certificato
di regolarità contributiva, di cui alla
lettera b-bis, dell’art. 3, comma 8, del
d.l.vo 14.08.1996, n. 494 (recante le
prescrizioni minime di sicurezza e di salute
da attuare nei cantieri temporanei o mobili
in attuazione della direttiva 92/57/CEE),
quale vigente a seguito delle modifiche da
ultimo apportate dal d.l.vo 06.10.2004, n.
251: nelle more di tale incombente
l'efficacia del titolo resta sospesa, per
diretta previsione di legge (TAR
Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 06.05.2011 n. 2555 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Nei
cottimi fiduciari meno vincoli sulle
offerte.
Per i cottimi fiduciari le norme in tema di
verifica delle offerte anomale si applicano
solo in via di principio e non come regole
di dettaglio.
Lo chiarisce il TAR Lombardia-Milano, Sez.
I, con l'ordinanza
05.05.2011 n. 739 che ha accolto
la sospensiva richiesta dalla ditta seconda
in graduatoria in una procedura di cottimo,
proprio perché l'amministrazione appaltante
non ha posto in essere la procedura di
verifica dell'anomalia dell'offerta
aggiudicataria. ...
(articolo ItaliaOggi
del 04.06.2011 - tratto da www.corteconti.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Violazioni normativa antisismica
e natura permanente dei reati.
Il reato di cui agli artt. 93 e 95 del
D.P.R. n. 380/2001 (omesse denunzia dei
lavori e presentazione dei progetti) permane
sino a quando chi intraprende un lavoro
edile in zona sismica non presenta la
prescritta denuncia con l’allegato progetto
ovvero non porta ad ultimazione il lavoro
medesimo. Fino al verificarsi delle
condizioni anzidette, infatti, persiste la
lesione del bene giuridico protetto, perché
l’ufficio tecnico regionale non è messo in
grado di controllare la conformità delle
opere alle norme tecniche stabilite al
riguardo: il contravventore, inoltre, potrà
fare cessare la condotta antigiuridica
presentando la denuncia anche dopo l’inizio
dei lavori (oltre che interrompendo i
medesimi). Ne consegue, attesa la ratio
della norma, che il dovere di agire imposto
dall’art. 93 perdura nel tempo anche dopo
l’inizio dei lavori, benché cominci ad
essere vincolante prima di tale inizio.
Il reato di cui agli artt. 94, 1° comma, e
95 del D.P.R. n. 380/2001 (inizio dei lavori
senza preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della Regione)
permane sino a quando chi intraprende un
lavoro edile in zona sismica termina il
lavoro ovvero ottiene la relativa
autorizzazione. Nelle more il contravventore
esegue e prosegue lavori non autorizzati in
relazione ai quali l’ufficio tecnico
regionale non ha verificato la conformità
alle norme tecniche di sicurezza stabilite
per le zone sismiche di media o alta
intensità (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 04.05.2011 n. 17217 -
link a www.lexambiente.it). |
APPALTI: Le
vecchie violazioni dell'incorporata bloccano
l'appalto.
Pesano le false dichiarazioni sul rispetto
della normativa previdenziale.
Nelle gare pubbliche anche il "passato"
delle società va messo sotto esame. Nel
verificare il possesso dei requisiti morali
ex articolo 38, Dlgs 163/2006 per
l'affidamento di contratti pubblici, la
stazione appaltante (e per converso
l'impresa partecipante) deve attentamente
valutare gli elementi caratterizzanti
l'eventuale vicenda societaria
(trasformazione, fusione, incorporazione)
antecedente la partecipazione alla gara. E
laddove non vi sia effettiva estinzione di
una delle parti dell'operazione
straordinaria, bensì identità tra il
soggetto originario e quello successivo,
dovranno essere prese in considerazione
anche le eventuali infrazioni ex ante
commesse dai soggetti apicali dell'impresa
originaria, che andranno pertanto
evidenziate dall'impresa partecipante nelle
proprie autodichiarazioni sul possesso dei
requisiti richiesti dal legislatore.
La questione, affrontata dal Consiglio di
Stato, Sez. VI, nella
sentenza
04.05.2011 n. 2662, trae spunto
da una vicenda relativa a una gara pubblica
indetta per la costruzione di fabbricati
destinati a ospitare alloggi di edilizia
residenziale pubblica. La gara era stata
aggiudicata a un operatore economico
risultante dall'incorporazione di un'altra
impresa, cui la stazione appaltante, sul
presupposto della continuità tra le due
imprese, aveva medio tempore revocato in
autotutela l'aggiudicazione per alcune
irregolarità, compiute antecedentemente e in
via autonoma dall'impresa incorporata,
relative alla violazione delle norme
concernenti false dichiarazioni in ordine al
rispetto della normativa in materia
previdenziale, con conseguente segnalazione
all'Osservatorio dei Lavori pubblici, e
interdizione alla contrattazione con la
pubblica amministrazione.
Nel caso in esame si applica l'articolo 38
del Dlgs 163/2006, sostitutivo dell'articolo
75 del Dpr 21.12.1999, n. 554, che
richiede alle imprese partecipanti a una
gara pubblica di autocertificare il possesso
di alcuni requisiti, tra i quali anche il
fatto di non aver commesso violazioni gravi
e definitivamente accertate in materia di
contributi previdenziali e assistenziali.
Il tema della trasmissibilità delle
violazioni previdenziali –e più in generale
delle cause di esclusione di cui
all'articolo 38– evidenziato dalla Sezione
è in effetti privo di un'espressa
regolamentazione normativa.
Tuttavia, i giudici amministrativi hanno
evidenziato come nell'ottica di un
affidamento di contratti pubblici, sia
imprescindibile valutare attentamente gli
elementi caratterizzanti un'eventuale
operazione straordinaria effettuata dal
l'operatore a monte della partecipazione
alla gara: al di là del "velo" della forma
societaria, la stazione appaltante dovrà
dunque verificare se la vicenda societaria
comporti estinzione o continuità del
soggetto privo dei requisiti morali.
In quest'ultimo caso, come nella vicenda in
esame, è evidente che il nuovo soggetto –per effetto della trasmissibilità– incorre
nel difetto dei requisiti morali del
precedente; nel primo caso (ad esempio a
seguito di una fusione per incorporazione)
l'estinzione del soggetto incorporato a
seguito dell'assorbimento del medesimo in un
soggetto preesistente, non comporta invece a
discapito di quest'ultimo alcuna
trasmissione del difetto dei requisiti di
ordine morale riconducibile ai soggetti
apicali dell'impresa incorporata, ferma
restando la responsabilità patrimoniale a
fini previdenziali dell'impresa
incorporante.
Questi approfondimenti rilevano pertanto
nell'ambito dell'autodichiarazione resa
dall'impresa concorrente, per evitare dunque
possibili strumentalizzazioni delle
disposizioni normative e per scongiurare
l'adozione di soluzioni abusive volte, nel
silenzio della legge, a eludere precisi
obblighi con il ricorso a (fittizie)
modificazioni soggettive delle parti in
spregio della libera concorrenza (articolo Il Sole 24
Ore del 30.05.2011 - tratto da www.ecostampa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni abusive - Ordinanza
di demolizione - Eventuale sanabilità
dell'opera - Preventiva valutazione da parte
dell'Amministrazione Comunale - Carenza -
Legittimità del provvedimento -
Insussistenza di obblighi al riguardo in
capo alla P.A..
E' legittima l'ordinanza di demolizione
adottata dalla competente Amministrazione
comunale in assenza di qualsivoglia
valutazione in ordine alla eventuale
sanabilità dell'opera, della quale è
ordinata la demolizione, ai sensi dell'art.
36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
In presenza di un abuso edilizio la vigente
normativa urbanistica non pone, invero,
alcun obbligo in capo all'Autorità comunale,
prima di emanare l'ordinanza di demolizione,
circa una verifica della sanabilità della
stessa ai sensi della richiamata normativa,
come chiaramente evincibile dal dato
testuale di cui agli artt. 27 e 31, D.P.R.
n. 380 del 2001.
In tal senso mentre le disposizioni
legislative da ultimo richiamate obbligano
il responsabile del competente ufficio
comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna
valutazione di sanabilità, il già menzionato
art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001 rimette alla
esclusiva iniziativa della parte interessata
l'attivazione del procedimento di
accertamento di conformità urbanistica ivi
disciplinato (massima tratta da
www.immobili24.ilsole24ore.com - TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza
04.05.2011 n. 2442 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
rilascio della sanatoria edilizia ai sensi
degli artt. 31 e segg. L. 47/85, se da un
lato rende legittimo l’edificio che era,
strutturalmente e funzionalmente, abusivo,
dall’altro non conferisce alcun ulteriore
beneficio automatico o vantaggio, attuale o
potenziale; pertanto non può essere variata
automaticamente la destinazione urbanistica
del terreno ove insiste l’edificio condonato
e nemmeno può ritenersi mutata la relativa
normativa urbanistica.
I volumi oggetto di condono edilizio possono
essere utilizzati solo nello stato di fatto
e diritto presupposto al titolo edilizio
rilasciato in base alla L. 47/1985. Gli
edifici condonati, dunque, possono essere
successivamente fatti oggetto solo di
interventi finalizzati alla conservazione
dell’immobile nello stato in cui é sorto e
ad una utilizzazione di esso per una
finalità conforme a quella originaria.
Sono pertanto ammissibili, su un immobile
oggetto di condono, solo gli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria. In
particolare l’immobile condonato neppure può
essere fatto oggetto di ristrutturazione
attuata mediante demolizione, totale o
parziale, e ricostruzione dell’edificio con
identica volumetria e sagoma, giacché con la
demolizione, anche solo parziale, l’immobile
condonato non esiste più nella sua
conformazione originaria e quindi si perdono
i benefici derivanti dal condono, che era
stato rilasciato sul presupposto di una
determinata situazione di fatto e diritto.
Ove, poi, l’immobile sia stato condonato in
quanto non conforme alla destinazione
urbanistica osterebbe alla possibilità di
procedere alla demolizione parziale
dell’edificio condonato seguita da
ricostruzione la constatazione che questa
ultima dovrebbe osservare la destinazione
urbanistica ed i parametri edilizi vigenti e
che pertanto si determinerebbe la
coesistenza, su uno stesso fondo, di
destinazioni urbanistiche tra di loro
incompatibili.
Dal condono edilizio non può conseguire
automaticamente alcun beneficio ulteriore a
quello derivante dal mantenimento dell’opera
abusiva.
Il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza
01/10/2002 n. 5117, ha affermato che “Il
rilascio della sanatoria edilizia ai sensi
degli artt. 31 e segg. L. 47/1985, se da un
lato rende legittimo l’edificio che era,
strutturalmente e funzionalmente, abusivo,
dall’altro non conferisce alcun ulteriore
beneficio automatico o vantaggio, attuale o
potenziale; pertanto non può essere variata
automaticamente la destinazione urbanistica
del terreno ove insiste l’edificio condonato
e nemmeno può ritenersi mutata la relativa
normativa urbanistica”.
Tale assunto appare assolutamente
condivisibile, sol che si pensi che il
contrario significherebbe ammettere che
qualsiasi soggetto possa ottenere una
destinazione urbanistica dei propri fondi
più favorevole, o quantomeno più confacente
alle proprie esigenze, semplicemente
passando per le vie di fatto e confidando
sulla periodica riapertura dei termini per
presentare la sanatoria straordinaria di cui
agli artt. 31 e segg. L. 47/1985, ciò che si
tradurrebbe in un vantaggio ingiustificabile
in quanto rivolto a favore di un soggetto
che ha scelto di porsi in contrasto con
l’ordinamento giuridico.
Dai titoli autorizzativi “in sanatoria”
rilasciati in base agli artt. 31 e segg. L.
47/1985, quindi, consegue il solo effetto di
impedire che all’opera abusiva vengano
applicate le varie sanzioni previste dalla
legge, tra cui la demolizione e la nullità
degli atti di vendita, consentendo così ai
beni stessi di poter circolare liberamente
in modo legale; essi, invece, non hanno il
potere di rendere l’opera abusiva “conforme”
alla normativa urbanistica vigente, né fanno
acquisire al proprietario del fondo il
diritto di disporre liberamente della
volumetria oggetto di condono, dal momento
che il condono esprime la rinuncia dello
Stato ad esercitare una potestà
sanzionatoria, rinuncia che deve
considerarsi assolutamente eccezionale.
Segue da quanto sopra esposto che i volumi
oggetto di condono edilizio possono essere
utilizzati solo nello stato di fatto e
diritto presupposto al titolo edilizio
rilasciato in base alla L. 47/1985. Gli
edifici condonati, dunque, possono essere
successivamente fatti oggetto solo di
interventi finalizzati alla conservazione
dell’immobile nello stato in cui é sorto e
ad una utilizzazione di esso per una
finalità conforme a quella originaria.
Sono pertanto ammissibili, su un immobile
oggetto di condono, solo gli interventi di
manutenzione ordinaria e straordinaria. In
particolare l’immobile condonato neppure può
essere fatto oggetto di ristrutturazione
attuata mediante demolizione, totale o
parziale, e ricostruzione dell’edificio con
identica volumetria e sagoma, giacché con la
demolizione, anche solo parziale, l’immobile
condonato non esiste più nella sua
conformazione originaria e quindi si perdono
i benefici derivanti dal condono, che era
stato rilasciato sul presupposto di una
determinata situazione di fatto e diritto.
Ove, poi, l’immobile sia stato condonato in
quanto non conforme alla destinazione
urbanistica –come é avvenuto nel caso di
specie-, osterebbe alla possibilità di
procedere alla demolizione parziale
dell’edificio condonato seguita da
ricostruzione la constatazione che questa
ultima dovrebbe osservare la destinazione
urbanistica ed i parametri edilizi vigenti e
che pertanto si determinerebbe la
coesistenza, su uno stesso fondo, di
destinazioni urbanistiche tra di loro
incompatibili
(TAR Puglia-Bari, Sez. II,
sentenza 28.04.2011 n. 1637 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzioni abusive - Stato di
degrado dell’area - Motivo di
giustificazione dell’abuso - Esclusione.
Lo stato di degrado e disordine ambientale
non può costituire motivo di giustificazione
della costruzione abusiva, atteso che
diversamente opinando non avrebbe senso
neppure l’imposizione del relativo vincolo,
finalizzato proprio a prevenire
l’aggravamento della situazione e di
perseguire il possibile recupero, (C.d.S.,
sez. V, 27.03.2000, n. 1761; 27.04.2010, n.
2377).
Nulla osta paesaggistico
- Verifica della correttezza del giudizio
espresso dall’amministrazione preposta -
Sopralluogo - Necessità - Esclusione.
In tema di rilascio di nulla-osta
paesaggistico, l’attività di verifica della
correttezza del giudizio espresso
dall’amministrazione preposta alla tutela
del vincolo e del conseguente provvedimento
comunale non implica necessariamente il
compimento di un effettivo sopralluogo, ben
potendo limitarsi alla valutazione
documentale della condotta tenuta dalle
amministrazioni interessate (C.d.S., sez. VI,
27.04.2010, n. 2377).
Amministrazione preposta
alla tutela del vincolo paesaggistico -
Prescrizioni dirette ad assicurare la
compatibilità delle opere con il vincolo -
Dovere - Esclusione.
L’amministrazione preposta alla tutela del
vincolo e/o l’amministrazione comunale non è
tenuta ad indicare gli eventuali
accorgimenti ed interventi volti a rendere
compatibile le opere abusivamente realizzate
con l’ambiente circostante al fine di
consentire la sanabilità delle stesse.
Un simile dovere di soccorso, invero, non
solo non trova alcun fondamento positivo
specifico, ma neppure può trovare
radicamento nei principi costituzionali
(art. 97 Cost.) cui deve improntarsi
l’azione amministrativa, ciò in quanto in
ogni caso l’amministrazione deve esercitare
il potere conferitole dalla legge per il
perseguimento dell’interesse pubblico, nel
caso di specie quello della tutela della
bellezza del paesaggio dell’area
interessata, certamente prevalente rispetto
a quello privato alla conservazione delle
opere realizzate abusivamente senza i
necessari permessi richiesti dalla legge.
Vincolo paesaggistico -
Abuso edilizio - Ordine di demolizione -
Atto vincolato - Affidamento del privato -
Possibile sussistenza - Esclusione.
Come tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, il provvedimento di
demolizione è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una
comparazione di quest’ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati,
né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi
l’esistenza di alcun affidamento tutelabile
alla conservazione di una situazione di
fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n.
5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n.
3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229)
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2011 n. 2527 -
link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI:
Subappalto - Divieto di cui
all’art. 37 d.lgs. n. 163/2006 -
Individuazione delle opere - Criterio
sostanziale.
L'individuazione delle opere rientranti nel
divieto di subappalto di cui all’art. 37 del
d.lgs. n. 163/2006 dev’essere di tipo
sostanziale, non formale (con riguardo,
cioè, alle declaratorie ex d.P.R. n.
34/2000, all. A, delle o.g. e delle o.s.),
per cui, ai fini dell'applicabilità del
divieto, occorre verificare, di volta in
volta, in rapporto a ciascun appalto, se le
opere classificate come generali siano in
concreto di "notevole contenuto
tecnologico o di rilevante complessità
tecnica", indipendentemente dalla
relativa declaratoria formale: prevale
l’esigenza di evitare che l’aggiudicataria,
classificata per le opere prevalenti, agisca
da copertura per una serie di mascherati
subappalti concernenti proprio le opere di
maggiore complessità tecnologica (cfr. C.S.,
sez. IV, dec. 19.10.2004 n. 6701; sez. VI,
dec. 19.08.2003 n. 4671) (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 27.04.2011 n. 2479 -
link a www.ambientediritto.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Conferenza decisoria e
autorizzazione paesaggistica. “Serve sempre
un autonomo, espresso e puntuale
provvedimento di autorizzazione da parte
dell’ente.
La recente
sentenza 18.04.2011 n. 2378 del
Consiglio di Stato, Sez. VI, si segnala per
la sua indubbia rilevanza sul tema della
conferenza di servizi c.d. decisoria
applicata alle vicende dell’autorizzazione
paesaggistica. L’importanza della decisione
risiede tra l’altro nel fatto di confermare
in maniera definitiva l’orientamento dei
giudici di Palazzo Spada sulla
configurazione del modulo procedimentale
della conferenza di servizi.
Il principio affermato nella decisione
richiamata è che la conferenza di servizi
decisoria non è di per sé idonea a
legittimare dal punto di vista paesaggistico
l’intervento compiuto, se non segue un
autonomo, espresso e puntuale provvedimento
di autorizzazione da parte dell’ente
competente e se la Soprintendenza, che può
legittimamente discostarsi dalle risultanze
della conferenza, non ha poi esercitato in
senso favorevole la sua susseguente funzione
di cogestione del vincolo.
Come è noto, la conferenza di servizi
decisoria è prevista in quei casi in cui
l’Amministrazione procedente deve acquisire
intese, concerti, nullaosta o assensi di
altre amministrazioni pubbliche,
concludendosi con una decisione che tiene
luogo dei citati atti di assenso. In termini
generali, essa è disciplinata dell’art. 14,
commi 2 e 4 della l. 241/1990, nonché dai
successivi articoli 14-ter e 14-quater. Si
differenzia da altre tipologie di conferenze
di servizi, quali l’istruttoria e la
preliminare o preventiva. In buona sostanza,
la conferenza decisoria permette una
valutazione contestuale degli interessi
pubblici coinvolti accelerando e
semplificando la scansione procedimentale.
Nell’affrontare il caso in esame il
Consiglio di Stato ribadisce e conferma il
proprio orientamento –già espresso, tra
l’altro, da Cons. Stato, VI, 11.12.2008,
Cons. Stato, VI, 09.11.2010, n. 7891 e, da
ultimo, Cons. Stato, VI, 31.01.2011, n. 712–
in base al quale la conferenza decisoria, in
quanto modulo procedimentale, è
caratterizzata da una struttura dicotomica
articolata in una fase endoprocedimentale ed
in una successiva fase esoprocedimentale.
Soltanto nella seconda , con valenza
esterna, si ha l’effettiva determinazione
della fattispecie, incidendo sulle
situazioni degli interessati.
Tale configurazione si fonda su precisi
argomenti interpretativi di natura
logico-sistematica, quali:
a) l’abrogazione della previsione normativa
che enunciava il carattere immediatamente
esecutivo della determinazione conclusiva
dei lavori della conferenza;
b) l’abrogazione della previsione normativa
che consentiva alle amministrazioni
dissenzienti di impugnare direttamente ed
immediatamente la determinazione conclusiva
dei lavori della conferenza;
c) l’anticipazione al momento della
conclusione dei lavori della conferenza
della palese espressione delle volontà delle
amministrazioni che vi partecipano non può
comportare la de quotazione sistematica
delle ragioni che pongono la distinzione tra
il momento conclusivo della conferenza ed il
successivo momento provvedi mentale;
d) la scelta di mantenere un provvedimento
espresso come momento conclusivo della
complessiva vicenda appare ispirato dalla
volontà di lasciare inalterato il
complessivo sistema di garanzie e
responsabilità trasfuso nel nuovo Capo
IV-bis della legge n. 241 del 1990, con
particolare riguardo all’onere di
comunicazione, all’acquisto di efficacia e
–sussistendone le condizioni– al carattere
di esecutorietà del provvedimento.
Nel corpo della decisione si ribadisce che
in capo all’autorità procedente resta ferma
l’autonomia del potere provvedimentale, cui
è rimessa la determinazione finale, previa
valutazione delle specifiche risultanze
della conferenza, tenendo conto delle
posizioni “prevalenti” ivi espresse.
Rimanendo intatta l’imputazione all’autorità
procedente della responsabilità derivante
dalla decisione amministrativa che segue la
valutazione collegiale, secondo il Consiglio
di Stato non vi può essere un nesso di
consequenzialità automatica con le
determinazioni della conferenza stessa,
perché all’imputazione autonoma deve
corrispondere un’autonomia di valutazione,
anche se è necessario dover tenere conto
delle risultanze della conferenza e delle
posizioni prevalenti.
Portando alle estreme conseguenze il proprio
ragionamento logico-giuridico, i giudici
evidenziano che non accogliendo l’assunto
dell’autonomia di valutazione e della
imputazione di responsabilità
all’amministrazione procedente si
giungerebbe irragionevolmente a configurare
in capo agli altri partecipanti alla
conferenza stessa, l’assunzione occasionale
di un potere pubblico non di loro competenza
e per giunta senza responsabilità. La
conferenza non potrebbe essere più
considerata come occasione procedimentale di
accelerazione e coordinamento dei casi
complessi, ma luogo di formazione collegiale
della decisione: ciò che è negato dalla
dominante giurisprudenza.
L’autorità procedente dunque deve tener
conto delle risultanze della conferenza per
ciò che può concernere l’apporto conoscitivo
di fatto circa gli elementi propri della sua
valutazione, ma conserva nel merito il suo
potere, perché la cura di sua competenza va
esercitata con il provvedimento
appositamente nominato dall’ordinamento e
secondo il suo contenuto tipico.
Conseguentemente il modulo della conferenza
di servizi c.d. decisoria, applicato alle
vicende di autorizzazione paesaggistica, per
quanto possa essere utile ad un esame
contestuale e sollecito dell’istanza e possa
comportare il raccordo con gli altri
procedimenti, non è di per sé idoneo a
legittimare dal punto di vista paesaggistico
l’intervento, se non è seguito da un
autonomo, espresso e puntuale provvedimento
di autorizzazione da parte dell’ente
competente e se la Soprintendenza non ha poi
esercitato in senso favorevole all’istanza
stessa la sua susseguente funzione di
cogestione del vincolo.
In conclusione, i giudici hanno sostenuto
che la formulazione del parere conclusivo
nella conferenza di servizi non è idonea a
consumare il potere di provvedere in ordine
agli aspetti attinenti alla tutela
paesaggistica e che pertanto, nel caso in
esame, ben poteva la Soprintendenza, nella
sua competenza, discostarsi dalla risultanze
della conferenza di servizi. A ben guardare
si tratta dell’ennesimo riconoscimento della
esclusiva competenza delle Soprintendenze a
dire “l’ultima parola” in sede di
tutela paesaggistica, in ossequio ai
principi costituzionali, sanciti
dall’articolo 9 (commento tratto da
www.leggioggi.it - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autorizzazione paesaggistica -
Conferenza di servizi decisoria - Idoneità
alla legittimazione dell’intervento -
Esclusione - Necessità di un autonomo
provvedimento di autorizzazione da parte
dell’ente competente.
Il modulo della conferenza di servizi c.d.
decisoria, applicato alle vicende di
autorizzazione paesaggistica, per quanto
possa essere utile ad un esame contestuale e
sollecito dell’istanza e possa comportare il
raccordo con gli altri procedimenti, non è
di suo idoneo a legittimare dal punto di
vista paesaggistico l’intervento, se non è
seguito da un autonomo, espresso e puntuale
provvedimento di autorizzazione da parte
dell’ente competente e se la soprintendenza
non ha poi esercitato in senso favorevole
all’istanza stessa la sua susseguente
funzione di cogestione del vincolo
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 18.04.2011 n. 2378 -
link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Danni da dequalificazione per il
dipendente assegnato ad altre mansioni senza
adeguata formazione.
Il dipendente assegnato
dal datore di lavoro a nuove mansioni ha
diritto al risarcimento del danno da
dequalificazione se non riesce a svolgerle
per non aver ricevuto un'adeguata
formazione. In questo caso, infatti, deve
essere indennizzato il disagio dovuto
"all'evidente ed incolpevole imperizia" in
quanto lesivo per la dignità e il prestigio
professionale.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez.
lavoro,
sentenza 14.04.2011 n. 8527, che
ha respinto il ricorso di una società nei
confronti di un proprio dipendente che era
stato assegnato all'uso di un elaboratore
elettronico senza la preventiva e necessaria
istruzione. In questo caso, ha affermato la
Cassazione, il giudice deve determinare il
danno in via equitativa (massima tratta e
link a www.diritto24.ilsole24ore.com - link
a www.giustizia-amministrativa.it).
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Demansionamento senza
formazione. La Cassazione amplia il
riconoscimento.
Stretta della Cassazione sul demansionamento.
Ha diritto a essere risarcito anche del
danno morale il lavoratore a cui sono state
affidate nuove mansioni senza nessuna
formazione, soprattutto se viene assegnato
all'uso del Pc.
È quanto affermato dalla Suprema corte che,
con la sentenza n. 8527 del 14.04.2011, ha
respinto il ricorso di un'azienda condannata
a risarcire un dipendente trasferito e al
quale erano state affidate nuove mansioni,
senza nessuna preventiva istruzione.
In particolare l'impiegato, che da sempre si
era occupato di amministrazione, era stato
assegnato all'uso dell'elaboratore
elettronico. Ma non aveva ricevuto nessun
tipo di istruzione. Aveva quindi avuto delle
forti difficoltà a ingranare nella nuova
attività. Per questo aveva chiesto al
tribunale di Milano il risarcimento del
danno.
I giudici avevano accolto l'istanza. La
Corte d'appello e ora la Cassazione hanno
reso definitiva la decisione, respingendo il
ricorso dell'azienda.
In sentenza si legge che «l'assunto della
società è infondato, in quanto le
considerazioni svolte dalla Corte
territoriale non conducono a tale
conclusione, avendo la stessa, alla luce
dell'istruttoria esperita, osservato come il
lavoratore fosse stato assegnato all'uso
dell'elaboratore elettronico senza la
previa, necessaria istruzione e quindi con
disagio dovuto all'evidente e incolpevole
imperizia e con conseguente pregiudizio per
la dignità personale e per il prestigio
professionale, tutelati dall'art. 35, primo
comma, Cost.».
C'è di più. «In caso di accertato
demansionamento professionale del lavoratore»,
si legge in un altro passaggio chiave delle
motivazioni, «in violazione dell'art.
2103 c.c., il giudice di merito, con
apprezzamento di fatto incensurabile in
cassazione se adeguatamente motivato, può
desumere l'esistenza del relativo danno,
determinandone anche l'entità in via
equitativa, con processo logico-giuridico
attinente alla formazione della prova, anche
presuntiva, in base agli elementi di fatto
relativi alla qualità e quantità della
esperienza lavorativa pregressa, al tipo di
professionalità colpita, alla durata del
demansionamento, all'esito finale della
dequalificazione e alle altre circostanze
del caso concreto» (articolo ItaliaOggi
del 15.04.2011). |
ESPROPRIAZIONE:
Palla alla Consulta su mancata
dichiarazione Ici.
Sarà la Corte
costituzionale a decidere se il contribuente
che non ha presentato la dichiarazione Ici
dev'essere privato, in caso di
espropriazione per pubblica utilità, della
relativa indennità.
A rimettere gli atti a Palazzo della
Consulta sono state le Sezioni unite civili
della Corte di Cassazione che, con l'ordinanza
14.04.2011 n. 8489, non hanno
ritenuto manifestamente infondata la
questione di legittimità dell'articolo 16
del dlgs 504 del '92 e in particolare della
sua interpretazione che ha ritenuto finora
non dovuta al contribuente l'indennità di
esproprio in caso di mancata dichiarazione
Ici.
Insomma, ha sancito il Collegio esteso, «ritenuta
la rilevanza nel giudizio in corso e la non
manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell'art. 16,
comma 1, del dlgs 30.12.1992, n. 504, oggi
art. 37, comma 7, dpr 08.06.2001, n. 327,
nella parte in cui, in caso dì omessa
dichiarazione/denuncia Ici o di
dichiarazione/denuncia di valori
assolutamente irrisori, non stabilisce un
limite alla riduzione dell'indennità di
esproprio, idoneo a impedire la totale
elisione di qualsiasi ragionevole rapporto
tra il valore venale del suolo espropriato e
l'ammontare della indennità, pregiudicando
in tal modo anche il diritto a un serio
ristoro, spettante all'espropriato, con
riferimento agli artt. 117, primo comma, e
42, terzo comma, Cost., anche in
considerazione del disposto dell'art. 6 e
dell'art. 1, del primo protocollo
addizionale della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo e delle libertà
fondamentali».
Ora la parola passa ai giudici delle leggi
che, nei prossimi mesi, dovranno stabilire
se è conforme alla Carta fondamentale
l'interpretazione obbligata delle norme
sull'Ici per cui l'indennità di
espropriazione va esclusa in caso di mancata
dichiarazione.
L'iter giudiziario del contribuente si
allungherà ancora. Infatti, oltre al
passaggio al Collegio esteso di Piazza
Cavour deciso dalla prima sezione civile,
ora si dovrà attendere il verdetto della
Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi
del 15.04.2011). |
EDILIZIA PRIVATA:
Abuso edilizio, l'illecito
permanente esclude l'usucapione.
Non si può dar luogo
all'usucapione di un manufatto abusivo,
nemmeno dopo lo scadere dei 20 anni previsti
dalla legge.
E' quanto ha stabilito il TAR Lazio-Roma,
Sez. I-quater, con la
sentenza 24.03.2011 n. 2606.
E' irrilevante la persistenza dell'opera da
20 anni, in quanto è comunque necessario il
titolo edilizio per legittimare
l'usucapione; il decorso del tempo non
determina la consumazione del potere
sanzionatorio, in capo all'Ente comunale, in
presenza di un illecito permanente, qual è
un abuso edilizio.
Il caso di specie vedeva il personale della
Polizia municipale accertare la
realizzazione di un manufatto, della
superficie di 43,2 mq., realizzato in parte
in muratura e in parte in legno, coperto da
ondulato, in assenza di titolo edilizio, a
ridosso del muro di confine.
Dapprima, con determinazione dirigenziale è
stata disposta l'immediata sospensione dei
lavori e successivamente, con determinazione
dirigenziale, impugnata presso il TAR, è
stata ingiunta la demolizione di detto
manufatto, ai sensi dell'art. 33, D.P.R. n.
380 del 2001.
Nella fattispecie il TAR Lazio ha fatto
corretta applicazione dell'art. 33, D.P.R.
n. 380 del 2001, che va a colpire un'ipotesi
di ampliamento della superficie fruibile
rispetto ad un fabbricato preesistente.
Sul punto si è osservato che, in relazione
alla persistenza della struttura da 20 anni,
oltre ad essere solo affermato e non
provato, non è, in ogni caso, rilevante,
essendo comunque necessario il titolo
edilizio per legittimarla e non determinando
il decorso del tempo la consumazione del
potere sanzionatorio, in capo all'Ente
comunale, in presenza di un illecito
permanente, qual è un abuso edilizio.
Il giudice amministrativo ha, inoltre,
evidenziato che si trattava di opera di
entità tutt'altro che trascurabile,
determinante una trasformazione del
territorio, in quanto tale, richiedente,
quale titolo legittimante, il permesso di
costruire o, alternativamente, la D.I.A.
c.d. "pesante", che, perciò, deve
essere munita di tutta la documentazione di
regola richiesta per il rilascio del
permesso di costruire ed, in particolare,
dell'attestazione dell'avvenuto versamento
del contributo dovuto in qualità di oneri
concessori (link a
www.altalex.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
i tubi destinati all'illuminazione e i loro
arredi, non espressamente contemplati
dall'art. 889 c.c., non soccorre la
presunzione assoluta di pericolosità ed è,
pertanto, necessario -affinché in via di
interpretazione estensiva possa ritenersi
ugualmente sussistente l'obbligo di
rispettare la distanza minima di 1 metro dal
confine- accertare in concreto, sulla base
delle loro specifiche caratteristiche, e con
onere della prova a carico della parte
istante, se abbiano e meno attitudine a
cagionare danno.
La distanza di almeno un metro dal confine è
prescritta dall'art. 889 c.c., comma 2, per
l'installazione dei tubi dell'acqua, del gas
e simili, giacché per tali condutture,
aventi un flusso costante di sostanze
liquide o gassose, il legislatore ha tenuto
conto della loro potenziale attitudine ad
arrecare danno alla proprietà contigua,
stabilendo, con valutazione ex antea,
una presunzione iuris et de iure di
pericolosità.
Tra dette opere non rientrano i tubi
destinati all'illuminazione e i loro arredi:
per essi, non espressamente contemplati
nella menzionata disposizione, non soccorre
la presunzione assoluta di pericolosità, ed
è, pertanto, necessario -affinché in via di
interpretazione estensiva possa ritenersi
ugualmente sussistente l'obbligo di
rispettare le distanze ivi previste-
accertare in concreto, sulla base delle loro
specifiche caratteristiche, e con onere
della prova a carico della parte istante, se
abbiano e meno attitudine a cagionare danno
(cfr. Cass., Sez. 2^, 5 Liarzo 1973, n. 587;
Cass., Sez. 2^, 05.11.1977, n. 4719; Cass.,
Sez. 2^, 29.05.1986, n. 3643; Cass., Sez.
2^, 03.12.1991, n. 12927; Cass., Sez. 2^,
09.01.1993, n. 145)
(Corte di Cassazione, Sez. II penale,
sentenza 12.12.2010 n. 25475). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
ormai pacifico secondo la giurisprudenza di
questa Corte che la realizzazione di un
soppalco necessita del preventivo rilascio
del permesso di costruire, atteso che il
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1,
lett. c), assoggetta a permesso di costruire
gli interventi di ristrutturazione edilizia
che portano ad un organismo in tutto o in
parte diverso dal precedente, senza la
necessità che concorrano tutte le condizioni
previste nello stesso articolo (modifiche
del volume, della sagoma, dei prospetti,
delle superfici), in quanto queste sono
alternative, come ricavasi dall'uso della
disgiuntiva nel citato testo normativo.
Con la sentenza n. 1893 del 13.12.2006
questa Corte ha affermato: "In materia
edilizia sono realizzabili con denuncia di
inizio attività gli interventi di
ristrutturazione edilizia di portata minore,
ovvero che comportano una semplice modifica
dell'ordine in cui sono disposte le diverse
parti dell'immobile, e con conservazione
della consistenza urbanistica iniziale,
classificabili diversamente dagli interventi
di ristrutturazione edilizia descritti dal
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1,
lett. c), che portano ad un organismo in
tutto o in parte diverso dal precedente con
aumento delle unità immobiliari o modifiche
del volume, sagoma, prospetti o superfici e
per i quali è necessario il preventivo
permesso di costruire." (conf. Cass. pen.
sez. 3 n. 12369 del 25.02.2003).
In motivazione si evidenzia che "la
stessa attività di ristrutturazione, del
resto, può attuarsi attraverso una serie di
interventi che, singolarmente considerati,
ben potrebbero ricondursi agli altri tipi
dianzi enunciati. L'elemento
caratterizzante, però è la connessione
finalistica delle opere eseguite, che non
devono essere riguardate partitamente ma
valutate nel loro complesso al fine di
individuare se esse siano o meno rivolte al
recupero edilizio dello spazio attraverso la
realizzazione di un edificio in tutto o in
parte nuovo" e dopo aver esaminato il
D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1,
lett. c) e art. 22, comma 3, lett. a)
conclude che "Dalle disposizioni
legislative dianzi ricordate si deduce che
sono sempre realizzabili previa mera
denunzia di inizio dell'attività le
ristrutturazioni edilizie di portata minore:
quelle cioè che determinano una semplice
modifica dell'ordine in cui sono disposte le
diverse parti che compongono la costruzione,
in modo che, pur risultando complessivamente
innovata, questa conserva la sua iniziale
consistenza urbanistica (diverse da quelle
descritte nel citato DPR, art. 10, comma 1,
lett. c) che possono incidere sul carico
urbanistico)".
Per quanto riguarda più specificamente il "soppalco"
è, ormai, pacifico secondo la giurisprudenza
di questa Corte (come del resto riconosce lo
stesso ricorrente) che esso necessita del
preventivo rilascio del permesso di
costruire, "atteso che il D.P.R. n. 380
del 2001, art. 10, comma 1, lett. c),
assoggetta a permesso di costruire gli
interventi di ristrutturazione edilizia che
portano ad un organismo in tutto o in parte
diverso dal precedente, senza la necessità
che concorrano tutte le condizioni previste
nello stesso articolo (modifiche del volume,
della sagoma, dei prospetti, delle
superfici), in quanto queste sono
alternative, come ricavasi dall'uso della
disgiuntiva nel citato testo normativo"
(cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n.
8669 del 12.01.2007; Cass. pen. sez. 3 n.
35863 del 2006 Rv. 235066; N. 37705 del 2006
Rv. 235065)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 04.11.2010 n. 39171). |
EDILIZIA PRIVATA: Rientrando
nella categoria delle opere di
urbanizzazione primaria (quali le strade,
gli spazi di sosta e parcheggio, la pubblica
illuminazione etc.) le opere predette
(cabina elettrica di trasformazione) non
possono che essere allocate necessariamente
in prossimità delle zone interessate dal
servizio e non possono conseguentemente
essere previste nel “Programma di
Fabbricazione” non essendo possibile
destinare nello strumento di pianificazione
un’area specifica per il loro insediamento.
L’art. 4 della legge 29.09.1964 n. 847 nel
definire le opere di urbanizzazione
primaria, ai fini della acquisizione delle
aree ai sensi della legge n. 167 del 1962,
elenca alla lettera e) “rete di
distribuzione dell’energia elettrica e del
gas” e quindi annovera tra tali opere
tutte quelle necessarie alla erogazione del
servizio dell’energia elettrica ivi
compreso, ovviamente, le strutture destinate
al potenziamento degli impianti esistenti.
Orbene nel caso in essere l’opera oggetto di
concessione è una cabina di trasformazione
che è stata progettata e realizzata allo
scopo di ottenere il potenziamento della
rete elettrica a servizio dell’abitato del
comune di Stigliano e, cioè, per migliorare
il regime di tensione delle utenze comprese
tra via Zanardelli- piazza Garibaldi e via
Levi-salita Trieste.
Va da sé quindi che rientrando nella
categoria delle opere di urbanizzazione
primaria (quali le strade, gli spazi di
sosta e parcheggio, la pubblica
illuminazione etc.) le opere predette non
possono che essere allocate necessariamente
in prossimità delle zone interessate dal
servizio e non possono conseguentemente
essere previste nel “Programma di
Fabbricazione” non essendo possibile
destinare nello strumento di pianificazione
un’area specifica per il loro insediamento
(TAR Basilicata,
sentenza 28.05.2010 n. 316 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: E'
granitico l'orientamento giurisprudenziale
in ordine al carattere vincolato, e non
discrezionale, che connota l’attività
sanzionatoria del Comune sull’attività
edilizia abusiva; in particolare, il
giudizio di difformità dell’intervento
rispetto alla normativa urbanistica, che
costituisce il presupposto dell’irrogazione
delle sanzioni, non è affatto connotato da
discrezionalità tecnica, ma integra un mero
accertamento di fatto, sia pure condotto
alla stregua di parametri tecnici.
E' alquanto infelice la modalità espositiva
prescelta dal Comune per motivare le proprie
determinazioni in ordine alle opere abusive
de quibus: in particolare, riproducendo ex
extenso i contenuti della relazione tecnica
redatta in occasione del sopralluogo sul
sito dell’intervento, l’Amministrazione ne
ha riportato anche i passaggi in cui
venivano usate formule ipotetiche o
dubitative (“sembra predisposta…”,
“potrebbero essere orientati…”), offrendo il
destro all’odierna appellante per le
doglianze con le quali ha lamentato
l’assoluta incertezza della definizione
dell’illecito contestato. E, in effetti, se
l’uso di formule del tipo di quelle sopra
richiamate è comprensibile in un verbale di
sopralluogo, laddove l’organo accertante
altro non fa che riportare le proprie
valutazioni in ordine a quanto constatato
(che deve comunque essere descritto in
maniera precisa), altrettanto non è
consentito in un ordine di demolizione,
laddove l’Amministrazione è tenuta a
individuare in modo certo gli abusi
contestati al privato.
La Sezione reputa addirittura superfluo
richiamare il granitico orientamento in
ordine al carattere vincolato, e non
discrezionale, che connota l’attività
sanzionatoria del Comune sull’attività
edilizia abusiva; in particolare, il
giudizio di difformità dell’intervento
rispetto alla normativa urbanistica (o, che
è lo stesso, al titolo abilitativo
rilasciato), che costituisce il presupposto
dell’irrogazione delle sanzioni, non è
affatto connotato da discrezionalità
tecnica, ma integra un mero accertamento di
fatto, sia pure condotto alla stregua di
parametri tecnici (peraltro rigidamente
predeterminati dalla normativa).
Ne discende che ben può il giudice
verificare la correttezza di tale attività
accertativa, non diversamente da quanto
avviene allorché controlla l’esattezza di
accertamenti tecnici condotti dalla p.a. in
altri contesti (p.es. l’esattezza di una
misurazione di distanze o di altezze).
Tanto premesso, nel caso di specie la
Sezione condivide il giudizio espresso dal
TAR, che ha reputato alquanto infelice la
modalità espositiva prescelta dal Comune per
motivare le proprie determinazioni in ordine
alle opere de quibus: in particolare,
riproducendo ex extenso i contenuti
della relazione tecnica redatta in occasione
del sopralluogo sul sito dell’intervento,
l’Amministrazione ne ha riportato anche i
passaggi in cui venivano usate formule
ipotetiche o dubitative (“sembra
predisposta…”, “potrebbero essere
orientati…”), offrendo il destro
all’odierna appellante per le doglianze con
le quali ha lamentato l’assoluta incertezza
della definizione dell’illecito contestato.
E, in effetti, se l’uso di formule del tipo
di quelle sopra richiamate è comprensibile
in un verbale di sopralluogo, laddove
l’organo accertante altro non fa che
riportare le proprie valutazioni in ordine a
quanto constatato (che deve comunque essere
descritto in maniera precisa), altrettanto
non è consentito in un ordine di
demolizione, laddove l’Amministrazione è
tenuta a individuare in modo certo gli abusi
contestati al privato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.05.2010 n. 3126 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
nudo proprietario è pienamente legittimato a
presentare istanza per la realizzazione di
interventi edilizi.
Deve ritenersi frutto di un’erronea
valutazione dell’art. 23 del d.p.r.
06.06.2001, n. 380, l’affermazione
dell’amministrazione che l’istante, in
quanto nudo proprietario non è legittimato
alla presentazione delle richiesta di
esecuzione dei lavori. L’art. 23 cit.,
infatti, individua genericamente quali
soggetti legittimati “il proprietario
dell'immobile o chi abbia titolo per
presentare la denuncia di inizio di attività”.
Inoltre, anche dalla disciplina dettata dal
codice civile in materia di usufrutto, si
desume la piena legittimazione del nudo
proprietario alla realizzazione degli
interventi di recinzione, atteso che tali
opere non costituiscono interventi di
manutenzione ordinaria posti a carico
dell’usufruttuario a norma dell’art. 1004
c.c., ma rientrano tra le opere
straordinarie, che l’art. 1005 c.c. pone
espressamente a carico del nudo
proprietario. L’art. 1005 individua,
infatti, come interventi straordinari la
realizzazione di muri di cinta, ai quali non
può non essere assimilata la costruzione di
una recinzione
(TAR Basilicata,
sentenza 16.04.2010 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE: Non
è ammissibile l’autonoma impugnabilità
dell’atto con il quale è autorizzato
l'accesso ai fondi per le operazioni di
misurazione preliminari al procedimento
espropriativo, trattandosi di atto non
direttamente lesivo, avente carattere
puramente preparatorio e strumentale
nell’ambito del procedimento volto
all’apposizione del vincolo espropriativo.
Nell'ambito della serie procedimentale degli
atti e provvedimenti di approvazione di un
progetto di opera pubblica devono
considerarsi impugnabili solo quegli atti
effettivamente dotati di lesività nei
confronti dei cittadini incisi dall'attività
amministrativa, tra i quali in via generale
rientrano l'approvazione del progetto
definitivo (che, contenendo la dichiarazione
di pubblica utilità, come disposto dall'art.
17 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, imprime al
bene privato quella particolare qualità od
utilità pubblica che lo rende assoggettabile
alla procedura espropriativa), il decreto di
occupazione temporanea e d'urgenza (che
realizza lo spossessamento del bene in capo
al privato) ed il decreto di espropriazione
(che attua il trasferimento coattivo del
bene dal privato alla p.a.), mentre gli
altri atti non possono considerarsi ex se
immediatamente lesivi e quindi non sono
immediatamente impugnabili.
Ne consegue che non è atto immediatamente
lesivo e come tale non è impugnabile, l’atto
di approvazione del piano triennale dei
lavori pubblici, il quale, peraltro, è privo
di alcun riferimento in ordine alla
localizzazione dell’opera pubblica sull’area
di proprietà della parte ricorrente.
Né l’impugnata autorizzazione ad introdursi
nell’area di proprietà dell’istante, per
l’effettuazione delle operazioni
planimetriche, è considerabile un atto
immediatamente lesivo, suscettibile di
pregiudicare in via diretta la situazione
giuridica soggettiva della ricorrente.
L’art. 15 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327,
nell’ambito delle disposizioni particolari
disciplinanti il procedimento per
l’approvazione dei progetti definitivi di
opere pubbliche, prevede la possibilità che
i tecnici incaricati dall’amministrazione,
anche privati, possano essere autorizzati ad
introdursi nell'area interessata, per le
operazioni planimetriche e le altre
operazioni preparatorie necessarie “per
la redazione dello strumento urbanistico
generale, di una sua variante o di un atto
avente efficacia equivalente nonché per
l'attuazione delle previsioni urbanistiche e
per la progettazione di opere pubbliche e di
pubblica utilità”.
Al riguardo il Collegio, ritiene, che
l’autorizzazione in questione, in quanto
atto indubitabilmente preparatorio e
strumentale rispetto alla formazione del
progetto di massima per la realizzazione
dell’opera pubblica, non possa avere
carattere immediatamente e direttamente
lesivo dell'interesse del proprietario
dell'area interessata, interesse che, come
già anticipato, viene ad essere pregiudicato
solo al momento dell’approvazione del
progetto definitivo di localizzazione
dell’opera pubblica sull’area interessata,
atto quest’ultimo che, al momento del
rilascio dell’autorizzazione ad effettuare
sul fondo privato le operazioni di
misurazione preliminare, si rivela come
futuro e incerto, in quanto condizionato sia
all’esito positivo delle operazioni tecniche
preliminari in ordine all’idoneità del
terreno alla realizzazione dell’opera
pubblica, sia alla conclusione del
procedimento con l’apposizione del vincolo
preordinato all’esproprio.
Per tali ragioni, il Collegio non ritiene di
doversi discostare da quella giurisprudenza
amministrativa che non ammette l’autonoma
impugnabilità dell’atto con il quale è
autorizzato l'accesso ai fondi per le
operazioni di misurazione preliminari al
procedimento espropriativo, trattandosi di
atto non direttamente lesivo, avente
carattere puramente preparatorio e
strumentale nell’ambito del procedimento
volto all’apposizione del vincolo
espropriativo (Tar Latina, 27.03.1990, n.
353; Consiglio Stato , sez. IV, 03.07.1986,
n. 458; Consiglio Stato, sez. IV,
03.07.1979, n. 558)
(TAR Basilicata,
sentenza 19.01.2010 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
norme sulle distanze tra le costruzioni o
tra queste ed i terreni confinanti,
contenute nel Codice Civile (come quelle
contenute per es. negli artt. 873, 905, 906
e 907 C.C.), sono derogabili (per usucapione
o mediante convenzione, la quale in tali
casi costituisce un vero e proprio diritto
di servitù, in quanto arreca una menomazione
per l’immobile che avrebbe diritto alla
distanza legale), in quanto la predetta
normativa del Codice Civile ha lo scopo di
tutelare i reciproci diritti soggettivi dei
singoli proprietari e/o i rapporti
intersoggettivi di vicinato (per es. l’art.
873 C.C. mira unicamente ad evitare la
creazione di intercapedini antigieniche e
pericolose.
Mentre le norme sulle distanze tra le
costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute negli strumenti
urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi
comunali, poiché trascendono l’interesse
meramente privatistico, in quanto hanno la
funzione di tutelare l’interesse pubblico
alla realizzazione di un determinato assetto
urbanistico prefigurato, non possono essere
derogate (le apposite convenzioni sono
invalide anche nei rapporti interni tra i
proprietari confinanti) e la loro violazione
comporta la facoltà del vicino di chiedere
la riduzione in pristino.
Secondo pacifico orientamento
giurisprudenziale (cfr. con riferimento
all’art. 905 C.C. Cass. Civ. Sez. II Sent.
n. 4605 del 14.07.1981; con riferimento
all’art. 873 C.C. cfr. Cass. Civ. Sez. II
Sent. n. 19449 del 28.09.2004; Cass. Civ.
Sez. II Sent. n. 2117 del 04.02.2004; Cass.
Civ. Sez. II Sent. n. 12984 del 23.11.1999;
Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 8260 del
13.08.1990; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 5711
del 27.06.1987; Cass. Civ. Sez. II Sent. n.
4737 del 27.05.1987; Cass. Civ. Sez. II
Sent. n. 2331 del 30.03.1983; Cass. Civ.
Sez. II Sent. n. 5117 del 05.10.1982; Cass.
Civ. Sez. II Sent. n. 287 del 12.01.1980;
Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 60 del
05.01.1980), che questo Tribunale condivide
(cfr. TAR Basilicata Sent. n. 519 del
04.09.2007):
1) le norme sulle distanze tra le
costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute nel Codice Civile
(come quelle contenute per es. negli artt.
873, 905, 906 e 907 C.C.), sono derogabili
(per usucapione o mediante convenzione, la
quale in tali casi costituisce un vero e
proprio diritto di servitù, in quanto arreca
una menomazione per l’immobile che avrebbe
diritto alla distanza legale), in quanto la
predetta normativa del Codice Civile ha lo
scopo di tutelare i reciproci diritti
soggettivi dei singoli proprietari e/o i
rapporti intersoggettivi di vicinato (per
es. l’art. 873 C.C. mira unicamente ad
evitare la creazione di intercapedini
antigieniche e pericolose; mentre l’art. 905
C.C. ha la finalità di proteggere la
riservatezza del proprietario frontistante,
la quale ai sensi del 3° comma dello stesso
art. 905 viene meno se tra i due fondi vi è
una via pubblica o soggetta ad uso
pubblico);
2) mentre le norme sulle distanze tra le
costruzioni o tra queste ed i terreni
confinanti, contenute negli strumenti
urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi
comunali, poiché trascendono l’interesse
meramente privatistico, in quanto hanno la
funzione di tutelare l’interesse pubblico
alla realizzazione di un determinato assetto
urbanistico prefigurato, non possono essere
derogate (le apposite convenzioni sono
invalide anche nei rapporti interni tra i
proprietari confinanti) e la loro violazione
comporta la facoltà del vicino di chiedere
la riduzione in pristino
(TAR Basilicata,
sentenza 17.11.2009 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 27, commi 1 e 3, DPR n.
380/2001 attribuisce al Responsabile del
competente Ufficio comunale l’esercizio
della funzione di vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia nel territorio
comunale, “per assicurare la rispondenza
alle norme di legge e di regolamento, alle
prescrizioni contenute negli strumenti
urbanistici ed alle modalità esecutive
fissate nei titoli abilitativi”, cioè
assegna al Responsabile del competente
Ufficio comunale il compito di far
rispettare tutte le “norme di legge e di
regolamento” e perciò anche quelle previste
dal Codice Civile in materia di distanze
minime per l’apertura di vedute.
Con il secondo
motivo di impugnazione il ricorrente ha
dedotto la violazione dell’art. 27, comma 3,
DPR n. 380/2001, in quanto tale norma
consente l’emanazione dell’Ordinanza di
sospensione dei lavori, già autorizzati con
permesso di costruire, soltanto nel caso di
violazioni delle prescrizioni contenute
negli strumenti urbanistici o delle modalità
esecutive indicate nel permesso di
costruire, ma non per la violazione delle
norme del Codice Civile in materia di
distanze, per le quali il permesso di
costruire fa comunque salvi i diritti dei
terzi, che “trovano difesa davanti al
Giudice Ordinario”.
Tale censura risulta destituita di
fondamento, in quanto l’art. 27, commi 1 e
3, DPR n. 380/2001 attribuisce al
Responsabile del competente Ufficio comunale
l’esercizio della funzione di vigilanza
sull’attività urbanistico-edilizia nel
territorio comunale, “per assicurare la
rispondenza alle norme di legge e di
regolamento, alle prescrizioni contenute
negli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nei titoli abilitativi”,
cioè assegna al Responsabile del competente
Ufficio comunale il compito di far
rispettare tutte le “norme di legge e di
regolamento” e perciò anche quelle
previste dal Codice Civile in materia di
distanze minime per l’apertura di vedute
(TAR Basilicata,
sentenza 17.11.2009 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un edificio traslato in
maniera rilevante, rispetto al progetto
approvato, integra un'ipotesi di variazione
essenziale e l'ordinanza di ingiunzione a
demolire non abbisogna di specifica
motivazione sul pubblico interesse, atteso
che tale disposizione la configura come
attività amministrativa vincolata che va
doverosamente esercitata nei casi di
accertata mancanza del titolo concessorio,
ovvero di totale difformità o variazione
essenziale.
La realizzazione di un edificio traslato, in
maniera rilevante rispetto al progetto
approvato, integra, ai sensi dell'art. 8,
lett. c), l. 28.02.1985 n. 47, un'ipotesi di
variazione essenziale e l'ordinanza di
ingiunzione a demolire ex art. 7 l.
28.02.1985 n. 47 non abbisogna di specifica
motivazione sul pubblico interesse, atteso
che tale disposizione la configura come
attività amministrativa vincolata che va
doverosamente esercitata nei casi di
accertata mancanza del titolo concessorio,
ovvero di totale difformità o variazione
essenziale (cfr. TAR Lombardia Brescia,
17.09.1991 n. 616)
(TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 08.07.2009 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
mero decorso del tempo non è sufficiente a
far insorgere un affidamento sulla
legittimità dell'opera o comunque sul
consolidamento dell'interesse del privato
alla sua conservazione, né, per conseguenza,
a imporre la necessità di una specifica
motivazione in ordine all'esistenza di un
interesse pubblico prevalente.
In generale, va
evidenziato che:
- l'ingiunzione di demolizione è atto
vincolato, per il quale il legislatore ha
tracciato in modo analitico il "modus
agendi" del pubblico potere, spogliando
l'amministrazione di ogni autonomia nella
valutazione del pubblico interesse, il cui
perseguimento è "in re ipsa" e
coincide con il perseguimento della
finalità, fatta propria dal legislatore, di
ripristinare la disciplina pubblicistica
violata.
- la valutazione di prevalenza
dell'interesse al rispetto del territorio,
nonché delle regole che presiedono alla sua
tutela, è stata compiuta dalla l. 47/1985 (e
poi dal d.P.R. 380/2001) con la previsione
di sanzioni vincolate quanto a emanazione e
contenuto, espressione di un potere
autoritativo, non sottoposto a termini di
prescrizione o decadenza, che intende
colpire il fenomeno della compromissione del
territorio e dei valori ambientali
coinvolti.
- un potere così connotato induce a ritenere
che debba prevalere l'aspettativa della
collettività a vedere rispettate le norme in
materia edilizia e urbanistica, piuttosto
che quella del contravventore a vedere
conservata l'opera abusiva, ancorché
realizzata molti anni prima.
In definitiva, il mero decorso del tempo non
è sufficiente a far insorgere un affidamento
sulla legittimità dell'opera o comunque sul
consolidamento dell'interesse del privato
alla sua conservazione, né, per conseguenza,
a imporre la necessità di una specifica
motivazione in ordine all'esistenza di un
interesse pubblico prevalente (cfr. TAR
Lombardia Milano, sez. II, 08.11.2007, n.
6200) (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 08.07.2009 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: Il
prolungato disuso di un bene demaniale da
parte dell'ente pubblico proprietario,
ovvero la tolleranza osservato da
quest'ultimo rispetto a un'occupazione da
parte di privati, non costituiscono elementi
sufficienti, sul piano logico giuridico, a
comprovare inequivocabilmente la cessazione
della destinazione del bene -anche solo
potenziale- all'uso pubblico (cosiddetta
sdemanializzazione tacita), essendo
ulteriormente necessario, al riguardo, che
tali elementi indiziari siano accompagnati
da fatti concludenti e da circostanze così
significative da non lasciare adito ad altre
ipotesi se non a quella che
l'amministrazione abbia definitivamente
rinunciato al ripristino dell'uso pubblico.
Non è ammessa l’usucapione dei beni
demaniali, dal momento che tali beni "sono
inalienabili e non possono formare oggetto
di diritti a favore di terzi, se non nei
modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che
li riguardano" (art. 823, primo comma
codice civile) e che il possesso delle cose
di cui non si può acquistare la proprietà
non produce alcun effetto (art. 1145, primo
comma codice civile).
Gli unici rapporti giuridici che possono
essere costituite con soggetti privati con
riguardo a tali beni presuppongono il
ricorso allo strumento della concessione.
L'usucapione dei beni demaniali è possibile
solo dopo la sdemanializzazione, che
consiste nel procedimento di passaggio dei
beni del demanio pubblico al patrimonio
dello Stato.
Questa può essere sia espressa, ovvero
attraverso un formale provvedimento di
sclassificazione, sia tacita, risultante
cioè dati univoci inconcludenti,
incompatibile con la volontà di conservare
la destinazione del bene all'uso pubblico.
Quanto ai requisiti della sdemanializzazione
tacita, la giurisprudenza (cfr Cons. St.
Sez. V 12.04.2007 n. 1701; Sez. IV
14.12.2002 n. 6923; Cass. SS.UU. 26.07.2002
n. 11101) ha sposato tesi restrittive. In
particolare, ha ritenuto che il prolungato
disuso di un bene demaniale da parte
dell'ente pubblico proprietario, ovvero la
tolleranza osservato da quest'ultimo
rispetto a un'occupazione da parte di
privati, non costituiscono elementi
sufficienti, sul piano logico giuridico, a
comprovare inequivocabilmente la cessazione
della destinazione del bene -anche solo
potenziale- all'uso pubblico (cosiddetta
sdemanializzazione tacita), essendo
ulteriormente necessario, al riguardo, che
tali elementi indiziari siano accompagnati
da fatti concludenti e da circostanze così
significative da non lasciare adito ad altre
ipotesi se non a quella che
l'amministrazione abbia definitivamente
rinunciato al ripristino dell'uso pubblico
(TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 08.07.2009 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
collocazione al di sopra di un muro di
sostegno di n. 22 fioriere in cemento
dell’altezza di cm. 60 ben può essere
ricompresa nell'ambito delle «opere
costituenti pertinenze od impianti
tecnologici al servizio di edifici già
esistenti», di cui all'art. 7 comma 2, d.l.
23.01.1982 n. 9, dato che esse sembrano
possedere tutte le caratteristiche che la
consolidata elaborazione giurisprudenziale
connette al concetto di pertinenza edilizia.
La collocazione al di sopra di un muro di
sostegno di n. 22 fioriere in cemento
dell’altezza di cm. 60 (fissate al suolo da
elementi di cemento dell’altezza di cm. 15)
ben può essere ricompresa nell'ambito delle
«opere costituenti pertinenze od impianti
tecnologici al servizio di edifici già
esistenti», di cui all'art. 7 comma 2,
d.l. 23.01.1982 n. 9, dato che esse sembrano
possedere tutte le caratteristiche che la
consolidata elaborazione giurisprudenziale
(cfr. TAR Catanzaro, sez. II, 10.06.2008 n.
647) connette al concetto di pertinenza
edilizia:
a) un nesso oggettivo strumentale e
funzionale con la cosa principale;
b) il mancato possesso, per natura e
struttura, di una pluralità di destinazioni;
c) un carattere durevole;
d) la non utilizzabilità economica in modo
diverso;
e) una ridotta dimensione;
f) una individualità fisica e strutturale
propria;
g) l'accessione ad un edificio preesistente
edificato;
h) l'assenza di un autonomo valore di
mercato.
Da tale presupposto discende, ex art. 10 L.
n. 47/1985, la sola applicabilità nella
specie della sanzione pecuniaria, con il
conseguente annullamento dell’ordinanza di
demolizione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 08.07.2009 n. 1449 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’attività
di repressione degli abusi edilizi o
comunque lesivi dell’interesse ambientale
sia dovuta e non discrezionale e non rilevi
il decorso del tempo, in quanto la
trasgressione integra un illecito
amministrativo permanente, che si rinnova in
ogni istante a causa della mancata
demolizione dell’opera realizzata contra
legem.
In buona sostanza l’abuso ha natura di
illecito permanente e si pone in perdurante
contrasto con le leggi amministrative sino a
quando non viene ripristinato lo stato dei
luoghi, per cui la disciplina sanzionatoria
non può che essere quella vigente al tempo
della sua applicazione e non all’atto della
commissione della violazione.
Il Collegio aderisce al dominante
orientamento giurisprudenziale, il quale
ritiene che l’attività di repressione degli
abusi edilizi o comunque lesivi
dell’interesse ambientale sia dovuta e non
discrezionale e non rilevi il decorso del
tempo, in quanto la trasgressione integra un
illecito amministrativo permanente, che si
rinnova in ogni istante a causa della
mancata demolizione dell’opera realizzata
contra legem (TAR Toscana, sez. III –
23/01/2008 n. 37).
In buona sostanza l’abuso ha natura di
illecito permanente e si pone in perdurante
contrasto con le leggi amministrative sino a
quando non viene ripristinato lo stato dei
luoghi, per cui la disciplina sanzionatoria
non può che essere quella vigente al tempo
della sua applicazione e non all’atto della
commissione della violazione (cfr. Consiglio
di Stato, sez. V – 24/03/1998 n. 345; TAR
Veneto, sez. II – 21/12/2001 n. 3052): la
natura continuativa della trasgressione è
collegata all’omissione della spontanea
demolizione, da effettuare per adeguare lo
stato di fatto a quello di diritto, per cui
non si punisce una condotta commissiva ma si
statuisce l’eliminazione di manufatti ancora
esistenti nonostante la sussistenza
dell’obbligo di demolirli.
D’altronde, la pretesa sanzionatoria nasce
all’atto della contestazione dell’abuso e
non in quello della sua materiale
realizzazione, ed è nel momento della
contestazione (anche rinnovata) che
l’illecito va qualificato come tale e con
riguardo alle norme vigenti, così come
devono essere riferite al momento
dell’intervento repressivo le valutazioni
che l’amministrazione è tenuta ad effettuare
in funzione della scelta del tipo di
sanzione.
Né è esatto sostenere che tale impostazione
si pone in contrasto con il divieto di
retroattività delle norme sanzionatorie,
perché alle misure repressive va attribuito
un carattere amministrativo e non penale
–circostanza che fa escludere
l’applicabilità del principio costituzionale
di irretroattività (art. 25 Cost.)– ma più
in generale, posto che la sanzione si
giustifica con l’attualità dell’abuso, non
ha senso parlare di retroattività
dell’esercizio del potere sanzionatorio ma,
al contrario, della coerente applicazione,
ad una condotta illecita permanente, delle
norme vigenti all’atto dell’accertamento
della violazione.
Se si ripudiasse questo principio per
affermare che chi viola le norme edilizie ha
il diritto di contare sulla certezza del
trattamento sanzionatorio, nella forma della
sua immutabilità nel tempo, ne discenderebbe
una sorta di “ultrattività” delle
norme repressive per cui –nel caso di
successione di leggi ed in qualunque tempo
l’abuso venga scoperto– l’amministrazione
sarebbe tenuta comunque ad applicare le
preesistenti sanzioni, ancorché riferite a
norme medio tempore sostituite o abrogate
(TAR Campania Napoli, sez. IV – 14/02/2005
n. 1020).
Nella fattispecie siamo incontestabilmente
di fronte ad un abuso lesivo dell’ambiente
perpetuato nel tempo, rispetto al quale è
sopravvenuta una normativa più sfavorevole a
tutela di un valore costituzionalmente
pregnante e di spessore più rilevante
rispetto all’interesse all’ordinato assetto
urbanistico del territorio. Ne deriva che
alla fattispecie esaminata deve
necessariamente essere applicato il
principio tempus regit actum
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 24.04.2009 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: La
perequazione urbanistica nella forma del
riconoscimento di facoltà edificatorie in
cambio della cessione gratuita di aree da
destinare alla fruizione collettiva può
essere esercitata anche in collegamento con
edificazioni singole al di fuori di un piano
attuativo.
In via generale si osserva che la
perequazione urbanistica nella forma del
riconoscimento di facoltà edificatorie in
cambio della cessione gratuita di aree da
destinare alla fruizione collettiva può
essere esercitata anche in collegamento con
edificazioni singole al di fuori di un piano
attuativo. Questo perché anche le
edificazioni singole devono concorrere, al
pari di quelle di maggiore complessità, al
raggiungimento del livello minimo di
dotazioni infrastrutturali previsto dal
piano dei servizi.
In proposito dispone l’art. 9, comma 3,
della LR 12/2005, il quale estende ai piani
attuativi la stessa dotazione minima di aree
per attrezzature pubbliche e di interesse
generale prevista dal piano dei servizi per
le altre parti del territorio, con questo
implicando che tutti i proprietari,
all’interno e all’esterno dei piani
attuativi, sono assoggettati all’obbligo di
contribuire al reperimento delle aree
destinate a standard pubblico (v. TAR
Brescia 13.07.2005 n. 749; TAR Brescia
16.05.2006 n. 567). L’assoggettamento si
deve intendere proporzionato all’ampiezza
delle aree di proprietà e all’impatto
dell’intervento edilizio.
Nel caso in esame, dove si discute di un
albergo, la cessione dell’area a parcheggio
appare proporzionata, in quanto da un lato
non ostacola il raggiungimento
dell’obiettivo edificatorio della ricorrente
e dall’altro è giustificata dal fatto che
l’aumento dell’esigenza di parcheggi è
strettamente correlato all’avvio
dell’attività alberghiera
(TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 15.04.2009 n. 859 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
costo di costruzione per i nuovi edifici non
corrisponde alla spesa effettiva ma è
definito dalla Regione con riferimento ai
costi massimi ammissibili per l'edilizia
agevolata ed è adeguato autonomamente dai
comuni sulla base della variazione accertata
dall'ISTAT.
In tale contesto il concetto di “costo
documentato di costruzione” previsto dal
successivo comma 4 per gli interventi con
destinazione commerciale e
turistico-alberghiero-ricettiva non è
rappresentato dal costo che i privati
ritengono di dover sostenere per effetto dei
propri rapporti con gli appaltatori o con i
fornitori ma costituisce un costo standard,
omogeneo sul territorio comunale, e definito
secondo criteri certi.
Il prezziario della Camera di Commercio è
utile a questo scopo, come le altre banche
dati provenienti da organismi affidabili.
In base
all’art. 48, commi 1 e 2, della LR 12/2005
il costo di costruzione per i nuovi edifici
non corrisponde alla spesa effettiva ma è
definito dalla Regione con riferimento ai
costi massimi ammissibili per l'edilizia
agevolata ed è adeguato autonomamente dai
comuni sulla base della variazione accertata
dall'ISTAT.
In tale contesto il concetto di “costo
documentato di costruzione” previsto dal
successivo comma 4 per gli interventi con
destinazione commerciale e
turistico-alberghiero-ricettiva non è
rappresentato dal costo che i privati
ritengono di dover sostenere per effetto dei
propri rapporti con gli appaltatori o con i
fornitori ma costituisce un costo
standard, omogeneo sul territorio
comunale, e definito secondo criteri certi.
Il prezziario della Camera di Commercio è
utile a questo scopo, come le altre banche
dati provenienti da organismi affidabili.
Di “costo reale degli interventi” si
parla solo nel comma 6 a proposito degli
interventi di ristrutturazione edilizia non
comportanti demolizione e ricostruzione, ma
anche in questo caso non può essere esclusa
la possibilità di una direttiva regionale o
comunale di omogeneizzazione delle voci di
costo (TAR
Lombardia-Brescia,
sentenza 15.04.2009 n. 859 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pur
tenendo conto che la dotazione minima di
parcheggi è un obbligo ex lege che integra
le previsioni urbanistiche, e costituisce
inoltre un requisito preliminare al rilascio
del permesso di costruire relativo
all’edificio principale, l’effetto di deroga
previsto con formulazione ampia dall’art. 9,
comma 1, della legge 122/1989 deve valere
anche per la quota di parcheggi eccedente la
dotazione obbligatoria.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta
la violazione dell’art. 9 della legge
122/1989 e dell’art. 67 della LR 12/2005. I
ricorrenti sostengono che trattandosi di
parcheggi pertinenziali le relative
costruzioni sarebbero sempre consentite ex
art. 9 della legge 122/1989 anche in
mancanza della conformità urbanistica e
potrebbero essere vietate solo nelle ipotesi
tassative dell’art. 67 della LR 12/2005
(contrasto con il piano urbano del traffico,
con le misure poste a tutela dei corpi
idrici, con l'uso delle superfici
sovrastanti, con le previsioni urbanistiche
riguardanti la parte di sottosuolo
interessata dall'intervento). Poiché il
progetto in questione non interferisce con
gli interessi pubblici elencati in
quest’ultima norma (in particolare non vi
sono disposizioni esplicite per il
sottosuolo) la realizzazione di autorimesse
pertinenziali interrate non dovrebbe
incontrare ostacoli.
La tesi si avvale dell’evoluzione normativa
che ha semplificato e incentivato la
realizzazione di parcheggi ma non può essere
condivisa nelle sue conclusioni. In base
all’art. 69, comma 1, della LR 12/2005 tutti
i parcheggi, pertinenziali e non
pertinenziali, anche se eccedenti il limite
di 1mq/10mc stabilito dall’art. 41-sexies
della legge 17.08.1942 n. 1150, sono
considerati opere di urbanizzazione e
beneficiano per questo del regime della
gratuità.
La deroga alle disposizioni urbanistiche è
però riservata a una categoria più ristretta
di parcheggi, perché in base agli art. 66-67
della LR 12/2005 deve sussistere un vincolo
di pertinenzialità trascritto nei registri
immobiliari. Non è invece necessario che
l’edificio principale abbia destinazione
residenziale, né che si tratti di edificio
già esistente (v. TAR Brescia 26.09.2007 n.
898). Pur tenendo conto che la dotazione
minima di parcheggi è un obbligo ex lege
che integra le previsioni urbanistiche, e
costituisce inoltre un requisito preliminare
al rilascio del permesso di costruire
relativo all’edificio principale, l’effetto
di deroga previsto con formulazione ampia
dall’art. 9, comma 1, della legge 122/1989
deve valere anche per la quota di parcheggi
eccedente la dotazione obbligatoria.
In sostanza, indagando la finalità della
norma, si può ritenere che la deroga alla
disciplina urbanistica sia concessa non
tanto per permettere la realizzazione di
nuovi edifici (altrimenti impossibile in
mancanza di parcheggi sufficienti) ma
soprattutto per incentivare la realizzazione
di parcheggi pertinenziali, i quali pur
essendo beni privati hanno rilievo pubblico
per i vantaggi che assicurano alla viabilità
(decongestionamento del traffico, minori
oneri per la realizzazione di parcheggi
pubblici).
Tuttavia, sia in relazione ai parcheggi
obbligatori sia per quanto riguarda i
parcheggi facoltativi, non possono essere
messi in pericolo gli altri interessi
pubblici elencati nell’art. 67 della LR
12/2005, alcuni dei quali hanno valore
ambientale come nel caso della tutela dei
corpi idrici e della speciale destinazione
del sottosuolo (ad esempio il mantenimento
di una percentuale di verde profondo per il
drenaggio delle acque). Oltre a questi, per
espressa previsione dell’art. 9, comma 1,
della legge 122/1989, hanno carattere
prioritario i vincoli paesistico-ambientali
formalmente istituiti, che pertanto
rappresentano un ostacolo alla realizzazione
dei parcheggi, salvo il potere di
autorizzazione dell’autorità responsabile
della tutela del vincolo.
Pertanto, i progetti di parcheggi
pertinenziali non sono mai sottratti al
giudizio di compatibilità
paesistico-ambientale quando un vincolo è
presente. E anche in assenza di un vincolo
formale è comunque necessario uno scrutinio
analogo in relazione alle norme degli
strumenti urbanistici che tutelano i corpi
idrici e la destinazione del sottosuolo.
Con riguardo alla pretesa dei ricorrenti si
osserva che nel caso in esame sussistono
entrambe le cause ostative. Sull’area grava
infatti un vincolo paesistico ex lege,
e in dettaglio l’art. 24 del PTC impone la
conservazione e lo sviluppo delle attività
agro-silvo-pastorali tradizionali e il
mantenimento a prato o rimboschimento degli
spazi aperti, ammettendo le nuove
edificazione esclusivamente per lo sviluppo
delle attività agricole e per la fruizione
turistica (v. sopra al punto 10). Questo
significa che il sottosuolo non è
disponibile per interventi residenziali, a
meno che anche questi non siano collegati
alle attività agricole.
L’inquadramento urbanistico e ambientale su
cui si basa il diniego di autorizzazione
paesistica appare quindi corretto anche per
quanto riguarda i rapporti con la disciplina
dei parcheggi pertinenziali
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 15.04.2009 n. 858 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Se,
in linea generale, l’art. 2, lett. d), l.r.
23/1997 ammette l’aumento del carico
insediativo con la procedura di variante
semplificata purché nel limite massimo del
10%, tale aumento non può però essere
realizzato con piano di recupero, che è uno
“strumento attuativo destinato al recupero
del patrimonio edilizio esistente senza,
tuttavia, implicare incrementi volumetrici
tali da determinare un aumento del carico
insediativo”.
La norma attributiva del potere esercitato
dall’amministrazione comunale, nel caso in
esame, deve essere ricercata nell’art. 2
della l.r. 23/1997, che dispone che si possa
utilizzare la procedura di variante
semplificata per l’approvazione degli
strumenti urbanistici per: “(…), d)
varianti dirette a modificare le modalità di
intervento sul patrimonio edilizio
esistente, nel caso in cui esse non
concretino ristrutturazione urbanistica e
non comportino incremento del peso
insediativo in misura superiore al 10%
rispetto a quanto stabilito dallo strumento
urbanistico vigente; ove necessario, le
varianti potranno altresì prevedere il
conseguente adeguamento della dotazione di
aree a standard; e) varianti di
completamento interessanti ambiti
territoriali di zone omogenee già
classificate ai sensi dell'art. 2 del D.M.
02.04.1968, n. 1444 come zone B, C e D che
comportino, con o senza incremento della
superficie azzonata, un aumento della
relativa capacità edificatoria non superiore
al 10% di quella consentita nell'ambito
oggetto della variante dal vigente PRG, ove
necessario tali varianti potranno altresì
prevedere il conseguente adeguamento della
dotazione di aree a standard”.
Nel caso in esame, l’amministrazione ha
utilizzato, in particolare, il disposto di
cui alla lettera d) dell’art. 2 l.r. 23/1997
ritenendo si trattasse di una variante
diretta a modificare le modalità di
intervento sul patrimonio edilizio
esistente, e che tale modifica delle
modalità di intervento fosse legittimata
dalla previsione della norma sovraordinata
di p.r.g. che prevedeva nelle zone A1 la
possibilità di edificare tramite piano di
recupero.
Il piano di recupero approvato non si è
limitato, però, a consentire l’edificazione
in base a titolo diverso dall’intervento
diretto di ristrutturazione edilizia, che è
l’unico titolo che sarebbe stato possibile
utilizzare in forza delle norme di piano
sovraordinate, ma ha anche consentito
l’aumento volumetrico del 10% sull’immobile
oggetto dell’intervento.
L’amministrazione ha ritenuto di disporre di
tale potere di aumentare la volumetria
dell’immobile nel limite del 10% dello
stesso per effetto della previsione della
lettera d) dell’art. 2 l.r. 23/1997 che,
come indicato sopra, ammette le varianti che
non comportino incremento del peso
insediativo in misura superiore al 10%
rispetto a quanto stabilito dallo strumento
urbanistico vigente.
Se, in linea generale, l’art. 2, lett. d),
l.r. 23/1997 ammette l’aumento del carico
insediativo con la procedura di variante
semplificata purché nel limite massimo del
10%, tale aumento non poteva però essere
realizzato con piano di recupero, che, come
già evidenziato da questo Tribunale, è uno “strumento
attuativo destinato al recupero del
patrimonio edilizio esistente senza,
tuttavia, implicare incrementi volumetrici
tali da determinare un aumento del carico
insediativo” (Tar Lombardia, sez.
Brescia, 09.12.2002, n. 2216) .
La pronuncia appena citata si è già occupata
del rapporto tra piano di recupero ed
utilizzo della procedura semplificata di
approvazione degli strumenti urbanistici di
cui alla l.r. 23/1997, ed ha stabilito sul
punto che “deve, di conseguenza,
escludersi che il recupero edilizio,
consistendo in interventi sugli elementi
costitutivi degli edifici esistenti, possa
comportare incrementi volumetrici, ossia
aumenti di superficie o di corpi di
fabbrica. Ciò premesso è illegittimo il
Piano di recupero che venga approvato
attraverso la procedura semplificata di
variante urbanistica ai sensi della legge
regionale 23.06.1997, n. 23, per assentire
un aumento di volumetria altrimenti non
realizzabile secondo le previsioni degli
strumenti urbanistici in vigore”.
La presente vicenda, che riguarda un caso
esattamente in termini con quello appena
citato di piano di recupero che legittima un
aumento di volumetria altrimenti non
realizzabile secondo le previsioni degli
strumenti urbanistici, deve pertanto essere
deciso in conformità con tale precedente
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 08.04.2009 n. 806 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Per
gli atti amministratavi “di cui non sia
richiesta la notifica individuale”, come
nella specie il permesso di costruire, il
quale deve essere notificato soltanto al
richiedente e non anche alle altre persone
eventualmente interessate, il termine
decadenziale di impugnazione di 60 giorni
decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione
di tale atto all’Albo Pretorio; ma, poiché i
lavori autorizzati con il permesso di
costruire possono iniziare entro un anno
dalla data di rilascio del permesso di
costruire, opportunamente il Legislatore con
la terza frase dell’art. 20, comma 7, DPR n.
380/2001 stabilisce che il termine
decadenziale di impugnazione di 60 giorni ex
art. 21, comma 1, L. n. 1034/1971 decorre
dall’allestimento del cantiere edile e più
precisamente dall’esposizione del cartello,
indicante gli estremi del permesso di
costruire rilasciato.
Quello che conta ai fini del decorso del
termine di impugnazione giurisdizionale di
un permesso di costruire da parte di un
soggetto terzo, diverso dal destinatario, è
la conoscibilità di tale permesso di
costruire associata all’effettivo inizio dei
lavori, resa possibile dalla pubblicazione
nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso e
dall’esposizione nel cantiere del cartello
con gli estremi del permesso di costruire
rilasciato, e non l’effettiva conoscenza del
permesso di costruire previa istanza di
accesso ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990.
L’art. 20, comma 7, seconda e terza frase,
DPR n. 380/2001 statuisce che “Dell’avvenuto
rilascio del permesso di costruire è data
notizia al pubblico, mediante affissio-ne
all’Albo Pretorio. Gli estremi del permesso
di costruire sono indicati nel cartello
esposto presso il cantiere, secondo le
modalità stabilite dal Regolamento Edilizio”.
Secondo questo Tribunale (cfr. TAR
Basilicata Sentenze nn. 515 e 517 del
04.09.2007) tale norma va letta ed
interpretata unitamente all’art. 21, comma
1, L. n. 1034/1971, nella parte in cui
sancisce che per gli atti amministratavi “di
cui non sia richiesta la notifica
individuale”, come nella specie il
permesso di costruire, il quale deve essere
notificato soltanto al richiedente e non
anche alle altre persone eventualmente
interessate, il termine decadenziale di
impugnazione di 60 giorni decorre
dall’ultimo giorno di pubblicazione di tale
atto all’Albo Pretorio; ma, poiché i lavori
autorizzati con il permesso di costruire
possono iniziare entro un anno dalla data di
rilascio del permesso di costruire,
opportunamente il Legislatore con la terza
frase dell’art. 20, comma 7, DPR n. 380/2001
stabilisce che il termine decadenziale di
impugnazione di 60 giorni ex art. 21, comma
1, L. n. 1034/1971 decorre dall’allestimento
del cantiere edile e più precisamente
dall’esposizione del cartello, indicante gli
estremi del permesso di costruire
rilasciato.
Pertanto, secondo quanto statuito dal
combinato disposto di cui agli artt. 20,
comma 7, seconda e terza frase, DPR n.
380/2001 e 21, comma 1, L. n. 1034/1971,
quello che conta ai fini del decorso del
termine di impugnazione giurisdizionale di
un permesso di costruire da parte di un
soggetto terzo, diverso dal destinatario, è
la conoscibilità di tale permesso di
costruire associata all’effettivo inizio dei
lavori, resa possibile dalla pubblicazione
nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso e
dall’esposizione nel cantiere del cartello
con gli estremi del permesso di costruire
rilasciato, e non l’effettiva conoscenza del
permesso di costruire previa istanza di
accesso ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990.
Dunque, dopo l’entrata in vigore dell’art.
20, comma 7, seconda e terza frase, DPR n.
380/2001 non può più essere seguito il
precedente e consolidato orientamento
giurisprudenziale consolidato, secondo cui
la mera affissione all’Albo Pretorio ed
anche l’indicazione degli estremi del
permesso di costruire nel cartello esposto
presso il cantiere non costituivano una
formalità idonea per la decorrenza del
termine di impugnazione giurisdizionale di
un permesso di costruire, poiché il momento
dal quale far decorrere il termine di
impugnazione era quello dell’ultimazione dei
lavori, in quanto soltanto da tale data i
soggetti interessati potevano avere la piena
consapevolezza dell’esistenza e dell’entità
delle violazioni urbanistiche commesse
(TAR Basilicata,
sentenza 05.03.2009 n. 65 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
LAVORO PUBBLICO - DIVIETO DI
CUMULO TRA PENSIONE ANTICIPATA DI ANZIANITÀ
E INCARICHI DI CONSULENZA PER
L´AMMINISTRAZIONE DI PROVENIENZA.
Il divieto di cumulo tra pensione anticipata
di anzianità e lo svolgimento o la
prosecuzione, successivamente alla
cessazione del rapporto, di incarichi di
consulenza per l'amministrazione di
provenienza si estende anche allo
svolgimento dell’incarico di direttore
amministrativo presso un’istituzione
ospedaliera, in ragione della trasparenza
nel conferimento degli incarichi e
dell’ulteriore fine di garantire risparmi di
spesa impedendo il cumulo tra pensione e
retribuzione (massima tratta da
www.lavoroprevidenza.com - Corte di Cassazione,
sentenza 28.07.2008 n.
20523). |
EDILIZIA PRIVATA: L’Amministrazione
non può impedire la formazione del titolo
abilitativo, o annullarlo o rimuoverlo,
contestando la mancanza del DURC; tuttavia,
altra cosa è l’esecuzione materiale dei
lavori ove “In assenza della certificazione
della regolarità contributiva, anche in caso
di variazione dell'impresa esecutrice dei
lavori, è sospesa l'efficacia del titolo
abilitativo”, sicché appare legittimo
l’ordine di sospensione dei lavori fino alla
produzione della certificazione in parola.
L’Amministrazione non può impedire la
formazione del titolo abilitativo, o
annullarlo o rimuoverlo, contestando la
mancanza del DURC; tuttavia, altra cosa è
l’esecuzione materiale dei lavori.
A tal fine, la certificazione di regolarità
contributiva è necessaria: infatti, ex art.
3, comma 8, lett. b)-ter, del D.Lgs.
494/1996 “In assenza della certificazione
della regolarità contributiva, anche in caso
di variazione dell'impresa esecutrice dei
lavori, è sospesa l'efficacia del titolo
abilitativo”, sicché appare legittimo
l’ordine di sospensione dei lavori fino alla
produzione della certificazione in parola
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 28.12.2007 n. 16559 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sul
piano della normativa nazionale, la
collocazione dei cartelli viene subordinata
alla verifica, caso per caso, della relativa
compatibilità con la tutela di quella
porzione di territorio, o di quell’immobile
o complesso di immobili le cui qualità,
intrinseche ed oggettivamente percepibili
dalla generalità, siano state previamente
evidenziate e ritenute meritevoli di tutela
all’esito dei processi ricognitivi compiuti
nel corso dell’istruttoria che si è conclusa
con l’approvazione del piano paesistico
regionale.
L'art. 153 del Codice Urbani dispone quanto
segue: “1) nell’ambito ed in prossimità
dei beni paesaggistici indicati nell’art.
134 é vietato collocare cartelli e altri
mezzi pubblicitari, se non previa
autorizzazione dell’amministrazione
competente individuata dalla regione. 2)
lungo le strade, site nell’ambito ed in
prossimità dei beni indicati nel comma 1, è
vietato collocare cartelli o altri mezzi
pubblicitari salvo autorizzazione rilasciata
ai sensi dell’art. 23, comma 4, del decreto
legislativo 30.04.1992 n.285 e successive
modificazioni, previo parere favorevole
dell’amministrazione competente individuata
dalla regione sulla compatibilità della
collocazione e della tipologia del mezzo
pubblicitario con i valori paesaggistici
degli immobili o delle aree soggette a
tutela.”
L’art. 134 titolato “beni paesaggistici”
individua come tali: gli immobili e le aree
indicati dall’art. 136, (immobili di
notevole interesse pubblico, tra cui alla
lettera d) sono comprese “le bellezze
panoramiche considerate come quadri e così
pure quei punti di vista o di belvedere,
accessibili al pubblico, dai quali si goda
lo spettacolo di quelle bellezze”); 2)
le aree indicate dall’art. 142 (aree
tutelate per legge); 3) gli immobili e le
aree tipizzati , individuati e sottoposti a
tutela dai piani paesaggistici previsti
dagli artt. 143 e 156.
Dal complesso di tali disposizioni che
dichiaratamente sono state assunte a
presupposto anche dal piano oggi in
questione, senza voler essere esaustivi, si
ricava che la tutela è riservata ad ambiti,
aree od immobili previamente individuati nei
loro confini e nella loro entità: 1) o da
provvedimenti adottati dalle amministrazioni
statali, quali ad esempio i vari decreti di
dichiarazione di interesse pubblico, 2) o
direttamente dalla legge; 3) o individuati e
tipizzati dalla regione nel contesto del
piano paesaggistico.
In coerenza con la tutela del diritto di
iniziativa economica privata, suscettibile
di limitazioni solo per espressa
disposizione di legge in ossequio alla
Costituzione (art. 41), la legge non
prescrive, inoltre, per nessuno di tali “beni”
un divieto assoluto di installazione di
cartelli pubblicitari, neanche nell’ambito
od in prossimità dei beni stessi.
Volendo limitare l’esame alle prescrizioni
che più direttamente riguardano la presente
controversia, sul piano della normativa
nazionale, la collocazione dei cartelli
viene subordinata alla verifica, caso per
caso, della relativa compatibilità con la
tutela di quella porzione di territorio, o
di quell’immobile o complesso di immobili le
cui qualità, intrinseche ed oggettivamente
percepibili dalla generalità, siano state
previamente evidenziate e ritenute
meritevoli di tutela all’esito dei processi
ricognitivi compiuti nel corso
dell’istruttoria che si è conclusa con
l’approvazione del piano paesistico
regionale
(TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 31.10.2007 n. 2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
recinzione in legno o in rete metallica di
un terreno non richiede alcuna concessione o
autorizzazione edilizia, in quanto
costituisce non già trasformazione
urbanistica -in quanto non comporta
trasformazione morfologica del territorio-
ma estrinsecazione lecita dello "ius
excludendi alios", immanente al diritto di
proprietà; e, pertanto, è illegittimo
l'ordine di demolizione di una recinzione
costituita da paletti infissi al suolo senza
cordolo di calcestruzzo e collegati da una
rete metallica.
Per la posa in opera di una semplice
recinzione con paletti in ferro, non infissi
in muratura nel terreno, non è necessaria
alcuna richiesta di provvedimento
concessorio, trattandosi di installazione
precaria e rientrando tale opera tra le
attività di mera manutenzione.
"La recinzione in legno o in rete
metallica di un terreno non richiede alcuna
concessione o autorizzazione edilizia, in
quanto costituisce non già trasformazione
urbanistica -in quanto non comporta
trasformazione morfologica del territorio-
ma estrinsecazione lecita dello "ius
excludendi alios", immanente al diritto di
proprietà; e, pertanto, è illegittimo
l'ordine di demolizione di una recinzione
costituita da paletti infissi al suolo senza
cordolo di calcestruzzo e collegati da una
rete metallica (TAR Veneto, sez. II,
07.03.2006, n. 533)”, che “per la
posa in opera di una semplice recinzione con
paletti in ferro, non infissi in muratura
nel terreno, non è necessaria alcuna
richiesta di provvedimento concessorio,
trattandosi di installazione precaria e
rientrando tale opera tra le attività di
mera manutenzione (TAR Lazio Roma, sez. II,
05.11.2004, n. 12554”, e che comunque ai
sensi del t.u. 06.06.2001 n. 380, la
realizzazione di una recinzione è soggetta a
denuncia di inizio attività ex art. 22 dello
stesso t.u., pena sanzione pecuniaria, pari
al doppio dell'aumento di valore venale
dell'immobile, conseguente alla
realizzazione degli interventi stessi, e
comunque in misura non inferiore a 516 euro,
salvo che l'area non sia coperta da vincoli,
tali da comportare la restituzione in
pristino (TAR Lazio Roma, sez. I,
13.06.2005, n. 4782) .
Né tali considerazioni mutano anche a volere
considerare la recinzione strumentale alla
realizzazione del campo di calcetto
-intervento in relazione al quale, peraltro,
l’amministrazione nulla ha contestato-
atteso che risulta pacificamente dagli atti
di causa che trattasi di uno spazio senza
strutture murarie di alcun genere e
consistente, in sostanza, nella mera
predisposizione di uno spiazzo d'erba (cfr.
TAR Puglia Bari, sez. III, 14.02.2005, n.
546)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 30.10.2007 n. 10269 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
sensi dell’art. 1 del D.M n. 1404/1968 le
disposizioni contenute nel decreto medesimo,
relative alle distanze minime a protezione
del nastro stradale, non trovano
applicazione all’interno del perimetro dei
centri abitati e degli insediamenti previsti
dai piani regolatori generali.
Ai sensi dell’art. 1 del D.M n. 1404/1968 le
disposizioni contenute nel decreto medesimo,
relative alle distanze minime a protezione
del nastro stradale, non trovano
applicazione all’interno del perimetro dei
centri abitati e degli insediamenti previsti
dai piani regolatori generali (TAR Toscana
II sez. 23/01/1995 n. 20)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. III,
sentenza 26.10.2007 n. 3688 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI -
COMPETENZE GESTIONALI: Il
provvedimento con il quale si impone il
recupero ambientale, trattandosi di atto di
gestione, deve essere adottato dal dirigente
del competente Ufficio del Comune procedente
e non dal Sindaco nella sua veste di organo
politico, fuoriuscendosi nella specie dallo
schema tipico descritto dagli artt. 50 e 54
del decreto legislativo n. 267 del 2000
circa le competenze provvedimentali del
Sindaco.
La competenza del dirigente comunale (o, in
sua assenza, del responsabile del servizio)
ad adottare l'ordinanza prevista dal comma
3° dell'art. 14 del decreto legislativo n.
22 del 1997 non può essere posta in dubbio
sia sulla base del richiamo all'art. 70,
comma 6°, del decreto legislativo n. 165 del
30.03.2001 sia sulla scorta di quanto
analogamente stabilito dall’art. 107, comma
5, del decreto legislativo n. 267 del 2000.
Per giurisprudenza ormai consolidata (cfr.,
in argomento, TAR Veneto, Sez. III,
24.01.2006 n. 130; TAR Sardegna, Sez. II,
24.01.2005 n. 104; TAR Molise, 25.11.2004 n.
729; TAR Basilicata, 18.09.2003 n. 878; TAR
Campania, Napoli, Sez. I, 12.06.2003 n.
7532; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II,
08.05.2002 n. 1152; TAR Lombardia, Brescia,
25.09.2001 n. 792), il provvedimento con il
quale si impone il recupero ambientale,
trattandosi di atto di gestione, deve essere
adottato dal dirigente del competente
Ufficio del Comune procedente e non dal
Sindaco nella sua veste di organo politico,
fuoriuscendosi nella specie dallo schema
tipico descritto dagli artt. 50 e 54 del
decreto legislativo n. 267 del 2000 circa le
competenze provvedimentali del Sindaco.
Infatti, in disparte quanto si legge
testualmente nella disposizione normativa
sulla quale fonda il presupposto giuridico
dell’ordinanza qui impugnata (ora superata
dalla novella del decreto legislativo n. 152
del 12.04.2006), la competenza del dirigente
comunale (o, in sua assenza, del
responsabile del servizio) ad adottare
l'ordinanza prevista dal comma 3° dell'art.
14 del decreto legislativo n. 22 del 1997
non può essere posta in dubbio sia sulla
base del richiamo all'art. 70, comma 6°, del
decreto legislativo n. 165 del 30.03.2001
(il quale, nel reiterare l'art. 45 comma 1°
del decreto legislativo 31.03.1998 n. 80,
tecnicamente abrogato dall'art. 72, comma
1°, lett. b), del citato decreto legislativo
n. 165 del 2001, ha stabilito che, a
decorrere dal 23.04.1998, le disposizioni
che conferiscono agli organi di governo
l'adozione di atti di gestione e di atti o
provvedimenti amministrativi si intendono
nel senso che la relativa competenza spetta
ai dirigenti) sia sulla scorta di quanto
analogamente stabilito dall’art. 107, comma
5, del decreto legislativo n. 267 del 2000
(avendo anch'esso previsto che a "decorrere
dalla data di entrata in vigore del presente
testo unico, le disposizioni che
conferiscono agli organi di cui al capo I
titolo III l'adozione di atti di gestione e
di atti e provvedimenti amministrativi, si
intendono nel senso che la relativa
competenza spetta ai dirigenti..").
È pur vero che nel quadro ordinamentale
descritto dal Testo unico sugli Enti locali
l'art. 50 del decreto legislativo n. 267 del
2000 ha previsto in favore del Sindaco,
quale autorità locale (e non quale ufficiale
di governo), un potere di ordinanza in caso
di "emergenze sanitarie e di igiene
pubblica" a carattere esclusivamente
locale; trattasi però di ordinanze
espressamente qualificate dalla norma "contingibili
ed urgenti" nel cui novero non rientra,
per quanto sopra osservato, quella di cui
all’art. 14 del decreto legislativo n. 22
del 1997.
A tal proposito si ribadisce che il
provvedimento disciplinato dal citato art.
14 non possa rientrare nel genus
delle ordinanze contingibili ed urgenti.
Va ancora osservato come il potere di
ordinanza contingibile ed urgente sia
atipico e residuale e cioè che sia
esercitabile (sempreché ne ricorrano gli
eccezionali presupposti dell'urgenza, della
gravità del pericolo, etc.) quante volte non
sia conferito dalla legge il potere di
emanare atti tipici in presenza di
presupposti indicati da specifiche normative
di settore; viceversa, proprio l'articolo 14
comma 3 citato configurerebbe una siffatta
specifica normativa con la previsione d'un
ordinario potere di intervento attribuito
all'autorità amministrativa locale e non
all'ufficiale del governo.
Del resto, la norma in parola è priva di
qualsiasi riferimento ai requisiti di
contingibilità ed urgenza, a differenza
invece dell'articolo 13 dello stesso decreto
che, a parte l'esplicita qualificazione
contenuta nel titolo ("Ordinanze
contingibili ed urgenti"), riporta al
primo comma un chiaro riferimento alla "eccezionale
ed urgente necessità di tutela della salute
pubblica e dell'ambiente" al fine di
consentire al Sindaco, ove non si possa
altrimenti provvedere, di emettere appunto
ordinanze contingibili ed urgenti che
consentano il ricorso temporaneo a speciali
forme di gestione dei rifiuti, anche in
deroga alle disposizioni vigenti, garantendo
un elevato livello di tutela della salute e
dell'ambiente.
In conclusione, l'articolo 14 del decreto
legislativo n. 22 del 1997 prevede una
ordinanza di sgombero a carattere
sanzionatorio tanto è vero che, per la sua
applicazione a carico dei soggetti obbligati
in solido (tra cui il proprietario), prevede
in capo agli stessi l'imputazione a titolo
di dolo o colpa del comportamento tenuto in
violazione del divieto di legge
(TAR Toscana, Sez. II,
sentenza 18.10.2007 n. 3279 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Mentre
ai fini dell’osservanza delle norme sulle
distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c.
e dalle disposizioni dei regolamenti locali
da esso richiamate, deve farsi riferimento
alle costruzioni che, essendo erette sopra
il suolo, ne sporgano stabilmente (essendo
escluse dal rispetto delle distanze legali
soltanto i manufatti completamente
interrati), viceversa ai fini del rispetto
delle norme contenute nei regolamenti
edilizi, che stabiliscono le distanze tra le
costruzioni e di esse dal confine, essendo
tali norme volte non solo ad evitare la
formazione di intercapedini nocive fra
edifici frontistanti, ma anche a tutelare
l’assetto urbanistico di una data zona e la
densità degli edifici in relazione
all'ambiente, ciò che rileva è la distanza
in sé delle costruzioni a prescindere dal
loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello
dei fondi su cui insistono.
La giurisprudenza (Cass. civ., sez. II,
04.10.2005, n. 19350), con riferimento alla
necessità di rispettare la distanza dai
confini, ha già avuto modo di chiarire che
mentre ai fini dell’osservanza delle norme
sulle distanze legali stabilite dall’art.
873 c.c. e dalle disposizioni dei
regolamenti locali da esso richiamate, deve
farsi riferimento alle costruzioni che,
essendo erette sopra il suolo, ne sporgano
stabilmente (essendo escluse dal rispetto
delle distanze legali soltanto i manufatti
completamente interrati), viceversa ai fini
del rispetto delle norme contenute nei
regolamenti edilizi, che stabiliscono le
distanze tra le costruzioni e di esse dal
confine, essendo tali norme volte non solo
ad evitare la formazione di intercapedini
nocive fra edifici frontistanti, ma anche a
tutelare l’assetto urbanistico di una data
zona e la densità degli edifici in relazione
all'ambiente, ciò che rileva è la distanza
in sé delle costruzioni a prescindere dal
loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello
dei fondi su cui insistono
(TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 18.10.2007 n. 819 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Relativamente
alle opere precarie non rileva il carattere
provvisorio della struttura, in quanto in
materia edilizia ciò che rileva è
l’oggettiva idoneità del manufatto ad
incidere sullo stato dei luoghi a
prescindere dall’intenzione del proprietario
in ordine alla sua utilizzabilità, sicché,
come ha chiarito la giurisprudenza, la
precarietà va esclusa ogni qualvolta l'opera
sia destinata a dare un'utilità prolungata
nel tempo, ancorché a termine, in relazione
all'obiettiva ed intrinseca destinazione
naturale del manufatto.
Il collegio rileva che il titolo necessario
per l’esercizio dell’attività edilizia
dipende dalla idoneità o meno delle opere a
realizzare la trasformazione permanente del
territorio dalla quale l'art. 1 della L. n.
10/1977 fa discendere la necessità della
concessione edilizia.
Nel caso di specie i manufatti, come risulta
dal provvedimento impugnato e riconosciuto
dalla stessa ricorrente, anche se non di
grande dimensione, sono idonei a modificare
il territorio in modo permanente e non
possono essere configurati come pertinenza
ai sensi dell’ art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9,
convertito con modificazioni nella l.
25.03.1982 n. 94, in quanto la nozione
urbanistica di pertinenza e' assai più
ristretta di quella prevista dall'art. 817
del codice civile ed è configurabile solo
quando l’opera non abbia un consistente ed
autonomo impatto sul territorio (si veda in
proposito la sentenza del Consiglio Stato
sez. V, 23.03.2000, n. 1600).
Né rileva il carattere provvisorio della
struttura, in quanto in materia edilizia ciò
che rileva è l’oggettiva idoneità del
manufatto ad incidere sullo stato dei luoghi
a prescindere dall’intenzione del
proprietario in ordine alla sua
utilizzabilità, sicché, come ha chiarito la
giurisprudenza, la precarietà va esclusa
ogni qualvolta l'opera sia destinata a dare
un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a
termine, in relazione all'obiettiva ed
intrinseca destinazione naturale del
manufatto ( Consiglio Stato sez. V,
15.06.2000, n. 3321)
(TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II,
sentenza 11.10.2007 n. 2286 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
trasformazione di un balcone o di un
terrazzino circondato da muri perimetrali in
veranda, mediante chiusura a mezzo di
installazione di pannelli di vetro su
intelaiatura metallica, non costituisce
realizzazione di una pertinenza, né
intervento di manutenzione straordinaria e
di restauro, ma è opera soggetta a
concessione edilizia/permesso di costruire.
La realizzazione di una veranda chiusa con
vetrate, determinando l'aumento della
superficie utile di un appartamento e la
modifica della sagoma dell'edificio,
richiede il previo rilascio della
concessione di costruzione.
E’ necessaria la concessione edilizia nel
caso di veranda costruita con elementi in
alluminio e vetri che aumenti la volumetria
dell'edificio rispetto alla conformazione
originaria, trattandosi peraltro di opera
destinata a perdurare a tempo indeterminato,
a nulla rilevando in contrario
l'utilizzazione dei materiali diversi dalla
muratura e l'eventuale amovibilità delle
strutture utilizzate.
La giurisprudenza ha più volte affermato che
“La trasformazione di un balcone o di un
terrazzino circondato da muri perimetrali in
veranda, mediante chiusura a mezzo di
installazione di pannelli di vetro su
intelaiatura metallica, non costituisce
realizzazione di una pertinenza, né
intervento di manutenzione straordinaria e
di restauro, ma è opera soggetta a
concessione edilizia/permesso di costruire”
(cfr. Cass., Sez. III: 28.10.2004,
D'Aurelio; 13.01.2000, Spaventi; 23.06.1989,
Bindi; 06.04.1988, Rossi; 23.12.1987, Milani;
04.12.1987, Sanchini; 28.04.1983, Topi;
20.04.1983, Ambri).
Infatti, la realizzazione di una veranda
chiusa con vetrate, determinando l'aumento
della superficie utile di un appartamento e
la modifica della sagoma dell'edificio,
richiede il previo rilascio della
concessione di costruzione (C. Stato, Sez.
V: 08.04.1999, n. 394; 22.07.1992, n. 675).
E’ necessaria la concessione edilizia "nel
caso di veranda costruita con elementi in
alluminio e vetri che aumenti la volumetria
dell'edificio rispetto alla conformazione
originaria, trattandosi peraltro di opera
destinata a perdurare a tempo indeterminato,
a nulla rilevando in contrario
l'utilizzazione dei materiali diversi dalla
muratura e l'eventuale amovibilità delle
strutture utilizzate" (C.G.A.R.S.
sezioni riunite del 15.10.1991, sentenza n.
345; CGA del 23.10.1998, n. 633)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 10.10.2007 n. 9931 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
sostituzione della copertura del gazebo da
un telo di stoffa con un struttura in legno
non può che alterarne l’identità, assumendo
i connotati di una tettoia e mutandone in
toto la funzione, oramai non più meramente
pertinenziale ed ornamentale.
Una tettoia è da considerarsi, in senso
tecnico-giuridico, una vera e propria
costruzione assoggettata al requisito della
concessione, poiché difetta normalmente del
carattere di precarietà, trattandosi di
opera destinata non a sopperire esigenze
temporanee e contingenti, con la sua
successiva rimozione ma durevole nel tempo
ampliando così il godimento dell’immobile.
E’ necessaria la concessione di costruzione
per la realizzazione di tettoie, giacché
l’opera è idonea ad escludere la natura
pertinenziale e determinante la stessa una
consistente e durevole trasformazione
urbanistica.
La sostituzione della copertura del gazebo
da un telo di stoffa con un struttura in
legno non può che alterarne l’identità,
assumendo i connotati di una tettoia e
mutandone in toto la funzione, oramai non
più meramente pertinenziale ed ornamentale.
Secondo la
giurisprudenza: <<Una tettoia (…..) è da
considerarsi, in senso tecnico-giuridico,
una vera e propria costruzione assoggettata
al requisito della concessione, poiché
difetta normalmente del carattere di
precarietà, trattandosi di opera destinata
non a sopperire esigenze temporanee e
contingenti, con la sua successiva rimozione
ma durevole nel tempo ampliando così il
godimento dell’immobile>> (Cass.
06.04.1988).
<<La tettoia non ha una propria autonomia
individuale e funzionale, ma si unisce ad
una preesistente edificio ed entra a far
parte di esso costituendone opera accessoria
abbisognevole di concessione edilizia (……)
dall’Autorità preposta alla tutela del
vincolo cui la zona è assoggettabile>>
(Cass. Pen., 13.03.2001, 9924).
<<E’ necessaria la concessione di
costruzione per la realizzazione di tettoie,
giacché l’opera è idonea ad escludere la
natura pertinenziale (TAR Piemonte,
21.12.2000, n. 1393) e determinante la
stessa una consistente e durevole
trasformazione urbanistica>> (TAR,
Campania, Napoli, 31.05.2001, n. 2469)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 09.10.2007 n. 9134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
provvedimenti che ordinano la demolizione di
manufatti abusivi ed, in particolare, la
diffida a demolire, non abbisognano di
congrua motivazione in punto di interesse
pubblico attuale alla rimozione dell’abuso
(che è “in re ipsa”, consistendo nel
ripristino dell’assetto urbanistico
violato), atteso che l’art. 7 della legge n.
47/1985 configura la relativa attività
sanzionatoria come da doverosamente
esercitarsi, anche a distanza di anni dalla
realizzazione dell’abuso
La
giurisprudenza assolutamente maggioritaria
afferma che: <<I provvedimenti repressivi
come l’ordine di demolizione di una
costruzione abusiva prescindono da qualsiasi
valutazione discrezionale dei fatti e sono
subordinati al solo verificarsi dei
presupposti stabiliti dalla legge, così che,
una volta accertata la consistenza
dell’abuso non vi è alcun margine di
discrezionalità per l’interesse pubblico
eventualmente collegato>> (C. di S.,
Sez. IV, 27.04.2004, n. 2592).
Pertanto i provvedimenti che ordinano la
demolizione di manufatti abusivi ed, in
particolare, la diffida a demolire, non
abbisognano di congrua motivazione in punto
di interesse pubblico attuale alla rimozione
dell’abuso (che è “in re ipsa”,
consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato), atteso che l’art. 7
della legge n. 47/1985 configura la relativa
attività sanzionatoria come da doverosamente
esercitarsi, anche a distanza di anni dalla
realizzazione dell’abuso
(TAR Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 09.10.2007 n. 9134 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L’identità
della volumetria e della sagoma costituisce
un limite solo per gli interventi di
ristrutturazione che comportano la previa
demolizione dell’edificio; viceversa tali
limiti non valgono per quegli interventi di
ristrutturazione ordinaria (cioè senza
previa demolizione) i quali devono mantenere
inalterati gli elementi strutturali che
individuano e qualificano l’edificio
preesistente, potendo però comportare
integrazioni strutturali e cioè in pratica
anche modifiche non stravolgenti alla sagoma
nonché limitati incrementi di superficie e
volume.
Come è noto, la nozione di ristrutturazione
edilizia si rinviene oggi nell’art. 3, comma
1, lettera d), del T.U. n. 380 del 2001
(interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme di
opere che possono portare ad un organismo in
tutto o in parte diverso dal precedente) e
nell’art. 10, comma 1, lettera c), del
citato T.U. (interventi .. che comportino
modifiche del volume, della sagoma, dei
prospetti e delle superfici..)
Per quanto riguarda invece la ipotesi
specifica di derivazione giurisprudenziale
della ristrutturazione mediante demolizione
e ricostruzione, la relativa disciplina è
stata per la prima volta introdotta
nell’ordinamento positivo con l’art. 3,
comma 1, lettera d), del T.U. n. 380 del
2001, il quale richiedeva la fedele
ricostruzione (sagoma, volume, sedime e
materiali) della preesistenza.
Successivamente, l’art. 1, comma 6, lettera
b), della legge delega sulle infrastrutture
n. 443 del 2001 ha richiesto identità di
volume e sagoma.
Da ultimo, riprendendo tale impostazione, il
D. L.vo n. 301 del 2002 ha eliminato
dall’art. 3 del T.U. edilizia l’originario
riferimento alla “fedele ricostruzione”
(espungendo così ad es. il richiamo alle
caratteristiche dei materiali) ma ha tenuto
fermo che la ricostruzione costituisce
ristrutturazione solo se il risultato finale
coincide con la volumetria e sagoma
preesistenti.
Dal raffronto fra i corpi normativi ora
richiamati emerge con chiarezza, a giudizio
del Collegio, che l’identità della
volumetria e della sagoma costituisce un
limite solo per gli interventi di
ristrutturazione che comportano la previa
demolizione dell’edificio; viceversa tali
limiti non valgono per quegli interventi di
ristrutturazione ordinaria (cioè senza
previa demolizione) i quali devono mantenere
inalterati gli elementi strutturali che
individuano e qualificano l’edificio
preesistente, potendo però comportare
integrazioni strutturali e cioè in pratica
anche modifiche non stravolgenti alla sagoma
nonché limitati incrementi di superficie e
volume.
Né le limitazioni suddette, apposte ora
dalla legge solo all’ipotesi di
ristrutturazione con previa demolizione,
possono considerarsi irrazionali, in quanto
si rapportano agli evidenti vantaggi (si
pensi all’ipotesi di più restrittivi
strumenti urbanistici sopravvenuti) che
discendono dall’inquadramento dell’attività
ricostruttiva di ciò che è stato demolito
nell’ambito della ristrutturazione anziché
in quello della nuova costruzione
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 08.10.2007 n. 5214 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
termine biennale per il silenzio assenso su
domanda di condono edilizio previsto
dall'art. 35 L. 28.02.1985 n. 47 non decorre
qualora la domanda sia carente dei documenti
necessari ad identificare compiutamente le
opere oggetto della richiesta sanatoria e
dunque quando manchi la prova concreta della
sussistenza dei requisiti soggettivi ed
oggettivi richiesti, con la conseguenza che
il termine di 24 mesi, fissato
dall'Amministrazione comunale per
determinarsi sull'istanza stessa, decorre,
in caso di incompletezza della domanda o
della documentazione inoltrata a suo
corredo, soltanto dal momento in cui le
carenze sono state eliminate.
Per consolidato e condiviso orientamento
giurisprudenziale, il termine biennale per
il silenzio assenso su domanda di condono
edilizio previsto dall'art. 35 L. 28.02.1985
n. 47 non decorre qualora la domanda sia
carente dei documenti necessari ad
identificare compiutamente le opere oggetto
della richiesta sanatoria e dunque quando
manchi la prova concreta della sussistenza
dei requisiti soggettivi ed oggettivi
richiesti, con la conseguenza che il termine
di ventiquattro mesi, fissato
dall'Amministrazione comunale per
determinarsi sull'istanza stessa, decorre,
in caso di incompletezza della domanda o
della documentazione inoltrata a suo
corredo, soltanto dal momento in cui le
carenze sono state eliminate (cfr., ex
plurimis, TAR Veneto, 25.10.1999, n.
1750; Cons. Stato, V Sez., 17.10.1995 n.
1440) (TAR Basilicata,
sentenza 27.12.2002 n. 1030 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Deve
escludersi che il recupero edilizio,
consistendo in interventi sugli elementi
costitutivi degli edifici esistenti, possa
comportare incrementi volumetrici, ossia
aumenti di superficie o di corpi di
fabbrica.
E' illegittima l'approvazione di un piano di
recupero attraverso la procedura
semplificata di variante urbanistica, ai
sensi della L.R. n. 23/1997, per assentire
un aumento di volumetria nella misura del
10%, altrimenti non realizzabile per le
previsioni degli strumenti urbanistici
vigenti, al fine della realizzazione di un
terzo piano dell’edificio.
Il piano di recupero consiste in uno
strumento attuativo destinato al recupero
del patrimonio edilizio esistente, senza,
tuttavia, implicare incrementi volumetrici
tali da determinare un aumento del carico
insediativo, come risulta dall’opinione
della costante giurisprudenza
amministrativa.
Tale strumento ha, dunque, per oggetto la
ridefinizione del tessuto urbanistico di
un'area ed è connaturato dalla specialità
dei fini del recupero del patrimonio
edilizio ed urbanistico degradato per
mantenere e meglio utilizzare il patrimonio
stesso mediante una globalità di interventi
edilizi organici integrati con il tessuto
urbanistico esistente, nonché con lo
sviluppo programmato, attraverso gli
strumenti urbanistici generali.
Balza agli occhi, di conseguenza, che tale
piano può assolvere alla finalità di
recupero edilizio di immobili degradati
esistenti, magari attraverso sistematici
interventi di ristrutturazione o restauro,
oppure può ridisegnare l'assetto urbanistico
esistente nelle zone soggette a recupero ed
assumere una caratteristica efficacia di
programmazione, salva restando la
connotazione tipica dello strumento
attuativo, che ne individua i limiti
oggettivi, connaturati dalla conservazione e
riutilizzazione del patrimonio edilizio
esistente. Deve, quindi, escludersi che il
recupero edilizio, consistendo in interventi
sugli elementi costitutivi degli edifici
esistenti, possa comportare incrementi
volumetrici, ossia aumenti di superficie o
di corpi di fabbrica.
Ciò, del resto, risulta avvalorato dall’art.
27 della legge 05.08.1978, n. 457,
intitolato: Individuazione delle zone di
recupero del patrimonio edilizio esistente,
nonché dall’art. 2, comma 2, lett. g, della
L.R. 23.06.1997, n. 23, che,
nell’esplicitare una delle ipotesi cui si
applica il procedimento semplificato di
variante urbanistica, ai sensi dell’art. 3
della stessa legge, menziona le varianti
finalizzate alla individuazione delle zone
di recupero del patrimonio edilizio
esistente, di cui all'art. 27 della legge
05.08.1978, n. 457 (norme per l'edilizia
residenziale).
Nel caso di specie, dalla documentazione
versata in atti risulta
incontrovertibilmente, come confermato,
peraltro, dalle stesse difese del comune di
Palosco, che il piano di recupero è stato
approvato attraverso la procedura
semplificata di variante urbanistica, ai
sensi della L.R. n. 23/1997, per assentire
un aumento di volumetria nella misura del
10%, altrimenti non realizzabile per le
previsioni degli strumenti urbanistici
vigenti, al fine della realizzazione di un
terzo piano dell’edificio
(TAR Lombardia-Brescia,
sentenza 09.12.2002 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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