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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2011

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aggiornamento al 30.06.2011

aggiornamento al 27.06.2011

aggiornamento al 22.06.2011

aggiornamento al 20.06.2011

aggiornamento al 13.06.2011

aggiornamento al 06.06.2011

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.06.2011

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speciale DOSSIER competenze progettuali

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

COMPETENZE PROGETTUALIOggetto: richiesta parere sulle competenze degli Ingegneri in  materia di opere cimiteriali (Consiglio Nazionale degli Ingegneri, nota 14.07.2008 n. 770 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

COMPETENZE PROGETTUALI: MODESTIA DELLA COSTRUZIONE.
Quanto al primo aspetto (modestia della costruzione) va rilevato che data l’apparente incertezza letterale della norma, è stata la giurisprudenza a stabilirne, in concreto, il significato.
Orbene, la giurisprudenza ha stabilito che non si può a priori decidere quando una costruzione sia modesta e quando no, perché tale criterio è relativo (ossia da stabilire volta per volta e demandato al giudice di merito) e non assoluto e fisso.
Vale a dire che occorre, volta per volta, una indagine di fatto, tesa ad accertare se una costruzione destinata a civile abitazione sia da considerarsi modesta o meno e ciò anche con riferimento al mutare delle conoscenze costruttive nel tempo (dunque, mutevoli).
Per far ciò, occorre compiere una valutazione caso per caso delle difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera concreta comporta e dalla capacità (cioè dalle cognizioni tecniche) occorrente per superarle.
Il criterio, dunque, è tecnico-qualitativo e non quantitativo, come chiarito oramai da moltissimi anni dalle sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza n. 1474 del 13/05/1968: "modeste debbono considerarsi le costruzioni che non presentino difficoltà tecniche che, in quanto di difficile soluzione, esulino dal livello di conoscenze proprie del geometra/perito industriale” e dalla Corte Costituzionale (sentenza 27.04.1993 n. 199): “il criterio da seguire è quello tecnico–qualitativo fondato sulla valutazione della struttura dell'edificio e delle relative modalità costruttive, che non devono implicare la soluzione di problemi particolari devoluti esclusivamente ai professionisti di rango superiore, mentre il criterio quantitativo e quello economico possono soccorrere quali elementi complementari di valutazione, in quanto indicativi delle caratteristiche costruttive e delle difficoltà tecniche presenti nella realizzazione dell'opera”.
In detta indagine, quindi, devono privilegiarsi gli aspetti tecnici e le difficoltà che vanno, in concreto, affrontate; soccorrono, però, anche elementi quantitativi, tipo l’importo dell'opera (costo presunto), la cubatura, il numero dei piani, […] definiti “elementi complementari di valutazione
(3).
I tecnici diplomati, dunque, possono progettare e dirigere lavori improntati a criteri di semplicità, sia sotto il profilo strutturale che edilizio.
In proposito, però, la casistica è assai ampia e non sempre univoca proprio perché lasciata alla interpretazione giurisprudenziale, che ha seguito per individuare i confini delle competenze professionali dei diversi soggetti il criterio che le vuole legare ai differenti percorsi formativi.
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(3) “Il discrimine della competenza dei geometri nel campo delle costruzioni civili è dato dal criterio della "modestia" dell'opera, così come stabilito dall'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274, il quale, nel regolare l'attività professionale dei geometri alla lett. m), consente loro l'attività di "progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili". Tale criterio è da intendere in senso tecnico-qualitativo e con riguardo ad una valutazione della struttura dell'edificio e delle relative modalità costruttive, che non devono implicare la soluzione di problemi tecnici particolari, devoluti esclusivamente alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti. Altri criteri, come quello quantitativo, delle dimensioni e della complessità, nonché quello economico, possono soccorrere quali elementi complementari di valutazione, in quanto indicativi delle caratteristiche costruttive e delle difficoltà tecniche presenti nella realizzazione dell'opera”. Consiglio Stato, sez. V, 03.10.2002, n. 5208.

Ciò che è indubbio è che la giurisprudenza esclude che il criterio possa essere guidato solo dalla superficie della costruzione o dai suoi costi, dato che l'una e gli altri non sono di per sé indici inequivoci di specifiche difficoltà tecniche (si spiega, così, la previsione, nella tariffa professionale dei geometri, di una voce per i compensi per progettazioni di costruzioni di larga superficie e di elevati costi) ma non impedisce affatto che i costi e la superficie (come la cubatura ed il numero dei piani) possano essere considerati, comunque, elementi sintomatici complementari, ancorché di per se insufficienti, siccome indicativi di caratteristiche costruttive dell'opera e di difficoltà tecniche che l'opera medesima presenta, per l'apprezzamento del carattere modesto o meno della costruzione.
Il criterio principe seguito dalla giurisprudenza per stabilire se una costruzione sia modesta, consiste, dunque, nel valutare se il progetto, per i problemi tecnici che implica, possa, in relazione alla destinazione dell'opera, comportare un pericolo per l'incolumità delle persone in caso di difetto strutturale. Con ciò il concetto di modesta costruzione finisce in gran parte col coincidere con i criteri dettati dalla lettera l) per quanto concerne le opere in cemento armato, che possono essere realizzate solo se i calcoli non sono complessi e non c’è pericolo per la pubblica incolumità.
In tal senso, si vedano le seguenti massime:
- Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e rientri quindi nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), R.D. 11.02.1929 n. 274– consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine assumono rilievo, oltre alla complessità della struttura e delle relative modalità costruttive, anche, in via complementare, il costo presunto dell'opera, in quanto si tratta in ogni caso di elementi sintomatici che valgono ad evidenziare le difficoltà tecniche che coinvolgono la costruzione (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale, negando la competenza dei geometri, rilevando che gli impianti di depurazione non rientrano tra le opere contemplate dalla tariffa professionale, che l’entità dei lavori –14 miliardi di vecchie lire- esulasse dalle competenze dei geometri e che la delicatezza dei problemi tecnici relativi alla progettazione di un'infrastruttura reticolare e connessi all'interferenza con altri impianti pure a rete (illuminazione, cavi telefonici, ecc.) ed alla sostituzione e/o recupero dell'impianto preesistente ponesse serie problemi tecnici) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 27.02.2008 n. 5203);
- La competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili, prevista dall'art. 16, r.d. n. 274 del 1929, riguarda le costruzioni rurali e degli edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone, nonché il progetto, la direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili (TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 19.07.2007 n. 860);
- L'indagine intesa ad accertare se una costruzione destinata a civile abitazione sia da considerarsi modesta e rientri, quindi, nella competenza professionale dei periti industriali (o dei geometri), non può prescindere dalla valutazione delle difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comporta e dalla capacità (cioè dalle cognizioni tecniche) occorrente per superarle, criterio che ha valore fondamentale per l'esatta interpretazione e l'applicazione dell'art. 16 del regolamento professionale (R.D. 11.02.1929 n. 275, per i periti industriali, e R.D. 11.02.1929 n. 274, per i geometri), in detta indagine si terrà conto anche degli elementi dell'importo dell'opera (costo presunto), della cubatura e del numero dei piani (cosiddetti criteri di valore, od economico, e quantitativo), ma soprattutto per il loro valore sintomatico, in quanto valgono a determinare le caratteristiche costruttive dell'opera e ad illuminare sulle difficoltà tecniche che l'opera medesima presenta, al fine di apprezzare se questa costituisca una costruzione modesta ai sensi dell'ordinamento professionale, ovvero esuli dalla capacita tecnica e dalla competenza dei periti industriali (e dei geometri) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 14.06.2007 n. 13968);
- Nell'affidamento degli incarichi di progettazione e direzione dei lavori il discrimine tra la competenza dei geometri e le attribuzioni riservate agli ingegneri è costituito dalla modesta entità dei lavori affidati, essendo preclusa ai geometri la realizzazione di lavori richiedenti una visione d'insieme e di carattere programmatorio complessivo (nel caso concreto si è ritenuto rientrasse nella competenza dei geometri l'incarico di progettazione e direzione lavori di manutenzione straordinaria e sistemazione di un'area pubblica a destinazione mercatale) (TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2007 n. 852);
- In base all'art. 16, R.D. 11.02.1929 n. 274 e dell'art. 54, L. 02.03.1949 n. 144, non rientra nella competenza dei geometri la realizzazione di un complesso di opere di modesta entità o tenuità, bensì che richiede una visione d'insieme, pone problemi di carattere programmatorio ed impone la valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, possa incontrare difficoltà non facilmente superabili con il solo bagaglio professionale del geometra (nella specie, l'incarico di progettazione è di sicura complessità, perché riguarda l'adeguamento e la razionalizzazione dell'acquedotto comunale, in funzione di una nuova destinazione urbanistica e, quindi, non è penalizzante della posizione professionale dei geometri) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.09.2001 n. 4985).

Interessante è poi notare che nel concetto di modestia, si deve tener conto dell'evoluzione della tecnica edilizia nel tempo. Il limite, dunque, non è assoluto ma flessibile intrinsecamente correlato all’evoluzione tecnica e scientifica dell’edilizia.
Pertanto il concetto di "modesta costruzione civile" è, nel tempo, inevitabilmente soggetto ad adeguarsi allo stato della cultura tecnica dei professionisti ed ai moderni metodi di costruzione, data la sempre maggior attenzione alla sicurezza e, quindi, al ridursi del pericolo per l’incolumità delle persone. In tal senso si è anche pronunziata la Corte Costituzionale (sentenza 27.04.1993 n. 199) affermando la ragionevolezza di “ragguagliare a presupposti "flessibili" la determinazione di competenze che postulano cognizioni necessariamente variabili in rapporto ai progressi tecnico-scientifici che la materia può subire nel tempo”.

Come già detto l’espressione “modeste costruzioni civili” è solo apparentemente generica e indeterminata.
Perché apparentemente? Innanzitutto perché la giurisprudenza della Corte Costituzionale, chiamata a pronunziarsi più volte sul punto, ha escluso che l’espressione sia generica.
La Corte Costituzionale infatti ha rimarcato che tutte le norme impongono al giudice una normale interpretazione, e che l’elaborazione giurisprudenziale sul punto è numerosa e concorde nel ritenere che, per accertare se una costruzione sia da considerare "modesta", tale cioè da rientrare nella competenza professionale dei geometri/periti, il criterio basilare cui fare appello é quello tecnico –qualitativo fondato sulla valutazione della struttura dell'edificio e delle relative modalità costruttive.
Generalmente si ritengono “modeste” quelle costruzioni che non superano i 5000 mc. e fino a due piani
(4).
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(4) Ciò in ossequio all’art. 57 L. 144/1949 (tariffa dei geometri).

Vediamo comunque alcuni esempi.
- Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.11.1985 n. 390: ha ritenuto non fosse modesta (e dunque esulare dalla competenza dei geometri) la progettazione di edifici abitativi a sei piani con strutture in cemento armato e volume di 5.000 metri cubi;
- Corte di Cassazione, penale, sentenza 27.03.1995 n. 5416: ha ritenuto la competenza dei geometri la di capannone industriale di circa 8200 m3 di volume, su tre piani e con struttura in cemento armato;
- TAR Lombardia-Milano, sentenza 30.07.1996 n. 1269: ha ritenuto la competenza dei geometri per un intervento che consisteva nel ricomporre il preesistente volume di due fabbricati, pari a 255 metri cubi, in un'unica costruzione a due piani, di cui uno seminterrato;
- Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.01.2001 n. 348: (confermando il TAR Emilia-Romagna) ha escluso la competenza dei geometri per la sopraelevazione di tre piani, per una volumetria complessiva di 1700 metri cubi;
- Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.10.2003 n. 6747: ha escluso la competenza dei geometri per la realizzazione di una struttura in cemento armato di tre piani con fondamenta del tutto nuove;
- TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 10.12.2003 n. 1784: ha escluso la competenza dei geometri per opere di ampliamento della struttura cimiteriale, in virtù del fatto che era necessario raccordare le nuove opere con quelle preesistenti;
- TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2007 n. 852: ha ritenuto non complessa (e quindi di competenza dei geometri) l'incarico di progettazione e direzione di lavori di manutenzione straordinaria e sistemazione di un'area pubblica a destinazione mercatale.

Per quanto riguarda la progettazione di strade, la lett. b del sopraccitato art. 16 R.D. 274/1929, sancisce che i geometri possono progettare strade qualora ricorra la "tenue importanza dell'opera".
Anche qui la giurisprudenza segue un criterio tecnico–qualitativo (natura e dimensione della strada da costruire), per stabilire se la strada sia di tenue importanza.
Pertanto si ritiene esuli dalle competenze dei tecnici diplomati la progettazione di strade pubbliche, da intendersi comprese nella definizione anche le strade sviluppate all’interno del tessuto urbano che non possono essere qualificate di tenue importanza in quanto comportano interventi di una certa complessità (come la progettazione di muri di contenimento, ponti, gallerie) ed essendo destinate al traffico ordinario (cfr. TAR Puglia Lecce, sez. II, 10.02.2006, n. 902; TAR Calabria Catanzaro, sez. I, 12.07.2005, n. 99; TAR Campania-Salerno 17.11.2004 n. 2016; TAR Sardegna, 19.04.1995, n. 547).

Un’ultima annotazione per quanto concerne le competenze delle opere di urbanizzazione all’interno di lottizzazioni.
In merito la giurisprudenza, quando si è dovuta pronunziare, ha spesso escluso la competenza dei tecnici diplomati, rilevando che la redazione di un piano di lottizzazione comporta la soluzione di problemi tecnici non solo in ordine ai calcoli del cemento armato, ma anche in relazione alle opere di urbanizzazione primaria da realizzare, di particolare complessità, come tali esulanti dal concetto di modeste costruzioni civili e implicanti pericolo per la pubblica incolumità.
Ciò, però, non significa a priori escludere la competenza dei geometri per le lottizzazioni, anche perché la legge stessa sulle tariffe per le prestazioni professionali dei geometri, prevedendo, ai sensi dell'art. 46 L. 144/1949, in caso di lottizzazioni, la facoltà di aumentare dal 20 al 100% gli onorari di cui alla lettera a tab.D5, prevede la loro competenza per le lottizzazioni, ovviamente però se modeste.
Si veda, in proposito, la recente Cassazione Civile, sez. II, 14.04.2005, n. 7778 che ha statuito: “la redazione di un piano di lottizzazione, in astratto, NON è attività preclusa ai geometri; ma, in considerazione delle attività che l'art. 16 del R.D. 274 del 1929 riserva ai geometri e nel rispetto della ratio della norma, volta ad assicurare che determinate attività siano svolte da professionisti che, per la loro capacità professionale siano in grado di consentire la costruzione di opere non pericolose per la pubblica incolumità, ha ritenuto, sulla base delle risultanze della C.T.U., che la redazione di un piano di lottizzazione che comprenda la progettazione di due complessi residenziali, ciascuno di tre piani fuori terra, oltre cantine e boxes, opere che impongono la soluzione di problemi tecnici non solo in ordine ai calcoli del cemento armato, ma anche in relazione alle opere di urbanizzazione primaria da realizzare, non possa rientrare fra quelle attività che, con riferimento alla modestia delle opere consentite per legge al geometra, siano tali da escludere un pericolo per la pubblica incolumità e possano, conseguentemente, essere consentite allo stesso”.
Altre volte, invece, la competenza dei tecnici diplomati per la redazione di un piano di lottizzazione è stata esclusa in radice, con la motivazione che tali opere richiedono una visione di insieme che impone problemi di carattere programmatorio che non possono rientrare nella competenza se non di persone laureate.
In tal senso, si veda Consiglio di Stato 03.09.2001 n. 4620 “è pacifico che la redazione di un piano di lottizzazione costituisce attività che chiaramente richiede una competenza programmatoria in tale settore, anche se si limita l'attività a opere di modesta entità, e nonostante che la stessa sia posta in attuazione delle previsioni dello strumento urbanistico generale.
In effetti, come già affermato da questa Sezione, la redazione di un tale strumento concerne indubbiamente la realizzazione di un complesso di opere che richiede una visione di insieme e pone problemi di carattere programmatorio che indubbiamente postulano valutazioni complessive che non rientrano nella competenza professionale del Geometra, così come definita dall'art. 16 del R.D. 11.02.1929 n. 274 - Cons. St., sez. V, n. 25 del 13.01.1999; n. 3 del 03.01.1992; Cons. St., sez. IV, n. 765 del 09.11.1989
” (conformi anche).

La recentissima sentenza TAR Lombardia, Brescia, 29.10.2008 n. 1466, superando la dicotomia, sancisce che in generale è precluso al geometra la redazione di un piano di lottizzazione, anche se ciò non significa vietarlo tout court, occorrendo, sempre, una indagine fattuale volta a valutare quali siano, in concreto, le difficoltà di quello specifico piano (nel caso di specie è stata ritenuta la competenza dei geometri: “In linea generale, la redazione di un piano di lottizzazione (e, in genere, di uno strumento di programmazione urbanistica) costituisce attività che richiede una competenza specifica in tale settore attraverso una visione di insieme e la capacità di affrontare e risolvere i problemi di carattere programmatorio che postulano valutazioni complessive non rientranti nella competenza professionale del geometra, così come definita dall'art. 16 del R.D. n. 274/1929 (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 03.09.2001 n. 4620; Sez. IV, 09.11.1989 n. 765). Nel caso specifico va tuttavia osservato che il Piano di recupero in oggetto assume solo la connotazione formale di un Piano urbanistico attuativo poiché, nella sostanza, presenta contenuti esclusivamente edilizi che riguardano la ristrutturazione (mediante demolizione e ricostruzione) di un edificio esistente. Non sono invece coinvolti aspetti pianificatori tipici della programmazione urbanistica, come il raccordo tra l'edificazione e le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, sia esistenti che di progetto. Si tratta, pertanto, di un Piano di recupero costituito attraverso valutazioni ed elaborati tipici di un permesso di costruire ed avente ad oggetto un'opera di modesta entità che rientra senz'altro nella competenza professionale del Geometra”. (tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

COMPETENZE PROGETTUALI: CEMENTO ARMATO.
La lettera m del succitato art. 16 riguardo alle competenze dei Geometri in relazione agli edifici di civile abitazione, non fa alcun accenno alla possibilità -per tali professionisti- di progettare e realizzare anche edifici con strutture in cemento armato, precisando, come detto, che debba trattarsi comunque di “costruzioni modeste(6).
Con più specifico riferimento alle opere in conglomerato cementizio semplice od armato, si deve inoltre ricordare il R.D. 16.11.1939 n. 2229, che escludeva in via assoluta che i tecnici non laureati fossero competenti per la realizzazione di tal genere di costruzioni e stabiliva, in proposito, che «ogni opera di conglomerato cementizio semplice od armato, la cui stabilità possa comunque interessare l'incolumità delle persone, deve essere costruita in base ad un progetto esecutivo firmato da un ingegnere, ovvero da un architetto iscritto nell'albo, nei limiti delle rispettive attribuzioni […]».
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(6) L'art. 64, d.P.R. n. 380 del 2001 espressamente stabilisce:
<<1. La realizzazione delle opere di conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, deve avvenire in modo tale da assicurare la perfetta stabilità e sicurezza delle strutture e da evitare qualsiasi pericolo per la pubblica incolumità.
2. La costruzione delle opere di cui all'articolo 53, comma 1, deve avvenire in base ad un progetto esecutivo redatto da un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali.
3. L'esecuzione delle opere deve aver luogo sotto la direzione di un tecnico abilitato, iscritto nel relativo albo, nei limiti delle proprie competenze stabilite dalle leggi sugli ordini e collegi professionali.
4. Il progettista ha la responsabilità diretta della progettazione di tutte le strutture dell'opera comunque realizzate.
5. Il direttore dei lavori e il costruttore, ciascuno per la parte di sua competenza, hanno la responsabilità della rispondenza dell'opera al progetto, dell'osservanza delle prescrizioni di esecuzione del progetto, della qualità dei materiali impiegati, nonché, per quanto riguarda gli elementi prefabbricati, della posa in opera ».
A sua volta, Consiglio Stato , sez. V, 01.12.2003, n. 7821, ha statuito: “Per valutare l'idoneità di un geometra a firmare il progetto di un'opera edilizia comportante l'uso del cemento armato, occorre considerare le specifiche caratteristiche dell'intervento, potendo ammetterla solo in caso di opera di modeste dimensioni.
(Conferma TAR Liguria 20.09.1997 n. 333 ).

Successivamente la L. 05.11.1971 n. 1086 ha ridisciplinato la materia delle opere in conglomerato cementizio armato, normale e precompresso ed a struttura metallica, ma utilizzando una formulazione ancor più generica, riguardo alle competenze, rispetto a quella degli anni venti e trenta.
L’art. 2 infatti, nel ridisciplinare la progettazione e direzione lavori delle opere in cemento armato, ha richiamato anche le figure del Geometra e del Perito edile, pur precisando per costoro la possibilità di sottoscrivere i progetti nei limiti delle rispettive competenze professionali (formulazione che in effetti non porta ulteriori chiarimenti) .
Infine, la disposizione del citato art. 2, L. n. 1086/1971, è stata ripresa integralmente dal T.U. in materia edilizia (DPR n. 380/2001) il quale, ai commi 2 e 3 dell'art. 64, ha disciplinato le competenze professionali proprio con riguardo alle opere in conglomerato cementizia.
Stante il non sempre ottimale coordinamento tra le diverse discipline normative sopra citate e le differenti interpretazioni che ne sono state date, ne è seguìto, nel corso degli anni, un notevole contenzioso in relazione alle attribuzioni professionali dei tecnici non laureati, con riguardo alle quali le sentenze della giurisprudenza si sono dimostrate sempre univoche.
Tralasciando le competenze in materia di costruzioni rurali, che poco ci riguardano in questa sede, vi è da dire come la giurisprudenza amministrativa –e non solo– abbia finito per dar vita a due diversi orientamenti.

Diversi orientamenti che comunque:
- o precludono tassativamente la possibilità per i Geometri di progettare costruzioni in cemento armato;
- o ne limitano la possibilità nella progettazione di “costruzioni modeste”.
Secondo l'impostazione più restrittiva, è stato sostenuto che, in mancanza di ogni ulteriore specificazione da parte della lett. m) di cui all'art. 16, RD n. 274 del 1929, la competenza dei geometri, nel campo degli edifici civili, è limitata alla realizzazione di edifici di carattere «modesto», in nessun modo implicanti l'utilizzo di strutture in cemento armato, atteso che la progettazione di tali opere in conglomerato cementizio è ammessa dalla lettera l) soltanto per piccole costruzioni accessorie di edifici rurali ovvero adibiti ad uso di industrie agricole.
In tal senso, si vedano Trib. Udine, 19.12.2006 n. 1790; Cass. Civ. 26.07.2006 n. 17028; Cass. Civ. sez. II, 15.02.2005 n. 3021 e Cons. Stato 22.05.2006 n. 3006 che ha statuito: “esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in c.a., trattandosi di attività che, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali”.
Viceversa, secondo l'interpretazione diciamo così più estensiva –soprattutto nella giurisprudenza del TAR– non sarebbe precluso al geometra (e al perito industriale) la progettazione di opere in cemento armato, ma limitatamente alle opere civili aventi comunque «modeste dimensioni», così da doversi escludere pericolo per l'incolumità delle persone in caso di difetto strutturale.

Piuttosto contrastante col dettato della legge e con la giurisprudenza appare invece la pratica applicazione di quanto sopra esposto, nonostante il principio indiscutibile in base al quale le opere in cemento armato non debbano implicare pericolo per la pubblica e privata incolumità (cfr., fra le recenti, Cass., sez. II, 14.04.2005 n. 7778), in coerenza col quale il Consiglio di Stato 13.06.2005 n. 3085 ha deliberato che “Anche quando è ammessa la competenza del geometra per la progettazione in strutture di cemento armato, tale competenza è comunque limitata alla opere di dimensioni minori, sicché per valutare l'idoneità del geometra a firmare il progetto di natura edilizia che comporta l'uso del cemento armato occorre considerare le specifiche caratteristiche dell'intervento, al fine di ammetterla solo se si tratti di opera di modeste dimensioni. La competenza dei geometri, infatti, è limitata alle sole costruzioni minori, di modeste dimensioni, con divieto di progetto di opere per cui vi sia impiego di cemento armato, tale da implicare un pregiudizio alle persone in caso di difetto strutturale, stante anche l'evidente favore che le varie norme pongono per la competenza esclusiva dei tecnici laureati”. (tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

COMPETENZE PROGETTUALI: CONCETTO DI NON SCINDIBILITÀ DEL PROGETTO - CONTROFIRMA DI UN INGEGNERE PER LA PARTE STRUTTURALE SUL PROGETTO PRESENTATO DA UN GEOMETRA.
L’invalidamento del progetto, redatto e presentato da un tecnico diplomato non competente in materia di cemento armato, non viene eluso dal fatto che un tecnico laureato (ingegnere o architetto) abbia effettuato e firmato i calcoli strutturali e diretto i relativi lavori delle strutture in cemento armato.
Ma è noto come invece tale elusione costituisca una prassi ormai consolidata, anche per la scarsa vigilanza degli Enti preposti al rilascio delle autorizzazioni.
A tale proposito si rimanda alla più recente Sentenza del Consiglio Stato, sez. IV, 05.09.2007, n. 4652 ove si afferma con estrema chiarezza e senza lasciare adito ad interpretazioni che non rientrano nella competenza dei geometri le opere in cemento armato diverse dalle piccole costruzioni accessorie, risultando ininfluente che il calcolo del cemento armato sia stato affidato ad un ingegnere o ad un architetto. La medesima Sentenza afferma inoltre che, allorché i calcoli siano stati fatti eseguire ad un ingegnere o architetto, ciò sia chiaro segnale del fatto che l’opera esuli dalle competenze del geometra in quanto evidentemente “non modesta”.

Risulta peraltro una copiosa giurisprudenza finalizzata alla repressione della prassi, assai diffusa, della “controfirma” sul progetto e la direzione lavori di una costruzione con strutture in cemento armato presentato da un tecnico diplomato (non abilitato) che, tra l’altro, ‘normalmente’, ne dirige le opere edili (7).
Chiara ed inequivocabile, al riguardo, la recente Sentenza della Cassazione civile 26.07.2006 n. 17028 ove si afferma che: “La progettazione e la direzione di opera da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime. In particolare, a rendere illegittimo in tale ambito un progetto redatto da un geometra non rileva che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di incombenze che devono essere inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità”.
Essa chiaramente nega l’ipotetica distinguibilità o scindibilità tra il livello della progettazione per così dire edilizia e quello, presunto successivo, della progettazione strutturale.
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(7) Il principio, però, è assai risalente nel tempo; si veda Consiglio di Stato 12.11.1985 n. 390: “Ai fini della
legittimità della concessione edilizia per opere progettate e dirette da un professionista incompetente non rileva
la circostanza che i calcoli siano stati effettuati da un ingegnere laureato”.

La giurisprudenza, salvo rare eccezioni (8), ha sancito infatti che le due fasi sono “ontologicamente una”, non potendosi distinguere fra progetto edilizio e struttura, né fra progetto esecutivo, preliminare e definitivo, perché anche questi ultimi, riguardando le linee essenziali e generali dell’opera, presuppongono le operazioni e le competenze necessarie per la verifica della sua realizzazione.
In altre parole, la giurisprudenza ha evidenziato come progetto e struttura siano un unicum inscindibile, stante l’impossibilità di realizzare edifici sicuri, in difetto di una corretta progettazione architettonica globale; e la ragione di un tale rigore giurisprudenziale poggia dichiaratamente sul fatto che le disposizioni di legge in materia di competenze professionali nel settore delle costruzioni sono finalizzate alla pubblica incolumità, la cui tutela è di
competenza dello Stato.
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(8) Cons. Stato 04.06.2003 n. 3068, che ha ammesso la cooperazione fra tecnici.

Principio che ha, tra le conseguenze collaterali, anche il fatto di escludere il diritto al compenso del professionista non abilitato, col richiamo dell’art. 1418 Codice Civile (che sancisce la nullità di contratti contrari a norme di ordine pubblico).
Ed al riguardo, si vedano le seguenti massime:
- Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 25.05.2007 n. 12193: “Non è consentito di enucleare e distinguere, con riferimento a un progetto generale di una costruzione da destinare a civile abitazione redatto da un geometra, privo di competenza al riguardo, e che abbia assunto la direzione dei lavori, un'autonoma attività, per le parti di tali lavori inerenti a opere in cemento armato, riconducibile a un ingegnere o a un architetto. La competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione, anche parziale, di strutture in cemento armato, mentre è ammessa la sua competenza in via di eccezione anche a queste soltanto con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone.”
- Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.07.2006 n. 17028: “È nullo il contratto intercorso tra un geometra e il committente avente a oggetto la progettazione e la direzione di opere in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti. In una tale eventualità il professionista non ha titolo ad alcun compenso, non essendo consentito di enucleare e distinguere, con riferimento a un progetto generale di una costruzione da destinare a civile abitazione redatto da un geometra privo di competenza al riguardo, e che abbia assunto anche la direzione dei lavori, un'autonoma attività, per la parte di tali lavori inerenti a opere in cemento armato, riconducibile a un ingegnere o a un architetto
- Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 15.02.2005 n. 3021: “Il contratto con il quale viene affidata a un geometra la progettazione di una costruzione civile in cemento armato è nullo, anche se il compito, su richiesta dell'incaricato, è poi svolto da un ingegnere o architetto”.
- Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.11.2004 n. 21185: “Con riferimento alle competenze dei geometri in materia di progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, l'art. 16 r.d. 274/1929, nel prevedere che i geometri non possono redigere progetti di costruzioni che comportino l'impiego di conglomerati cementizi, semplici o armati, in strutture statiche portanti, si riferisce sia ai progetti di massima che a quelli esecutivi, mentre nessun riscontro nella legge ha la categoria del progetto architettonico.”

Particolarmente interessante risulta perciò la pronuncia del TAR Veneto, Venezia, 28.01.2005 n. 381, riferita, per similitudine, all’inscindibilità del progetto di Restauro, laddove la Soprintendenza, nel controllare il progetto, aveva escluso la competenza dell’Ingegnere in materia (anche “per la parte tecnica del restauro”, essendo essa strettamente connessa a quella architettonica).
All’eccezione, sollevata dall’Ingegnere, in base alla quale avrebbe dovuto essere autorizzato, dovendosi considerare consolidata una prassi in virtù di precedenti progetti già all’Ingegnere autorizzati, Il TAR Veneto nel merito disponeva invece che “Deve e essere rilevata l'infondatezza della pretesa del ricorrente ingegnere a vedersi scomputare dal complessivo progetto la sola parte tecnica del progetto e ciò per l'evidente ragione che il progetto di restauro per il suo carattere unitario non consente uno scorporo di tal fatta.
Infine deve essere disattesa la dedotta contraddittorietà rispetto ai comportamenti pregressi dell'Amministrazione e ciò perché a prescindere dai dubbi sulla similitudine delle fattispecie poste a confronto, qualora pure la Sovrintendenza abbia in passato approvato progetti di restauro sui immobili artistici non per questo deve continuare a violare la legge
”.
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

COMPETENZE PROGETTUALI: RESTAURO DI EDIFICI STORICI VINCOLATI DALLA NORMATIVA STATALE DI TUTELA.
Per quanto concerne il settore del restauro di edifici di valore storico-artistico, la legge ne esclude la competenza anche degli Ingegneri, “fatta eccezione per la parte tecnica” (art. 52 R.D. 2537/1925).
Il restauro conservativo di un edificio sottoposto a vincolo ai sensi delle leggi che tutelano l'antichità e le belle arti è riservato, infatti, dall'art. 52 del R.D. 23.10.1925, n. 2537, a chi esercita la professione di Architetto.
Sono, dunque, riservati agli architetti:
- il restauro e ripristino degli edifici vincolati dalla L. 1089/1939 e successive (come da appositi elenchi);
- le opere edilizie che presentino carattere artistico
(9).
La giurisprudenza, in materia, è copiosa e costante nell’affermare che ciò trae origine “nello specifico corso di laurea che gli architetti sono tenuti a percorrere e della conseguente professionalità e sensibilità artistica ed estetica che acquisiscono” (cfr. Consiglio di Stato 16.05.2006 n. 2776).
La sentenza Cass. Pen. 14.12.1994, a sua volta, nell’escludere che un geometra possa operare nel settore del restauro di edifici, chiarisce che non può essere ritenuto intervento “modesto” quello volto al restauro di bene tutelato ai sensi delle leggi sull'antichità e le belle arti.
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(9) La giurisprudenza, in merito, sancisce: “La competenza esclusiva a realizzare opere su beni immobili sottoposti a vincolo storico e artistico ai sensi della l. 01.06.1939 n. 1089 spettante agli architetti non è limitata ai soli immobili oggetto di notificazione a norma degli artt. 1-3 l. n. 1089 cit. ma riguarda anche gli immobili che presentano comunque interesse storico ed artistico e per questo tutelati "ope legis"" Cons. Stato 23.07.1997 n. 386 (tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

COMPETENZE PROGETTUALI: CONSEGUENZE CIVILI E PENALI DELL’INOSSERVANZA DELLE COMPETENZE.
Il contratto di progettazione e direzione lavori da parte di un tecnico non abilitato per opere che esulano dalle sue competenze (per esempio il cemento armato progettato da un geometra/perito) è nullo ex art. 1418 (10), 2229 (11) e 2231 (12) Codice civile, per contrarietà a norme imperative.
In tal senso, si segnala la recente Cassazione civile, sez. II, 25.07.2007, n. 12193, ed il principio è completamente affermato
(13).
Tale nullità è assoluta e rilevabile anche d’ufficio dal Giudice in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi dell’art. 1421 C.C., il che significa che è, fra le forme di invalidità negoziale, ritenuta la più grave.
Ne consegue –per fare alcuni esempi concreti– che, allorché al tecnico non abilitato non sia stato saldato l’onorario, egli non ha la possibilità di intraprendere alcuna azione legale in giudizio per richiedere le proprie spettanze.
Ma anche il committente dei lavori, nel caso in cui essi presentino difetti e problemi, non può promuovere azioni contrattuali contro il tecnico (il committente, infatti, in quanto partecipe, per effetto del volontario conferimento dell'incarico, della violazione di norme di ordine pubblico, non può dolersi delle conseguenze dannose derivanti dal compimento di attività illecite, cui scientemente o quanto meno incautamente per colpevole ignoranza della legge, ha dato causa.
Altre conseguenze si rinvengono a carico dell’impresa appaltatrice, che è per legge tenuta a rifiutarsi di eseguire opere se i disegni non sono firmati e la Direzione dei Lavori non è assunta da professionista abilitato.
L’art. 4 L. 05.11.1971 n. 1086 infatti impone l’obbligo a carico delle imprese appaltatrici di denunciare all'Ufficio del Genio Civile competente per territorio le opere in cemento armato corredate dai calcoli (pena sanzioni penali), prima dell’inizio dei lavori.
L’appaltatore, in particolare, deve indicare nella denuncia i nomi ed i recapiti del committente, del progettista delle strutture e del direttore dei lavori.
La ratio della norma è quella di consentire di effettuare i dovuti controlli al fine di escludere ogni pericolo per la pubblica e privata incolumità, concetto che, come abbiamo visto, è un po’ il leit motiv del riparto di competenze fra tecnici diplomati e laureati.
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(10) “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative”.
(11) “La legge determina le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi”.
(12) “Quando l’esercizio di una attività professionale è condizionato all’iscrizione in un albo o elenco, la prestazione eseguita da chi non è iscritto non gli dà azione per il pagamento della retribuzione”.
(13) Conforme Cass. Civ. 21.12.2006 n. 27441; Cass. Civ. 15.02.1986 n. 1182: “La redazione di un progetto eseguita da un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri è illegittima e a renderla legittima non basta che il progetto redatto dal geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli del cemento armato e diriga le relative opere, perché è il professionista competente che deve essere altresì titolare della progettazione, assumendosi la responsabilità dei calcoli delle strutture armate. (Nella specie l'appaltatore aveva chiesto la dichiarazione di nullità del contratto avente ad oggetto la costruzione di una piscina coperta per essere stato redatto il progetto da un geometra).” In senso conforme anche Cass. sez. 26.07.2006 n. 17028, Cass. Civ. 06.03.2007 n. 5136.

Altri problemi pratici insorgono nei casi di contenzioso, dal momento che le assicurazioni dei tecnici prevedono sempre clausole di esonero della copertura nel caso in cui il professionista abbia ecceduto i limiti delle sue competenze professionali.
Dobbiamo, infine, considerare che nel sistema delle “professioni protette” lo svolgimento da parte del professionista di attività che esulino dalle proprie competenze di legge è assimilato all'ipotesi di attività svolta da soggetto non iscritto all'albo professionale, mancando in entrambi i casi l'abilitazione derivante dall'iscrizione.
Il che comporta conseguenze penali, ai sensi dell’art. 348 Codice Penale sull’abusivo esercizio della professione
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

COMPETENZE PROGETTUALI: ABUSIVO ESERCIZIO DI UNA PROFESSIONE.
L’art. 348 Codice Penale sancisce: “Chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato è punito con la reclusione fino a sei mesi”.
Il delitto previsto dall'articolo 348 C.P. può sussistere quando l'agente eserciti un'attività privo dell'abilitazione richiesta per la stessa, ovvero, pur in possesso di un'abilitazione professionale, compia in concreto atti che esulano dall'ambito dell'attività legittimamente esercitabile sulla base dell'abilitazione posseduta, sconfinando così nel campo dalla legge riservato ad altro professionista.
La giurisprudenza si è già pronunziata in merito, ritenendo che risponde del reato di esercizio abusivo della professione, il geometra che procede alla progettazione e/o alla direzione dei lavori di un edificio con strutture di cemento armato che non sia di modeste dimensioni anche se il progetto è controfirmato o vistato da un professionista abilitato o se i calcoli del cemento armato sono stati fatti eseguire da un ingegnere (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 10.10.1995, n. 1147; Cassazione penale, sez. VI, 13.12.1994; Consiglio Stato 31.01.2001 n. 348).
In questi casi, rammentiamo che l'art. 74 Codice di Procedura Penale riconosce facoltà al soggetto danneggiato dal reato, ai sensi dell'art. 185 Codice Penale, ad esercitare, nel processo penale, l'azione civile per il risarcimento del danno causato.
Va segnalato che, nel caso di progetto controfirmato da ingegnere/architetto, non vi è una causa di esclusione del reato, che permane tale (14).
Gli Ordini Professionali (degli Architetti e degli Ingegneri) possono dunque agire nel caso di abusivo esercizio della loro professione da parte di un tecnico non laureato in quanto l’interesse protetto dalla norma non è privato, ma pubblico (cfr. Pretura Perugia, 14.05.1993).
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(14) Risponde del reato di esercizio abusivo della professione il geometra che procede alla progettazione e alla direzione dei lavori di un edificio con strutture di cemento armato che non sia di modeste dimensioni anche se il progetto è controfirmato o vistato da un professionista abilitato o se i calcoli del cemento armato sono stati fatti eseguire da un ingegnere. Cassazione penale, sez. VI, 10.10.1995, n. 1147.

Né può considerarsi ammissibile la reiezione dell’eccezione –che molti tecnici non laureati propongono– “di aver studiato il cemento armato”. La Cassazione infatti ha ritenuto assolutamente irrilevante che fra i programmi di insegnamento degli Istituti Tecnici sia ricompreso nelle materie di studio "il cemento armato", perché il fatto comunque non abilita all'esercizio della professione nel settore specifico (cfr. Cass. Civ. 21.12.2006 n. 27441) (tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

COMPETENZE PROGETTUALI: VIGILANZA/VERIFICA DELLE COMPETENZE PROFESSIONALI DA PARTE DEI FUNZIONARI DEGLI ENTI PREPOSTI AL RILASCIO DELLE AUTORIZZAZIONI.
Un altro aspetto importante del problema “competenze professionali” riguarda il dovere di vigilanza e di verifica delle stesse da parte dei Comuni. Nel rilasciare le autorizzazioni a costruire, infatti, gli Uffici Comunali sono tenuti a vigilare ed a verificare le competenze del professionista richiedente, pena la declaratoria di illegittimità dell’autorizzazione.
Lo stesso dicasi per le Soprintendenze, nel caso di progetti di restauro su edifici vincolati.
Il punto critico è costituito dal fatto, generalmente, che i Comuni non rispettano quanto previsto dalla normativa e non verificano se i professionisti che sottoscrivono progetti operino entro le rispettive competenze; e gli Ordini professionali, pertanto, non ne hanno conoscenza.

La Giurisprudenza, però, ha già più volte sancito l’obbligo comunale di verificare se il progetto presentato rientri o meno nel campo di attività del professionista che lo ha sottoscritto; ad esempio:
- Consiglio di Stato, sentenza 12.11.1985 n. 390: “L’amministrazione deve di volta in volta determinare se il progetto, per i problemi tecnici che implica, rientri o meno nella cognizione della categoria dei geometri”.
- TAR Puglia, sentenza 23.11.1985 n. 498: “Spetta all’amministrazione comunale accertare caso per caso se la costruzione edilizia da eseguire sia di modeste dimensioni”.
- Consiglio di Stato, sentenza 13.01.1999 n. 25: “Per gli edifici destinati a civile abitazione, la competenza dei geometri è limitata alle sole costruzioni di modeste dimensioni, con divieto di progettare opere per cui vi sia impiego di cemento armato, tale da implicare, in relazione alla destinazione dell'opera, un pericolo per l'incolumità della persone in caso di difetto strutturale, stante l'evidente favore che le varie norme pongono per la competenza esclusiva dei tecnici laureati, nonché l'obbligo della p.a., in sede di rilascio della concessione edilizia, di motivare congruamente in ordine alla sufficienza della redazione di un progetto da parte di un geometra”.

Ed anche per quanto concerne le Soprintendenze, la giurisprudenza ha stabilito che esse devono verificare l’idoneità professionale del progettista:
- Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 21.03.2006 n. 5239: “Se è vero, infatti, che spetta alla Soprintendenza ai sensi dell’art. 18 L. 1089/1939 di autorizzare i progetti delle opere concernenti i beni sottoposti alla legge stessa, il controllo del progetto –che mira ad assicurare la conformità dell’intervento alla salvaguardia del valore storico artistico del bene– non può non estendersi anche alla verifica della idoneità professionale del progettista (come stabilita dal legislatore)”;
- TAR Veneto, Sez. II, sentenza 28.1.2005 n. 381: “La Sovrintendenza per i beni ambientali ed architettonici -quale struttura preposta alla tutela dei beni culturali e storici- ben può, nell'esercizio della relativa funzione consultiva, rilevare anche l'incompetenza del professionista che ha redatto il progetto di restauro e ripristino di un edificio avente valenza culturale”;
- Consiglio di Stato, sentenza 23.07.1997 n. 386: “Il controllo sulla paternità professionale dei progetti di opere da realizzare su beni immobili sottoposti a vincolo storico e artistico ai sensi della l. 01.06.1939 n. 1089 rientra tra le competenze istituzionali dell'amministrazione dei beni culturali e ambientali”.

Se tale controllo non avviene, gli Ordini professionali sono comunque legittimati ad impugnare avanti al TAR le concessioni edilizie rilasciate a soggetti non abilitati (15).
La Giurisprudenza, in merito, afferma costantemente che l’Ordine professionale è legittimato a ricorrere contro un atto amministrativo, per vizi attinenti alla violazione dei limiti posti dalla legge all'esercizio di una professione concorrente, poiché, come persona giuridica pubblica, ha un interesse individuale a tutelare gli interessi della categoria globalmente considerata, con l’unico limite derivante dal divieto di occuparsi di questioni concernenti i singoli iscritti e di quelle relative ad attività che non sono soggette alla disciplina o potestà dell’Ordine
(16).
Per tale genere di ricorsi “ad opponendum” il termine per l'impugnazione del permesso di costruire da parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalla costruzione, decorre dalla piena ed effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività.
In mancanza di inequivoci elementi probatori, occorre far riferimento alla data di ultimazione dei lavori (cioè da quando la costruzione realizzata rivela in modo certo ed univoco le caratteristiche dell'opera) salvo che non emerga la prova di una conoscenza anticipata che può essere riferita anche alla data di inizio dei lavori, allorquando già da tale momento la nuova costruzione riveli in modo certo ed univoco le essenziali caratteristiche dell'opera e l'eventuale non conformità della stessa al titolo o alla disciplina urbanistica
(17).
La giurisprudenza ha, altresì, statuito che è legittimo l'annullamento mediante esercizio del potere di autotutela di una concessione edilizia in ragione dell'incompetenza del progettista, da parte del Comune (cfr. Consiglio Stato 22.05.2006).
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(15) In tal senso:
- Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.01.2002 n. 505: “Un ordine professionale locale è legittimato al ricorso per la difesa degli interessi di categoria dei soggetti di cui ha la rappresentanza istituzionale non solo quando si tratti di agire a tutela delle professione stessa o di attribuzioni loro proprie, ma anche al fine di perseguire vantaggi strumentali giuridicamente riferibili alla sfera categoriale”.
- TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 08.04.1982 n. 82: “L’ordine degli ingegneri è legittimato ad impugnare la concessione edilizia il cui progetto sia stato elaborato da un geometra in violazione dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929 n. 274, in quanto il ricorso è volto a tutelare l'interesse della categoria ad impedire l'abuso di quella professione a suo discapito”.
- TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.05.2004 n. 1021: “Un ordine professionale locale è legittimato al ricorso per la difesa degli interessi di categoria dei soggetti di cui ha la rappresentanza istituzionale ogni qualvolta si tratti di agire a tutela della professione stessa o di attribuzioni proprie dei professionisti o, ancora, quando bisogna perseguire vantaggi strumentali giuridicamente riferibili alla sfera categoriale; pertanto, sussiste la legittimazione attiva dell’ordine provinciale dei Dottori agronomi e Forestali all'impugnazione del provvedimento della giunta comunale di affidamento ad un architetto dell'incarico di elaborare la variante generale al PRG, il quale, contemplando espressamente attività di studio e analisi rientranti nelle competenze degli appartenenti al citato ordine si poneva come lesivo delle prerogative dei predetti professionisti”;
- Consiglio di Stato, sentenza 12.11.1985 n. 390: “Gli ordini professionali sono persone giuridiche pubbliche e, avendo, tra l'altro, la finalità di tutelare gli interessi di categoria, sono legittimati ad impugnare i provvedimenti della p.a. ritenuti lesivi di tali interessi”.
(16) In tal senso TAR Veneto, sentenza 16.04.2003.
(17) TAR Marche, sentenza 26.09.2007 n. 1574: “Il termine per l'impugnazione della concessione edilizia da parte dei terzi, che assumano di aver subito pregiudizio dalla costruzione assentita, decorre dalla piena ed effettiva conoscenza del provvedimento, intendendosi tale conoscenza come un fatto, la cui prova rigorosa incombe alla parte che eccepisce la tardività. In mancanza di inequivoci elementi probatori occorre far riferimento alla data di ultimazione dei lavori, salvo che non emerga la prova di una conoscenza anticipata che può essere riferita anche alla data di inizio dei lavori, allorquando già da tale momento è possibile verificare l'entità della modifica dei luoghi”.
(tratto dal lavoro 02.04.2009 "Il riparto delle competenze professionali dei tecnici dell’edilizia" a cura dell'Avv. Annalisa Padoa).

GIURISPRUDENZA

COMPETENZE PROGETTUALI: Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e rientri quindi nella competenza professionale dei geometri– consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine assumono rilievo, oltre alla complessità della struttura e delle relative modalità costruttive, anche, in via complementare, il costo presunto dell'opera, in quanto si tratta in ogni caso di elementi sintomatici che valgono ad evidenziare le difficoltà tecniche che coinvolgono la costruzione.
Il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare modesta -e rientri quindi nella competenza professionale dei geometri, ai sensi dell'art. 16, lett. m), R.D. 11.02.1929 n. 274– consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comportano e le capacità occorrenti per superarle; a questo fine assumono rilievo, oltre alla complessità della struttura e delle relative modalità costruttive, anche, in via complementare, il costo presunto dell'opera, in quanto si tratta in ogni caso di elementi sintomatici che valgono ad evidenziare le difficoltà tecniche che coinvolgono la costruzione (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione della corte territoriale, negando la competenza dei geometri, rilevando che gli impianti di depurazione non rientrano tra le opere contemplate dalla tariffa professionale, che l’entità dei lavori –14 miliardi di vecchie lire- esulasse dalle competenze dei geometri e che la delicatezza dei problemi tecnici relativi alla progettazione di un'infrastruttura reticolare e connessi all'interferenza con altri impianti pure a rete (illuminazione, cavi telefonici, ecc.) ed alla sostituzione e/o recupero dell'impianto preesistente ponesse serie problemi tecnici) (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 27.02.2008 n. 5203).

COMPETENZE PROGETTUALILa competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili riguarda le costruzioni rurali e degli edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone, nonché il progetto, la direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili.
La competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili, prevista dall'art. 16, r.d. n. 274 del 1929, riguarda le costruzioni rurali e degli edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone, nonché il progetto, la direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 19.07.2007 n. 860 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIL'indagine intesa ad accertare se una costruzione destinata a civile abitazione sia da considerarsi modesta e rientri, quindi, nella competenza professionale dei periti industriali (o dei geometri), non può prescindere dalla valutazione delle difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comporta e dalla capacità (cioè dalle cognizioni tecniche) occorrente per superarle, criterio che ha valore fondamentale per l'esatta interpretazione e l'applicazione dell'art. 16 del regolamento professionale.
L'indagine intesa ad accertare se una costruzione destinata a civile abitazione sia da considerarsi modesta e rientri, quindi, nella competenza professionale dei periti industriali (o dei geometri), non può prescindere dalla valutazione delle difficoltà tecniche che la progettazione e l'esecuzione dell'opera comporta e dalla capacità (cioè dalle cognizioni tecniche) occorrente per superarle, criterio che ha valore fondamentale per l'esatta interpretazione e l'applicazione dell'art. 16 del regolamento professionale (R.D. 11.02.1929 n. 275, per i periti industriali, e R.D. 11.02.1929 n 274, per i geometri).
In detta indagine si terrà conto anche degli elementi dell'importo dell'opera (costo presunto), della cubatura e del numero dei piani (cosiddetti criteri di valore, od economico, e quantitativo), ma soprattutto per il loro valore sintomatico, in quanto valgono a determinare le caratteristiche costruttive dell'opera e ad illuminare sulle difficoltà tecniche che l'opera medesima presenta, al fine di apprezzare se questa costituisca una costruzione modesta ai sensi dell'ordinamento professionale, ovvero esuli dalla capacita tecnica e dalla competenza dei periti industriali (e dei geometri) (Corte di Cassazione, Sez. III civile, sentenza 14.06.2007 n. 13968).

COMPETENZE PROGETTUALI: Il discrimine tra la competenza dei geometri e le attribuzioni riservate agli ingegneri è costituito dalla modesta entità dei lavori affidati, essendo preclusa ai geometri la realizzazione di lavori richiedenti una visione d'insieme e di carattere programmatorio complessivo.
Nell'affidamento degli incarichi di progettazione e direzione dei lavori il discrimine tra la competenza dei geometri e le attribuzioni riservate agli ingegneri è costituito dalla modesta entità dei lavori affidati, essendo preclusa ai geometri la realizzazione di lavori richiedenti una visione d'insieme e di carattere programmatorio complessivo (nel caso concreto si è ritenuto rientrasse nella competenza dei geometri l'incarico di progettazione e direzione lavori di manutenzione straordinaria e sistemazione di un'area pubblica a destinazione mercatale) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.02.2007 n. 852 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: E' esclusa ogni competenza professionale dell’Architetto nel campo dell’impiantistica (nello specifico un Architetto aveva curato il restauro di un ristorante progettando, oltre alle opere edilizie, anche l’impianto elettrico e l’impianto a gas).
... Il Comune di Genova respinge il progetto impiantistico per incompetenza professionale dell’Architetto non ritenendolo legittimato alla progettazione di impianti.
All’opposizione dell’Architetto il TAR della Liguria, nel respingere il ricorso ha, fra l’altro, sancito quanto segue:
Dall’insieme dei riferimenti normativi, …., emerge un quadro sufficientemente chiaro in ordine alle differenti nozioni di edilizia civile, come realizzazione di opere murarie e di attività che costituiscono applicazioni della fisica. In quest’ultimo ambito rientrano le prestazioni basate sull’utilizzazione dell’energia elettrica, della termologia, della termodinamica oppure della meccanica dei corpi dei fluidi o dell’elettromagnetismo (TAR Lazio sez. III n. 360/1995).
Ora nel caso … il progetto … riguardava essenzialmente un impianto elettrico e a gas relativo ad una unità immobiliare nella quale viene esercitata una attività commerciale.
Ne discende, attesa la natura dell’impianto medesimo, che il relativo progetto non poteva essere sottoscritto da un architetto, ma da un professionista: ingegnere o perito industriale iscritto nell’albo e, quindi, in possesso delle necessarie cognizioni tecnico-scientifiche
” (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 02.02.2005 n. 137).

ATTI AMMINISTRATIVI: Gli Ordini professionali sono legittimati a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale, non solo quando si tratti della violazione di norme poste a tutela della professione stessa, ma anche ogniqualvolta si tratti di perseguire comunque il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla sfera della categoria.
Il presupposto legittimante è in ogni caso costituito dalla riferibilità dell’incarico alle competenze professionali della categoria rappresentata dall’Ordine che agisce; in difetto, l’Ordine non ha infatti alcun interesse ad ottenere l’annullamento di un incarico che comunque non potrebbe essere affidato ad un suo iscritto (o almeno ad un appartenente alla categoria medesima).

In linea di principio deve convenirsi con la tesi ricorrente, secondo cui gli Ordini professionali sono legittimati a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale, non solo quando si tratti della violazione di norme poste a tutela della professione stessa, ma anche ogniqualvolta si tratti di perseguire comunque il conseguimento di vantaggi, sia pure di carattere puramente strumentale, giuridicamente riferibili alla sfera della categoria.
In questa prospettiva, la giurisprudenza ha ritenuto legittimato un Ordine degli Architetti a perseguire giudizialmente l’osservanza di prescrizioni a garanzia della partecipazione di tutti gli associati alle procedure selettive per l’affidamento di incarichi di progettazione, nonostante fosse stato avvantaggiato un singolo associato (Cons. St., V, 07.03.2001, n. 1339).
Il presupposto legittimante è in ogni caso costituito dalla riferibilità dell’incarico alle competenze professionali della categoria rappresentata dall’Ordine che agisce; in difetto, l’Ordine non ha infatti alcun interesse ad ottenere l’annullamento di un incarico che comunque non potrebbe essere affidato ad un suo iscritto (o almeno ad un appartenente alla categoria medesima)
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 17.02.2004 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: La progettazione degli impianti di ventilazione dei sotterranei del cimitero monumentale e delle opere di risanamento connesse, classificabili fra le applicazioni della fisica, in quanto basati sullo studio della dinamica dei fluidi, e non fra le opere edilizie, formano oggetto della esclusiva competenza professionale degli ingegneri.
L’incarico conferito dal provvedimento impugnato riguardava la progettazione degli impianti di ventilazione dei sotterranei del cimitero monumentale e delle opere di risanamento connesse.
Ora, l’oggetto e i limiti delle professioni di ingegnere e di architetto sono regolati dal Capo IV del R.D. 23.10.1925, n. 2537, il cui art. 51 stabilisce che sono di spettanza della professione di ingegnere il progetto, la condotta e la stima di una serie di lavori, fra i quali quelli relativi «in generale alle applicazioni della fisica».
Il successivo art. 52 individua nelle «opere di edilizia civile» (nonché nei relativi rilievi geometrici e operazioni di estimo) il campo di attività degli architetti.
La giurisprudenza ha chiarito al riguardo che, anche ammettendo in astratto che il termine «edilizia civile» sia riferibile non soltanto alla realizzazione di edifici, secondo il suo più comune significato, ma anche ad altri generi di opere ed impianti, tale interpretazione risulta, in concreto testualmente incompatibile con la norma transitoria contenuta nel successivo art. 54, ultimo comma, del medesimo decreto, che, nel prevedere un ampliamento della competenza professionale di coloro i quali avevano conseguito entro una certa data il diploma di «architetto civile», previsto dagli ordinamenti universitari dell’epoca, autorizzava gli interessati a svolgere anche mansioni indicate nel precedente art. 51 -proprie, come si è visto, della professione di ingegnere- «ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione o di trasporto e alle opere idrauliche».
Questa disposizione dimostra, al di là del suo carattere meramente eccezionale e transitorio, che, secondo il sistema di ripartizione delle competenze professionali delineato dal R.D. 23.10.1925, n. 2537, la nozione di «edilizia civile» non può essere estensivamente interpretata, dovendo da essa escludersi i lavori e le opere nella medesima disposizione menzionati, fra i quali le «applicazioni della fisica».
Ne consegue che gli impianti di ventilazione, che nel caso in esame costituiscono l’oggetto centrale dell’incarico, classificabili fra le applicazioni della fisica, in quanto basati sullo studio della dinamica dei fluidi, e non fra le opere edilizie, formano oggetto della esclusiva competenza professionale degli ingegneri.
Né può sostenersi che i limiti delle competenze professionali degli ingegneri e degli architetti, come delineati dal R.D. 23.10.1925, n. 2537, dovrebbero ritenersi superati dalla evoluzione successivamente intervenuta nei rispettivi corsi di studi universitari, che consentirebbe un'interpretazione estensiva delle disposizioni che disciplinano la competenza professionale degli architetti
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 17.02.2004 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIIl discrimine della competenza dei geometri nel campo delle costruzioni civili è dato dal criterio della "modestia" dell'opera, così come stabilito dall'art. 16 r.d. 11.02.1929 n. 274, il quale, nel regolare l'attività professionale dei geometri alla lett. m), consente loro l'attività di "progetto, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili".
Tale criterio è da intendere in senso tecnico-qualitativo e con riguardo ad una valutazione della struttura dell'edificio e delle relative modalità costruttive, che non devono implicare la soluzione di problemi tecnici particolari, devoluti esclusivamente alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti.
Altri criteri, come quello quantitativo, delle dimensioni e della complessità, nonché quello economico, possono soccorrere quali elementi complementari di valutazione, in quanto indicativi delle caratteristiche costruttive e delle difficoltà tecniche presenti nella realizzazione dell'opera.

Può ritenersi ormai acquisito in giurisprudenza che, in mancanza di ogni ulteriore specificazione da parte del citato art. 16, lett. m), R.D. n. 274 del 1929, il discrimine della competenza dei geometri nel campo delle costruzioni civili è dato dalla “modestia” dell’opera.
Criterio questo da intendere in senso tecnico-qualitativo e con riguardo ad una valutazione della struttura dell’edificio e delle relative modalità costruttive, che non devono implicare la soluzione di problemi tecnici particolari, devoluti esclusivamente alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti. Altri criteri, come quello quantitativo, delle dimensioni e della complessità, nonché quello economico possono soccorrere quali elementi complementari di valutazione, in quanto indicativi delle caratteristiche costruttive e delle difficoltà tecniche presenti nella realizzazione dell’opera (cfr. Corte Cost. 27.04.1993 n. 199).
Per valutare l’idoneità del geometra a firmare il progetto di un’opera di edilizia civile, occorre, quindi, considerare le concrete caratteristiche dell’intervento. A tal fine, peraltro, non possono essere prefissati criteri rigidi e fissi, ma è necessario considerare tutte le particolarità della concreta vicenda, anche in rapporto all’evoluzione tecnico-scientifica ed economica che nel settore edilizio può verificarsi nel tempo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 31.01.2001 n. 348).
Nel caso di specie, come opportunamente evidenziato dal Tribunale e come si evince dalla relazione tecnica e dal certificato di collaudo in atti, l’opera progettata è costituita da un insieme di sette capannoni ad un piano, destinati a magazzino o deposito, la cui struttura in cemento armato è stata progettata e calcolata da un ingegnere, da realizzare a completamento di un piano di lottizzazione. Si tratta di costruzioni modulari, che, assunta da professionista idoneo la responsabilità delle strutture portanti, non presentano particolari problemi tecnici e, delle quali, nel caso che ci occupa, il geometra ha curato in pratica la mera esecuzione secondo la previsione del piano attuativo, insieme alle opere complementari, come i parcheggi a servizio.
Alla stregua dei canoni sopra enunciati e considerate le concrete caratteristiche dell’intervento, si ritiene che ricorrono nella specie gli estremi della competenza professionale del geometra (
Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.10.2002 n. 5208 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetto - Competenza professionale - Opere di edilizia civile di rilevante carattere artistico - Competenza esclusiva ex art. 52 R.D. 25/2537 - Valutazione caso per caso dell’Autorità competente.
La norma dell’art. 52, 2° comma, del R.D. 23.10.1925 n. 2537 la quale prevede la competenza esclusiva dell’architetto per le opere di edilizia civile di rilevante carattere artistico, implica che l’autorità a cui è devoluta l’approvazione del progetto effettui una valutazione del requisito «rilevante », caso per caso, riferita sia all’edificio oggetto dell’intervento e sia all’intervento in sé.  

Il Sindaco del Comune di Cavacurta rilasciava concessione edilizia per il restauro del complesso edilizio denominato «Convento dei Padri Serviti».
Detta concessione veniva impugnata dall’Ordine degli architetti, in base al rilievo che trattandosi di immobile di rilevante carattere artistico, ancorché non soggetto al vincolo di cui alla L. n. 1089 del 1939, il progetto doveva essere sottoscritto da un architetto e non, come invece avvenuto, da un ingegnere.
Il TAR adito con la sentenza in epigrafe accoglieva il ricorso, in base al rilievo che qualunque intervento anche minimo su edificio esistente, che abbia rilevanza artistica, deve essere progettato dall’architetto e non dall’ingegnere.
Hanno proposto appello l’ingegnere firmatario del progetto e l’Ordine degli ingegneri della provincia di Milano.
Osservano che in base alla legge professionale, sono di competenza della professione di architetto il restauro e ripristino degli edifici soggetti al vincolo di cui alla L. n. 1089 del 1939, mentre per gli edifici non soggetti al vincolo sono di competenza dell’architetto solo le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico. Nella specie, gli interventi di edilizia civile, relativi ad immobile non vincolato, non presentavano rilevante carattere artistico, e non necessitavano pertanto di progetto firmato da architetto.
L’appello è fondato.
La questione di diritto oggetto del presente giudizio verte sulla corretta interpretazione dell’art. 52, R.D. 23.10.1925 n. 2537, relativamente al riparto di competenze tra architetti e ingegneri in ordine alle opere soggette a vincolo storico-artistico o comunque di carattere artistico.
Dispone, in particolare, l’art. 52, R.D. n. 2537 del 1925, che sono di competenza della professione di architetto, da un lato «le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico» e dall’altro lato «il restauro ed il ripristino degli edifici contemplati dalla legge 20.06.1899 n. 364 (ora L. n. 1089 del 1939)».
Se è chiaro che quando si tratta di immobili soggetti a vincolo ai sensi della L. n. 1089 del 1939, il restauro e il ripristino sono di spettanza della professione di architetto, meno chiara è la previsione che attribuisce all’architetto «le opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico».
La norma si riferisce, chiaramente, agli immobili non soggetti a vincolo. L’assenza di un vincolo formale, impone una valutazione caso per caso non sul semplice carattere artistico, bensì sul «rilevante» carattere artistico.
Tale valutazione deve essere compiuta dall’autorità che approva il progetto dell’opera.
Trattasi di valutazione di merito, sindacabile solo in caso di manifesta illogicità o travisamento.
Quanto alla espressione «opere di edilizia civile» la stessa va riferita sia alle nuove opere, sia agli interventi (ristrutturazione, manutenzione) su opere già esistenti.
Il rilevante carattere artistico va riferito non solo agli edifici cui accede l’intervento, ma anche all’intervento in sé, in quanto la norma parla non già di «interventi su beni di rilevante carattere artistico», bensì di opere di edilizia civile, in sé aventi rilevante carattere artistico.
Sicché, il rilevante carattere artistico va di volta in volta valutato dall’autorità competente ad approvare il progetto, con riferimento alle opere da effettuare.
Tale interpretazione, oltre che conforme al dato letterale della norma, è conforme alla logica della stessa, che intende differenziare gli immobili soggetti a vincolo storico-artistico da quelli non formalmente vincolati.
Per questi ultimi, non esistendo alcun vincolo, si impone una valutazione rigorosa sul carattere artistico dell’intervento, onde evitare una non necessaria riserva di competenza a favore di una categoria professionale (gli architetti) e in danno di un’altra (gli ingegneri).
Nel caso di specie, si tratta di interventi di manutenzione e adeguamento su un immobile non soggetto a vincolo ai sensi della L. n. 1089 del 1939, e ciò nonostante ritenuto di valore artistico dagli strumenti urbanistici comunali.
Occorreva dunque valutare se gli interventi progettati fossero, a loro volta, di rilevante carattere artistico, onde stabilire se il progetto fosse di competenza di architetto o ingegnere. Tale valutazione competeva al Comune competente al rilascio della concessione edilizia (tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.04.2002 n. 2303 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetto - Competenza professionale - Opere marittime - Incarico di coordinatore per la sicurezza del cantiere – Esclusione.
Per un’opera marittima è legittima l’esclusione degli architetti dalla selezione per l’affidamento dell’incarico di coordinatore della progettazione o di coordinatore della esecuzione lavori, che sono soggetti chiamati ad operare nel settore della sicurezza dei cantieri per lavori edili o di ingegneria civile «in relazione alle specifiche competenze connesse al titolo di studio», come dispone l’art. 23 del D.Lgs. 19.11.1999 n. 528.  

Il D.L.vo 14.08.1996 n. 494 concernente attuazione della direttiva 92/57/C.E.E. ha prescritto misure per la tutela della salute e per la sicurezza dei lavoratori nei cantieri temporanei o mobili definendo all’art. 10 i requisiti professionali del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione, figura quest’ultima che con la gara in questione si intende affidare a professionista estraneo all’Amministrazione.
La norma citata, al comma 1, individua tre fasce di figure professionali che possono acquisire la funzione del coordinatore per l’esecuzione, graduando le stesse in ragione dei diversi livelli di studio, dal diploma di laurea ai diplomi universitari e infine ai diplomi tecnici in genere disponendo al comma 2 che i soggetti di cui al comma 1 devono essere in possesso di attestato di frequenza a specifico corso in materia di sicurezza.
È chiaro che, non avendo il corso, attesa la sua brevità (120 ore), una funzione sostitutiva dei singoli corsi di studio delle diverse figure professionali, resta il principio che la partecipazione ai medesimi corsi integra le conoscenze dei soggetti nell’ambito delle specifiche abilitazioni ad operare nei diversi settori della tecnica.
Il citato D.L.vo n. 494 del 1996 non ha quindi introdotto modifiche alle varie competenze professionali, ma si è limitato ad individuare una vasta gamma di professionalità che, ciascuna nel proprio settore di competenza, sono suscettibili di svolgere le funzioni specifiche connesse alla sicurezza previa partecipazione a corsi per l’acquisizione di conoscenze sulle specifiche attività.
Non appare superfluo rilevare che le attività connesse alla sicurezza non possono essere efficacemente svolte se non si possiede una approfondita conoscenza delle problematiche connesse alla tipologia di opera da realizzare, alle tecnologie costruttive della stessa, agli specifici e spesso complessi mezzi d’opera utilizzati.
Il delicato aspetto della sicurezza dei cantieri, per l’alto prezzo che viene pagato con gli infortuni sul lavoro, impone l’applicazione di criteri rigidi di selezione degli operatori, secondo il possesso di elevata e specifica professionalità.
Detta esigenza è stata avvertita dal Legislatore il quale -con il D.L.vo 19.11.1999 n. 528, modificativo ed integrativo del D.L.vo n. 494 del 1996– ha ritenuto opportuno precisare esplicitamente (art. 23) che i lavori edili o di ingegneria civile al coordinamento dei quali sono abilitati i soggetti di cui all’art. 10, comma 1, del D.L.vo n. 494 del 1996 sono individuati, con uno o più decreti interministeriali, «in relazione alle specifiche competenze connesse al titolo di studio».
Il citato D.L.vo è entrato in vigore il 18.04.2000 (art. 26) e, ancorché non siano stati ancora emanati i suddetti decreti interministeriali, la disposizione che l’abilitazione ad operare nel settore della sicurezza sia riferita alle specifiche competenze connesse al titolo di studio deve intendersi pienamente operante.
Nel caso specifico non sussistono dubbi che le opere marittime esulino dalle competenze professionali degli architetti e pertanto legittimamente il bando ha limitato la partecipazione ai soli ingegneri (tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 28.02.2002 n. 1208).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetto - Competenza professionale - Progettazione di impianto comunale di illuminazione pubblica - Ammissibilità.
In una gara indetta per l’affidamento di progettazione di un impianto comunale di illuminazione pubblica -che è da considerare opera di edilizia civile- è illegittima la clausola del bando che esclude gli architetti dalla partecipazione alla gara.

Atteso che, prima facie, pur non potendosi addivenire, sulla base della normativa vigente, ad una sostanziale equiparazione del titolo di laurea in architettura, con quello di ingegneria (più spiccatamente caratterizzato quest’ultimo in senso tecnico-scientifico), deve accedersi ad una interpretazione della nozione di edilizia civile sufficientemente estesa e ritenersi pertanto che non si limiti l’opera di progettazione dell’illuminazione viaria pubblica in ambito comunale ad un fenomeno di mera applicazione di energia elettrica, potendo essa invece costituire un’efficace mezzo di valorizzazione dei singoli fabbricati e del complessivo patrimonio edilizio comunale (tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di Stato, Sez. V, ordinanza caut. 08.01.2002 n. 20).

COMPETENZE PROGETTUALI: In base all'art. 16, R.D. 11.02.1929 n. 274 e dell'art. 54, L. 02.03.1949 n. 144, non rientra nella competenza dei geometri la realizzazione di un complesso di opere di modesta entità o tenuità, bensì che richiede una visione d'insieme, pone problemi di carattere programmatorio ed impone la valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, possa incontrare difficoltà non facilmente superabili con il solo bagaglio professionale del geometra (nella specie, l'incarico di progettazione è di sicura complessità, perché riguarda l'adeguamento e la razionalizzazione dell'acquedotto comunale, in funzione di una nuova destinazione urbanistica e, quindi, non è penalizzante della posizione professionale dei geometri).
L'articolo 16 del regio decreto 11.02.1929, n. 2174, nel definire "l'oggetto ed i limiti dell'esercizio professionale di geometra", attribuisce alla competenza del medesimo, per quel che concerne la fattispecie, (lettera l) "progetto, direzione, sorveglianza e liquidazione di costruzioni rurali e di edifici per uso d'industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato, che non richiedono particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone; nonché di piccole opere inerenti alle aziende agrarie, come strade vicinali senza rilevanti opere d'arte, lavori d'irrigazione e di bonifica, provvista d'acqua per le stesse aziende e riparto della spesa per opere consorziali relative, esclusa, comunque, la redazione di progetti generali di bonifica idraulica ed agraria e relativa direzione".
Contrariamente a quanto argomentato dall’appellante, i limiti posti dalla norma, nella parte in cui circoscrive la competenza dei geometri ad opere strutturalmente semplici, non sono stati modificati dall'articolo 57 della legge 02.03.1949, n. 144, che contiene una classificazione delle prestazioni professionali del geometra in funzione dell'applicazione degli onorari professionali e che definisce le costruzioni in termini più generali. Infatti dall'analisi comparativa delle due norme emerge come “il criterio di delimitazione del campo operativo del geometra, costituito dalla modestia o tenuità dell'opera dev'essere integrato con quello che preclude al geometra la realizzazione di un complesso di opere che richiede una visione di insieme, pone problemi di carattere programmatorio, ed impone una valutazione complessiva di una serie di situazioni la cui soluzione, sotto il profilo tecnico, può incontrare difficoltà non facilmente superabili con la competenza professionale del geometra.” (Consiglio Stato sez. V 03.01.1992 n. 3).
Nel caso di specie, è pacifico che incarichi di progettazione si riferivano ad interventi di sicura complessità, trattandosi dell'adeguamento e razionalizzazione dell'acquedotto comunale, in funzione di una nuova destinazione urbanistica (insediamenti produttivi), e del recupero e riuso del centro storico richiedente per sua natura una visione di insieme di problemi la cui soluzione involge questioni di notevole spessore tecnico
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 22.09.2001 n. 4985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetto - Competenza professionale - Progettazione di opere stradali, idrauliche e igieniche - Esclusione - Limiti.
Dall'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. 1925/2537 - che riservano alla competenza comune di architetti e ingegneri le sole opere di edilizia civile (delle quali però quelle con carattere artistici restano di competenza esclusiva degli architetti) mentre attribuiscono alla competenza generale degli ingegneri tutte le altre - discende la regola secondo cui la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche (in cui sono compresi i cimiteri) che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati è di esclusiva pertinenza degli ingegneri.
È pacifico nella giurisprudenza di questo Consiglio che la progettazione delle opere viarie, idrauliche ed igieniche, che non siano strettamente connesse con i singoli fabbricati, sia di pertinenza degli ingegneri (cfr. sez. V, 06.04.1998, n. 416; sez. IV, 19.02.1990 n. 92; sez. III 11.12.1984, n. 1538).
Tale regola discende dall'interpretazione letterale, sistematica e teleologica degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 (Approvazione del regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto) che riservano alla competenza comune di architetti ed ingegneri le sole opere di edilizia civile; mentre attribuiscono alla competenza generale degli ingegneri quelle concernenti: le costruzioni stradali, le opere igienico sanitarie (depuratori, acquedotti, fognatura e simili), gli impianti elettrici, le opere idrauliche, le operazioni di estimo, l'estrazione di materiali, le opere industriali; ferma rimanendo per i soli architetti, la competenza in ordine alla progettazione delle opere civili che presentino rilevanti caratteri artistici e monumentali (art. 52, 2° comma, cit., che conserva però alla concorrente competenza degli ingegneri, secondo la regola generale, la parte tecnica degli interventi costruttivi de quibus).
Resta da stabilire se la progettazione di opere cimiteriali integri o meno la nozione di opera igienico-sanitaria.
Al quesito va data senz'altro risposta positiva, giusta le convergenti indicazioni provenienti dal complesso della normativa di settore.
In ordine cronologico sovviene la disposizione sancita dall'art. 17, R.D. 06.10.1912, n. 1306 (Regolamento provvisorio per l'esecuzione della legge 25.06.1911, n. 586, sulle agevolezze ai comuni per la provvista di acqua potabile, per i mutui per le opere di igiene e per la costruzione e la sistemazione di ospedali comunali e consorziali) nella parte in cui, espressamente, annovera i cimiteri fra le opere riguardanti la pubblica igiene.
Nello stesso senso, il testo unico delle leggi in materia sanitaria —R.D. 27.07.1934, n. 1265, art. 337— prevede che ciascun Comune debba avere almeno un cimitero a sistema di inumazione, conformemente alle norme del regolamento di polizia mortuaria (cfr. l'art. 49, D.P.R. 10.09.1990 n. 285 —regolamento di polizia mortuaria— che ribadisce tale obbligo), e ne affida la sorveglianza all'autorità sanitaria per evidenti ragioni di tutela degli interessi igienico sanitari della popolazione.
Per le medesime esigenze, l’art. 338 del testo unico su menzionato, introduce un regime particolare disciplinante le zone di rispetto dei cimiteri (cfr. C.d.S. 28.02.1996, n. 3031/1995, in ordine agli scopi di tutela igienico-sanitaria della disciplina dettata dall'art. 338 cit.; per Cons. giust. amm. 29.10.1990 n. 365, la prescrizione delle distanze delle aree cimiteriali per la realizzazione di edifici di qualsiasi natura risponde alla doppia finalità di salvaguardare esigenze igieniche e di assicurare adeguato decoro ai luoghi destinati alla sepoltura)
(tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di Stato, Sez.  IV, sentenza 22.05.2000 n. 2938).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetti - Competenza professionale - Impianti affini o connessi con opere edili - Impianti di illuminazione pubblica - Vi rientrano.
Rientra nell’attribuzione professionale dell'architetto, la progettazione di tutti gli impianti affini o connessi con i progetti di opere di edilizia civile -qual'è un impianto di illuminazione elettrica- perché egli ha la stessa competenza dell'ingegnere, avendo l'art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537 totalmente equiparato le due professioni per le materie ivi previste.

Con il primo motivo il ricorrente (Comune di G.) ... assume che ai sensi degli artt. 51 e 52 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 (approvazione del regolamento per le professioni d'ingegnere e di architetto) la progettazione di un impianto di illuminazione non può essere ricompresa fra le attività consentite all'architetto con la conseguenza che una sua prestazione al riguardo sarebbe «contra legem» e dunque insuscettibile di compenso.
La censura è infondata per un duplice ordine di argomentazioni.
Anzitutto deve rilevarsi l'insussistenza nella normativa ora citata di un divieto di tal genere visto che, mentre l'art. 51 del R.D. sopra menzionato contempla quale oggetto di competenza esclusiva della professione di ingegnere alcune attività tra le quali non è prevista la progettazione di impianti di illuminazione, l'art. 52, 1° comma del medesimo R.D. prescrive che «formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di stima ad esse relative».
Orbene se, come il ricorrente assume, sussiste una competenza professionale dell'ingegnere per i progetti di impianti di illuminazione elettrica, evidentemente con riferimento al citato art. 52, 1° comma, ritenendo tali progetti affini o comunque connessi a quelli relativi alle opere di edilizia civile, alle stesse conclusioni deve giungersi per l'architetto, attesa la completa equiparazione che l'articolo suddetto prevede tra le due professioni per le materie ivi indicate.
Non può quindi affermarsi, con riferimento al progetto di un impianto di illuminazione pubblica, l'esistenza di una competenza della figura professionale dell'ingegnere intesa con «principale ed indispensabile» e correlativamente attribuire all'architetto una funzione «sussidiaria e di complemento» ... in assenza di una normativa che disciplini differentemente per tale materia la competenza delle due suddette professioni.
Alla luce di tali considerazioni pertanto si ritiene di aderire all'orientamento già espresso da questa Corte secondo il quale la progettazione di un impianto di illuminazione pubblica sul territorio comunale rientra tra le attribuzioni professionali degli ingegneri e degli architetti (Cass. 05.11.1992 n. 11994).
Deve qui aggiungersi, per altro verso, che l'accoglimento della domanda di indebito arricchimento proposta in via sussidiaria dal AA rende comunque superata la questione proposta con il primo motivo: invero, posto che la pretesa incapacità di AA, quale architetto a progettare l'impianto di illuminazione pubblica in questione comporterebbe la nullità del relativo rapporto contrattuale intercorso con il Comune di G.; occorre richiamare l’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui l’azione generale di indebito arricchimento non è esclusa dall'esperimento con esito negativo di altra azione tipica, qualora la relativa domanda sia stata respinta per carenza «ab origine», del titolo posto a suo fondamento (vedi, tra le più recenti, Cass. 12.06.1995 n. 6613; Cass. 25.09.1998 n. 9584) (tratto da BLT n. 2/2002 - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 29.03.2000 n. 3814).

COMPETENZE PROGETTUALIIngegneri e architetti - Rispettive competenze ex artt. 51, 52 e 54 R.D. 1925/2537.
L’art. 51 R.D. 1925/2537 prevede una competenza di carattere generale degli ingegneri e l’art. 52 delimita la competenza professionale degli architetti alle sole «opere di edilizia civile»; pertanto i lavori relativi alla rete idrica comunale, che non rientrano nell’«edilizia civile» ma bensì nell’ingegneria idraulica, sono riservati alla professione di ingegnere. Ciò è confermato dal successivo art. 54.

È opportuno partire dall’esame delle censure concernenti la denunciata discriminazione degli architetti che più strettamente riguardano la sfera degli interessi tutelati dall’Ordine ricorrente, quale ente esponenziale della categoria professionale rappresentata.
Le doglianze sono infondate. Il capo IV del regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto, approvato con regio-decreto n. 2537 del 1925, disciplina l’oggetto ed i limiti delle competenze spettanti due figure professionali.
Al riguardo, non è invero riscontrabile una completa equiparazione tra tali categorie di professionisti.
L’art. 51, concernente la professione di ingegnere, prevede una competenza di carattere generale comprendente interventi di vario tipo, relativi alla progettazione, conduzione e stima relativi alle «costruzioni di ogni specie» ed all’impiantistica civile ed industriale, alle infrastrutture ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione, riconoscendo in senso lato una abilitazione comprendente ogni forma di applicazione delle tecniche relative alla fisica, alla rilevazione geometrica ed alle operazioni di estimo.
L’art. 52 delimita, invece, la competenza professionale degli architetti alle solo «opere di edilizia civile», che rientrano pure nelle competenze degli ingegneri, eccetto per quanto riguarda la parte non «tecnica» degli interventi su edifici di rilevante interesse artistico.
Orbene non vi è dubbio che nella nozione di «edilizia civile» siano da comprendere tutte le opere anche connesse ed accessorie, purché ovviamente si tratti di pertinenze al servizio di singoli fabbricati o complessi edilizi.
Sennonché, nella specie la delibera impugnata riguarda incarichi relativi all’ammodernamento ed all’ampliamento della rete idrica comunale. In proposito, tali lavori, concernenti gli impianti della rete urbana di condotta e distribuzione dell’acqua, non sono riconducibili all’ambito dell’«edilizia civile», ma piuttosto rientrano nell’ingegneria idraulica che ai sensi dell’art. 51 del citato regolamento, forma bensì oggetto riservato alla professione di ingegnere.
Ciò risulta confermato dal successivo art. 54 che, pur estendendo, in via eccezionale, la competenza ordinaria degli architetti diplomati entro una certa data, fa esplicita eccezione per una serie di applicazioni, di carattere più marcatamente tecnico-scientifico, tra le quali appunto le «opere idrauliche» (cfr. Cons. St. sez. IV, 19.02.1990, n. 92).
In definitiva è, quindi, da escludere che gli incarichi in questione possano essere conferiti ad architetti (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 14.08.1998 n. 2751).

COMPETENZE PROGETTUALI1. Ingegneri - Costruzioni di ogni specie - Competenza esclusiva - Competenza congiunta con quella degli architetti per le «opere di edilizia civile».
2. Architetti - Corso di studio per la laurea - Dissimile da quello degli ingegneri.
1. La dizione dell’art. 51 del R.D. 1925/2537 è onnicomprensiva di ogni competenza costruttiva e di applicazione delle scienze fisiche, esclusiva degli ingegneri; mentre il successivo art. 52 rimette soltanto le «opere di edilizia civile» alla competenza anche degli architetti, non esclusiva ma congiunta con quella degli ingegneri, come confermato dall’art. 54.
2. Considerato che i contenuti di una professione possono desumersi anche dalle particolari conoscenze tecniche attestate dal titolo di studio, proprio l’analisi dei rispettivi corsi di studio di ingegneri ed architetti vale a respingere la prospettazione di questi ultimi secondo la quale il loro corso di studi non sarebbe dissimile ormai da quello degli ingegneri.

La questione di fondo sottoposta al Collegio è quella di stabilire le competenze professionali ai fini della corretta applicazione della legge 05.03.1990 n. 46, dettante norme per la sicurezza degli impianti.
Per quanto concerne ingegneri e architetti soccorre il R.D. 23.10.1925 n. 2537, tutt’ora vigente, il cui capo IV individua l’oggetto e i limiti delle rispettive professioni. In particolare l’art. 51 stabilisce che spettano all’ingegnere il progetto, la condotta e la stima dei lavori relativi, tra l’altro, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché, in generale, alle applicazioni della fisica.
Alla luce di tale dizione onnicomprensiva di ogni competenza costruttiva e di applicazione delle scienze fisiche, non è contestabile che rientrino appieno nelle capacità professionali e nelle attribuzioni degli ingegneri la progettazione e la verifica degli impianti di cui alla legge n. 46, caratterizzati, come già detto, dall’impiego di elevate conoscenze nel campo delle scienze fisiche, il ricorso alle quali è indispensabile per la soluzione dei complessi problemi che comportano le tipologie dei manufatti in questione. Conoscenze che debbono possedere quel carattere di specificità ed approfondimento reso necessario anche dalla pericolosità delle opere da realizzare e verificare.
Tanto non può dirsi per gli architetti, alla cui competenza non esclusiva ma congiunta con quella degli ingegneri il successivo art. 52 rimette soltanto le «opere di edilizia civile». Al riguardo gli architetti invocano una lettura estensiva della norma, facendovi ricomprendere, sulla scorta di un insegnamento giurisprudenziale, anche tutti gli impianti asserviti direttamente al singolo fabbricato [Cons. St., sez. III, par. 11.12.1984 n. 1538; sez. IV, 19.02.1990 n. 92; TAR Molise 23.05.1990 n. 147: TAR Lazio, sez. II, 16.12.1991 n. 1920; TAR Lazio, sez. I, 23.06.1992 n. 927; TAR Valle d’Aosta, 17.12.1993 n. 147].
Ritiene il Collegio che una tale interpretazione giurisprudenziale, riferita in effetti a casi di opere non strumentali al singolo edificio ma all’abitato nel suo complesso, quali parcheggi, impianti di illuminazione esterna, viabilità, fognature, vada adattata al caso di specie ed alla lettura della sopravvenuta legge n. 46, per la quale viene in rilievo non più il rapporto di strumentalità dell’impianto rispetto all’edificio, quanto piuttosto la sua specificità individuale ai ricordati fini di tutela della sicurezza di persona e cose perseguiti dalla legge in questione. Ed infatti, come sopra evidenziato, essa impone per la quasi totalità delle opere ivi contemplate una progettazione distinta ed autonoma rispetto a quella dell’edificio effettuata dai professionisti nell’ambito delle rispettive competenze, le quali vanno individuate con riferimento alla natura dell’intervento richiesto.
Al riguardo soccorrono considerazioni identiche a quelle svolte dalla ricordata giurisprudenza, i cui principi sono ben adattabili al caso di specie. È stato infatti evidenziato in linea generale come dalla nozione di edilizia civile vanno escluse attività che comunque rientrano nel citato art. 51, per costituire «applicazioni della fisica» in quanto basate sull’utilizzazione dell’energia elettrica [TAR Lazio, sez. II, 30.07.1990 n. 1424], ovvero della termologia, della termodinamica, della meccanica dei corpi e dei fluidi, della fisica delle onde, dell’elettromagnetismo etc., cioè del complesso dei fenomeni -suscettibili di analisi sempre più sofisticate in relazione, allo stato di progressione della ricerca pura ed applicata- che costituiscono l’oggetto della fisica teorica, sperimentale e tecnica.
D’altra parte non va sottaciuta la circostanza che la legge n. 46 non si riferisce solo agli impianti degli edifici civili, ma anche a quelli elettrici asserviti a tutti i tipi di immobili per i quali, dunque, la nozione allargata di «edilizia civile» invocata dagli architetti non può essere sostenuta ai fini che interessano, atteso che la legge, come si evince anche da tale ultimo dato letterale, ha considerato l’impiantistica come oggetto ormai autonomo e distinto dall’opera muraria nel suo complesso.
L’interpretazione ristretta che deve darsi alla nozione di «edilizia civile» alla luce della recente legge n. 46 del 1990 era peraltro già insita nello stesso R.D. del 1925, il cui art. 54 nel prevedere, con disposizione transitoria, un ampliamento della competenza professionale di coloro che avessero anteriormente conseguito il titolo di «architetto civile» previsto dagli ordinamenti universitari dell’epoca, autorizzava gli interessati a svolgere anche le mansioni di cui al precedente art. 51 -proprie dell’ingegnere- con esclusione, però, delle applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto ed alle opere idrauliche, che restavano comunque riservate agli ingegneri, a riprova di una loro specificità professionale, che non poteva in alcun modo confonderli, neppure in via transitoria, con gli architetti.
Né può soccorrere a sostegno delle tesi degli architetti la norma dell’art. 52 del citato R.D. n. 2537, che affida loro -congiuntamente agli ingegneri- la parte tecnica degli immobili di interesse storico ed artistico di cui alla legge n. 1089 del 1939 [cfr. TAR Emilia Romagna, sez. II, 24.01.1992 n. 24]. La norma, che affida agli architetti in via esclusiva soltanto la parte relativa al restauro, al ripristino ed in genere all’edilizia di tali manufatti, rappresenta un’eccezione -giustificata dalla particolare natura del bene richiedente anzitutto una sensibilità storica, estetica ed urbanistica, prima che tecnica ai professionisti chiamati ad intervenirvi- alla esclusività professionale degli ingegneri in materia tecnica, come tale non suscettibile di interpretazione estensiva.
Neppure può aderirsi all’altra prospettazione degli architetti, secondo la quale il loro corso di studi non sarebbe dissimile ormai da quello degli ingegneri.
Se è vero che i contenuti di una professione possono desumersi anche dalle particolari conoscenze tecniche attestate dal titolo di studio [Cass., sez. un., 23.07.1993 n. 8239], proprio l’analisi dei rispettivi corsi di studi di ingegneri ed architetti vale a scalzare le pretese di questi ultimi: basti solo pensare che i primi sostengono ben due distinti esami di fisica (I e II), un esame di fisica tecnica ed uno di chimica generale ed inorganica.
Per quanto riguarda, poi, lo studio delle materie attinenti agli impianti in questione, è stato già ampiamente chiarito che l’insegnamento di fisica tecnica ed impianti, obbligatorio secondo l'ordinamento degli studi della facoltà d’ingegneria, di cui al DPR n. 995 del 1969, fino al momento della proposizione dei ricorsi risulta essere stato mantenuto, peraltro come meramente opzionale, nell’ambito della scelta di una tra le cinque discipline comprese nell’area impiantistica, soltanto per uno dei quattro indirizzi (quello tecnologico) previsti dal DPR n. 806 del 1982, mentre è obbligatorio per tutti gli indirizzi del corso di laurea in ingegneria, che comprendono altresì una serie di materie specifiche per l’attività impiantistica in oggetto [TAR Lazio, sez. II, 30.07.1990 n. 14717].
A scalzare la sostanziale diversità delle due professioni sia sotto il profilo ordinamentale che sotto quello accademico non può nemmeno invocarsi, come fanno gli architetti, il D.M. 25.03.1985, relativo all’iscrizione dei professionisti negli elenchi del Min. dell’interno ai fini della prevenzione incendi, di cui alla legge n. 818 del 1984. In particolare non basta il richiamo all’art. 1 di tale regolamento, che per rilascio delle certificazioni di cui alla citata legge si riferisce indifferenziatamente agli albi degli architetti, chimici, ingegneri, geometri, periti industriali; infatti il successivo art. 2 dello stesso decreto -che gli interessati hanno omesso di ricordare- dispone che l’autorizzazione al rilascio delle certificazioni opera «nell’ambito delle rispettive competenze professionali stabilite dalle leggi e dai regolamenti»: con il che si torna al R.D. del 1925 ed agli ordinamenti didattici sopra ricordati.
Semmai, c’è piuttosto da ricordare che, ad esempio, la legge 30.12.1991 n. 428, in materia di professionisti abilitati all’omologazione e verifica di apparecchi, macchine, impianti e attrezzature -tra cui sono ricompresi taluni tipi di impianti identici a quelli contemplati dalla legge n. 46 (ascensori e montacarichi)- affida tali operazioni esclusivamente ad ingegneri e periti industriali, con esclusione chiara degli architetti (artt. 1 primo comma e 2).
Non può valere a mutare o innovare il quadro normativo sopra delineato il richiamo al D. L.vo 27.01.1992 n. 129, attuativo della direttiva CEE nel campo degli studi di architettura.
Anzitutto non risulta se e in che misura il D. L.vo in parola sia stato recepito dai singoli statuti universitari, secondo i principi di autonomia didattica e scientifica sanciti dall’art. 6 della legge 09.05.1989 n. 168. In secondo luogo, e principalmente il decreto in parola impone soltanto una «conoscenza adeguata» dei problemi fisici e tecnologici al fine di rendere gli edifici internamente confortevoli e proteggerli dai fattori climatici. La legge, cioè, finalizza le conoscenze, tecniche e scientifiche dell’architetto a quella a che -pur in presenza dell’esplosione tecnologica dell'architettura contemporanea- rimane la funzione peculiare della progettazione architettonica anche secondo le varie correnti di pensiero espresse dai grandi maestri italiani, olandesi, tedeschi, americani, giapponesi, etc.: che è pur sempre e prevalentemente quella di organizzare lo spazio-ambiente secondo concezioni e nozioni prevalentemente estetico-umanistiche e psico-socio-ambientali, rispetto alle quali le ulteriori specifiche competenze tecniche richieste agli architetti per la soluzione dei molteplici problemi connessi ai fenomeni dell’edificazione e dell’urbanizzazione rimangono marginali in confronto con il corso di laurea in ingegneria, o addirittura estranee, pur nella loro complessiva connessione funzionale, che però attiene al campo dell’interdisciplinarietà degli interventi (basti pensare alle conoscenze attinenti la geologia).
Una riprova di ciò può cogliersi nel recente corso di studi di architettura del politecnico di Milano per l’anno 1994-1995, versato in atti nel ricorso 4039/1992, e peraltro relativo ad epoca successiva rispetto all’adozione dell’atto impugnato; ivi risulta un solo insegnamento fondamentale propedeutico di «fisica tecnica ed impianti», contro i ben tre insegnamenti di fisica generale e tecnica del corso di laurea in ingegneria come sopra ricordato.
Anche il richiamo alla legge sulle tariffe professionali del 1949 è improprio, atteso che essa, come meglio si vedrà in seguito, non è idonea a modificare le competenze fissate dalla legge professionale innanzi considerata.
Alla luce delle esposte considerazioni, deve pertanto ritenersi perfettamente legittima la scelta, operata con il decreto del febbraio 1993, di tornare alla limitazione ai soli ingegneri e periti industriali già disposta con l’originario decreto, con la conseguente abrogazione del decreto dell’agosto, che in virtù di un improprio, inconferente ed erroneo parere del CUN, aveva inserito anche architetti e fisici, questi ultimi neppure dotati di un proprio albo professionale come inequivocabilmente richiesto dalla legge n. 46.
Ancora è da respingere il profilo di eccesso di potere per contraddittorietà con la circolare del 05.03.1993 con la quale lo stesso Ministero ha ritenuto gli architetti idonei all’accertamento dei requisiti tecnico professionali delle imprese installatrici. Essendo diverse la materia e la funzione del decreto e della circolare, quest’ultima attinente non già alla competenza operativa ma alla sola competenza professionale ad effettuare un mero riscontro formale tra requisiti concretamente posseduti dai soggetti aspiranti e quelli tassativamente richiesti dagli artt. 3, 4 e 5 della legge e dall’art. 2 del regolamento, nessuna contraddittorietà può rinvenirsi tra i due provvedimenti.
Un discorso a parte merita il ricorso n. 4177 proposto dall’ordine degli ingegneri della Provincia di Roma contro il «provvedimento» del Rettore dell'Università La Sapienza di Roma del 31.07.1992, avente un oggetto solo in parte coincidente con quella dei D.M. sopra ricordati.
Infatti, tale provvedimento, qualificato in ricorso come «decisione», costituisce una risposta esplicativa a quanto segnalato dalla nota dello stesso ordine del 29.01.1992 in merito a presunte situazioni di irregolarità nell’affidamento di incarichi professionali. Tale risposta è senz’altro di contenuto ambiguo perché mentre da un lato si dà un’interpretazione estensiva al R.D. n. 2537/1925 (con richiami del tutto impropri ed errati a «numerose pronunce di TAR e del Cons. di Stato» che avrebbero affermato l’equipollenza dei due diplomi di laurea in architettura ed ingegneria), come sopra contestata dal Collegio con le argomentazioni cui si rimanda, per altro verso si precisa che sono gli ingegneri capo dei cinque uffici tecnici dell’Ateneo a designare i vari direttori dei lavori e a controllarne l’operato. Viene altresì precisato che «in futuro saranno prese tutte le misure necessarie a garantire il rispetto delle sfere di competenza di ciascun ordine professionale».
Ora, se è pur vero che la risposta in questione contiene palesi errori interpretativi e di presupposto in materia di riparto di competenze, non appare men vero che tali errori sono contenuti in una mera partecipazione di un’opinione rivolta esclusivamente a un soggetto privato («si deve ritenere») priva perciò di ogni contenuto volitivo e determinativo, come invece sarebbe stato se essa fosse stata formalizzata in un ordine di servizio o in una circolare emanata nei confronti degli organismi tecnici, ai quali, invece, viene rimessa ogni decisione finale sulla scelta dei professionisti competenti, da effettuare nel rispetto dei principi dell’ordinamento, come sopra esplicitati.
L’atto rettorale non è perciò idoneo a produrre nessuna lesione concreta e diretta dell’interesse della categoria, il cui ricorso non appare assistito dal prescritto interesse (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lazio-Roma, Sez. III-ter, sentenza 14.02.1995 n. 360).

COMPETENZE PROGETTUALI1. Ricorso al TAR, collettivo (di ingegnere e Ordine di appartenenza) - Ammissibilità - Condizioni.
2. Ingegneri - Lavori relativi alle vie - Competenza esclusiva.
1. Condizioni per l’ammissibilità del ricorso cd. collettivo sono la mancanza di un conflitto di interessi fra i ricorrenti, l’identicità dei provvedimenti impugnati, il comune interesse a ricorrere e l’identicità almeno in parte dei motivi del ricorso.
2. I lavori relativi alle vie, ai sensi degli artt. 51, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 sono di competenza esclusiva degli ingegneri.

Si assume, in primo luogo, che il ricorso collettivo proposto dall’Ing. AA e dall’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Potenza non sarebbe ammissibile perché ciascuno dei ricorrenti è rappresentato e difeso nel presente giudizio da un proprio difensore in forza di due distinti mandati «ad litem» conferiti a margine dello stesso atto.
L’assunto non può essere condiviso.
Per l’ammissibilità del ricorso e del collettivo (ovvero rivolto da più soggetti contro, il medesimo atto) è sufficiente e necessario, oltre alla mancanza di un conflitto di interessi, tra i ricorrenti, che siano identici i provvedimenti impugnati, che sia comune l’interesse a ricorrere e che siano almeno in parte identici i motivi di ricorso (cfr. tra le tante, Cons. Stato - Sez. VI - 24.02.1994 n. 214, in Cons. stato 1994, I, 256; TAR Toscana - I sez. - 18.06.1993 n. 484, in TAR 1993, I, 3185).
Sicché non assume alcuna rilevanza, ai fini della ammissibilità del ricorso in esame, la circostanza che ciascuno dei ricorrenti abbia conferito mandato «ad litem» ad un proprio difensore atteso, peraltro, che le posizioni soggettive di ciascuno dei due ricorrenti stessi rispetto all’atto impugnato non si comunicano all’altro in quanto il rimborso collettivo si risolve nell’espressione di una pluralità di azioni contestualmente proposte in un unico atto.
Nel merito il ricorso è fondato.
L’art. 51 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 stabilisce che «sono di spettanza della professione di ingegnere il progetto, la condotta e la stima di una serie di lavori, fra i quali quelli relativi alle vie».
Il successivo art. 52 individua nelle «opere di edilizia civile» (nonché nei relativi rilievi geometrici e operazioni di estimo) il campo di attività degli architetti.
Ciò premesso, rileva il Collegio che, anche a voler ammettere, secondo la linea interpretativa sostenuta dai resistenti, che, in astratto, il termine «edilizia civile» sia riferibile non soltanto alla realizzazione di edifici, secondo il suo più comune significato, ma anche ad altri generi di opere ed impianti, tale interpretazione risulta, in concreto, testualmente incompatibile con la norma transitoria contenuta nel successivo art. 54, ultimo comma, del medesimo decreto, che, nel prevedere un ampliamento della competenza professionale di coloro i quali avevano conseguito entro una certa data il diploma di «architetto civile», previsto dagli ordinamenti universitari dell’epoca, autorizzava gli interessati a svolgere anche mansioni indicate nel precedente art. 51 -proprie, come si è visto, della professione di ingegnere- «ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche».
Questa disposizione dimostra, al di là del suo carattere meramente eccezionale e transitorio, che, secondo il sistema di ripartizione delle competenze professionali delineato dal R.D. n. 2537 del 1925, la nozione di «edilizia civile» non può essere estensivamente interpretata, dovendo da essa escludersi i lavori e le opere nella medesima disposizione menzionati, fra i quali «i lavori relativi alle vie». Ed infatti essa non avrebbe senso se nel concetto di opere «di edilizia civile» di cui all’art. 52 si dovessero intendere compresi anche i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche.
Ne consegue che i progetti dei lavori relativi alle vie, ivi compresi quelli oggetto del contestato incarico professionale (concernenti -secondo quanto certificato dall’ufficio tecnico del Comune di Fardella- il disfacimento ed il rifacimento di tratti di pavimentazione lungo la Via Italia e C. so V. Emanuele, la realizzazione di una palificata con susseguente cordolo di collegamento a sostegno delle scarpate in frana delle predette strade, la realizzazione di un drenaggio a profondità di mt. 4 per l’allontanamento delle acque di falda presenti nella zona), formano oggetto dall’esclusiva competenza professionale degli ingegneri (cfr. in termini, TAR Lazio - II Sez. - 16.12.1991 n. 1920 in TAR 1992, I, 71).
Né appare conferente il richiamo, operato dalla difesa del resistente Comune, alla riconosciuta competenza degli architetti in ordine alla redazione degli strumenti urbanistici primari ed «attuativi» (piani regolatori e piani particolareggiati), essendo evidente -come già chiarito da questo Tribunale amministrativo con decisione n. 390 del 1985- che altro é, anche a livello di pianificazione urbanistica, l’inserimento di opere di urbanizzazione nel più ampio contesto di una progettazione di carattere stricto sensu urbanistico, altro é progettare lavori relativi ad opere viarie non collegati in alcun modo con attività di progettazione urbanistica.
Del pari non può aderirsi alla tesi, sviluppata sia dal resistente Comune che dal controinteressato Arch. BB, secondo la quale i limiti delle competenze professionali degli ingegneri e degli architetti, come delineati dal R.D. del 1925, dovrebbero ritenersi superati dalla evoluzione successivamente intervenuta nei rispettivi corsi di studio universitari, che consentirebbe un’interpretazione estensiva delle disposizioni che disciplinano la competenza professionale degli architetti.
Non può, infatti, dubitarsi che il corso di laurea in ingegneria abbia sempre avuto e tuttora conservi nei confronti di quello in architettura, una più spiccata caratterizzazione in senso tecnico-scientifico. Infatti, nel corso di laurea in architettura, per quanto in questa sede interessa, la disciplina «costruzioni stradarie e ferroviarie» non ha il rilievo e l’autonomia ad essa attribuita nell’ambito del corso di laurea in ingegneria ove costituisce materia di insegnamento fondamentale per la sezione ingegneria civile.
Deve, quindi, escludersi che l’evoluzione degli studi per il conseguimento della laurea in architettura, pur avendo comportato un ampliamento del bagaglio delle conoscenze tecniche degli architetti, rispetto alla situazione esistente al momento dell’emanazione del decreto del 1925, abbia comportato una sostanziale equiparazione dei due titoli di laurea, ai fini che qui interessano, ove non si tratti, come affermato da un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., tra le tante, Cons. Stato, sez. IV 19.02.1990 n. 92 in Cons. Stato 1992, I, 166; Cons. Stato, Sez. III parere, 11.12.1984 n. 1538 in Cons. Stato 1986, I, 1433) di opere ed impianti posti al servizio di singoli fabbricati e, perciò, riconducibili alla nozione di edilizia civile.
Alla stregua delle svolte argomentazioni, il ricorso va accolto (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Basilicata, sentenza 03.10.1994 n. 257).

COMPETENZE PROGETTUALIIngegneri e architetti - Competenza professionale - Art. 10 R.D. 1920 n. 1285 - Progetti per piccole derivazioni di acqua - Stesura e sottoscrizione - Limitazione ai soli ingegneri - Esclusione.
In base all’interpretazione sistematico-evolutiva della disciplina delle competenze professionali degli ingegneri e degli architetti ed agli effetti previsti dall’art. 10 R.D. 14.08.1920 n. 1285, che menziona solo i primi fra i professionisti abilitati alla stesura e sottoscrizione di progetti per piccole derivazioni di acqua, la menzione stessa deve ritenersi utilizzata dal legislatore nella sua originaria ed ampia accezione, comprensiva di entrambe le categorie professionali.

Il ricorrente Comune sostiene che il giudice a quo -nel ritenere consentiti la presentazione all’Ufficio del Genio civile e l’esame da parte di esso di un progetto «per piccola derivazione di lieve entità» ex art. 10 del R.D. 14.08.1920 n. 1285, firmato da un architetto ... anziché da un ingegnere- sarebbe incorso nella violazione e falsa applicazione dell’art. 2229 C.c. e dell’art. 52 del R.D. 23.10.1925 n. 2637, dato che a tenore di quest’ultima norma l’architetto non risulta abilitato a progettare opere idrauliche e dato altresì che non sarebbe invocabile, rispetto all’architetto, la previsione di cui al citato art. 10 del R.D. n. 1285 del 1920 laddove sono abilitati alla firma dei documenti tecnici relativi alle «piccole derivazioni» professionisti dotati di una diversa specializzazione tecnica, quali i geometri ed i periti agronomi (oltre agli ingegneri).
Questa censura è priva di fondamento ...
Occorre tenere presente che all’epoca della emanazione del R.D. n. 1285 del 1920 -di approvazione del regolamento per le derivazioni ed utilizzazioni di acque pubbliche- modificato dal R.D. n. 1412 del 1922, le competenze degli ingegneri e degli architetti erano sostanzialmente indifferenziate e disciplinate unitariamente, tanto che con la legge 24.06.1923 n. 1395, istitutiva di un ordine professionale unico degli ingegneri e degli architetti, si prevedeva che le pubbliche amministrazioni affidassero gli incarichi agli iscritti in quell’albo quando dovessero avvalersi dell’opera di ingegnere o architetti (art. 4); e veniva rinviata all’emanazione di un successivo regolamento la normativa relativa alla determinazione dell’oggetto e dei limiti delle due professioni (art. 7); a parte la prevista istituzione, di albi speciali per i periti agrimensori (geometri) e per altre categorie di periti tecnici.
Soltanto con il regolamento approvato con R.D. 23.10.1925 n. 2537 gli ambiti delle rispettive competenze professionali furono delineati -per quanto in questa sede interessa- nel senso di riconoscere che sono di spettanza esclusiva della professione di ingegnere le progettazioni di impianti industriali e di spettanza esclusiva della professione degli architetti le opere di edilizia civile di rilevante carattere artistico. Tuttavia sia nel disegno del R.D. ora citato sia nella legislazione successiva è residuata la previsione di vaste aree di competenza promiscua, in senso oggettivo, oltre che di competenza indifferenziata, in senso soggettivo, per coloro che avessero conseguito un diploma di laurea d’ingegnere-architetto.
In siffatta situazione è opinione comunemente ricevuta che, in linea di principio, le competenze riconosciute alle due professioni sono promiscue stante l’equiparazione tra le due categorie (cfr. la legge n. 143 del 1949 sulle tariffe professionali), e che solo in linea d’eccezione sussistono attribuzioni riservate all’uno od all’altra professione quando una tale privativa risulti espressamente regolata dalla legge (cfr., ad es. l’art. 1 del R.D. 16.11.1939 n. 2229), di modo che dalla riserva all’una professione derivi la preclusione allo svolgimento delle stesse attività da parte degli appartenenti all’altra professione. Ma ove si adotti il suindicato metro della riserva legislativa alla competenza esclusiva dell’ingegnere (non architetto) per la elaborazione di studi e progetti in determinati specifici campi -richiedenti di norma una più specializzata e raffinata preparazione teorico-scientifica- chiaro risulta che la suindicata privativa è rimasta esclusa in materia di elaborazione dei documenti tecnici delle piccole derivazioni secondo la previsione di cui all’art. 10 del R.D. 1285 del 1920.
Ed infatti la portata precettiva di tale norma -del tutto specifica per l’oggetto della attività tecnica considerata e per la sua sfera d’azione, limitata al rapporto tra soggetto richiedente la derivazione di lieve entità e l’ufficio del Genio civile preposto all’esame della domanda- ne denunzia chiaramente il carattere di precetto di ius singulare, non assorbito né derogato dalla ben più generale previsione normativa di cui all’art. 51 del R.D. n. 2537 del 1925 laddove si accenna genericamente alla progettazione di impianti industriali.
Ne consegue che, in base alla interpretazione sistematico-evolutiva della disciplina delle competenze professionali ed agli effetti previsti dall’art. 10 del R.D. n. 1285 del 1920 la indicazione ivi contenuta del progettista come «ingegnere» deve tuttora ritenersi essere stata utilizzata dal legislatore nella sua originaria ampia accezione omnicomprensiva delle categorie degli ingegneri e degli architetti. La estensione -nella stessa norma prevista- della abilitazione alla progettazione de qua anche agli appartenenti ad altre categorie professionali quali i geometri ed i periti agronomi smentisce, del resto ed ulteriormente, la esistenza di una riserva di competenza in favore dei soli ingegneri (non architetti), anche se -contrariamente a quanto opinato dal tribunale superiore- non costituisce dato di per sé risolutivo per una affermazione a fortiori della competenza, in materia, degli architetti.
Competenza che, in definitiva, non si fonda su di una più qualificata preparazione tecnica degli appartenenti a tale professione rispetto a quella dei geometri e dei periti agronomi, quanto piuttosto trova radice in quella primigenia ordinaria unitarietà di disciplina e promiscuità di attribuzioni professionali, tra ingegneri ed architetti, alla quale l’art. 10 in esame, nella sua portata di norma speciale, si è sicuramente ispirato (tratto da BLT n. 2/2002 - Corte di Cassazione, S.U. civili, sentenza 26.07.1993 n. 8348).

COMPETENZE PROGETTUALIGeometri - Competenza professionale - Progettazione di impianto di illuminazione pubblica - Esclusione.
In difetto di previsione normativa e di specifica preparazione, professionale, va esclusa la competenza del geometra in materia di progettazione ed esecuzione dell’impianto di illuminazione a mezzo dell’energia elettrica sul territorio del comune.
Il Comune di Pisoniano, con la prima censura deduce che, erroneamente la corte di appello non aveva considerato che l’opera prestata dal geometra L. non era riconducibile, alle attività consentitegli dalle norme vigenti ed in particolare, dalla legge 143/1949 la quale riserva esclusivamente agli ingegneri ed agli architetti la progettazione di impianti per la trasmissione e la distribuzione di energia elettrica; nella specie il geometra L. non avrebbe potuto, pertanto, progettare l’impianto dell’illuminazione pubblica del comune, donde la nullità assoluta del contratto dal quale la pretesa del tecnico aveva preso le mosse.
La censura è fondata.
Sennonché la corte di appello per accertare se l’attività de qua fosse oppur non consentita ai geometri, ha preso in esame la legge 24.06.1923 n. 1395 ed il relativo regolamento (ndr, R.D. 23.10.1925 n. 2537), che riguardano non i geometri ma gli ingegneri e gli architetti deducendone poi immotivatamente che dette norme non attribuivano la citata attività alla competenza esclusiva degli ingegneri e degli architetti; la stessa corte non si è avveduta che, non essendo i geometri menzionati nelle norme riguardanti altre categorie professionisti, le norme stesse erano state inconferentemente invocate dalla parte; ed ha poi omesso del tutto di prendere in esame il R.D. 11.02.1929 n. 274, che riguarda specificamente l’esercizio della professione di geometra ed in particolare, l’art. 16, il quale analiticamente regola l’oggetto ed i limiti della professione: laddove proprio sulla base di quest’ultima norma, la quale consente al geometra soltanto le attività di cui alle lettere da «a» a «q» (operazioni topografiche di rilevamento, misurazioni e determinazioni di confini, operazioni catastali e di estimo; tracciamento di strade poderali od ordinarie di limitata importanza; misura e divisione di fondi rustici e di aree urbane e di modeste costruzioni civili; stima di aree e di fondi rustici e di modeste costruzioni civili; funzioni meramente contabili ed amministrative nelle piccole e medie aziende agrarie; curatele di aziende agrarie non importanti; progettazione di costruzioni rurali e di piccole costruzioni in cemento armato e di, modesti edifici civili; mansioni di perito comunale in comuni con popolazione inferiori a diecimila abitanti) la corte di appello avrebbe dovuto negare e non affermare, in difetto di previsione normativa e di specifica preparazione, professionale, la competenza del geometra in materia di progettazione ed esecuzione dell’impianto di illuminazione a mezzo dell’energia elettrica sul territorio del comune; conseguentemente per la nullità del relativo contratto, il compenso richiesto dal geometra L. non poteva essergli riconosciuto (tratto da BLT n. 2/2002 - Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 05.11.1992 n. 11994).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetti - Competenza professionale - Non vi rientra la progettazione e direzione lavori di opere fognarie e opere viarie.
Nelle opere di «edilizia civile» non possono rientrare, a norma degli artt. 52 e 54 R.D. 1925/2537, le opere fognarie e le opere viarie che restano perciò escluse dalla competenza degli architetti.

È costante giurisprudenza (Cons. Stato, IV, 19.02.1990 n. 92; III, 11.12.1984 n. 1538; TAR Lazio, II, 30.07.1990 n. 1477; TAR Molise, 23.05.1990 n. 147) e costante orientamento dell’Amministrazione (parere Consiglio Superiore LL.PP. 16.12.1983 n. 228) che deve escludersi che le opere fognarie e le opere viarie rientrino, nell’ambito della competenza professionale dell’architetto.
Ed invero l’art. 52 del R.D. 23.10.1925 n. 2537, recante la disciplina della professione degli ingegneri e degli architetti, riserva agli architetti le sole «opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici contemplati dalla legge ... per l’antichità e le belle arti»; ed attribuisce alla competenza sia degli ingegneri che degli architetti le «opere di edilizia civile».
Il successivo art. 54, ultimo comma, nel prevedere un ampliamento della competenza professionale ordinaria di cui all’art. 52, dispone che coloro che abbiano conseguito -nel 1924-1925- il diploma di architetto civile sono autorizzati a svolgere le mansioni indicate all’art. 51 (competenze della professione degli ingegneri) ad eccezione di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e delle opere idrauliche.
Da tale ultima disposizione si evince che nella logica della disciplina professionale le opere stradali ed idrauliche non rientrano nel concetto di «opere di edilizia civile» (priva di senso sarebbe, altrimenti, la citata eccezione) e, non rientrando neppure nella speciale competenza ad esaurimento prevista per gli architetti diplomati nel 1924- 1925, non possono -a fortiori- rientrare nella competenza degli architetti diplomatisi, dopo tale periodo (tratto da BLT n. 2/2002 - CGARS, sentenza 28.07.1992 n. 217).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetti - Competenza professionale - Strade - Esclusione - Limiti.
Nelle «opere di edilizia civile» di cui all’art. 52 del R.D. 1925/2537 -che sono di competenza sia dell’ingegnere che dell’architetto- non rientrano le strade, a meno che si tratti di opere funzionalmente collegate ad un edificio in modo diretto e immediato.

La questione di diritto posta all’attenzione del Collegio verte essenzialmente sulla legittimità delle disposizioni (artt. 51, 52 e 54) del R.D. 23.10.1925 n. 2537 recante il regolamento per le professioni di ingegnere e architetto che determinano l’ambito delle attività professionali, degli architetti e segnatamente se spetti a questi professionisti la progettazione di «vie» da realizzare con opere e costruzioni anche complesse che non presentino un carattere meramente strumentale e di connessione con singoli fabbricati.
Le censure poste in via autonoma contro il parere dei Comitato tecnico Amministrativo Regionale di Palermo (n . 1229 del 07.08.1984) acquisito agli atti di causa in esito agli adempimenti istruttori disposti con sentenza n. 1492/1985 di questa Sezione sono, infatti, prive di pregio: risulta che l'esame, del Comitato avente ad oggetto il progetto della strada intercomunale S. Agata-Acquedolci affidato all’attuale ricorrente è stato accurato ed approfondito e tra i vari rilievi mossi dall’organo consultivo spicca, appunto, quello contenuto nel secondo capoverso del dispositivo secondo cui «data la particolare natura delle opere d’arte (viadotto e sottopassaggio) da realizzare nella strada in esame anche per la funzione che riveste di arteria intercomunale» il progetto di cui trattasi doveva essere firmato quale collaboratore per la parte strutturale da un ingegnere. Sia il cennato parere che la successiva determinazione sindacale (del 25.08.1984 e del 04.12.1984) con cui veniva comunicata al ricorrente la pronuncia dell’organo consultivo si fondano sulla questione principale sollevata nel presente giudizio: la incompetenza di un architetto a sottoscrivere il progetto di cui trattasi.
Ritiene il Collegio che al quesito posto con l’atto introduttivo del giudizio si debba dare una risposta negativa. Sul punto si è pronunciato il Consiglio di Stato sia in sede consultiva che giurisdizionale (Sez. III n. 1538 dell’11.12.1984 e Sez. IV n. 92 del 19.02.1990) affermando che non possono ricomprendersi fra le competenze dell’architetto l’esecuzione di strade e di opere igieniche che non siano «strettamente connesse con singoli fabbricati». La dizione «opere di edilizia civile» contenuta nell’art. 52 del R.D. 23.10.1925 n. 2537 che segna appunto la competenza dei professionisti, in parola è stata interpretata correttamente ad avviso del Collegio - nel senso che solo le opere edilizie funzionalmente collegate ad un edificio in modo diretto ed immediato possono essere progettate ed eseguite sotto la direzione di un architetto.
Almeno due argomenti testuali sono univoci, per sostenere tale interpretazione:
a) l’art. 51, 1° c., riserva espressamente agli ingegneri «i lavori relativi alle vie di deflusso e comunicazione nonché le costruzioni di ogni specie» (con riguardo al caso di specie non vi è dubbio che anche una strada intercomunale rientra in tale dizione e che il sottopassaggio ed il viadotto anziché «opere di edilizia civile», sono agevolmente riconducibili alla nozione di «costruzioni di ogni specie»).
b) l’art. 54 u.c. prevede una disciplina particolare ampliativa del ricordato art. 52, per coloro che, ad una certa data, avessero conseguito il diploma di architetto civile. Ebbene questa disposizione nel consentire la progettazione delle opere di spettanza degli ingegneri espressamente esclude le «applicazioni industriali, i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e trasporto e alle opere idrauliche».
Con ciò è chiaro, ad avviso del Collegio, che nella dizione «opere di edilizia civile» di cui all’art. 52 del citato regolamento, rientranti nella competenza professionale degli architetti sono escluse le strade.
Da quanto precede emerge la necessità per il ricorrente di rimuovere l’assetto normativo qui delineato. Da ciò quindi, scaturiscono le censure di illegittimità rivolte contro le norme regolamentari qui sopra riportate che si risolvono essenzialmente nell’eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà in quanto da un lato il corso di laurea di architettura sarebbe non meno completo di quelli di ingegneria ed, inoltre, da altra angolazione, le modifiche intervenute nel corso degli anni all’ordinamento degli studi della facoltà di architettura renderebbero necessario un adeguamento della disciplina e delle competenze professionali degli architetti che, con riguardo ad esempio al settore della urbanistica, nessuno contesta. Sarebbe, poi, illogico, che un ingegnere con specializzazione in un settore diverso possa progettare le opere di cui trattasi inibite, invece, agli architetti.
L’assunto della difesa del ricorrente non può essere condiviso.
Ed invero:
a) il piano di studi delle due facoltà mantiene diversità di rilievo tali, da giustificare una diversa disciplina degli esami di abilitazione all’esercizio della professione;
b) in questa disciplina è chiara l’intenzione del legislatore di privilegiare per gli ingegneri l’aspetto della progettazione di opere complesse aventi ad oggetto prevalentemente ma non esclusivamente il settore prescelto (tra gli undici in cui può articolarsi l’esame).
L’esame consta infatti di una prova scritta o grafica consistente nello svolgimento di un progetto specifico per il ramo di ingegneria prescelto.
Sennonché l’indicazione del ramo che il candidato deve effettuare nella domanda di ammissione ha la funzione di segnalare la prevalenza dell’interesse e non la esclusività dello stesso in quanto la prova può estendersi ad altri rami tra gli undici individuati (cfr. D.M. 09.09.1957, art. 27, I, II e III c.).
L’esame per l’abilitazione all’esercizio della professione di architetto consta di una prova grafica consistente nella predisposizione di un ordinativo per l’appalto di opere di costruzione di una membratura architettonica implicante una struttura ed un rivestimento di superficie con il che è evidente la limitazione dell’impegno ad una progettazione di minore complessità per quanto concerne gli aspetti costruttivi non interdisciplinare.
Rispetto a questa, previsione non ha poi rilievo la circostanza che sia consentito agli architetti progettare sistemazioni urbanistiche o strumenti urbanistici generali o attuativi. In effetti l’attività direttamente finalizzata alla realizzazione delle opere più complesse che in concreto realizzano le previsioni urbanistiche riservato agli ingegneri è con evidenza, ben diversa dalla previsione di assetto del territorio affidata ad una progettualità essenzialmente ideativa sia pure di estrema importanza che non è inibita agli architetti.
Sono così confutate le censure avanzate nell’atto introduttivo del ricorso contro le norme regolamentari del R.D. 23.10.1925 n. 2437 ed inoltre anche il nucleo di base delle argomentazioni che avevano indotto la sezione di Latina di questo Tribunale con sentenza n. 116 del 1984, annullata dal Consiglio di Stato con la citata sentenza della IV Sezione del 19.02.1990 n. 92 che però non ha svolto considerazioni sul punto, a sostenere la competenza professionale degli architetti a realizzare opere di costruzione più complesse e significative di quanto prevede l’art. 52 del R.D. n. 2537 del 1925.
Per la Sezione di Latina, infatti, una volta riconosciuta, pacificamente, agli architetti la possibilità di progettare interventi urbanistici non vi era alcun motivo ostativo per riconoscere agli stessi professionisti la facoltà di progettare e realizzare le singole opere (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lazio-Roma, sentenza 23.06.1992 n. 927).

COMPETENZE PROGETTUALI:  1. Ingegneri - Impianti di pubblica illuminazione - Competenza esclusiva.
2. Ingegneri e architetti - Equiparazione dei rispettivi titoli di laurea - Esclusione - Limiti.
1. La nozione di «edilizia civile» di cui all’art. 52 del R.D. 1925/2537 non può essere interpretata estensivamente; pertanto gli impianti di illuminazione pubblica, classificabili fra le applicazioni della fisica in quanto basati sulla utilizzazione dell’energia elettrica e non fra le opere edilizie, sono di esclusiva competenza degli ingegneri.
2. L’evoluzione degli studi per il conseguimento della laurea in architettura, pur avendo determinato un ampliamento del bagaglio delle conoscenze tecniche degli architetti rispetto alla situazione esistente al momento dell’emanazione del decreto del 1925, non ha comportato una sostanziale equiparazione dei due titoli di laurea, ove non si tratti di opere e impianti posti a diretto servizio di singoli fabbricati e perciò riconducibili alla nozione di edilizia civile.

Con l’unico motivo l’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Frosinone deduce la illegittimità della impugnata delibera del Comune di Piedimonte San Germano, con cui sono stati approvati il progetto generale e il progetto esecutivo del primo stralcio dell’impianto di pubblica illuminazione, redatti dall’architetto AA, sul presupposto che la progettazione di tale tipo di impianti rientrerebbe nella esclusiva competenza professionale degli ingegneri.
La tesi dell’Ordine ricorrente si basa sugli artt. 31, 52 e 54 del R.D. 23.10.1925 n. 2537, che disciplinano l’esercizio delle professioni di ingegnere e di architetto, secondo una lettura che tiene conto del diverso tipo di formazione delle due categorie professionali, anche alla luce delle modifiche successivamente intervenute nell’ordinamento dei rispettivi corsi di laurea.
Il ricorso è fondato.
L’art. 51 del citato R.D. n. 2537 del 1925 stabilisce che «sono di spettanza della professione di ingegnere il progetto, la condotta e la stima» di una serie di lavori, fra i quali quelli relativi «in generale alle applicazioni della fisica».
Il successivo art. 52 individua nelle «opere di edilizia civile» (nonché nei relativi rilievi geometrici e operazioni di estimo) il campo di attività degli architetti.
Ciò premesso, la questione sulla quale vi è contrasto fra le parti attiene alla possibilità di qualificare un impianto di pubblica illuminazione come opera di edilizia civile, rientrante, in quanto tale, nella competenza professionale degli architetti.
Rileva il Collegio che analogo problema è stato affrontato e risolto in senso negativo dal Consiglio di Stato con il parere della III Sezione n. 1538 in data 11.12.1984 e con la recentissima decisione della IV Sezione n. 92 del 19.02.1990, relativamente alle opere igieniche e alle strade urbane. Le argomentazioni che giustificano tale orientamento giurisprudenziale, di carattere testuale e logico-sistematico, appaiono pienamente condivisibili e applicabili anche alle opere che vengono in rilievo in questa sede.
Invero, anche a voler ammettere, secondo la linea interpretativa sostenuta dai resistenti, che, in astratto, il termine «edilizia civile» sia riferibile non soltanto alla realizzazione di edifici, secondo il più comune significato, ma anche ad altri generi di opere ed impianti, tale interpretazione risulta, in concreto testualmente incompatibile con la norma transitoria contenuta nel successivo art. 54, ultimo comma, del medesimo decreto, che, nel prevedere un ampliamento la competenza professionale di coloro i quali avevano conseguito entro una certa data il diploma di «architetto civile», previsto dagli ordinamenti universitari dell’epoca, autorizzava gli interessati a svolgere anche le mansioni indicate nel precedente art. 51 -proprie, come si è visto, della professione di ingegnere- «ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche. Questa disposizione dimostra, al di là del suo carattere meramente eccezionale e transitorio, che, secondo il sistema di ripartizione delle competenze professionali delineato dal R.D. del 1925, la nozione di «edilizia civile» non può essere estensivamente interpretata, dovendo da essa escludersi i lavori e le opere nella medesima disposizione menzionati, fra i quali le «applicazioni della fisica».
Ne consegue che gli impianti di pubblica illuminazione, classificabili fra le applicazioni della fisica, in quanto basati sulla utilizzazione dell’energia elettrica, e non fra le opere edilizie, formano oggetto della esclusiva competenza professionale degli ingegneri.
Non é, al riguardo, condivisibile l’assunto dell’Amministrazione comunale che l’opera professionale nella specie fornita dal progettista avrebbe un rilievo puramente urbanistico, essendo intesa unicamente a stabilire la posizione dei punti di luce, per cui rientrerebbe nell’ambito della competenza degli architetti. Risulta, infatti, dalla delibera impugnata che l’attività dell’arch. Antonelli non si è limitata a tale particolare compito ma ha eseguito tutti gli aspetti, strutturali, funzionari ed economici, della progettazione, generale ed esecutiva del primo stralcio, comprendente lavori, rispettivamente, per circa L. 1.179.000.000 e per circa L. 431.000.000.
Né può aderirsi alla tesi dell’Ordine degli architetti, secondo la quale i limiti delle competenze professionali degli ingegneri e degli architetti, come delineati dal R.D. del 1925, dovrebbero ritenersi superati dalla evoluzione successivamente intervenuta nei rispettivi corsi di studi universitari, che avrebbe determinato un ampliamento delle competenze degli architetti.
Non può, infatti, dubitarsi che il corso di laurea in ingegneria, abbia sempre avuto e tuttora conservi, nei confronti di quello in architettura, una più spiccata caratterizzazione in senso tecnico-scientifico.
Per quanto riguarda, in particolare, lo studio delle materie attinenti agli Impianti in questione, deve osservarsi che l’insegnamento di «fisica tecnica ed Impianti», obbligatorio secondo l’ordinamento degli studi della facoltà di architettura di cui al D.P.R. 31.10.1969 n. 995, è stato mantenuto, peraltro come meramente opzionale nell’ambito della scelta di una fra le cinque discipline comprese nell’area impiantistica, soltanto per uno dei quattro indirizzi (quello tecnologico) previsti dal più recente ordinamento, introdotto con il D.P.R. 09.09.1982 n. 806, mentre è obbligatorio per tutti gli indirizzi previsti nel corso di laurea in ingegneria, che comprendono altresì un insegnamento biennale di «fisica» e tino di «elettronica», oltre a quelli di «misure elettriche» e «impianti elettrici» propri della specializzazione in ingegneria elettrotecnica (D.P.R. 31.01.1960 n. 53).
Deve, quindi, escludersi che l’evoluzione degli studi per il conseguimento della laurea in architettura, pur avendo determinato un ampliamento del bagaglio delle conoscenze tecniche degli architetti, rispetto alla situazione esistente al momento dell’emanazione del decreto del 1925, abbia comportato una sostanziale equiparazione dei due titoli di laurea, ai fini che qui interessano, ove non si tratti, come affermato dal Consiglio di Stato nel cit. parere n. 1538 del 1984, di opere e impianti posti a diretto servizio di singoli fabbricati e, perciò, riconducibili alla nazione di edilizia civile.
Per le esposte ragioni il ricorso deve essere accolto, con il conseguente annullamento della delibera impugnata (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 30.07.1990 n. 1477).

COMPETENZE PROGETTUALI:  Architetti - Competenza professionale - Opere idrauliche a servizio di un centro abitato - Esclusione.
L’art. 52 R.D. 23.10.1925 n. 2537, ai sensi del quale le opere di edilizia civile rientrano nella competenza sia dell’ingegnere che dell’architetto, non può essere interpretato tanto estensivamente sino ad includere nelle competenze dell’architetto, oltre gli impianti igienici asserviti ad un determinato fabbricato, anche opere idrauliche, quali acquedotti, fognature ed impianti di depurazione, poste a servizio dell’abitato in genere e riservate dalla legge all’ingegnere.

Nei confronti degli Ordini professionali, che sono enti pubblici a formazione esclusiva ed appartenenza necessaria, esponenziali del relativo gruppo professionale, la giurisprudenza ha sempre ammesso la legittimazione attiva in ordine all’impugnativa di atti amministrativi che incidono negativamente non solo e non tanto sugli interessi del singolo componente, ma su quelli, omogenei, della categoria unitariamente considerata; interessi, cioè, non individuali ma neppure diffusi, bensì qualificati come collettivi perché appartenenti ad un gruppo di persone ben determinato, organizzato e riconosciuto dall’ordinamento (Cfr. da ultimo Cons. Stato, IV Sez., 15.04.1986 n. 265 e VI Sez., 14.07.1987 n. 468).
Pertanto nel caso in esame va affermata la legittimazione dell’Ordine provinciale degli architetti di Campobasso, il quale, mediante l’impugnativa di un provvedimento con cui si nega la competenza della categoria rappresentata in relazione ad un certo tipo di opere, ha inteso appunto tutelare gli interessi collettivi della medesima categoria.
Tuttavia il ricorso è infondato nel merito.
Il R.D. 23.10.1925 n. 2537 di disciplina delle professioni di ingegnere, architetto e geometra, dispone all’art. 51 che spettano all’ingegnere la progettazione, la conduzione e la stima dei lavori relativi, tra l’altro, alle «vie ed ai mezzi di trasporto, di deflusso e di comunicazione», mentre ai sensi dell’art. 52 le «opere di edilizia civile» competono sia all’ingegnere che all’architetto.
Nella specie, è stata negata la competenza dell’architetto a dirigere i lavori concernenti la rete idrica e fognante comunale, sulla scorta del parere 11.12.1984 n. 1538, reso dalla Sezione terza del Consiglio di Stato.
Con tale parere è stato affermato che nella espressione «opere di edilizia civile», spettanti anche agli architetti, possono ricomprendersi le opere igieniche consistenti in acquedotti, fognature ed impianti di depurazione, e la direzione dei relativi lavori, ma a condizione che le opere stesse siano strettamente connesse con singoli fabbricati, restando invece escluse quelle poste a servizio dell’abitato in genere.
Ciò in quanto le disposizioni su riportate non possono essere interpretate tanto estensivamente fino a ricomprendervi siffatte opere, ostandovi il dato testuale ricavabile dal successivo art. 54, ultimo comma, che, nel prevedere un ampliamento delle competenze degli architetti civili che abbiano conseguito il diploma ai sensi della precedente normativa entro il 21.12.1925, stabilisce che i medesimi sono autorizzati a compiere le attività di ingegnere specificate dall’art. 51 ad eccezione, tra l’altro, delle «opere idrauliche».
Per vero, in giurisprudenza è stato affermato che, in base ad una interpretazione sistematica ed evolutiva delle norme su esaminate, alla luce dell’attuale ordinamento dei rispettivi studi universitari e della tendenziale equiparazione delle relative attività, gli architetti possono occuparsi di opere di urbanizzazione, ivi compresi gli impianti di depurazione delle acque reflue di un abitato (Cfr. TAR Sardegna, 30.09.1986 n. 410).
Il Collegio ritiene di non poter seguire quest’ultima tesi, stante la perdurante vigenza della disciplina professionale in parola ed in assenza di modificazioni del testo originario, e di dover invece aderire all’orientamento espresso nel parere riportato, peraltro non senza condividerne anche il giudizio di inadeguatezza della medesima disciplina in rapporto alle evoluzioni della tecnica ed agli sviluppi delle due professioni.
D’altra parte, la giurisprudenza più recente ha assunto analogo orientamento limitativo in ordine alle opere di cui trattasi, richiedendone l’inerenza ad un determinato fabbricato (Cfr. TRGA Trentino Alto Adige, Trento, 03.10.1988 n. 348).
In base alle considerazioni svolte, non può farsi a meno di concludere per il rigetto del ricorso in esame, atteso che l’atto impugnato concerne, come detto, lavori relativi alla rete idrica e fognante comunale e, dunque, opere idrauliche generali (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Molise, sentenza 23.05.1990 n. 147).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetti - Competenza professionale - Non vi rientra la progettazione e direzione lavori di opere viarie e igieniche.
La competenza per le opere di cui all’art. 51 R.D. 1925/2537 è esclusiva degli ingegneri mentre, ai sensi dell’art. 52, 1° comma, dello stesso R.D., le opere di edilizia civile sono di spettanza comune ad ingegneri ed architetti (ma quelle di carattere artistico sono di competenza esclusiva degli architetti, come dispone l’art. 52, 2° comma).
In base a tale conclusione, confermata dall’art. 54 dello stesso R.D., sono di competenza esclusiva degli ingegneri la progettazione e direzione lavori di opere viarie ed igieniche che non siano strettamente connesse con singoli fabbricati.

Giudica il Collegio, conformemente a quanto ritenuto con il parere della III Sezione del Consiglio di Stato n. 1538, in data 11.12.1984, che, secondo la normativa vigente, non possono ricomprendersi fra le competenze dell’architetto, anche l’esecuzione di strade e di opere igieniche, le quali non siano strettamente connesse con singoli fabbricati.
In proposito deve essere sottolineato che nessuna delle opere in relazione alle quali agli appellati architetti erano stati affidati gli incarichi di direttore dei lavori e di ingegnere capo, di cui alle delibere originariamente impugnate, potevano considerarsi opere di rilievo modesto, assimilabili ad opere strettamente connesse con un singolo fabbricato (un’opera consisteva nei lavori di costruzione di un tronco fognario per un importo previsto nel 1981 di L. 200.000.000, le altre nella realizzazione di una rete fognaria e di parte della rete viaria di Anagni).
Per quanto riguarda le disposizioni degli ordinamenti professionali degli ingegneri e degli architetti, l’art. 51 R.D. 23 ottobre 1925 n. 2537 individua la competenza degli ingegneri nella progettazione e conduzione dei lavori relativi all’estrazione ed alla trasformazione dei materiali occorrenti per le costruzioni e le industrie; dei lavori relativi alle vie e ai mezzi di trasporto di deflusso e di comunicazione, alle costruzioni di ogni specie, alle macchine ed agli impianti industriali, nonché in generale alle applicazioni della fisica, rilievi geometrici e operazioni di estimo.
L’art. 52 del richiamato decreto, al primo comma, dispone che sono di spettanza comune a ingegneri e architetti le opere di edilizia civile, mentre, al secondo comma, prevede che le opere di edilizia civile, che presentano rilevante carattere artistico e di restauro e il ripristino degli edifici di interesse storico-artistico formano esclusivo oggetto soltanto della professione di architetto.
Secondo tali disposizioni, quindi, deve escludersi che le opere fognarie e le opere viarie rientrino nell’ambito delle competenze e degli architetti.
Tale conclusione è confermata dal disposto dell’art. 54, ultimo comma, dello stesso decreto, il quale, nel prevedere un ampliamento della competenza ordinaria degli architetti, indicata dall’art. 52, dispone che coloro che abbiano conseguito il diploma di architetto civile entro il 31.12.1924, ovvero entro il 31.12.1924, sono autorizzati a svolgere le mansioni indicate nell’art. 51 (competenze della professione di ingegneri), ad eccezione di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche.
Tale disposizione non avrebbe senso se nel concetto di opere di edilizia civile di cui all’art. 52 si dovessero intendere compresi anche i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione di trasporto e alle opere idrauliche.
La riportata conclusione non è contraddetta dalla disposizione di cui all’art. 54, secondo comma, che prevede un ampliamento della competenza ordinaria degli architetti -fino a ricomprendere tutta la materia di spettanza degli ingegneri, eccettuate le applicazioni industriali- per coloro che abbiano conseguito il diploma di laurea di ingegnere-architetto presso gli istituti di istruzione superiore indicati nell’art. 1 della L. 24.06.1923 n. 1395 entro il 31.12.1925, secondo le norme di cui all’art. 6 R.D. 31.12.1923 n. 2909.
Infatti tutte le disposizioni di cui al richiamato art. 54 si caratterizzano per la loro dichiarata eccezionalità, in quanto hanno per destinatari soltanto alcune categorie di ingegneri e architetti, i quali hanno conseguito particolari diplomi, specificamente indicati entro un determinato termine.  
La disposizione di cui all’art. 54, secondo comma, riportata, non può essere utilizzata quale parametro di riferimento per una estensione delle competenze degli architetti, determinata dalla evoluzione del corso di studi per conseguire la laurea in architettura.
Infatti, indipendentemente dalla natura eccezionale della disposizione di cui all’art. 54, secondo comma, non vi è assimilazione per quanto riguarda gli studi rilevanti ai fini delle opere in questione fra i due corsi di laurea; infatti, nel corso di laurea in architettura «costruzioni stradarie e ferroviarie», «costruzioni idrauliche», «impianti speciali idraulici», non hanno il rilievo e l’autonomia che invece sono loro attribuiti nell’ambito del corso di laurea in ingegneria (la prima è materia di insegnamento fondamentale per la sezione ingegneria civile; le altre due costituiscono materia della sottosezione idraulica della sezione ingegneria civile).
Le argomentazioni di natura letterale, logica e sistematica, sulle quali è fondata la conclusione raggiunta, esimono il Collegio da un esame analitico degli altri rilievi logici svolti dall’Ordine degli architetti di Frosinone, esame, che imporrebbe una pronuncia incidentale sulle competenze dei geometri e sulle competenze in materia di pianificazione urbanistica degli architetti, questioni che sono estranee al presente giudizio (tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.02.1990 n. 92).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetti - Competenza professionale - Acquedotti rurali - Esclusione.
Sono di competenza esclusiva dell’ingegnere le opere di cui all’art. 51 R.D. 1925/2537 mentre le opere di edilizia civile sono di competenza sia dell’ingegnere che dell’architetto (La progettazione di acquedotti rurali, in quanto opere idrauliche, esula dalla competenza degli architetti).

Ai sensi dell’art. 54 del R.D. n. 2537 del 1925 -normativa tuttora vigente nonostante l’introduzione delle disposizioni sull’ordinamento didattico universitario di cui al R.D. 30.09.1938 n. 1652- le progettazioni di acquedotti rurali, in quanto opere idrauliche, esulano dall’ambito della competenza professionale degli architetti.
... omissis ...
Il collegio ritiene che -contrariamente all’assunto di parte ricorrente- le disposizioni degli artt. 51-54 R.D. 23.10.1925 n. 2537, statuenti limitazioni all’esercizio della professione di architetto, non siano affatto superate con l’introduzione delle norme sull’ordinamento didattico universitario (R.D. 30.09.1938 n. 1652) ma che ad esse, in quanto normativa vigente, occorra fare puntuale riferimento ai fini della decisione della controversia di cui è causa.
In particolare l’art. 51 provvede all’individuazione, con elencazioni esemplificative, delle opere di competenza della professione di ingegnere, mentre il successivo art. 52 sancisce invece al primo comma una competenza concorrente delle professioni di ingegnere e di architetto in ordine alle «opere di edilizia civile» nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad esse relative ed, al successivo secondo comma una competenza esclusiva (salvo che per la parte tecnica) per la professione di architetto in ordine alle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico ed il restauro e il ripristino degli edifici soggetti alla disciplina vincolistica a tutela delle case d’interesse artistico e storico.
Il successivo art. 54, ultimo comma nel prevedere, in via transitoria un ampliamento delle competenze degli architetti che abbiano conseguito il relativo diploma entro il 31.12.1925, l’autorizza a compiere le mansioni indicate nell’art. 51 (cioè quelle di spettanza degli ingegneri), «ad eccezione però di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto e alle opere idrauliche».
A maggior ragione tali opere precluse anche agli architetti in possesso degli specifici requisiti sanciti dall’art. 54, ultimo comma, R.D. 2537 del 1925 non possono rientrare nella competenza degli architetti -come l’odierno ricorrente- non in possesso dei suddetti requisiti, ai quali è altresì precluso lo svolgimento delle mansioni indicate nell’art. 51, riservate alla competenza degli ingegneri.
Tra le attività, oggetto di espressa esclusione ai sensi del detto art. 54, sono -tra l’altro- incluse le «opere idrauliche».
Il Collegio ritiene che gli incarichi per la progettazione dei due acquedotti rurali di cui alle delibere annullate con le impugnate ordinanze del CO.RE.CO. rientrino nell’ambito di tale categoria di opere e che pertanto non possono essere svolti da un architetto, in quanto esulanti dall’ambito della sua competenza professionale.
Infatti, pur non potendo rientrare in senso stretto nell’ambito delle opere idrauliche di cui al R.D. 25.07.1904 n. 523, risulta più logico ricondurre la progettazione di un acquedotto, sia pure di modeste dimensioni, nell’ambito di tale tipo di opere, dato che l’entità nell’opera non è certo elemento idoneo a modificarne la natura sostanziale, anziché -con una palese forzatura- ritenere che la progettazione di un piccolo acquedotto (nel caso di specie trattasi di due acquedotti rurali della lunghezza di 800 metri e di 500 metri, destinati a soddisfare le esigenze di due alpeggi montani) possa considerarsi un’opera di edilizia civile al fine di riconoscere la competenza di un architetto in ordine alla sua progettazione.
Lo stesso Consiglio di Stato, pronunciandosi in sede consultiva (parere 11.12.1984 n. 1538) ha escluso la competenza degli architetti in ordine agli acquedotti.
Nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza, secondo cui «Nemmeno esatto appare il richiamo -quand’anche volesse attribuirvisi valore ermeneutico- agli studi condotti dagli architetti nel relativo corso di laurea, in quanto -come rilevasi anche dal parere dell’Adunanza generale del Consiglio superiore dei lavori pubblici 16.12.1983 n. 62- il corso di laurea per architetti non contiene alcuni insegnamenti più strettamente ingegneristici quali Idraulica e Costruzioni idrauliche e inoltre -può aggiungersi, con specifico riferimento alle opere in questione- gli stessi studi non sono diretti all’apprendimento di nozioni, quali quelle attinenti alle variazioni e agli andamenti climatici, che presentano particolare importanza nella progettazione di reti idriche e fognarie».
Lo stesso orientamento è stato ribadito dalla dottrina che ha rilevato: «In particolare i piani di studio per il conseguimento della laurea in ingegneria prevedono la costruzione di strade e l’idraulica come corsi obbligatori sul piano nazionale a norma del D.P.R. 26.05.1975 n. 513 mentre la disciplina specifica inerente agli acquedotti e le fognature costituisce corso obbligatorio sul piano di quasi tutte le facoltà delle vane Università.
L’insegnamento di tali specifiche discipline esula dal corso di studi previsto per il conseguimento della laurea in architettura e non può farsi rientrare nella materia igiene-idraulica che comprende solo elementi di carattere generale in materia di opere igieniche.
Pertanto consegue che la progettazione delle reti stradali, delle opere di fognatura e relativi impianti di depurazione e degli acquedotti, ad eccezione dei lavori di allacciamento, prolungamento e ampliamento, esula dalla competenza professionale degli architetti.
Si è dell’avviso che, fondamentalmente, tanto la progettazione quanto la direzione lavori delle opere igieniche (acquedotti, fognature, impianti idraulici, di depurazione ecc.) esulano dalla competenza degli architetti non solo per le considerazioni suesposte ma anche perché gli architetti mancano di adeguate cognizioni in materia di geologia e l’espressione opere di edilizia civile di cui all’art. 52 citato non può comprendere quelle relative agli impianti tecnologici
».
Il Collegio ritiene che tali considerazioni siano tanto più pertinenti nel caso di specie in cui si tratta non dell’allacciamento ad un acquedotto preesistente, ma della progettazione di due nuovi acquedotti (tratto da BLT n. 2/2002 - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.03.1989 n. 201).

COMPETENZE PROGETTUALIArchitetti - Competenza professionale - Edilizia civile - Nozione.
Nell’espressione «edilizia civile» di cui all’art. 52, 1° comma, R.D. 1925/2537 non è compresa la progettazione né la direzione dei lavori delle opere igieniche (acquedotti, fognature, impianti di depurazione, ecc.), che sono di competenza esclusiva degli ingegneri; tale conclusione poggia sull'interpretazione non estensiva degli artt. 51 e 52 R.D. 1925/2537 confermata dall’art. 54, U.C..
Rientrano, però, nella competenza degli architetti tutte le opere poste a diretto servizio dei singoli fabbricati, restando invece escluse quelle poste a servizio dell’abitato in genere.

Il Ministero di grazia e giustizia, acquisiti i pareri antitetici del Consiglio nazionale degli architetti e del Consiglio nazionale degli ingegneri, nonché il parere nettamente contrario ad una interpretazione estensiva delle norme relative alle competenze professionali degli architetti (art. 52 primo e secondo comma, R.D. 23.10.1925 n. 2537) espresso dal Consiglio superiore dei lavori pubblici nell’adunanza del 16.12.1983, chiede al Consiglio di Stato di pronunciarsi in ordine all’interpretazione dell’art. 52, primo comma, del R.D. n. 2537 del 1925, ove si stabilisce che «formano oggetto tanto della professione di ingegnere quanto di quella di architetto le opere di edilizia civile, nonché i rilievi geometrici e le operazioni di estimo ad essa relative».
In particolare, in seguito a specifica richiesta di parere formulata dalla Regione Molise, chiede se nell’espressione «edilizia civile» possano essere ricomprese le opere igieniche (acquedotti, fognature, impianti di depurazione, ecc.) e la direzione dei relativi lavori.
Ritiene la Sezione che al quesito, così come proposto dalla Regione Molise, debba darsi, allo stato della legislazione, risposta negativa.
Tale conclusione poggia non tanto sulle considerazioni svolte dal Consiglio superiore dei lavori pubblici in ordine al significato dell’espressione «edilizia civile», che alla Sezione non sembrano definire con sicurezza l’ambito della norma, quanto sul dato testuale, ricavabile dall’art. 54, ultimo comma, del R.D. n. 2537 del 1925, che non lascia alcuno spazio ad interpretazioni estensive.
Quest’ultima disposizione, nel prevedere un ampliamento della competenza professionale degli architetti civili che abbiano conseguito il diploma entro il 31.12.1924, ovvero entro il 31.12.1923, ai sensi del R.D. 31.12.1923 n. 1909, stabilisce espressamente che essi sono autorizzati a svolgere le mansioni indicate nell’art. 51 (di spettanza della professione di ingegnere), ad eccezione «di quanto riguarda le applicazioni industriali e della fisica, nonché i lavori relativi alle vie, ai mezzi di comunicazione e di trasporto alle opere idrauliche».
Ne discende con tutta evidenza, che tali opere, escluse anche dall’eccezione a favore di architetti in possesso di specifici requisiti, non sono di per sé ricomprese nella generale competenza degli architetti, ma sono riservate dalla legge agli ingegneri.
In ordine al quesito proposto dalla Regione Molise non si può, pertanto, giungere a conclusione diversa da quella secondo cui esulano dal campo professionale dell’architetto le opere igieniche consistenti in acquedotti, fognature e relativi impianti di depurazione.
Ciò detto, la Sezione ritiene però di doversi dare carico di altre perplessità, emergenti dalla richiesta di parere, così come formulata dal Ministero di grazia e giustizia.
Oltre al problema degli impianti igienici generali, posti cioè a servizio di un centro abitato, di un insediamento di grandi dimensioni, il Ministero sembra preoccuparsi anche delle opere strettamente connesse con i singoli fabbricati, per le quali esprime il parere che rientrino nella competenza degli architetti progettisti.
La Sezione ritiene di poter condividere tale impostazione, nel senso che rientrano nella competenza degli architetti tutte le opere poste a diretto servizio dei singoli fabbricati, restando escluse, invece, quelle poste a servizio dell’abitato in genere.
Non si può far a meno di notare, comunque -siccome già sottolineato dalla Regione Molise, dagli Ordini professionali e dal Consiglio superiore dei lavori pubblici- che la ripartizione delle competenze professionali tra ingegneri e architetti, in quanto immaginata e disegnata dal legislatore nel 1925, non è più consona alle evoluzioni della tecnica e agli sviluppi delle due professioni in questione, onde si appalesa urgente la necessità dell’aggiornamento delle norme che regolano tutta l’attività professionale tecnica (tratto da BLT n. 2/2002 - Consiglio di Stato, Sez. III, parere 11.12.1984 n. 1538).

AGGIORNAMENTO AL 27.06.2011

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UTILITA'

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Decreto Sviluppo, il Senato darà ora il via definitivo al D.L. 70/2011 con le modifiche apportate dalla Camera (n. 2791 AS).
Approda al Senato per il voto definitivo, probabilmente senza modifiche (non c’è più il tempo), il Decreto Sviluppo.
Il disegno di legge di conversione, trasmesso ieri dalla Camera (era il 4357 AC), ha preso il numero 2791 AS.
Di seguito:
1- Il testo coordinato del D.L. 70/2011, dopo le modifiche apportate dalla Camera dei Deputati col voto di fiducia del 21.06.2011 (link a www.leggioggi.it).

SICUREZZA LAVORO: Guida alla realizzazione dei solai e relativa valutazione dei rischi.
Il Coordinamento delle attività di prevenzione in edilizia della Provincia di Venezia ha pubblicato le Linee Guida per la valutazione del rischio di caduta dall’alto nelle operazioni di montaggio dei solai.
Il documento costituisce una guida per progettisti, coordinatori per la sicurezza, datori di lavoro e tecnici per la corretta esecuzione dei lavori e relativa valutazione dei rischi, con richiami alle normative vigenti.
La guida ha lo scopo di: ... (link a www.acca.it).

QUESITI & PARERI

APPALTI: Procedura negoziata.
Domanda.
In che termini opera la procedura negoziata?
Risposta.
L'art. 56 del D.Lgs. 12-04-2006, n. 163, rubricato "Procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara", stabilisce al comma 1, lettera a), che le stazioni appaltanti possono aggiudicare i contratti pubblici mediante procedura negoziata, previa pubblicazione di un bando di gara, "quando, in esito all'esperimento di una procedura aperta o ristretta o di un dialogo competitivo, tutte le offerte presentate sono irregolari o inammissibili, in ordine a quanto disposto dal presente codice in relazione ai requisiti degli offerenti e delle offerte", aggiungendo, per un verso, che "nella procedura negoziata non possono essere modificate in modo sostanziale le condizioni iniziali del contratto" e, per altro verso, che "le stazioni appaltanti possono omettere la pubblicazione del bando di gara se invitano alla procedura negoziata tutti i concorrenti in possesso dei requisiti di cui agli articoli da 34 a 45 che, nella procedura precedente, hanno presentato offerte rispondenti ai requisiti formali della procedura medesima".
Tale norma in esame ribadisce la regola generale secondo cui l'aggiudicazione di un contratto pubblico deve avvenire attraverso l'espletamento delle procedure ristrette aperte e di quelle ristrette, ai sensi degli artt. 54 e 55 del D.Lgs. 12-04-2006, n. 163, ponendosi rispetto a tale regola generale come deroga, atteso che, secondo quanto stabilito dall'art. 3, comma 40, del citato D.Lgs., le procedure negoziate sono caratterizzate dal fatto che le stazioni appaltanti consultano direttamente gli operatori economici da loro prescelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell'appalto (art. 3, comma 40).
Esse costituiscono quindi lo strumento, espressamente previsto dal Legislatore, per assicurare nel campo dei contratti pubblici l'attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento fissati dall'art. 97, attraverso il contemperamento degli opposti principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità, posti a garanzia della più ampia partecipazione possibile degli operatori economici, con quelli di economicità, efficacia e tempestività propri dell'azione amministrativa (così come indicati dall'art. 2, comma 1, del Codice dei Contratti Pubblici), allorquando sia rimasta senza esito una precedente procedura aperta o ristretta o un dialogo competitivo per la irregolarità o la inammissibilità delle offerte presentate.
Pur dovendo ammettersi l'esistenza di un evidente collegamento tra la procedura aperta o ristretta o il dialogo competitivo, infruttuosi, e la successiva procedura negoziata, nel senso tra l'altro che il ricorso a quest'ultima postula proprio l'effettivo infruttuoso svolgimento di una delle prime, occorre tuttavia precisare che le due procedure sono e restano assolutamente autonome e distinte tra di loro, come si desume agevolmente dal fatto che esse siano disciplinate da separati bandi, di tal che per effetto di detto collegamento non si configura una fattispecie unitaria a formazione progressiva (21.06.2011 - tratto da www.ipsoa.it).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'applicazione dell'art. 9, comma 2-bis, del D.L. 78/2010 secondo la Ragioneria Generale dello Stato (CGIL-FP di Bergamo, nota 21.06.2011).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI - VARI: A. Marco, La vessatorietà delle clausole nel contratto di assicurazione. Cenni normativi e giurisprudenziali (link a www.diritto.it).

LAVORI PUBBLICIC’era una volta…… la separazione tra progettazione ed esecuzione dei lavori pubblici - L’evoluzione normativa dell’istituto dell’appalto di progettazione ed esecuzione (aprile 2011 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALa segnalazione certificata di inizio attività (marzo 2011 - tratto da www.centrostudicni.it).

VARIL’accesso alle professioni di geometra, perito industriale e perito agrario a seguito della pubblicazione del D.P.R. 15.03.2010, n. 88, recante il Regolamento per il riordino degli istituti tecnici (marzo 2011 - tratto da www.centrostudicni.it).

PUBBLICO IMPIEGO - VARILa libera prestazione di servizi in regime occasionale e l’attività professionale in regime di stabilimento a seguito del D.Lgs. 26.03.2010, n. 59 “Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno  (luglio 2010 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Guida alla professione di ingegnere - La valutazione di impatto ambientale (VIA) e la valutazione ambientale strategica (VAS) - Volume VI  (febbraio 2007 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATA: Guida alla professione di ingegnere - Le norme in materia di edilizia - Volume V  (febbraio 2007 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Guida alla professione di ingegnere - Le tariffe professionali e la loro applicazione - Volume IV  (febbraio 2007 - tratto da www.centrostudicni.it).

URBANISTICA: Guida alla professione di ingegnere - Urbanistica e pianificazione territoriale - Volume II:
- 1^ parte;
- 2^ parte (febbraio 2007 - tratto da www.centrostudicni.it).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOValutazione facoltativa negli enti. L'istituzione degli organismi indipendenti non è un obbligo. Dopo il dietrofront della Civit anche per la Corte conti la legge Brunetta non è cogente sul punto.
Organismi indipendenti di valutazione solo facoltativi per gli enti locali. Dopo che anche la Civit ha modificato il suo iniziale avviso, secondo il quale anche comuni e province avevano l'obbligo di istituire gli Oiv, è la Corte dei conti a chiarire definitivamente che l'articolo 14 del dlgs 150/2009 non è operante per gli enti locali.
Il parere 30.05.2011 n. 325 della Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per la Lombardia chiude definitivamente la questione.
La magistratura contabile evidenzia come ai sensi dell'articolo 16 della riforma-Brunetta, risulti di immediata e diretta applicazione all'ordinamento locale solo l'articolo 11, commi 1 e 3; sono, invece, disposizioni di principio alle quali gli ordinamenti di comuni e province debbono essere adeguati, quelle contenute negli articoli 3, 4, 5, comma 2, 7, 9 e 15, comma 1.
Il parere osserva, dunque, che il dlgs 150/2009 non prevede alcun obbligo a carico degli enti locali di applicare, nemmeno per via di principio, l'articolo 14, che disciplina appunto gli Oiv.
Del resto, si deve aggiungere che l'articolo 14 della riforma-Brunetta ai sensi del suo comma 2, «sostituisce i servizi di controllo interno, comunque denominati, di cui al decreto legislativo 30.07.1999, n. 286»: il dlgs 286/1999 ha sempre trovato applicazione in via esclusiva nelle sole amministrazioni statali e mai presso gli enti locali. Non si capisce, dunque, sulla base di quali fondamenti sia emersa la teoria secondo la quale l'articolo 14 del dlgs 150/2009 avrebbe potuto obbligare gli enti locali ad istituire gli Oiv.
La conclusione cui giunge la sezione Lombardia è, allora, inevitabile: «costituisce, pertanto, una facoltà e non un obbligo per gli enti comunali l'adeguamento del proprio ordinamento alla previsione contenuta nell'art. 14 del dlgs 150/2009».
Simmetricamente, allora, gli enti locali possono del tutto legittimamente continuare ad avvalersi dei nuclei di valutazione precedentemente istituiti e nella composizione fissata dai regolamenti interni, per effettuare le operazioni di programmazione e valutazione dell'attività gestionale.
Secondo la sezione Lombardia, comunque, laddove gli enti locali nella loro autonomia decidano di applicare l'articolo 14 del dlgs 150/2009 istituendo l'Oiv, in questo caso dovranno attenersi strettamente ai principi ivi enunciati. In particolare,
non potranno nominare quali componenti dell'Oiv soggetti legati all'organo di indirizzo politico-amministativo, come i segretari comunali e i direttori generali e le nomine dei componenti devono essere conferite “senza nuovi o maggiori oneri” per la finanza dell’ente comunale.
Il parere della sezione, dunque, insiste, come la Civit, nel considerare il segretario comunale come soggetto non neutro e indipendente. Una conclusione oggettivamente strana: se la si porta alle sue estreme conseguenze, allora i segretari non potrebbero mai risultare destinatari di funzioni gestionali e, comunque, di tutte quelle competenze che si basano sull'applicazione del principio di separazione tra competenze degli organi di governo e quelle degli organi gestionali (articolo ItaliaOggi del 24.06.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Comune di Montopoli in Val d'Arno (PI) - Richiesta di parere con cui l’ente chiede se sia legittima la destinazione al pagamento di spese correnti delle economie derivanti dalla rinegoziazione di una serie di mutui con rideterminazione in aumento della rispettiva scadenza, che generano una minore spesa per rimborso prestiti, o se diversamente sussista l’obbligo del Comune di impiegare le risorse esclusivamente per investimenti.
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Nel valutare l'opportunità di una operazione di rinegoziazione di mutuo, occorre considerare anche il rischio che si assume con l'indebitamento dell'ente.
Sussiste la necessità che ogni operazione di rinegoziazione risponda ad un principio di convenienza economica, di talché il vantaggio da considerare, ai fini della scelta in merito all’opportunità di effettuare una rinegoziazione, non può essere solo quello meramente finanziario dato dalla differenza fra l’attualizzazione dei flussi dei pagamenti della passività originaria e quelli della nuova passività, ma deve consistere in una valutazione finanziaria ed economica della complessiva situazione dell’ente, non solo in relazione ai dati finanziari attualizzati dell’operazione, ma anche ai rischi che l’ente locale assume con la nuova operazione di indebitamento, nonché all’eventuale allungamento del periodo del debito che vincola l’attività futura dell’Amministrazione, il che porta ad evidenziare che la diminuzione delle rate di ammortamento, non può essere considerato un “risparmio” in conseguenza del quale procedere automaticamente ad incrementare la spesa corrente (Lombardia deliberazione n. 1027 dell'01.12.2010, Liguria deliberazione n. 77 del 17.09.2008), ma va altresì valutata la conseguenza principale di una rinegoziazione: l’indebitamento vincola i bilanci futuri dell’ente, oltre alle possibili ed eventuali elusioni del precetto costituzionale di cui all’art. 119 della Costituzione che possano nascondersi in un’operazione del tipo di cui trattasi.
L’operazione di rinegoziazione prospettata dall’ente non comporta alcuna riduzione del debito in questione: difatti se da un lato nell’immediato provoca minori oneri, dall’altro prolunga il periodo di ammortamento del prestito, ponendo di fatto a carico delle generazioni future oneri per opere in conto capitale che potrebbero aver già esaurito il beneficio derivante dagli interventi d’investimento realizzati.
Proprio in riferimento all’utilizzazione delle entrate correnti liberate dalla rinegoziazione dei mutui con la cassa depositi e prestiti, l’Osservatorio sulla Finanza e contabilità degli enti locali ebbe a suo tempo a precisare che “esiste un orientamento generale di leggi di settore tendenti a contenere, per finalità di politica economica generale, l’aumento delle spese correnti dello Stato e di tutti gli altri enti pubblici. Nell’equilibrio economico finanziario complessivo degli enti locali l’operazione di rinegoziazione espone l’ente locale ad un debito prolungato nel tempo che ha come risultato pratico la liberazione di risorse in una parte del periodo di ammortamento del debito originario” (parere approvato nella seduta del 06.11.2003).
Ne consegue, in definitiva, che, anche al di là della prescrizione normativa, l’eventuale incremento della spesa corrente finanziato con le economie derivanti dalla rinegoziazione del debito, costituirebbe un comportamento non avveduto da parte degli amministratori, oltre che una soluzione concreta economicamente poco conveniente sul piano generale, con la conseguente opportunità che le economie derivanti dalla rinegoziazione del debito siano destinate a spesa in conto capitale (Corte dei Conti, Sez. controllo Toscana, parere 06.04.2011 n. 27).

NEWS

ENTI LOCALI: Sindaci contro alleanze obbligatorie. I comuni chiedono di stoppare il Dpcm sulle gestioni associate.
Fermare il Dpcm sulle gestioni associate obbligatorie per i comuni fino a 5mila abitanti, e riaprire una discussione con i diretti interessati sulle modalità per attuare l'obbligo previsto dalla manovra estiva 2010.
E' la relazione dei sindaci al decreto che vorrebbe avviare associazioni "progressive" tra i piccoli Comuni, traducendo in pratica l'obbligo di unire le forze per gestire le funzioni fondamentali introdotto dal Dl 78/2010. ... (articolo Il Sole 24 Ore del 24.06.2011 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOFondi decentrati, conta il 2010. Le risorse per il 2011-2013 non devono superare il tetto. I chiarimenti del Mef. Il tetto al trattamento individuale non comprende il salario accessorio.
I fondi per le risorse decentrate del 2011/2012 e 2013 non devono superare quello del 2010 nel loro complesso e nella parte stabile; il taglio deve essere effettuato per le riduzioni rispetto all'anno 2010. Il tetto al trattamento economico individuale non comprende il salario accessorio legato alle prestazioni svolte; la spesa per il personale cessato su cui calcolare il tetto per le nuove assunzioni comprende anche la riduzione del fondo; i buoni pasto non possono in questo triennio aumentare di importo e le amministrazioni che hanno corrisposto compensi finanziati con l'incremento del fondo consentito agli enti virtuosi dopo il mese di maggio dello scorso anno devono recuperare tali somme.
Sono queste, oltre a quelle sulle progressioni economiche e di carriera di cui all'articolo pubblicato su ItaliaOggi di venerdì 17 giugno, le principali indicazioni che si ricavano dalla circolare 15.04.2011 n. 12 del ministro dell'economia e delle finanze «Applicazione dell'articolo 9 dl 31.05.2010 n. 78, convertito con modificazioni, nella legge 30.07.2010 n. 122, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica».
Gli enti locali, come le regioni e le aziende del servizio sanitario nazionale, non risultano tra le destinatarie della circolare. Ma, questo è un dato meramente formale, in quanto le disposizioni commentate si applicano a tutte le amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della p.a. come individuate dall'Istat, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, legge n. 196/2009, ambito in cui sono inclusi comuni, province, altri enti locali, regioni ed enti del servizio sanitario nazionale.
Il comma 2-bis dell'articolo 9 del dl n. 78/2010 stabilisce che il fondo per la contrattazione decentrata degli anni 2011, 2012 e 2013 non dovrà superare quello dell'anno 2010. Tale disposizione si riferisce anche al fondo per contrattazione decentrata dei dirigenti. Non viene fornito dalla circolare alcun chiarimento sulla estensione di questo tetto anche al fondo per il lavoro straordinario del personale. Per il ministero di via XX Settembre occorre riferirsi ai fondi costituiti sulla base «della normativa contrattuale vigente»; in caso di superamento del «valore del fondo determinato per l'anno 2010, esso va ricondotto a tale importo».
La circolare, modificando l'impostazione data da alcune sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, dice espressamente che «le singole voci retributive variabili possono incrementarsi o diminuire». Tale possibilità non vale per la parte stabile: la circolare richiama espressamente il tetto non valicabile dell'anno 2010. Ricordiamo che la circolare della Ragioneria generale dello stato n. 40/2010 aveva espressamente chiarito che le risorse del fondo «non potranno in ogni caso prevedere incrementi derivanti da disponibilità finanziarie a qualsiasi titolo determinate, ivi compresa la Ria del personale cessato».
È da considerare preclusa la possibilità di disporre aumenti ex articolo 15, commi 2 e 5 (per quest'ultimo sia per la parte variabile che per quella stabile) rispetto a quanto stanziato allo stesso titolo nell'anno 2010. La circolare non dice nulla sulle voci che sono alimentate da risorse previste da specifiche disposizioni di legge, né sulla corresponsione dei compensi Istat per il censimento.
La riduzione del fondo va operata in caso di diminuzione del numero dei dipendenti in servizio nell'anno 2010. La circolare suggerisce di fare ricorso alla media aritmetica tra il personale in servizio al 1° gennaio e quello in servizio al 31 dicembre, sia del 2010 che dell'anno che con esso si deve confrontare. Il taglio deve essere effettuato in proporzione alla incidenza media di un dipendente sul fondo stesso, quindi prescindendo da quanto in effettivo godimento ed escludendo «le risorse derivanti da incarichi aggiuntivi e dai servizi resi dal personale in conto terzi».
Da sottolineare infine che, con una tesi assai discutibile, si sostiene che le progressioni economiche disposte nel triennio 2011/2013 produrranno effetti economici solamente dal 2014 e fino ad allora le risorse sono rese indisponibili, cioè devono essere incamerate dal bilancio (articolo ItaliaOggi del 24.06.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Sull'accesso dei consiglieri al protocollo decide il regolamento.
I consiglieri comunali possono richiedere la trasmissione, con cadenza mensile fino a scadenza del relativo mandato, di copia dell'intero registro di protocollo generale in entrata e in uscita dell'ente?

L'esercizio del diritto di accesso è previsto dall'articolo 43, comma 2, del dlgs 267/2000, definito dal Consiglio di stato (sent. n. 4471/2005) «diritto soggettivo pubblico funzionalizzato», finalizzato al controllo politico-amministrativo sull'ente nell'interesse della collettività e, come tale, diverso dal diritto di accesso, di cui agli artt. 22 e ss. della legge n. 241/1990, riconosciuto ai soggetti interessati allo scopo di predisporre la tutela di posizioni soggettive lese.
In merito al rilascio periodico del riepilogo del protocollo generale dell'ente, comprensivo della posta in arrivo e in uscita, la giurisprudenza, con orientamento costante, ha ritenuto non conforme a legge il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del sindaco (cfr. Tar Campania, Salerno, n. 26/2005), precisando (Tar Lombardia, Brescia, n. 362/2005) che: «Le norme disciplinanti l'accesso dei consiglieri comunali non pongono limiti quantitativi agli atti cui si chieda di accedere, né presuppongono che, di tali atti, i richiedenti conoscano già il contenuto, sia pure approssimativamente, ben potendo l'intervento connesso al mandato ravvisarsi opportuno anche a seguito dell'acquisita conoscenza di atti precedentemente del tutto ignorati». Inoltre ha affermato (Tar Sardegna, n. 29/2007) che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del dlgs n. 267/2000.
Infine ha specificato che al registro di protocollo generale dell'amministrazione locale è riconosciuta la piena riconducibilità alle categorie di documenti suscettibili di accesso, in quanto idoneo a fornire notizie e informazioni utili all'espletamento del mandato dei consiglieri comunali non essendo ammissibile imporre loro l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare, trattandosi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso (Tar Lombardia, Brescia, n. 163/2004; Tar Emilia Romagna Sez. Parma, n. 28/2006; Tar Calabria - Cz - n. 1749/2007).
Tuttavia, il Tar Sardegna (sentenza n. 32/2008) ha puntualizzato che il diritto di accesso si concretizza nel prendere visione dei soli oggetti del protocollo generale che rientrano nella sfera di interesse del consigliere richiedente e che sono utili per l'espletamento del suo mandato ed ha evidenziato che «ben appare giustificato il diniego opposto dall'amministrazione» nel caso in cui si sia «in presenza di continue richieste di accesso di portata tale da determinare notevoli difficoltà organizzative» per l'ente.
Anche il Tar Puglia (sent. n. 115/2011) ha affermato che «gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengono, per un verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali e, per altro verso, che non debba sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri debba essere attentamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso».
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha richiamato il consolidato principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di stato, sez. V. n. 929/2007) secondo cui il diritto del consigliere di accesso agli atti «non può subire compressioni per pretese esigenze di natura burocratica dell'ente con l'unico limite di poter esaudire la richiesta, qualora sia di una certa gravosità, secondo i tempi necessari per non determinare interruzione delle altre attività di tipo corrente», limite della proporzionalità e ragionevolezza delle richieste, contemperando, quindi, il diritto di accesso con l'esigenza di non intralciare lo svolgimento dell'attività amministrativa ed il regolare funzionamento degli uffici comunali, comportando ad essi il minor aggravio possibile, sia dal punto di vista organizzativo che economico (Corte dei conti, sez. Liguria n. 1/2004).
In tal senso, sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative (parere del 12.12.2002) ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale» (cfr. parere 29.11.2009). Anche la giurisprudenza ha ritenuto legittime norme regolamentari contenenti accorgimenti finalizzati a ridurre i costi.
In merito, il Consiglio di stato (sez. V, sent. n. 6742/2007) ha condiviso l'avviso del ministero dell'interno in merito alla possibile riproduzione di planimetrie su cd-rom, qualora il consigliere chieda l'estrazione di copie di atti la cui fotoriproduzione comporti costi elevati. Pertanto, è fatto salvo il diritto del consigliere di accedere ai registri di protocollo finalizzato all'individuazione degli atti che potrebbero interessare per l'espletamento del proprio mandato. L'ente locale, nell'ambito della propria autonomia, può dotarsi di una specifica normativa regolamentare per disciplinare le modalità di esercizio del diritto al fine di renderle compatibili con il regolare svolgimento dell'attività degli uffici.
In tal senso, l'istanza di accesso ad atti non ancora formati, che impegnino l'amministrazione anche per il futuro, potrebbe concretizzare una fattispecie vietata qualora il regolamento comunale, nello specificare le modalità e le forme di esercizio di tali diritti in attuazione delle norme statali e statutarie, escludesse dall'accesso e dal rilascio di copie «le richieste generiche che non permettono l'individuazione del provvedimento o le richieste generalizzate relative ad intere pratiche o a categorie di provvedimenti» (articolo ItaliaOggi del 24.06.2011).

VARILe disposizioni a favore dei conducenti più corretti. Bonus sulla patente. Il 1° luglio due punti in regalo.
Scatta il 1° luglio l'abbuono di due punti sulla patente di guida dei conducenti già in possesso di almeno venti punti, che negli ultimi due anni non hanno violato norme che prevedono decurtazioni.
È questo l'effetto della disposizione contenuta nell'art. 126-bis, comma 5, del codice della strada.
L'istituto della patente a punti è entrato in vigore il 1° luglio 2003 e nel corso degli anni ha subito importanti aggiustamenti, con l'estensione anche ad altri titoli che abilitano alla guida dei veicoli, ovvero la carta di qualificazione del conducente, il Cap tipo KB-KD e il certificato di idoneità alla guida di ciclomotori. Ma alcuni meccanismi fondamentali si sono conservati in questi primi otto anni e fra questi c'è appunto la regola della ricarica automatica di due punti ogni due anni.
Dunque, dal 1° luglio 2011 i conducenti ancora indenni da decurtazioni dalla data del 1° luglio 2003 aumenteranno il plafond a ventotto punti, mentre chi è al disotto della dotazione iniziale di venti punti ritornerà automaticamente a tale punteggio se parimenti nell'ultimo biennio non ha subito decurtazioni. Da sottolineare che, per effetto della riforma stradale prevista dalle legge n. 120 del 29.07.2010, dal prossimo 13 agosto scatterà anche il primo abbuono di un punto per i neopatentati che nel primo anno non hanno commesso violazioni da cui deriva la diminuzione di punteggio sulla licenza di guida.
Attendono in parte la piena attuazione le altre disposizioni introdotte dalla riforma stradale dello scorso anno, ovvero l'obbligo di sostenere la prova d'esame al termine del corso per recuperare i punti, la possibilità di acquisire punti frequentando un corso di guida sicurezza avanzata e l'obbligo di sottoporsi a un nuovo esame di idoneità tecnica non solo per chi subisce l'azzeramento dei punti, ma anche per chi, dal momento della notifica della prima violazione che ha provocato la perdita di almeno cinque punti, commetta, nei successivi dodici mesi, altre due violazioni non contestuali, ciascuna delle quali comporti la decurtazione di almeno cinque punti.
Per conoscere in tempo reale la dotazione attuale di punti occorre registrarsi sul sito www.portaledellautomobilista.it oppure si può telefonare al numero 848782782, al costo di una telefonata urbana, e digitare i dati di nascita e della patente seguendo le istruzioni della guida vocale (articolo ItaliaOggi del 24.06.2011).

ENTI LOCALINegli enti locali alleanze graduali. Al via dall'01.01.2012 la gestione associata per almeno due funzioni essenziali. Per i municipi gestione associata in tre tappe. All'esame della conferenza unificata il Dpcm sulla razionalizzazione per i piccoli comuni.
IL PARADOSSO - Il limite minimo di abitanti legato al municipio minore permette di costruire anche mini-aggregazioni con pochissimi residenti.
Almeno due «funzioni fondamentali» associate dal i gennaio prossimo, quattro dal gennaio 2013 e tutte e sei dal 2014.

È il calendario delle gestioni associate obbligatorie previste per i Comuni fino a 5mila abitanti dalla manovra salva-deficit dell'anno scorso (articolo 14, comma 28, del Dl 78/2010). Il tema, dopo aver alimentato accese discussioni estive nei quasi 5.700 Comuni (il 70% del totale) interessati dall'obbligo di unirsi, era poi finito in sordina per la mancanza del decreto attuativo.
Ora il Dpcm rispunta, è nell'ordine del giorno della Conferenza unificata in programma oggi (sempre che le tensioni fra Governo e Regioni non facciano slittare tutto il sistema delle conferenze alla prossima settimana), e soprattutto prevede per gli enti locali un calendario stringente e più di un rebus applicativo.
Le «funzioni fondamentali» da associare, nell'eterna mancanza del Codice delle autonomie, sono le sei elencate dalla legge delega sul federalismo fiscale (sono le stesse oggetto dei questionari sui fabbisogni standard, e sono individuate dall'articolo 21, comma 3, della legge 42/2009): amministrazione generale, polizia locale, istruzione pubblica, viabilità e trasporti, territorio e ambiente (tranne l'edilizia residenziale pubblica) e settore sociale.
L'obiettivo dichiarato di "razionalizzare" le piccole amministrazioni creando aggregazioni di almeno 5mila abitanti, prima di tutto, sembra allontanarsi da subito, perché lo stesso decreto attuativo contiene in sé il meccanismo per aggirarlo. Le aggregazioni, infatti, secondo la bozza dovranno raggiungere un livello demografico pari almeno al quadruplo degli abitanti del Comune più piccolo fra quelli associati. Tradotto in pratica: se il Comune di Morterone (35 abitanti), si associa con i ... (articolo Il Sole 24 Ore del 23.06.2011 - link a www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASISTRI, proposta nuova proroga all'01.06.2012.
Nel maxi-emendamento al D.L. sviluppo su cui il Governo ha richiesto ed ottenuto la fiducia nella serata del 21.06.2011 ce' anche una proposta di proroga dell'avvio della piena operatività del SISTRI per le sole microimprese (produttori di rifiuti pericolosi che hanno fino a 10 dipendenti) ad una data non antecedente all'01.06.2012. Il testo e' ora passato all'esame del Senato.
La nuova proroga in materia di Sistri.
Come è noto, l’art. 12 del D.M. 07.12.2009 e s.m.i. ha previsto un periodo transitorio “a doppio binario” degli adempimenti ambientali che consentisse, relativamente ad una prima fase di applicazione del SISTRI, la convivenza sia del sistema cartaceo sia del nuovo sistema informatico. La data di conclusione di tale fase transitoria è stata più volte prorogata e di recente il D.M. 26.05.2011 ha individuato, in luogo di un’unica data, delle differenti scadenze per la definitiva entrata in vigore del nuovo sistema, a seconda delle categorie degli operatori.
Da più parti si continuava a chiedere una proroga più lunga del SISTRI, di una anno almeno, per tutte le categorie di aziende e tali istanze sono confluite nel DDL di “Conversione in legge del decreto-legge 13.05.2011, n. 70, concernente Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia” (A.C. 4357), il c.d. “decreto sviluppo” sul quale il Governo ha incassato la sua quarantaquattresima fiducia con 317 sì, 293 no e 2 astensioni.
Più precisamente, l’approvazione, senza subemendamenti e articoli aggiuntivi, ha avuto ad oggetto l’emendamento Dis. 1.1, interamente sostitutivo dell’articolo unico del ddl di conversione del D.L “sviluppo”, nel quale figura l’unica proposta emendativa relativa al SISTRI “sopravvissuta” all’esame delle Commissioni parlamentari la quale prevede una nuova proroga del pieno avvio del nuovo Sistema per la sola categoria delle microimprese.
La proroga del sistri per le microimprese.
La proposta emendativa sul SISTRI contenuta nel maxiemendamento è stata presentata dall’On. Maurizio Fugatti (Lega) e dall’On. Giuseppe Marinello (Pdl). Il testo, in realtà, è la riformulazione di un precedente emendamento che prevedeva una proroga del SISTRI per tutte le aziende, che non era passato così come non è passata la proposta di modifica sui termini di pagamento che è stata giudicata inammissibile.
In particolare, la proposta (già emendamento 6.147) aggiunge al comma 2 dell’art. 6 del D.L. n. 70/2011 –per quanto qui ci interessa– la nuova lettera f-octies) la quale modifica esclusivamente il termine previsto dall'art. 12, comma 5 del D.M. 26.05.2011 riferito ai soli produttori di rifiuti pericolosi che hanno fino a 10 dipendenti.
Orbene, si prevede che il termine del 02.01.2012 previsto per l’avvio del SISTRI per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano fino a 10 dipendenti sia prorogato ad una data non antecedente all'01.06.2012, nuovo termine “da individuare entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nei modi di cui all'articolo 28, comma 2, del regolamento di cui al decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare 18.02.201 1, n. 52”.
La ratio è quella di venire incontro alle esigenze dei piccoli operatori produttori di rifiuti pericolosi che secondo i relatori dell’emendamento hanno incontrato, rispetto agli altri operatori, maggiori difficoltà di adeguamento tecnico ed organizzativo al SISTRI.
Personalmente, rammentiamo che la recente proroga “a tappe” concessa col D.M. 26.05.2011 è stata la conseguenza dei numerosi malfunzionamenti che sono stati riscontrati nel Sistri, in particolare, grazie all’iniziativa del c.d. “click-day”, e non delle difficoltà organizzative incontrate dagli operatori, che a dispetto delle dichiarazioni ufficiali del Ministero si stanno dando da fare per adeguarsi al SISTRI, tra l’altro anche provvedendo in molti casi ad aderirvi previo versamento dei contributi all’uopo richiesti (contributi versati già nel 2010 per un Sistema che di fatto non è ancora operativo). Se, dunque, il problema maggiore sono i malfunzionamenti del SISTRI, essi sono tali sia per i piccoli che per i grandi operatori e di conseguenza, sinceramente, di una proroga di questo genere stentiamo a comprendere la reale utilità.
Ad ogni modo, come detto, il provvedimento è ora stato trasmesso al Senato e c’è tempo sino al prossimo 12.07.2012 per la sua definitiva approvazione (23.06.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

GIURISPRUDENZA

ATTI AMMINISTRATIVII pareri legali sottratti all'accesso sono quelli che attengono alle tesi difensive, relative ad un procedimento giurisdizionale (cioè quando i pareri legali vengono redatti dopo che è già iniziata una controversia giurisdizionale) o ad una fase precontenziosa e/o ad una lite potenziale che definiscono e/o delineano la relativa strategia difensiva e/o la futura condotta processuale più conveniente per l'Amministrazione, da assumere nella controversia giurisdizionale già instaurata o nella futura, eventuale e probabile lite giudiziaria, che il soggetto leso attiverà.
Devono viceversa ritenersi accessibili i pareri legali che, anche per l'effetto di un richiamo esplicito nel provvedimento finale, rappresentano un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo in corso e, una volta acquisiti dall'Amministrazione, vengono ad innestarsi nell'iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali e perciò costituiscono uno degli elementi che condizionano la scelta dell'Amministrazione.
Ritiene la Sezione che della disposizione (art. 13, comma 5, lettera “c”, del d.lgs. n. 163/2006) debba essere data un’interpretazione restrittiva perché relativa a norma eccezionale, in quanto derogatoria rispetto alle ordinarie regole in materia di accesso, e quindi è da intendere come riferibile alla sola fase di stipulazione dei contratti pubblici di cui all’art. 12 del d. lgs. n. 163/2006 e non a tutta quella anteriore.
Detto art. 13, comma 5, lettera “c”, del d.lgs. n. 163/2006 non è quindi applicabile al caso di specie, in cui l’accesso è finalizzato alla predisposizione di difese nel giudizio relativo alla impugnazione dei provvedimenti n. 88 del 2010 (di annullamento in autotutela della aggiudicazione dell’appalto alla appellante) e n. 95 del 2010 (di sostituzione del punto 1 di detto provvedimento), relativi alla fase di scelta del contraente,
In secondo luogo il Collegio ritiene che la norma sopra indicata non sia applicabile comunque alla domanda di accesso per cui è causa, atteso che il principio della riservatezza della consulenza legale si manifesta anche nelle ipotesi in cui la richiesta del parere interviene in una fase intermedia, successiva alla definizione del rapporto amministrativo all'esito del procedimento, ma precedente l'instaurazione di un giudizio o l'avvio dell'eventuale procedimento precontenzioso, purché il ricorso alla consulenza legale persegua lo scopo -che non coincide con quello sotteso alla richiesta del parere legale de quo- di consentire all'Amministrazione di articolare le proprie strategie difensive, in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto, può considerarsi quanto meno potenziale.
Poiché detta regola risponde al principio di salvaguardia della strategia processuale della parte che non è tenuta a rivelare ad alcun soggetto e, tanto meno, al proprio contraddittore, attuale o potenziale gli argomenti in base ai quali intende confutare le pretese avversarie, deve invero ritenersi che i pareri legali sottratti all'accesso siano quelli che attengono alle tesi difensive, relative ad un procedimento giurisdizionale (cioè quando i pareri legali vengono redatti dopo che è già iniziata una controversia giurisdizionale) o ad una fase precontenziosa e/o ad una lite potenziale che definiscono e/o delineano la relativa strategia difensiva e/o la futura condotta processuale più conveniente per l'Amministrazione, da assumere nella controversia giurisdizionale già instaurata o nella futura, eventuale e probabile lite giudiziaria, che il soggetto leso attiverà.
Devono viceversa ritenersi accessibili i pareri legali che, anche per l'effetto di un richiamo esplicito nel provvedimento finale, rappresentano un passaggio procedimentale istruttorio di un procedimento amministrativo in corso e, una volta acquisiti dall'Amministrazione, vengono ad innestarsi nell'iter procedimentale, assumendo la configurazione di atti endoprocedimentali e perciò costituiscono uno degli elementi che condizionano la scelta dell'Amministrazione (Consiglio Stato, Sezione VI, 30.09.2010, n. 7237) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.06.2011 n. 3812 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIn merito alla necessità di una compiuta verbalizzazione delle cautele da osservare ai fini della conservazione dei plichi contenenti le offerte, la commissione deve adottare le cautele idonee a garantire la segretezza degli atti di gara e a prevenire rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e dando atto a verbale della integrità dei plichi.
Dal verbale deve risultare il nominativo di colui cui siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e univocità– deve risultare l’ufficio cui sono consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati (con individuazione immediata del suo responsabile).
L'integrità dei plichi contenenti le offerte delle imprese partecipanti è, al contempo, la condizione di segretezza delle stesse e la garanzia del pieno dispiegarsi del principio della par condicio di tutti i concorrenti, per l’effettivo rispetto dei principi enunciati dall'art. 97 Cost., di buon andamento e di imparzialità cui deve conformarsi l'azione amministrativa.
La verbalizzazione è legittima se, oltre a indicare le cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono integri.

La Sezione -sulla questione relativa alla necessità di una compiuta verbalizzazione delle cautele da osservare ai fini della conservazione dei plichi contenenti le offerte- ritiene di aderire all’indirizzo secondo cui la commissione deve adottare le cautele idonee a garantire la segretezza degli atti di gara e a prevenire rischi di manomissioni, indicando nel verbale tali cautele e dando atto a verbale della integrità dei plichi (Cons. Stato, sez. V, 12.12.2009 n. 7804; Cons. Stato, sez. V, 03.02.2000 n. 661).
Più nel dettaglio, dal verbale deve risultare il nominativo di colui cui siano materialmente consegnati i plichi, che ne assume le conseguenti responsabilità, ovvero –con chiarezza e univocità– deve risultare l’ufficio cui sono consegnati e all’interno del quale essi vanno conservati (con individuazione immediata del suo responsabile): in qualsiasi momento, ogni autorità giurisdizionale o amministrativa (a seconda dei casi e delle relative funzioni, anche di vigilanza) dalla lettura dei verbali di consegna deve poter agevolmente accertare quali siano stati i passaggi dei plichi, ove essi siano stati collocati nel corso del tempo, chi abbia posto mano su di essi e ogni altra circostanza attinente alla loro integrità e conservazione.
Si tratta di una regola che, pur in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, è agevolmente desumibile da basilari criteri di legalità e trasparenza, nonché dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l'individuazione del contraente cui assegnare l'appalto: non v’è dubbio, infatti, che l'integrità dei plichi contenenti le offerte delle imprese partecipanti è al contempo la condizione di segretezza delle stesse e la garanzia del pieno dispiegarsi del principio della par condicio di tutti i concorrenti, per l’effettivo rispetto dei principi enunciati dall'art. 97 Cost., di buon andamento e di imparzialità cui deve conformarsi l'azione amministrativa (Cons. Stato, sez. V, 20.03.2008, n. 1219; Cons. Stato, sez. V, 28.03.2008, n. 1296; Cons. Stato, sez. V, 06.03.2006, n. 1068, Cons. Stato, sez. IV, 18.03.2002, n. 1612).
Poiché le cautele sono idonee solo se assicurano la conservazione dei plichi in luogo chiuso, non accessibile al pubblico, e con individuazione di un soggetto o ufficio responsabile dell’inaccessibilità del luogo a terzi, anche se non occorrono ‘formule sacramentali’, la verbalizzazione è legittima se, oltre a indicare le cautele adottate, indica, sotto la responsabilità dei verbalizzanti, che le cautele sono state efficaci in quanto i plichi sono integri (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.06.2011 n. 3803 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Autovelox, segnalazione necessaria anche se c’è l’agente accertatore.
L’autovelox, infatti, va sempre segnalato in anticipo. Anche se si tratta di un rilevamento non automatico ma fatto direttamente dagli agenti della stradale con un dispositivo tele laser.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 22.06.2011 n. 13727.
Per i giudici di Piazza Cavour, infatti, <<l’obbligo della preventiva segnalazione dell’apparecchio di rilevamento della velocità previsto, in un primo momento […] per i soli dispositivi di controllo remoto senza la presenza diretta dell’operatore di polizia>> è stato <<successivamente esteso (con il Dl 117/2007, ndr) a tutti i tipi e modalità di controllo effettuato con apparecchi fissi o mobili installati sulla sede stradale, nei quali, perciò, si ricomprendono ora anche gli apparecchi tele laser gestiti direttamente e nelle disponibilità degli organi di polizia>>.
Attenzione alle date, però, perché l’estensione anche alle postazioni gestite dagli agenti è entrata in vigore soltanto dal 04.08.2007 (commento tratto da www.diritto24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATATELEFONIA/ Una sentenza del Consiglio di stato. Mega-antenna ko.
Autorizzazione data. E ritirata.
Il Comune dice il sospirato “sì” all'installazione della stazione radio base per la telefonia cellulare. Ma poi si accorge che l'impianto è in contrasto con le norme urbanistiche e annulla l'autorizzazione in via di autotutela. E in seguito, dopo una lunga controversia giudiziaria, decreta la demolizione della mega-antenna, vale a dire la sorte che tocca (o dovrebbe toccare) a tutte le strutture abusive.
Possibile? Sì, l'amministrazione ne ha facoltà.

È quanto emerge dalla sentenza 22.06.2011 n. 3783 della IV sezione del Consiglio di Stato.
Zero tituli. Accolto il ricorso di un Comune veneto. Sbaglia il Tar, sia pure nell'ambito di un'intricata vicenda: l'unificazione procedimentale e il conseguente assorbimento dei profili edilizi nell'unico titolo autoritativo ex articolo 87 del codice delle comunicazioni non possono comunque comportare la variazione della natura giuridica del medesimo titolo edilizio assorbito. Né possono implicare assolutamente il venir meno dei poteri di governo del territorio da parte del Comune.
In base alla legge 36/2001, infatti, gli enti locali possono adottare misure «programmatorie integrative» per localizzare gli impianti, in modo tale da minimizzare l'esposizione dei cittadini residenti ai campi elettromagnetici.
Gli obiettivi sono disciplinare al meglio l'utilizzo del territorio e combattere l'elettrosmog. L'amministrazione, tuttavia, non si può spingere fino a impedire -o a rendere eccessivamente onerosa- la possibilità di installare le stazioni radio base di telefonia sul territorio comunale.
Il titolo abilitativo per la realizzazione della mega-antenna si costituisce in forza di una Dia oppure di un silenzio-assenso, nel senso che le istanze e denunce di inizio di attività si intendono accolte se, entro novanta giorni dalla relativa domanda, non sia stato comunicato un provvedimento di diniego in conformità ai principi di cui alla legge 241/1990.
Via alle ruspe. L'impianto, nel caso di specie, è stato installato in base ad un'autorizzazione annullata in autotutela in quanto contrastante con la programmazione comunale: risulta dunque privo di un titolo giuridico valido.
L'amministrazione preposta alla vigilanza, quindi, deve adottare i poteri sanzionatori e ripristinatori di cui al testo unico dell'edilizia (Dpr 380/2001), proprio perché in casi come questo manca del tutto la verifica dei profili di conformità urbanistica (articolo ItaliaOggi del 25.06.2011).

APPALTI: Sul carattere non interdittivo dell'informativa antimafia c.d. "atipica".
La c.d. informativa "atipica", diversamente dalla quella tipica, non ha natura di per sé interdittiva, ma consente l'attivazione degli ordinari strumenti di discrezionalità nel valutare l'avvio od il prosieguo dei rapporti contrattuali, alla luce dell'idoneità morale del concorrente di assumere la posizione di contraente con la P.A. Pertanto, essa non necessita di un grado di dimostrazione probatoria analogo a quello richiesto per dimostrare l'appartenenza di un soggetto ad associazioni malavitose, e si basa su elementi, anche indiziari, ottenuti con l'ausilio di particolari indagini che possono risalire anche ad eventi datati.
L'informativa atipica consente alla stazione appaltante, che non ha il potere né l'onere di verificare la portata ed i presupposti dell'informativa antimafia, di adottare un provvedimento di diniego di stipula del contratto o di prosecuzione del rapporto, che risulterà sufficientemente motivato anche per relationem, essendole riservato un margine ristretto di valutazione discrezionale; diversamente, il dovere di ampia motivazione sussiste solo nel caso in cui si opti per la prosecuzione del rapporto per necessità della prestazione, non altrimenti assicurabile (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 21.06.2011 n. 518 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: La partecipazione di un RTI alla procedura indetta per l'affidamento di appalti pubblici è subordinata alla condizione che, la mandataria e le altre imprese associate, siano in possesso dei requisiti di qualificazione per la rispettiva quota.
In base a quanto disposto dall'art. 37, c. 13, d.lg. n. 163 del 2006, deve ritenersi sussistente un principio di "stretta consequenzialità" fra quota di partecipazione della singola impresa al raggruppamento temporaneo, percentuale di esecuzione dei lavori in appalto e qualificazione dell'impresa.
Pertanto, la partecipazione alla procedura indetta per l'affidamento della realizzazione di opere pubbliche delle associazioni temporanee è comunque subordinata alla condizione che la mandataria e le altre imprese associate siano in possesso dei requisiti di qualificazione per la rispettiva quota percentuale. Proprio al fine di impedire la verificazione di situazioni distorsive degli ordinati assetti concorrenziali, si palesa, infatti, imprescindibile l'esigenza di non trasformare la riunione di imprese in uno strumento elusivo delle regole impositive di un livello minimo di capacità per la partecipazione agli appalti.
Conseguentemente, nel caso di specie, l'impresa doveva essere esclusa dalla gara in quanto sprovvista della qualificazione necessaria richiesta per la partecipazione, a norma degli artt. 37 e dell'art. 40 del d.lgs. n. 163/2006 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.06.2011 n. 3698 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente da una procedura d'appalto per mancata sottoscrizione da parte del legale rappresentante della dichiarazione relativa agli specifici requisiti di partecipazione.
E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara, adottato da una stazione appaltante nei confronti di una ditta che abbia reso la dichiarazione relativa al possesso dei requisiti di partecipazione, priva della sottoscrizione del legale rappresentante.
L'avviso pubblico indetto dalla stazione appaltante, nel prevedere, tra i requisiti richiesti per la partecipazione alla procedura, un determinato fatturato e la realizzazione, nel triennio precedente, di almeno due servizi analoghi, dispone che il possesso dei requisiti prescritti sia attestato, a pena di esclusione, mediante autocertificazione resa ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 dal legale rappresentante dell'impresa; le autocertificazioni di cui al predetto decreto necessitano, per la loro giuridica esistenza ed efficacia, della sottoscrizione del soggetto dichiarante, che costituisce fondamentale elemento della fattispecie normativa diretta a comprovare l'imprescindibile nesso di imputabilità soggettiva della dichiarazione ad una determinata persona fisica, per cui l'avviso pubblico ed il conseguente provvedimento di esclusione si palesano immuni da vizi.
Peraltro, a nulla rileva la considerazione secondo cui ci si troverebbe in una fase embrionale della gara, giacché questo non esonera gli aspiranti dalla richiesta dimostrazione dei requisiti posseduti (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 20.06.2011 n. 3261 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione: anche il proprietario non responsabile patisce la confisca del bene.
L'articolo 31 del D.P.R. 380 del 2001 impone, a differenza di ciò che avveniva con la precedente normativa, la notifica del provvedimento sanzionatorio oltre che al responsabile dell’abuso anche al proprietario, a carico del quale sussiste una presunzione di responsabilità per gli abusi edilizi accertati.
Per giurisprudenza costante, la sanzione dell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale “si riferisce esclusivamente al responsabile dell’abuso e non può quindi operare nella sfera giuridica di altri soggetti e, in particolare, nei confronti del proprietario dell’area quando risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell’opera abusiva” (TAR Campania Napoli, sez. II, 26.52004, n. 8998). Pur destinatario dell’ordinanza di demolizione, non può infatti essere qualificato "responsabile dell’abuso" ai sensi dell’art. 31, comma 3, il proprietario che, non avendo la disponibilità del bene, sia rimasto estraneo alla perpetrazione dell’illecito, tant’è che a questi è rimesso di sottrarsi alla presunzione di responsabilità dimostrando la propria estraneità rispetto all’abuso commesso da altri (Cons. St., IV, 03.02.1996, n. 95; C. Cost., 15.07.1991, n. 345; TAR Liguria, I, 05.03.1999, n. 110), fermo restando l'onere di segnalare tempestivamente all’Amministrazione l’esistenza degli interventi abusivi e fornire alla stessa gli elementi utili all’identificazione dei responsabili dei predetti illeciti (TAR Piemonte, Torino, 25.03.2011, n. 278).
Peraltro, l'estraneità del proprietario (o del titolare del diritto reale) agli abusi edilizi commessi sulla cosa locata e affittata dal conduttore, locatario o affittuario non implica l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione o di riduzione in pristino dello stato dei luoghi, emessa nei confronti del responsabile dell'abuso, "ma la sola insuscettività del provvedimento repressivo e sanzionatorio a costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene" (TAR Lazio Latina, sez. I, 01.09.2008, n. 1026).
Invocando il fatto che "l’inottemperanza integra, infatti, un illecito diverso ed autonomo dalla commissione dell'abuso edilizio, del quale può rendersi responsabile anche il proprietario, qualora risulti che abbia acquistato o riacquisito la disponibilità del bene e non si sia attivato per dare esecuzione all'ordine di demolizione, o qualora emerga che, pur essendo in grado di dare esecuzione all'ingiunzione, non vi abbia comunque provveduto", il TAR Veneto ha tracciato una nuova linea applicativa dell'articolo 31 del T.U. dell'Edilizia, più rigida della precedente, affermando che il proprietario va esente da responsabilità non in ogni caso di abuso edilizio compiuto da terzi, "ma nella sola ipotesi in cui il proprietario non abbia la possibilità di ottemperare direttamente all'ordine di demolizione, per essere il bene nella disponibilità esclusiva dell'autore dell'abuso", poiché diversamente "si consentirebbe a chiunque di eludere la sanzione alienando il bene".
L'affermazione stupisce, perché la sanzione della demolizione non é elusa dalla diversa titolarità, essendo in ogni caso rimesso all'A.C. di eseguirla in danno del proprietario, ossia con spese a suo carico. E' vero che con la sentenza n. 345 del 1991 la Corte costituzionale ha statuito che l'acquisizione gratuita non costituisce sanzione accessoria alla demolizione, volta a colpire l'esecutore delle opere abusive, ma si configura quale sanzione autonoma che consegue all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione, ma attribuire al proprietario non responsabile l'esito più pesante immaginato dal legislatore per effetto dell'inottemperanza (ossia la confisca), non pare rispettoso del principio di proporzionalità, cui neppure le sanzioni edilizie sfuggono (commento tratto da http://studiospallino.blogspot.com/ - TAR Veneto, Sez. II, sentenza 17.06.2011 n. 1059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un'ATI concorrente da una gara per mancata produzione dei certificati relativi alla regolare esecuzione di analoghi servizi nel precedente triennio.
L'art. 42, c. 1, lett. a), del d.lgs. n. 163/2006 prevede che, nell'ipotesi in cui si verta in materia di servizi e forniture prestati, come nel caso di specie, a favore di amministrazioni od enti pubblici, la capacità tecnica può essere dimostrata unicamente mediante certificati rilasciati e vistati dalle stesse amministrazioni, non ammettendosi alcun documento sostitutivo.
Ne consegue che, è legittimo il provvedimento di esclusione da una gara adottato da una stazione appaltante nei confronti di un'ATI, che abbia omesso di presentare i certificati relativi alla corretta esecuzione di analoghi servizi nel precedente triennio e che abbia, peraltro, prodotto fatture in alternativa alle suddette certificazioni. Peraltro il potere della stazione appaltante di richiedere una integrazione documentale ai sensi dell'art. 46 d.lgs. n. 163/2006 è ammesso unicamente al fine di fornire chiarimenti con riferimento a documenti già presentati, ovvero allo scopo di completare la documentazione esibita, non già per sopperire alla totale mancanza di un documento che andava depositato entro un termine perentorio a pena di esclusione.
Né può affermarsi che le fatture abbiano identico valore della certificazione di regolare esecuzione richiesta dal disciplinare di gara, al fine della dimostrazione della capacità tecnica. Appare pertanto arbitraria la scelta di depositare, in alternativa, le fatture in quanto dalla stessa considerate atti equipollenti (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 17.06.2011 n. 920 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

URBANISTICA: Perché un programma o piano urbanistico debba essere assoggettato a VAS non conta l’effettiva e significativa incisione del bene ambiente ma solo la possibilità di tali vulnera.
Col ricorso in esame una Onlus e due cittadini hanno impugnato le delibere con le quali un Comune piemontese ha approvato le controdeduzioni alle osservazioni formulate riguardo all’adozione di un piano particolareggiato di edilizia privata e ha adottato il progetto definitivo del medesimo recante contestuale variante al PRGC.
Secondo i ricorrenti la natura strutturale della variante avrebbe imposto la sua sottoposizione alla procedura di valutazione ambientale strategica (VAS), adempimento imposto dalla D.G.R. n. 12-8931 del 09.06.2008, che dispone che la VAS “deve essere effettuata obbligatoriamente” in caso di varianti strutturali. Nello stesso senso dispone anche l’art. 6, comma 1, del Codice dell’ambiente di cui al d.lgs. n. 152/2006 a termini del quale “la valutazione ambientale strategica riguarda i piani e i programmi che possono avere impatti significativi sull’ambiente e sul patrimonio culturale”. Ambedue tali norme sarebbero state infrante poiché la Regione Piemonte, ha escluso la necessità di detta procedura di verifica, pur avendo evidenziato forti aspetti di criticità del progetto in causa rispetto al patrimonio ambientale. La determinazione citata sarebbe pertanto contraddittoria.
Questa censura, ad avviso dei giudici del Tribunale amministrativo di Torino va disattesa poiché la norma di cui all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 è da ascrivere al novero delle norme precauzionali, ispirate al principio di precauzione che nella materia ambientale ha ottenuto sanzione di diritto positivo ad opera del recepimento, da parte del d.lgs. n. 152/2006, delle varie direttive comunitarie che lo avevano elevato al rango di principio fondamentale nella materia dell’ambiente.
Il principio di precauzione traduce in sostanza quello che a partire dal Protocollo di Kyoto gli Stati contemporanei vogliono sia l’atteggiamento delle Amministrazioni pubbliche preposte alla tutela dell’ambiente nei confronti di questo patrimonio dell’umanità e si sostanzia in un insieme di regole e prescrizioni, di carattere sostanziale ma anche procedurale, intese a scoraggiare comportamenti anche solo potenzialmente idonei ad arrecare vulnera all’ambiente e al paesaggio. Non richiede la norma, a parere dei giudici sabaudi, un’idoneità in atto ma solo in potenza, della singola iniziativa urbanistica, inserita in un contesto di pianificazione o programmazione, ad incidere il bene ambiente.
Invero, la lettera della legge si esprime significativamente nei termini di “possono” avere impatti significativi sull’ambiente. Il tutto, intuitivamente, sempre che gli impatti che l’iniziativa urbanistica può avere sul bene ambiente e sul patrimonio culturale siano “significativi”, ché, altrimenti, qualunque attività edificatoria connessa all’adozione di varianti strutturali al PRG, siccome un qualche impatto sull’ambiente indubbiamente possiede, dovrebbe, irragionevolmente ed in violazione del principio di proporzionalità comunitaria, essere sottoposta a valutazione ambientale strategica.
Va rammentato, proseguono i giudici piemontesi, che è la stessa direttiva 27.06.2001, n. 42 CE, cui si è data attuazione con il D.Lgs. n. 152/2006 a stabilire che i piani urbanistici che determinano l’interessamento di piccole aree a livello locale o modifiche minori ai piani stessi, siano assoggettate a valutazione ambientale strategica soltanto in conseguenza dei possibili effetti ancora “significativi sull’ambiente” (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 17.06.2011 n. 657 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICA: Votazione dello strumento urbanistico - Consiglieri in posizione di conflitto di interessi - Approvazione per parti separate - Legittimità - Votazione finale dello strumento nella sua interezza.
Con riguardo agli effetti dell’obbligo di astensione in sede di votazione dello strumento urbanistico dei consiglieri in posizione di conflitto di interessi ai sensi dell’art. 78, d.lgs. nr. 267 del 2000, deve ritenersi legittima -al fine di evitare difficoltà insormontabili nei Comuni di medie e piccole dimensioni- un’approvazione dello strumento urbanistico per parti separate, con l’astensione per ciascuna di esse di coloro che in concreto vi abbiano interesse, purché a ciò segua una votazione finale dello strumento nella sua interezza; in tale ipotesi a quest’ultima votazione non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell’amministratore in conflitto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2004, nr. 4429) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2011 n. 3663 - link a www.dirittoambiente.it).

URBANISTICA: Pianificazione attuativa - Quantificazione della capacità edificatoria - Discrezionalità dell’amministrazione.
La quantificazione della capacità edificatoria da assegnare alle singole aree in sede di pianificazione attuativa rientra nella discrezionalità che, anche in tale sede, connota la potestà pianificatoria, non essendo ricavabile da alcuna disposizione o principio un obbligo di riconoscere uno actu l’intera volumetria edificabile prevista in astratto dallo strumento urbanistico generale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2011 n. 3663 - link a www.dirittoambiente.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La legittimazione processuale delle associazioni di tutela ambientale è circoscritta alle sole associazioni riconosciute ai sensi dell’art. 13 della legge 08.07.1986 n. 349.
Va richiamato l’orientamento della Sezione recentemente ribadito, secondo cui la speciale legittimazione processuale conferita dall’art. 18 della legge 08.07.1986, nr. 349, alle associazioni di tutela ambientale è da intendersi rigorosamente circoscritta alle sole associazioni riconosciute ai sensi dell’art. 13 della medesima legge, dovendo escludersi la perdurante validità della possibilità –un tempo riconosciuta dalla giurisprudenza– di attribuire una legittimazione de facto a qualsiasi soggetto collettivo il quale dimostrasse di possedere determinati requisiti in termini di radicamento sul territorio: ciò in quanto, una volta che è intervenuto il legislatore a colmare il deficit di tutela dei richiamati interessi “diffusi”, la legittimazione discende direttamente dalla legge in capo ai soggetti rientranti nella previsione ex art. 13, e non può essere estesa anche a soggetti estranei ad essa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28.03.2011, nr. 1876)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2011 n. 3662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione può conseguire a qualsiasi mutamento della situazione di fatto, oltre che di quella di diritto, purché idoneo a rendere certa e definitiva la privazione di qualsiasi utilità, anche indiretta o strumentale, in capo all’originario ricorrente per effetto di un ipotetico accoglimento della sua domanda.
Va innanzi tutto richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione può conseguire a qualsiasi mutamento della situazione di fatto, oltre che di quella di diritto, purché idoneo a rendere certa e definitiva la privazione di qualsiasi utilità, anche indiretta o strumentale, in capo all’originario ricorrente per effetto di un ipotetico accoglimento della sua domanda (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. V, 10.09.2010, nr. 6549; id., 13.07.2010, nr. 4540; id., 11.05.2010, nr. 2833).
Ne discende che, ai fini del verificarsi della situazione sopra richiamata, non è indispensabile che il provvedimento originariamente impugnato sia sostituito da un nuovo provvedimento definitivo, bastando che sia comunque certo il definitivo superamento della sua possibile efficacia, in modo da determinare la suindicata privazione di utilità dell’impugnazione
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2011 n. 3662 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alcuni elementi dell'informativa antimafia non valsi ad accertare la sussistenza di un reato possono essere suscettibili di diversa valutazione in sede amministrativa.
I termini della discrezionalità attribuita all’Amministrazione in ordine al rilascio di informative antimafie sono stati precisati da orientamento, invero pacifico, di questa Sezione, del quale è espressione, ad esempio, la decisione 14.04.2009, n. 2276, con la quale è stato affermato che l'informativa antimafia, emessa ai sensi dell'art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. 252/1998, prescinde completamente da ogni provvedimento penale a carico degli appartenenti all'impresa (sia pure di carattere preventivo o anche assolutorio), e si giustifica considerando il pericolo dell'infiltrazione mafiosa, che non deve essere immaginifico né immaginario, ma neppure provato, purché sia fondato su elementi presuntivi e indiziari, la cui valutazione è rimessa alla lata discrezionalità del prefetto, sindacabile in sede di legittimità sotto il profilo della illogicità, incoerenza o inattendibilità.
Pur se non è accettabile, in presenza di elementi indiziari evanescenti, che venga enfatizzato il rischio di infiltrazione mafiosa al fine di emettere una informativa antimafia, non è altrettanto accettabile che lo stesso rischio venga sottovalutato perché, in sede penale, non sono stati accertati elementi sufficienti per affermare la responsabilità penale.
Pertanto, l'informativa antimafia non risponde a finalità di accertamento di responsabilità, ma ha carattere accentuatamente preventivo-cautelare, con la conseguenza che elementi, che, in sede penale, non sono valsi ad accertare la sussistenza di un reato, possono ben essere suscettibili di diversa valutazione in sede amministrativa, al fine di fondare un giudizio di possibilità che l'attività considerata possa subire condizionamenti da soggetti legati alla criminalità organizzata.
Deve dunque concludersi nel senso che il prefetto, nel rendere le informazioni antimafia richieste ai sensi dell'art. 10, comma 7, lett. c), d.P.R. n. 252 del 1998, non deve basarsi necessariamente su specifici elementi, ma deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell'imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni, per cui il sindacato del giudice amministrativo non può impingere nel merito, restando, di conseguenza, circoscritto a verificare sotto il profilo della logicità, il significato attribuito agli elementi di fatto e l'iter seguito per pervenire a certe conclusioni, anche perché le informative prefettizie in questione costituiscono esplicazione di lata discrezionalità, non suscettibile di sindacato di merito in assenza di elementi atti a evidenziare profili di deficienza motivazionale, di illogicità e di travisamento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lo Stato determina, con criteri unitari, i limiti di esposizione, i lavori di attenzione e gli obiettivi di qualità delle infrastrutture di reti di telecomunicazione.
Con la legge 01.08.2002, n. 166, in esecuzione delle direttive 2002/19/CE, 2002/20/CE, 2002/21/CE e 2002/22/CE, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 07.03.2002, la disciplina della copertura del sistema di comunicazioni mediante telefonia mobile è stata accentrata presso lo Stato, che ha posto la disciplina specifica con il d.lgs. 01.08.2003, n. 259, emanato in attuazione della delega contenuta nell’art. 41 della predetta legge n. 166.
In questo quadro, la scelta di inserire le infrastrutture di reti di telecomunicazione fra le opere di urbanizzazione primaria esprime un principio fondamentale della legislazione urbanistica, come tale di competenza dello Stato (Cons. Stato, VI, 27.12.2010, n. 9404).
Di conseguenza, il potere a contenuto pianificatorio dei comuni di fissare, ai sensi dell'art. 8, u.c., della citata l. n. 36 del 2001, criteri localizzativi per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici non si può mai tradurre nel potere di sospendere la formazione dei titoli abilitativi formati o in corso di formazione ai sensi degli artt. 86 e 87 Codice delle comunicazioni elettroniche. La citata potestà dei Comuni deve tradursi in regole ragionevoli, motivate e certe, poste a presidio di interessi di rilievo pubblico, ma non può tradursi in un generalizzato divieto di installazione in zone urbanistiche identificate.
Tale previsione verrebbe infatti a costituire un'inammissibile misura di carattere generale, sostanzialmente cautelativa rispetto alle emissioni derivanti dagli impianti di telefonia mobile, in contrasto con l'art. 4, l. n. 36 del 2001, che riserva alla competenza dello Stato la determinazione, con criteri unitari, dei limiti di esposizione, dei lavori di attenzione e degli obiettivi di qualità, in base a parametri da applicarsi su tutto il territorio dello Stato (Cons. Stato, VI, 27.12.2010, n. 9414) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3646 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sul diritto di riscatto degli impianti di pubblica illuminazione da parte del comune nel caso di scadenza del precedente rapporto di concessione.
Non è possibile procedere contestualmente all'esercizio del riscatto e alla indizione di una gara.

L'art. 24 del r.d. 15.10.1925 n. 2578, secondo cui il potere di riscatto deve essere esercitato con il preavviso di un anno, trova applicazione per le concessioni di servizi già affidati ai privati che vengono a risolversi prima della naturale scadenza contrattuale. Nel caso di specie, l'originaria concessione trentennale degli impianti di pubblica illuminazione, affidata all'appellante senza gara, era scaduta al momento dell'esercizio del riscatto e non poteva considerarsi tacitamente prorogata in base ad una apposita clausola della convenzione, in quanto prima della scadenza era entrato in vigore l'art. 6 della l. 24.12.1993 n. 537, che ha introdotto il divieto di rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, con la previsione -inserita in sede di successive modifiche- della nullità dei contratti stipulati in violazione del predetto divieto. Pertanto, a seguito dell'entrata in vigore della citata disposizione non possono sopravvivere le clausole di rinnovo tacito di contratti o convenzioni, potendo al massimo porsi la questione della possibilità di procedere -in base a clausole espresse- al rinnovo con provvedimento esplicito.
L'esercizio del riscatto non è in alcun modo subordinato al previo raggiungimento di un accordo tra le parti sullo stato di consistenza o sulla quantificazione dell'indennizzo, dovendosi altrimenti giungere alla irragionevole conclusione che la parte privata avrebbe la possibilità di impedire in fatto il riscatto non accordandosi con l'amministrazione.
Il riscatto e l'effettiva consegna degli impianti non può che precedere il successivo affidamento del servizio essendo tecnicamente difficile, se non impossibile, immaginare l'indizione di una gara contestualmente al provvedimento di riscatto, senza avere certezze sui tempi di esecuzione del provvedimento, sulla consistenza dei beni e, quindi, su elementi in base ai quali vanno redatti gli atti della gara (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.06.2011 n. 3607 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: In capo agli enti locali permane la facoltà di riscattare la proprietà degli impianti di illuminazione pubblica.
La pronuncia in commento si conforma a quella del Tar per la Lombardia, sezione di Brescia, che aveva respinto in primo grado un ricorso contro gli atti con cui un comune aveva esercitato il riscatto degli impianti di pubblica illuminazione, in precedenza gestiti dalla società ricorrente.
L’oggetto del giudizio era costituito dalla contestazione da parte di quest’ultima, titolare del servizio di gestione degli impianti di illuminazione pubblica situati nel comune appellato, degli atti con cui lo stesso comune aveva deciso di esercitare il riscatto degli impianti ai sensi del R.D. n. 2578/1925 e del d.P.R. n. 902/1986. Il giudice di primo grado ha ritenuto vigente la normativa in materia di riscatto degli impianti di cui al R.D. 15.10.1925 n. 1568 ed al d.P.R.. n. 902/1986 mentre la società contestava tali statuizioni e sosteneva che la citata normativa avente ad oggetto l’esercizio del riscatto sarebbe stata implicitamente abrogata.
Sul punto i giudici del consiglio di Stato rilevano che, come correttamente rilevato dal Tar, la facoltà di riscatto non è stata abrogata dalla normativa sopravvenuta, ma è tuttora riconosciuta dall’ordinamento al fine di garantire al Comune la possibilità di individuare, attraverso una gara pubblica, il soggetto migliore cui affidare la gestione del servizio mediante concessione.
La finalità del riscatto non è, quindi, unicamente quella di consentire ai comuni l’assunzione diretta dei servizi, ma anche, e oggi soprattutto se non esclusivamente, quella di garantire la disponibilità degli impianti in modo da individuare la migliore modalità di gestione attraverso l’indizione di una pubblica gara, specie per affidamenti disposti oltre trenta anni fa senza alcuna procedura di evidenza pubblica.
In sede cautelare, gli stessi giudici avevano già rilevato che la normativa in materia di riscatto degli impianti di cui al R.D. 15.10.1925, n. 1568 ed al D.L. n. 902/1986 non risulta implicitamente abrogata per effetto della sopravvenuta disciplina poi recepita dal T.U. n. 267/2000 nella misura in cui mira all’assicurazione, in capo agli enti locali, della proprietà degli impianti costituente presupposto indefettibile per l’indizione della procedura per l’affidamento del servizio pubblico ovvero per la relativa assunzione in house, (Consiglio di Stato, V, ord. 12.12.2008 n. 6639, in cui è stato affermato anche che la giurisprudenza in senso contrario riguardante il diverso settore del gas, non è analogicamente estensibile alla fattispecie qui in esame).
Segnalano, inoltre, i giudici d’appello che pur se riguardante il diverso settore del gas, anche la giurisprudenza costituzionale conferma che il riscatto è uno strumento finalizzato alla riorganizzazione del servizio in vista di un assetto più confacente alle esigenze della collettività (Corte Cost., 14.05.2008 n. 132).
In definitiva, deve ritenersi che permane, in capo agli enti locali, la facoltà di riscattare la proprietà degli impianti di illuminazione pubblica ai sensi della citata normativa (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.06.2011 n. 3606 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sussiste l'obbligo, in capo alla cessionaria di un ramo d'azienda, di presentare le dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, anche in relazione agli amministratori dell'impresa cedente cessati dalla carica.
Sussiste l'obbligo in capo alla cessionaria di un ramo d'azienda, di presentare le dichiarazioni di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, anche in relazione agli amministratori dell'impresa cedente cessati dalla carica, in quanto, se da un lato appare evidente la ratio dell'art. 38, lett. c), volta a premiare attività imprenditoriali rispettose della legalità, d'altra parte, risulta ipotesi probabile l'elusione dei divieti di partecipazione alle pubbliche gare, perseguita mediante mirate operazioni di scorporo portate a termine, con l'accordo di assetti proprietari compiacenti, al fine di consentire nell'ambito della compagine societaria cessionaria, la partecipazione alle gare pubbliche da parte di complessi aziendali che, diversamente, sarebbero rimasti nella disponibilità di imprese cedenti che non erano in possesso dei requisiti di moralità prescritti dal summenzionato art. 38 (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 13.06.2011 n. 3580 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

INCARICHI PROGETTUALIProgettazioni, largo all'in house. Il Tar Toscana dice sì agli affidamenti.
È legittimo l'affidamento di attività di progettazione da parte di un ente locale ad una società in house, anche se costituita per lo svolgimento di servizi pubblici locali; la società in house, costituita dall'ente locale, deve essere considerata stazione appaltante e deve affidare eventuali incarichi a terzi seguendo le procedure del Codice e del regolamento.

E' quanto afferma il TAR Toscana, Sez. I, con la sentenza 13.06.2011 n. 1041, sul ricorso presentato da un Ordine provinciale che aveva eccepito la presunta illegittimità di un affidamento di progettazione ad una società in house di un ente locale, costituita per la gestione di servizi pubblici locali.
Il Tar in primo luogo chiarisce che l'art. 90 del Codice dei contratti pubblici ammette che le amministrazioni pubbliche possano svolgere progettazione di opere pubbliche mediante affidamento ad una società in house della stazione appaltante che viene a configurarsi come un proprio ufficio tecnico. Tutto ciò presuppone, però, che sulla società medesima il comune eserciti un controllo penetrante (il cosiddetto «controllo analogo»), il quale esclude che la società in house essa possa operare autonomamente. Inoltre, il fatto che l'ufficio tecnico della società operi unicamente a favore dell'affidante e sotto il suo diretto controllo, porta ad escludere che nella fattispecie si sia realizzato un affidamento esterno da parte della stazione appaltante, violando il Codice dei contratti pubblici.
Da ciò deriva che tale società deve essere ricompresa nel concetto di stazione appaltante «poiché quest'ultima non si configura quale soggetto esterno all'amministrazione medesima ma, analogamente ai suoi uffici interni, ne rappresenta una parte integrante, sia pure giuridicamente separata». Pertanto se la società in house dovesse successivamente affidare a terzi incarichi di progettazione sarà comunque tenuta ad applicare le norme del Codice dei contratti pubblici.
Inoltre il Tar chiarisce che è del tutto irrilevante che la società in house sia stata costituita dal comune per lo svolgimento di servizi pubblici locali nei quali non sono comprese le attività di progettazione delle opere pubbliche, né la direzione lavori né il collaudo dette stesse: «la normativa sui servizi pubblici locali non esclude che la società la quale gestisca un servizio pubblico locale possa svolgere anche altre attività», fra cui anche la progettazione (articolo ItaliaOggi del 23.06.2011).

APPALTI: Il recapito dell’offerta è a rischio dell’impresa.  Il principio di massima partecipazione alle gare pubbliche deve essere contemperato con quello relativo alla par condicio dei partecipanti, che richiede il rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge di gara a pena di esclusione.
Per cui, è legittima l'esclusione dell'offerta pervenuta alle ore 12,06 (anziché le ore 12,00) all'ufficio protocollo comunale.

E’ noto il principio per cui il recapito dell’offerta è a rischio dell’impresa (Tar Latina, 11.07.2005 n. 588). Nella fattispecie, il disciplinare chiariva che l’offerta doveva giungere all’Ufficio Protocollo del Comune entro le ore 12. La ricorrente non è in grado di fornire alcuna prova che il plico sia giunto presso l’Ufficio entro le ore 12, in quanto la firma sulla ricevuta di consegna non appartiene ad alcun impiegato del Comune, come certificato dal Comune stesso e non contestato efficacemente dalla ricorrente.
A questo punto, poco importa se sia corretta o meno la ricostruzione resa del Comune medesimo, la quale sostiene come il plico sia stato lasciato sul tavolo di un impiegato ipovedente (comunque già dopo le 12) e immediatamente consegnato, alle 12.06, all’Ufficio Protocollo, senza che alcuna firma fosse posta sulla ricevuta di consegna.
La circostanza che la firma apposta sulla ricevuta non solo non appartenga ad un impiegato addetto al ricevimento dei plichi, ma addirittura ad alcun impiegato del Comune, rende le affermazioni della ricorrente sull’orario di ricevimento del plico prive di qualsiasi prova e rende superflua l’istanza di disconoscimento della firma depositata dal Comune. Ciò, in particolare, considerando che il disciplinare stabilisce come il plico dovesse essere recapitato, a pena di esclusione, presso l’Ufficio Protocollo del Comune all’ora indicata.
Conseguentemente:
- il disciplinare è chiaro nello stabilire che il plico dovesse essere consegnato a un ufficio determinato, a pena di esclusione.
- non vi è, in ogni caso, alcuna prova che un altro ufficio del Comune abbia preso in carico il plico in precedenza, dato che il cognome sulla ricevuta del corriere non appartiene ad alcun impiegato del Comune e la ricorrente non è stata in grado di contestare tale circostanza.
- la circostanza che l’offerta sia giunta all’Ufficio Protocollo alle 12.06 e non prima è indicata chiaramente negli impugnati provvedimenti che non vengono contestati efficacemente dalla ricorrente, che si è assunta il rischio della consegna tramite corriere nell’ultimo giorno utile previsto dal disciplinare. L’unica cosa provata è che alle 11.56 un tale Zanoti ha firmato, in luogo imprecisato la ricevuta di consegna. Tale attestazione non è sufficiente a superare le chiare previsioni dell’art. 8 del disciplinare di gara.
Le censure contro i provvedimenti impugnati debbono quindi essere respinte, considerato che la ricorrente non è in grado di provare la consegna tempestiva della offerta (della quale si era assunta il rischio) e che il principio di massima partecipazione alle gare pubbliche deve essere contemperato con quello relativo alla par condicio dei partecipanti, che richiede il rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge di gara a pena di esclusione (CdS sez. V 13.01.2005 n. 82) (TAR Marche, sentenza 13.06.2011 n. 484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Non va esclusa dalla gara l'impresa il cui legale rappresentante non ha presentato, in uno all'offerta economica, copia del documento di identità, qualora il disciplinare di gara abbia operato una chiara diversificazione tra le due sottoscrizioni (quella relativa alla domanda di partecipazione e quella relativa all'offerta economica), imponendo la produzione della copia del documento di identità del sottoscrittore solo per la domanda di partecipazione, senza richiederla anche per l'offerta economica.
La giurisprudenza, condivisa dal Collegio, pur chiarendo che è del tutto legittima la clausola della legge di gara che imponga l’allegazione della copia fotostatica di un documento di identità all’offerta, ha chiarito come non vada esclusa dalla gara l'impresa il cui legale rappresentante non ha presentato, in uno all'offerta economica, copia del documento di identità, qualora il disciplinare di gara abbia operato una chiara diversificazione tra le due sottoscrizioni (quella relativa alla domanda di partecipazione e quella relativa all'offerta economica), imponendo la produzione della copia del documento di identità del sottoscrittore solo per la domanda di partecipazione, senza richiederla anche per l'offerta economica (Tar Sicilia Palermo 10.03.2010 n. 2648) (TAR Marche, sentenza 13.06.2011 n. 483 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: L'indennità di vigilanza prevista dall'art. 34, comma 1, lettera a), del d.p.r. n. 268/1987 non spetta ai tecnici comunali che esplicano attività di vigilanza in materia edilizia o urbanistica, poiché la detta indennità non costituisce un emolumento accessorio allo stipendio dei dipendenti degli enti locali, ma il trattamento riservato solo a formali qualifiche funzionali di inquadramento, aventi ad oggetto la specifica prestazione lavorativa; ne consegue che essa, pertanto, spetta solo al personale compreso nell'area di vigilanza, in possesso dei requisiti di cui agli articoli 5 e 10, l. 07.03.1986 n. 65 e, quindi, al personale che presta servizio di polizia municipale nel corpo dei vigili urbani.
La giurisprudenza amministrativa (Tar Calabria Catanzaro, 24.05.200 n. 600, Tar Liguria 14.09.2001 n. 626, Tar Basilicata 16.12.2008 n. 953 e 13.06.2002 n. 471) ha stabilito che l'indennità di vigilanza prevista dall'art. 34, comma 1, lettera a), del d.p.r. n. 268/1987 non spetta ai tecnici comunali che esplicano attività di vigilanza in materia edilizia o urbanistica, poiché la detta indennità non costituisce un emolumento accessorio allo stipendio dei dipendenti degli enti locali, ma il trattamento riservato solo a formali qualifiche funzionali di inquadramento, aventi ad oggetto la specifica prestazione lavorativa; ne consegue che essa, pertanto, spetta solo al personale compreso nell'area di vigilanza, in possesso dei requisiti di cui agli articoli 5 e 10, l. 07.03.1986 n. 65 e quindi al personale che presta servizio di polizia municipale nel corpo dei vigili urbani.
Da ciò discende che figure tipiche di tale area sono solo gli appartenenti al corpo dei vigili urbani e al personale ispettivo, ma non certamente i tecnici comunali addetti all’edilizia e all’urbanistica, i quali rientrano nella diversa area tecnica e tecnico progettuale, essendo connotato fondamentale e caratterizzante di dette figure lo svolgimento di mansioni di carattere tecnico.
Neppure potrebbero assumere rilevanza eventuali mansioni svolte di fatto dai dipendenti, atteso che l'individuazione dei destinatari dell'indennità di vigilanza è definita dalla norma citata in modo chiaro e univoco (appartenenti all'area di vigilanza e della polizia urbana), con la conseguenza che si deve escludere che si tratti di un emolumento accessorio o che abbiano rilevanza le funzioni di fatto svolte (cfr. la giurisprudenza citata) (TAR Marche, sentenza 13.06.2011 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: La natura vincolata dell'atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall'Amministrazione esclude che la mancata comunicazione di avvio del procedimento integri un motivo di illegittimità.
La ripetizione di somme erogate in eccedenza si configura come atto dovuto alla luce dell'art. 2033 c.c., salvo il limite della prescrizione e della rateazione, onde non incidere per condizioni di onerosità sulle esigenze di vita del dipendente interessato, e non richiede una puntale motivazione sulle ragioni di interesse pubblico del recupero

Con riguardo alle dedotte censure relative alla mancata comunicazione di avvio del procedimento e al difetto di motivazione, anche esse sono infondate. Infatti:
a) la natura vincolata dell'atto di recupero di somme erroneamente corrisposte dall'Amministrazione esclude che la mancata comunicazione di avvio del procedimento integri un motivo di illegittimità (CdS sez. VI, 17.06.2009 n. 3950).
b) la ripetizione di somme erogate in eccedenza si configura come atto dovuto alla luce dell'art. 2033 c.c., salvo il limite della prescrizione e della rateazione (qui pacificamente rispettato), onde non incidere per condizioni di onerosità sulle esigenze di vita del dipendente interessato, e non richiede una puntale motivazione sulle ragioni di interesse pubblico del recupero (Cds sez. VI, 24.11.2010 n. 8215) (TAR Marche, sentenza 13.06.2011 n. 476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI Inammissibile l’istanza di accesso per un controllo generalizzato su come ha operato la pubblica  amministrazione.
Ritiene la Sezione che nel caso di specie il diniego dell’amministrazione è conforme al disposto dell'art. 24, comma, 1 lett. c), della l. n. 241 del 1990.
Va stigmatizzato che la richiesta di accesso di cui è causa risulta caratterizzata da una formulazione assolutamente generica, con una connotazione chiaramente politico-sindacale, ossia riguardante, non specifici atti o provvedimenti esistenti o comunque di facile individuazione, bensì la intera documentazione di un'attività svoltasi attraverso un imprecisato numero di atti e che comunque importerebbe un'opera di ricerca, catalogazione, sistemazione che non rientra nei doveri posti all'amministrazione dalla normativa di cui al capo V l. n. 241 del 1990, oltre che un generalizzato controllo su un ramo dell'amministrazione.
Si aggiunga poi che l’art. 24 della legge 241 del 1990 alla lettera c) esclude il diritto di accesso “nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta all'emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione
”.
Sotto altro profilo la istanza della appellante è palesemente finalizzata ad un controllo preordinato all’operato delle pubbliche amministrazioni, in sostanza ad un controllo ispettivo che la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha da tempo ritenuto inammissibile. Si aggiunga infine che l’istituto dell’accesso non può essere utilizzato allo scopo di promuovere la costituzione di nuovi documenti con le informazioni richieste od ottenere informazioni sullo stato di un procedimento.
La ricorrente nella sua istanza ha omesso di indicare alcun documento amministrativo nei cui confronti esercitare l’accesso ma ha chiesto di conoscere e verificare il processo di formazione delle tariffe che, contrariamente a quanto ritenuto, non risulta in alcun atto diverso dalle tariffe stesse come approvate con apposite delibere pubblicate. Pertanto quello che a ben vedere la ricorrente chiede, non è la ostensione di documenti, ma di porre in essere una attività di elaborazione ad hoc di dati del tutto inammissibile (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Albergo o attrezzature industriali? Dipende dalla ricettività.
Non vi può essere alcuna equiparazione tra attrezzatura di interesse generale ed attrezzatura al supporto dell'industria atteso che la struttura avente caratteristiche di albergo o comunque di ricettività rientra in un autonoma categoria, quella, appunto alberghiera, destinata ad attività turistica ed interessante un settore economico ben specifico, sì da non potersi equiparare con gli impianti di tipo industriale.
Allorquando un provvedimento amministrativo è fondato su una pluralità di autonomi motivi, la legittimità di uno solo di essi è sufficiente a sorreggerlo, cosicché l'eventuale illegittimità di uno solo o più degli altri motivi non basta a determinare l'illegittimità del medesimo provvedimento.

Non vi può essere alcuna equiparazione tra attrezzatura di interesse generale ed attrezzatura al supporto dell'industria atteso che la struttura avente caratteristiche di albergo o comunque di ricettività rientra in un autonoma categoria, quella, appunto alberghiera, destinata ad attività turistica ed interessante un settore economico ben specifico, sì da non potersi equiparare con gli impianti di tipo industriale.
Nel caso in esame il complesso polifunzionale oggetto del progettato intervento consiste in modo prevalente in una struttura alberghiera e/o ricettiva, del genere di quelle che per previsione di Piano non possono essere ospitate nell'area de qua, destinata ad altri tipi di strutture, quelle, appunto, costituenti attrezzature al servizio di impianti produttivi.
Invero, come evincibile dalla documentazione tecnica inerente la pratica, ben quattro piani su sette sono costituiti da camere con bagno, di talché appare esatta la qualificazione di struttura alberghiera formulata dall'Amministrazione che, in quanto tale, può essere realizzata in aree inserite in apposita differente zona.
Il potere esercitato in tema di rilascio di titoli abilitativi dello jus aedificandi comporta unicamente un'attività di verifica della conformità urbanistico-edilizia delle richieste avanzate dai privati.
Nella fattispecie all'esame ciò è puntualmente riscontrabile, atteso che l'Amministrazione si è determinata in maniera negativa, una volta appurata in sede di attività istruttoria, con l'acquisizione dei relativi accertamenti e pareri, la non conformità delle realizzande opere edilizie con la normativa urbanistica vigente.
Tale valutazione era ed è condizione sufficiente a sorreggere il diniego del richiesto permesso di costruire senza che l'Amministrazione abbia l'onere di fornire ulteriori spiegazioni rispetto alle ragioni compiutamente esposte nei provvedimenti impugnati (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.06.2011 n. 3382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI Offerte anomale, no alla congruità de relato.
Nel caso in esame, dopo una lunga analisi, i giudici amministrativi affermano che i sospetti di anomalia sono avallati dalla mancata indicazione dei costi per la formazione retribuita al personale e per i 25 operatori "jolly" utilizzati; per i primi, in particolare, il Tribunale si richiama alla relazione dell'esperto incaricato dall'amministrazione. Fuorviante è il richiamo della ricorrente all'offerta economica e ai costi del precedente appalto (alla stessa aggiudicato) poiché da un lato il Comune ha correttamente rilevato la maturazione di scatti di anzianità e l'incidenza (allora non prevista) del costo del pasto.
E' certamente di rilevante interesse la recente sentenza 13.05.2011 n. 693 del TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sulla ratio del procedimento di verifica della congruità dell'offerta anomale.
La vicenda nasce a seguito di un ricorso presentato da una ditta partecipante ad una procedura aperta indetta da un ente locale lombardo per l'aggiudicazione del servizio di assistenza e di integrazione scolastica degli alunni disabili nelle scuole e nei centri estivi per il periodo 01/09/2010-31/08/2014. Il sistema di aggiudicazione previsto era quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, mentre l'importo contrattuale stimato era di quasi € 8.000,00.
Dopo l'aggiudicazione provvisoria disposta a favore della ricorrente (una Associazione Temporanea di Impresa) , con nota dell'agosto 2010 la stazione appaltante attivava la procedura di verifica dell'anomalia. L'ATI aggiudicataria esibiva il prospetto di scomposizione del prezzo offerto, che dava conto di un costo sostenuto per il personale suddiviso per categoria.
Erano, altresì, indicati i costi per la sicurezza e la formazione, gli altri costi e i costi generali. Dopo un nutrito scambio di corrispondenza e un incontro in contraddittorio, l'amministrazione adottava l'atto impugnato, che si fonda sull'inverosimiglianza dell'utilizzo di contratti a tempo determinato per un rapporto di durata quadriennale e sul mancato riscontro economico.
Cenni sulle offerta anomale.
Una delle patologie piuttosto frequenti nel sistema degli appalti di opere pubbliche consiste nell'anomalia delle offerte. Il criterio di aggiudicazione al prezzo più basso, dovuto in particolare modo all'eccessiva rigidità e all'assenza di discrezionalità in capo all'amministrazione presenta in molti casi il rischio dell'anomalia dell'offerta.
Tale situazione si verifica sovente in seguito al fatto che la ditta cerca ad ogni costo di aggiudicarsi l'appalto arrivando spesso, a formulare offerte, che in maniera piuttosto evidente, non coprono neppure i costi. E' definita quindi offerta anomala "quell'offerta che, pur soddisfacendo l'esigenza di aggiudicare l'appalto al prezzo più basso possibile, tuttavia, proprio a causa dell'eccessivo ribasso non è in grado di assicurare da parte del soggetto aggiudicatario il corretto e integrale soddisfacimento delle prestazioni contrattuali prefissate, con conseguenti danni all'interesse pubblico alla migliore e più celere esecuzione dell'appalto".
Questo fenomeno trova le sue radici soprattutto nella carenza normativa contenuta nella legge quadro dei lavori pubblici (legge 11.02.1994, n. 109), vuoto normativo che in parte il legislatore ha tentato di colmare con la legge di conversione n. 216 del 02.06.1995, del decreto legge n. 101/1995, meglio conosciuta come Merloni-bis. Il nuovo codice sugli appalti, di cui al D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. con riferimento al problema delle offerte anomale interviene cercando di definirne i criteri di individuazione.
In particolare l'articolo 87 del nuovo testo sugli appalti individua, a titolo esemplificativo, le possibili giustificazioni, al riguardo, che possono essere:
- l'economia del procedimento di costruzione, del processo di fabbricazione, del metodo di prestazione del servizio;
- le soluzioni tecniche adottate;
- le eccessivi condizioni di favore che la società offerente dispone per eseguire i lavori, per fornire i prodotti o per prestare i servizi;
- l'originalità del progetto, dei lavori, dei servizi offerti;
- il rispetto delle norme vigenti in tema di sicurezza e condizioni di lavoro;
- l'eventualità che l'offerente ottenga un aiuto di Stato;
- il costo del lavoro.
Inoltre proprio con riferimento a quest'ultimo punto il nuovo codice dispone che non sono ammesse, sempre con riferimento alle offerte anomale, giustificazioni in relazione a trattamenti salariali minimi.
La norma contenuta nell'articolo 87, relativo ai criteri di verifica dell'offerta anormalmente bassa, non appare chiara per quanto attiene, i costi della sicurezza e i minimi salariali. Su questi due aspetti il legislatore avrebbe dovuto fare uno sforzo maggiore per portare chiarezza su un tema così scottante, come quello del rispetto in tema di sicurezza e condizioni di lavoro e i minimi salariali, e la relativa relazione con i criteri di verifica delle offerte anomale. In pratica sarebbe stato più opportuno indicare, per esempio, anche con delle percentuali o dei rapporti , l'incidenza che questi due elementi potrebbero avere con le offerte anomale.
La sentenza dei giudici amministrativi.
I giudici amministrativi del TAR Lombardo sostengono che la verifica di anomalia dell'offerta costituisce un sub-procedimento formalmente distinto (ancorché collegato) rispetto al procedimento di evidenza pubblica di individuazione della proposta migliore, e si esprime in un'indagine di contenuto tecnico-economico secondo una precisa ratio di fondo che è quella di evitare l'aggiudicazione a prezzi tali da non garantire la qualità del lavoro, fornitura o servizio oggetto di affidamento.
La giurisprudenza prevalente ha ripetutamente osservato che il giudizio di verifica della congruità di un'offerta anomala ha natura globale e sintetica sulla serietà o meno dell'offerta nel suo insieme e costituisce espressione di un potere tecnico-discrezionale dell'amministrazione di per sé insindacabile in sede di legittimità, salva l'ipotesi in cui le valutazioni siano manifestamente illogiche o fondate su insufficiente motivazione o affette da errori di fatto.
I giudici amministrativi affermano che nella specifica materia delle offerte anomale si è peraltro affermato un indirizzo giurisprudenziale che, dalle originarie e consolidate posizioni di chiusura ad un'indagine penetrante sullo svolgimento del sub-procedimento di verifica, con contestuale affermazione dell'insindacabilità di quest'ultimo, salvi i casi di manifesta illogicità o di travisamento dei fatti, è progressivamente giunto ad ammettere il controllo della correttezza del criterio valutativo adottato e del relativo procedimento applicativo, oltre che l'esame della coerenza e dell'uniformità del parametro prescelto.
Nel caso in esame, dopo una lunga analisi, i giudici amministrativi affermano che i sospetti di anomalia sono avallati dalla mancata indicazione dei costi per la formazione retribuita al personale e per i 25 operatori "jolly" utilizzati; per i primi, in particolare, il Tribunale si richiama alla relazione dell'esperto incaricato dall'amministrazione. Fuorviante è il richiamo della ricorrente all'offerta economica e ai costi del precedente appalto (alla stessa aggiudicato) poiché da un lato il Comune ha correttamente rilevato la maturazione di scatti di anzianità e l'incidenza (allora non prevista) del costo del pasto.
In ogni caso non è assolutamente possibile sostenere la validità di un piano economico finanziario mediante il richiamo ad un precedente rapporto che non ha costituito oggetto di contestazione.
In conclusione il ricorso è infondato e deve essere respinto per le numerose spie strutturali di inaffidabilità riscontrate nell'offerta, senza che assuma rilevanza l'omessa valutazione del documento sull'assenteismo e senza necessità di disporre una CTU (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Assenze dalle sedute del Consiglio comunale giustificate con riferimento alla sussistenza di contrasti politici interni al gruppo di maggioranza.
E’ illegittima la delibera con la quale è stata dichiarata la decadenza dalla carica di un consigliere comunale che si è assentato per alcune sedute consecutive, nel caso in cui l’amministratore interessato abbia tempestivamente presentato le proprie giustificazioni, riferite alla sussistenza di contrasti politici interni al gruppo di maggioranza ed alla volontà di evitare imbarazzi con il voto contrario su alcune proposte di deliberazione; in tal caso, infatti, deve escludersi che il consigliere abbia mostrato disinteresse alle attività politico-amministrative del consiglio comunale, mentre emerge chiaramente un clima turbolento nei rapporti interni alla maggioranza consiliare, che può essere ritenuto idoneo a giustificare l’assenza dell’amministratore (commento tratto da www.regione.piemonte.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 28.04.2011 n. 638 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istanza di condono edilizio. Presupposti per la formazione del silenzio-assenso. Decorrenza del termine di trentasei mesi per il conguaglio dell'oblazione.
Il silenzio-assenso di cui all’art. 35 della legge n. 47 del 1985 sulle domande di sanatoria degli abusi edilizi richiede per la sua formazione, quale presupposto essenziale, oltre al completo pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, che siano stati integralmente assolti dall'interessato gli oneri di documentazione (che si risolvono evidentemente nella sussistenza del requisito sostanziale), relativi al tempo di ultimazione dei lavori, all'ubicazione, alla consistenza delle opere e ad ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell'Amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l'aspetto formale (Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 4174 del 2010; in applicazione del principio nella specie è stato rilevato che, mancando il nulla osta dell’Ente proprietario della sede dell’ex strada ferrata sulla quale insisteva in parte il manufatto abusivo, il silenzio-assenso non poteva essersi formato, difettando la domanda di sanatoria di un presupposto funzionale).
Ai sensi dell'art. 8 della legge n. 1034 del 1971 e dell'art. 28 t.u. n. 1054 del 1924 (ora art. 8 c.p.a.) il giudice amministrativo può solo accertare, in via incidentale, la sussistenza o meno di un diritto soggettivo, ai limitati fini della soluzione della vertenza ad esso demandata in via principale, dovendosi limitare a svolgere accertamenti ed eventuali valutazioni critiche sulle situazioni giuridiche quali appaiono dai fatti e dagli atti che l'ordinamento appresta per dare concretezza alle situazioni stesse, e, quindi, per quanto riguarda le proprietà immobiliari e i diritti reali immobiliari, attenendosi alle risultanze dei contratti scritti, dei libri e registri immobiliari e delle sentenze che accertano o costituiscono diritti immobiliari, senza poter accertare fatti od atti modificativi di tali situazioni giuridiche (Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 736 del 2003. In applicazione del principio nella specie è stato ritenuto che, in difetto di sentenza civile che abbia accertato l’usucapione allegata dal ricorrente, il giudice amministrativo non può pronunciarsi, in via incidentale, sulla proprietà dell'immobile).
Il termine di trentasei mesi, stabilito dall’art. 35, comma 18°, della legge n. 47 del 1985, per il conguaglio dell'oblazione, ovvero per il rimborso eventualmente spettante, non decorre prima che la relativa obbligazione possa ritenersi definitivamente accertata in tutti i suoi elementi, e ciò richiede, necessariamente, che la domanda di condono sia completa di tutta la documentazione necessaria anche ai fini della formazione del silenzio-assenso. Infatti, la decorrenza del termine di prescrizione presuppone (tanto in favore della P.A. per l'eventuale conguaglio, quanto in favore del privato per l'eventuale rimborso) che la pratica di sanatoria edilizia sia definita in tutti i suoi aspetti e sia per l'effetto precisamente determinabile, alla stregua dei parametri stabiliti dalla legge, il "quantum" dell'obbligazione gravante sul privato (1).
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(1) Cfr. C.G.A., n. 199 del 2002. Nella motivazione della sentenza in rassegna si ammette lealmente che un orientamento meno recente della giurisprudenza amministrativa riteneva che il termine di prescrizione delle somme dovute in tema di condono edilizio per conguaglio dell'oblazione decorresse dalla data di presentazione dell'istanza di concessione in sanatoria (ex plurimis IV sez. n. 495 del 1999).
Successivamente, l’indirizzo giurisprudenziale prevalente si è discostato da tali conclusioni, evidenziando che l'omessa presentazione della documentazione prescritta per la domanda di condono impedisce il decorso sia del termine di 24 mesi per la formazione del silenzio-assenso sia di quello di 36 mesi per la prescrizione di eventuali crediti a rimborso o a conguaglio della oblazione versata
(commento tratto da www.regione.piemonte.it - CGARS, sentenza 28.04.2011 n. 320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla mancata presentazione di una delle dichiarazioni prescritte, circa l'insussistenza di sentenze di condanna per reati gravi che incidono sulla moralità professionale, l’impresa partecipante non può rimediare con la successiva integrazione.
L’esigenza di ordinato svolgimento della gara e di opportuna trasparenza richiedono di anticipare al momento della presentazione dell’offerta la dichiarazione del possesso dei prescritti requisiti.

Circa il possesso dei requisiti di moralità professionale, l’art. 38, comma 1, del codice dei contratti è chiaro: “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento…” i soggetti nei cui confronti sono state emesse sentenze di condanna per reati gravi che incidono sulla moralità professionale e che nelle società a responsabilità limitata e per azioni ricoprono la carica di amministratore con poteri di rappresentanza o di direttore tecnico; inoltre al comma 2 l’articolo suddetto precisa che il concorrente attesta il possesso dei requisiti mediante dichiarazione sostitutiva resa con le modalità stabilite dal DPR 28.12.2000, n. 445.
Pertanto, il tenore testuale della disposizione (che dispone l’esclusione dalla partecipazione alla gara per le imprese che non presentano dichiarazione sostitutiva delle apposite certificazioni), nonché la lettura sistematica e teleologica della medesima, non consentono di ritenere che alla mancata presentazione di una delle dichiarazioni prescritte l’impresa partecipante possa rimediare con la successiva integrazione, come avvenuto nel caso di specie.
Con specifico riguardo alle ipotesi (come nel caso di specie) in cui in concreto il soggetto (che non ha presentato la dichiarazione di assenza di cause ostative) risulti effettivamente in possesso dei prescritti requisiti di moralità, la Sezione è consapevole che la giurisprudenza di questo Consiglio (come rappresentato anche negli scritti difensivi delle parti in causa) ha espresso di recente due antitetici orientamenti: uno, che dando rilievo al soddisfacimento effettivo dell’interesse pubblico sotteso alla disposizione in esame ha ritenuto integrabile in corso di gara le dichiarazioni di assenza di cause ostative alla partecipazione, purché il soggetto (che le aveva omesse) di fatto possedesse i requisiti di moralità (vedi CdS, V, n. 829/2009 e n. 1077/2010 e n. 7957/2010) e l’altro che (per assicurare la necessaria verifica sull’affidabilità dei soggetti partecipanti) ha, invece, escluso del tutto la integrabilità delle dichiarazioni in corso di gara, dando preminente rilievo alla interpretazione testuale e sistematica delle disposizioni relative anche alla verifica della veridicità delle dichiarazioni sostitutive, verifica che viene effettuata, oltre che per l’aggiudicazione obbligatoriamente, con procedimento a campione per gli altri partecipanti (vedi CdS, V, n. 3742/2009, nonché n. 6114/2009).
Valutate con ponderazione entrambe le interpretazioni in ordine al contenuto concreto da dare agli oneri imposti dal citato art. 38 alle imprese partecipanti alle gare, questa Sezione ritiene che, pure a fronte della positività della tesi sostanzialistica, tuttavia l’esigenza di ordinato svolgimento della gara e di opportuna trasparenza richiedono di anticipare al momento della presentazione dell’offerta la dichiarazione del possesso dei prescritti requisiti; d’altra parte la stessa lettera della disposizione (art. 38, comma 2 citato) non fa riferimento a presentazione di tale dichiarazione nel corso della gara per l’ipotesi di mancanza di cause ostative; ove fosse, invece, possibile ammettere l’offerta, pur in assenza della corrispondente dichiarazione, non sarebbe allora sufficiente la regola (art. 48, comma 1, d.lgs. n. 163/2006) della verifica dei requisiti limitata soltanto ad un campione del 10% delle offerte presentate: è, infatti, evidente che in tal caso per la maggioranza delle imprese partecipanti mancherebbe qualsiasi elemento conoscitivo circa l’effettiva situazione nei confronti degli obblighi prescritti dal primo comma dell’art. 38 citato e quindi in caso di mancanza dei requisiti, le imprese eluderebbero anche la irrogazione delle corrispondenti sanzioni con evidente violazione, sotto tale profilo, della regola della par condicio
(Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 03.03.2011 n. 1371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Trasporto rifiuti - Titoli abilitativi - Art 46, comma 1, L. n. 298/1974 - Iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali - Art. 212 d.lgs. n. 152/2006 - Fattispecie - Prevalenza dell’iscrizione sul titolo abilitativo generale.
In materia di trasporto dei rifiuti, disciplinato da una normativa speciale di settore e per il quale è richiesta l’apposita iscrizione all’Albo nazionale dei gestori ambientali, la distinzione tra il trasporto in conto proprio e quello per conto terzi non rileva giacché l'iscrizione all’albo di cui all’art. 212 del D. L.vo n. 152/2006 supera ed assorbe le autorizzazioni di cui alla legge n. 298/1974 (GIUDICE DI PACE di Avellino, sentenza 17.12.2010 n. 3029 - link a www.dirittoambiente.it).

EDILIZIA PRIVATALa fascia di rispetto cimiteriale pone un vincolo di inedificabilità assoluta, finalizzato alla “tutela di molteplici interessi pubblici, tra cui quelli correlati ad esigenze di natura igienico-sanitaria ed alla salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati a cimitero, rispetto ai quali sono di per sé incompatibili tutte le tipologie di insediamenti abitativi".
L’art. 338, primo comma, del R.D. n. 1265 del 1934 (Testo unico delle leggi sanitarie), applicabile alla presente fattispecie nella versione vigente ratione temporis (ossia prima della modifica del 2002), stabilisce che, con riferimento alle costruzioni vicine ai cimiteri, “é vietato di costruire intorno agli stessi nuovi edifici e ampliare quelli preesistenti entro il raggio di duecento metri”.
Tale norma pone un vincolo di inedificabilità assoluta, finalizzato alla “tutela di molteplici interessi pubblici, tra cui quelli correlati ad esigenze di natura igienico-sanitaria ed alla salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati a cimitero, rispetto ai quali sono di per sé incompatibili tutte le tipologie di insediamenti abitativi" (Consiglio di Stato, V, 08.09.2008, n. 4256; TAR Lombardia, Milano, IV, 02.04.2010, n. 962).
Appare altresì pacifico che una tale disposizione si applichi in via diretta e senza necessità di intermediazione da parte delle fonti normative locali, ed anzi anche in contrasto con le stesse (cfr. Consiglio di Stato, IV, 27.10.2009, n. 6547)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl divieto di costruzione di opere ad una determinata distanza dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904, n. 523, è inderogabile (…).
In tema di tutela dei corpi idrici superficiali, l’art. 133 r.d. n. 368 del 1904, che impone una fascia di rispetto lungo i canali, comprende il divieto di qualunque costruzione, allo scopo di consentire le normali operazioni di ripulitura e di manutenzione, e di impedire le esondazioni delle acque.
Tale previsione è ampia e generale (…) e non consente neppure di dare rilievo alla conformazione del corpo superficiario, e cioè al fatto che esso si presenti con argini o sponde, atteso che, per il rispetto della fascia considerata, è vietata qualsiasi costruzione e persino qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d’acqua
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Il divieto di costruzione di opere ad una determinata distanza dagli argini dei corsi d’acqua, previsto dall’art. 96, lett. f), t.u. 25.07.1904, n. 523, è inderogabile (…).
In tema di tutela dei corpi idrici superficiali, l’art. 133 r.d. n. 368 del 1904, che impone una fascia di rispetto lungo i canali, comprende il divieto di qualunque costruzione, allo scopo di consentire le normali operazioni di ripulitura e di manutenzione, e di impedire le esondazioni delle acque.
Tale previsione è ampia e generale (…) e non consente neppure di dare rilievo alla conformazione del corpo superficiario, e cioè al fatto che esso si presenti con argini o sponde, atteso che, per il rispetto della fascia considerata, è vietata qualsiasi costruzione e persino qualunque deposito di terre o di altre materie, a distanza di metri dieci dal corso d’acqua
” (Consiglio di Stato, IV, 23.07.2009, n. 4663)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti sanzionatori in materia edilizia hanno carattere strettamente vincolato, onde l’omessa comunicazione di avviso di avvio del procedimento sanzionatorio non risulta rilevante (…), in quanto in presenza dell’abuso contestato l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere diverso.
In adesione alla costante giurisprudenza, deve essere evidenziato come “i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia hanno carattere strettamente vincolato, onde l’omessa comunicazione di avviso di avvio del procedimento sanzionatorio non risulta rilevante (…), in quanto in presenza dell’abuso contestato l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere diverso” (TAR Toscana, Firenze, III, 11.06.2010, n. 1829).
Ciò anche in ossequio al disposto di cui all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, laddove si stabilisce che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Trattandosi di norma processuale, la stessa è applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005, avendo il legislatore inteso in tal modo far “prevalere gli aspetti sostanziali su quelli formali nelle ipotesi in cui le garanzie procedimentali non produrrebbero comunque alcun vantaggio a causa della mancanza di un potere concreto di scelta da parte dell’amministrazione” (Consiglio di Stato, V, 02.02.2010, n. 431)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.09.2010 n. 5656 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di impianti per la telefonia mobile.
In materia di telefonia mobile (articoli 86, 87 e 88 del d.lgs. n. 259/2003), la giurisprudenza amministrativa ha statuito che:
- ferma l’osservanza dei limiti di esposizione ai campi elettromagnetici, dei valori di attenzione e degli obiettivi di qualità fissati dallo Stato a livello nazionale, la normativa è volta a semplificare ed a rendere celere e certo il procedimento per la realizzazione degli impianti (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 28.02.2006, n. 889);
- a questo fine sono dirette, in particolare, la subordinazione della realizzazione degli impianti al solo procedimento di autorizzazione degli Enti locali, su istanza o denuncia di inizio di attività da parte del richiedente, ai sensi dell’art. 87, che pone una normativa speciale esaustiva dell’esame di diversi profili implicati, incluso quello della compatibilità edilizio-urbanistica dell’intervento, non occorrendo perciò il permesso di costruire di cui agli articoli 3 e 10 del d.P.R. n. 380 del 2001 (ex multis: Cons. Stato, Sez. VI: 17.12.2009, n. 8214; 17.10.2008, 5044; 05.08.2005, n. 4159), e l’assimilazione delle infrastrutture in questione, ad ogni effetto, ad opere di urbanizzazione primaria (art. 86, comma 3), per cui in assenza di esplicite e chiare disposizioni di segno contrario la realizzazione dell’impianto è compatibile con qualsiasi destinazione urbanistica (ex multis: C.G.A.R.S., 11.05.2009, n. 395; Cons. Stato, Sez. VI, 11.10.2007, n. 5342);
- in questo quadro il potere regolamentare attribuito ai comuni dall’art. 8, comma 6, della legge n. 36 del 2001, per il quale essi “possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l'esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”, è espressione della loro autonoma e fondamentale competenza alla disciplina dell’uso del territorio “purché, ovviamente, criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi (cfr. Corte costituzionale 07.10.2003, n. 307 e, in senso conforme, la successiva sentenza 07.11.2003, n. 331)” (Cons. Stato, Sez. VI, 26.07.2005, n. 4000; idem Sez. VI, 17.10.2008, n. 5044);
- con la conseguenza che la subordinazione dell’insediamento degli impianti, da parte del Comune, al perfezionamento a tempo indeterminato di uno strumento pianificatorio produce un ostacolo ingiustificato alla loro realizzazione, in contrasto con la finalità generale della normativa in materia che, come visto, è diretta alla definizione certa e celere del procedimento autorizzatorio avviato su istanza o con denuncia di inizio di attività, e altresì in contrasto con la finalità specifica del potere regolamentare dei comuni stessi, che è quella di disciplinare positivamente l’uso del territorio ma non di pervenire di fatto ad impedire, con il generico rinvio all’esercizio di tale potere, le condizioni per l’attività di telefonia mobile, poiché con ciò verrebbero superati lo scopo e i limiti della potestà conferita (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 25.05.2010 n. 3282 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAllorché l'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione soltanto la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto parzialmente edificato occorra considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area. Tra tali costruzioni vanno dunque inserite anche quelle abusive, purché oggetto di una domanda di condono e dunque, almeno fino alla definizione di tale domanda in senso negativo, non sanzionabili con la demolizione: anche tali manufatti concorrono a determinare una saturazione dell’area, né sembra ragionevole escludere dalla volumetria assentibile quella già sfruttata, sia pure per mezzo di opere abusive successivamente condonate.

E' pacifico in giurisprudenza che “Allorché l'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione soltanto la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto” (CdS, IV, 4647/2008; nello stesso senso anche Tar Sicilia, Catania, I, 1251/2010).
È altresì pacifico che ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto parzialmente edificato occorra considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area. Tra tali costruzioni vanno dunque inserite anche quelle abusive, purché oggetto di una domanda di condono e dunque, almeno fino alla definizione di tale domanda in senso negativo, non sanzionabili con la demolizione: anche tali manufatti concorrono a determinare una saturazione dell’area, né sembra ragionevole escludere dalla volumetria assentibile quella già sfruttata, sia pure per mezzo di opere abusive successivamente condonate (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 19.05.2010 n. 7042 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di una Multisala cinematografica può essere ricondotta alla tipologia degli standard urbanistici di cui alla lettera b) dell’art. 3 del DM 02.04.1968 (attrezzature di interesse comune) e, questi invero, in quanto tali, sono per definizione correlati all’interesse territoriale del Comune, compendiando in sé funzioni culturali e ricreative.
La realizzazione di una Multisala cinematografica può essere ricondotta alla tipologia degli standard urbanistici di cui alla lettera b) dell’art. 3 del DM 02.04.1968 (attrezzature di interesse comune) e, questi invero, in quanto tali, sono per definizione correlati all’interesse territoriale del Comune, compendiando in sé funzioni culturali e ricreative (l’art. 1 della legge n. 1213/1965 sulla cinematografia, del resto, ben evidenzia il valore artistico, culturale e di comunicazione sociale del cinema).
Orbene, gli spazi dedicati in una Multisala cinematografica ad attività commerciale per la ristorazione , la ricreazione e la vendita di prodotti, servono ad offrire un servizio ulteriore, rispetto a quello principale, sicché il venir meno di questa, oltre a privare il territorio dello specifico standard (in caso di non funzionamento e per mancato esercizio), perverrebbe al risultato di far scadere il Multisala a semplice “centro commerciale”, con la conseguenza che un siffatto mutamento nelle destinazioni d’uso ammesse è essenziale e rilevante ai fini urbanistici, implicando tale trasformazione il passaggio della struttura dal settore dei servizi e del tempo libero a quello strettamente commerciale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2010 n. 3129 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl vincolo cimiteriale rileva come vincolo di inedificabilità assoluta, in quanto le finalità perseguite dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 sono di superiore interesse pubblicistico e rivolte a garantire il decoro di un luogo di culto e ad assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri.
Con la prima censura la deducente osserva che il vincolo cimiteriale non costituisce vincolo di inedificabilità assoluta; aggiunge che a seguito delle modifiche introdotte con l’art. 28, comma 1, lettera b, della legge n. 166/2002, il suddetto vincolo non preclude la costruzione di nuovi edifici e la realizzazione di ampliamenti nella zona sottoposta a vincolo.
Il motivo non può essere condiviso.
L’art. 338 del R.D. n. 1265/1934, nel testo novellato dall’art. 28 della legge n. 166/2002, ammette l’ampliamento solo nella percentuale massima del dieci per cento.
Gli ampliamenti di maggiore portata sono incompatibili col vincolo cimiteriale, il quale rileva come vincolo di inedificabilità assoluta, in quanto le finalità perseguite dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 sono di superiore interesse pubblicistico e rivolte a garantire il decoro di un luogo di culto e ad assicurare una cintura sanitaria attorno a luoghi per loro natura insalubri (Tar Campania, Napoli, IV, 29/11/2007, n. 15615).
Tale conclusione trova conferma nel primo comma del citato art. 338, che prevede il divieto di costruire entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, e nell’art. 33 della legge n. 47/1985, che esclude la possibilità della sanatoria edilizia laddove il vincolo sia imposto prima dell’esecuzione delle opere da parte del privato.
Risulta infatti che le opere in questione sono state ultimate nel 1983 (documento n. 3 depositato in giudizio dal Comune resistente), mentre l’ampliamento del cimitero del Pino è stato compiuto nel periodo 1979-1981, per cui non è invocabile nemmeno la deroga di cui all’art. 57, comma 4, del D.P.R. n. 285/1990, la quale non ha la funzione di ridurre la distanza minima indicata dal citato art. 338, ma di consentire l’ampliamento del cimitero con riferimento agli edifici preesistenti (Cons. Stato, V, 23/08/2000, n. 4574).
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Con la seconda censura la ricorrente afferma che gli interventi realizzati non costituiscono nuova edificazione, ma ampliamento del preesistente edificio o modifiche che si risolvono nell’introduzione di elementi accessori o pertinenziali, ammessi nella zona di vincolo cimiteriale e tali da ricondurre la fattispecie all’art.32 della legge n. 47/1985.
Il rilievo è infondato.
La descrizione delle opere di cui alla relazione tecnica relativa all’istanza di condono edilizio indica vari interventi di trasformazione e incremento della superficie abitabile, costituiti dalla sopraelevazione di un piano, dalla creazione di locali abitativi, dalla costruzione di un locale ad uso rurale e dalla realizzazione di una loggia e di un terrazzo.
Non si tratta né di meri ampliamenti rispettosi del limite del dieci per cento previsto dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934, né della realizzazione di pertinenze o elementi accessori, ma della radicale trasformazione dell’edificio preesistente, reso diverso dalla struttura originaria per volume, sagoma, superficie e connesso carico urbanistico; rileva quindi nell’insieme un’edificazione contraddistinta da ampliamento notevole di superficie, precluso dall’art. 338 del R.D. n. 1265/1934 (Tar Campania, Napoli, IV, 29/11/2007, n. 15615).
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Con il terzo motivo l’istante lamenta la mancata acquisizione del parere dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo (ovvero dell’Azienda sanitaria locale) e della commissione edilizia.
Il rilievo non può essere accolto.
Il caso in esame non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 32 della legge n. 47/1985, ma, trattandosi di intervento successivo alla costruzione del cimitero, nell’ambito di applicazione dell’art. 33 della legge stessa, con la conseguenza che l’esistenza del vincolo è di per sé preclusiva dell’opera oggetto della domanda di condono.
Per la stessa ragione non occorre nemmeno il parere della commissione edilizia, trattandosi di vincolo di inedificabilità assoluta, rispetto ai cui effetti rileva un mero accertamento tecnico della distanza intercorrente tra il cimitero e il fabbricato risultante dagli interventi di trasformazione, e non una valutazione avente margini di discrezionalità (Tar Toscana, III, 12/02/2003, n. 277; idem, II, 06/02/2006, n. 260) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 15.03.2010 n. 660 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa motivazione dello strumento urbanistico può ben essere di tipo generico, desumibile dalla relazione accompagnatoria, laddove è richiesta una puntuale motivazione unicamente per prescrizioni che interessino una singola area ovvero che si discostino da quanto stabilito per zone contermini di analoghe caratteristiche.
Le scelte urbanistiche di carattere generale costituiscono apprezzamenti di merito e, pertanto, sono sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, da illogicità ovvero irragionevolezza e, di conseguenza, non necessitano neppure di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione del piano regolatore.
La variante di un piano regolatore che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate necessita di apposita motivazione solo quando le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, fondate su atti di contenuto concreto, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto; i medesimi principi possono estendersi al caso di un iter concessorio già iniziato, che ingenera nell'istante un particolare affidamento e si traduce nell'obbligo di motivare espressamente sulle ragioni di opportunità e convenienza che inducono a porre nel nulla il procedimento avviato con l'istanza di concessione.

Gli strumenti urbanistici risultano espressamente esentati dal generale obbligo di motivazione previsto per tutti gli atti amministrativi dall’articolo 3 della legge 241 del 1990; ne consegue che la motivazione dello strumento urbanistico può ben essere di tipo generico, desumibile dalla relazione accompagnatoria, laddove è richiesta una puntuale motivazione unicamente per prescrizioni che interessino una singola area ovvero che si discostino da quanto stabilito per zone contermini di analoghe caratteristiche.
Le scelte urbanistiche di carattere generale costituiscono apprezzamenti di merito e, pertanto, sono sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto, da illogicità ovvero irragionevolezza e, di conseguenza, non necessitano neppure di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione del piano regolatore (Consiglio di Stato, sez. IV, 11.10.2007, n. 5357).
Le uniche eccezioni individuate dalla giurisprudenza riguardano la necessità di una motivazione specifica -espressione, a sua volta, di un’adeguata istruttoria- in alcune ipotesi particolari: come quella di una variante puntuale che incide in senso sfavorevole su una singola proprietà; quella di una variante, anche generale, che comporta la reiterazione di un vincolo decaduto, oppure travolge le previsioni di un piano di lottizzazione già debitamente approvato e convenzionato, tutte vicende peraltro connotate da una identica caratteristica, e cioè di essere strumenti urbanistici che incidono in modo immediato e diretto su proprietà immobiliari ben individuate, limitandone in modo significativo le possibilità di utilizzo e comprimendone il valore di mercato (TAR Umbria Perugia, 03.07.2008, n. 329).
In un caso specifico, si è precisato che il rilascio della concessione edilizia, anche se non è ex sé circostanza idonea ad impedire all'ente locale, nell'esercizio del potere discrezionale di cui dispone in materia di pianificazione del territorio, di attribuire in sede di variante al piano regolatore generale una diversa destinazione urbanistica all'area interessata dall'intervento edificatorio già assentito, tuttavia impone allo stesso ente un onere di motivazione congrua ed articolata in ordine alla nuova scelta effettuata, atteso che la posizione qualificata di cui è titolare il soggetto al quale era stato rilasciato il permesso di costruire ha determinato in lui un giusto affidamento, che richiede una particolare considerazione (TAR Molise Campobasso, sez. I, 21.11.2007, n. 819).
In altri termini, la variante di un piano regolatore che conferisce nuova destinazione ad aree che risultano già urbanisticamente classificate necessita di apposita motivazione solo quando le classificazioni preesistenti siano assistite da specifiche aspettative, in capo ai rispettivi titolari, fondate su atti di contenuto concreto, come quelle derivanti da un piano di lottizzazione approvato, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia o dalla reiterazione di un vincolo scaduto; i medesimi principi possono estendersi al caso di un iter concessorio già iniziato, che ingenera nell'istante un particolare affidamento e si traduce nell'obbligo di motivare espressamente sulle ragioni di opportunità e convenienza che inducono a porre nel nulla il procedimento avviato con l'istanza di concessione (TAR Umbria Perugia, 03.07.2008, n. 329; TAR Toscana, sez. I, 19.09.2007, n. 2725) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 12.01.2009 n. 5 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’obbligo di predisporre cautele a tutela dell’integrità delle buste concernenti le offerte delle imprese partecipanti, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l’individuazione del contraente nei contratti delle pubblica amministrazione, in quanto l’integrità dei plichi contenenti le offerte delle imprese partecipanti all’incanto è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi -consacrati dall’art. 97 della Costituzione- di buon andamento ed imparzialità cui deve uniformarsi l’azione amministrativa.
In concreto, delle misure cautelari adottate deve essere data menzione nel verbale di gara, proprio al fine di assicurare l’effettivo ed ordinato svolgimento del prosieguo delle operazioni.
Gli atti relativi alle offerte presentate dalle singole imprese devono essere adeguatamente conservati in modo da garantire l’inalterabilità del loro contenuto, considerato che, “a tal fine non è sufficiente l’affermazione che gli atti sono stati conservati in luogo sicuro, accessibile solo ai membri della Commissione ma è invece necessario che, ultimate le operazioni di gara, la Commissione precisi le modalità di conservazione delle offerte e dei documenti ad esse allegati e specifichi se le buste contenenti le une e gli altri sono state adeguatamente richiusi”.

Il Collegio -pur essendo consapevole dell’orientamento giurisprudenziale che considera irrilevante la doglianza con cui si lamenta, in una gara d’appalto pubblico, l’inadeguata custodia delle buste contenenti un’offerta presentata, quando non sia proposto alcun elemento atto a far ritenere che possa essersi verificata la sottrazione o la sostituzione dei plichi o un qualche altro fatto rilevante ai fini della regolarità della procedura di gara a causa di tale asserito difetto di custodia (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.09.2001, n. 4973)- ritiene più rispondente all’esigenza di tutela della segretezza delle offerte, in una procedura concorsuale ad evidenza pubblica, il diverso indirizzo della giurisprudenza amministrativa secondo cui “l’obbligo di predisporre cautele a tutela dell’integrità delle buste concernenti le offerte delle imprese partecipanti, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l’individuazione del contraente nei contratti delle pubblica amministrazione, in quanto l’integrità dei plichi contenenti le offerte delle imprese partecipanti all’incanto è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi -consacrati dall’art. 97 della Costituzione- di buon andamento ed imparzialità cui deve uniformarsi l’azione amministrativa.” (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. V, 06.03.2006, n. 1068).
E non può, del resto, revocarsi in dubbio che “in concreto, delle misure cautelari adottate deve essere data menzione nel verbale di gara, proprio al fine di assicurare l’effettivo ed ordinato svolgimento del prosieguo delle operazioni.” (cfr. C.S., V, n. 1068/2006, cit.).
Né vale ad escludere la illegittimità del comportamento tenuto dall’amministrazione la considerazione che non si sarebbe concretamente verificata alcuna manomissione dei plichi contenenti le buste, atteso che la tutela giuridica dell’interesse pubblico al corretto svolgimento delle gare pubbliche, secondo i principi di cui all’art. 97 della Costituzione, deve essere assicurata in astratto e preventivamente e non può essere considerata soddisfatta sulla base della mera situazione di fatto del mancato verificarsi di eventi dannosi” (cfr. C.S., V, n. 1068/2006, cit. e giurisprudenza ivi richiamata: C.S., IV, n. 1612/2002).
Gli atti relativi alle offerte presentate dalle singole imprese devono essere adeguatamente conservati in modo da garantire l’inalterabilità del loro contenuto, considerato che, “a tal fine non è sufficiente l’affermazione che gli atti sono stati conservati in luogo sicuro, accessibile solo ai membri della Commissione ma è invece necessario che, ultimate le operazioni di gara, la Commissione precisi le modalità di conservazione delle offerte e dei documenti ad esse allegati e specifichi se le buste contenenti le une e gli altri sono state adeguatamente richiusi”.
In ogni caso, all’atto del riesame, l’organo competente “deve dare conto in modo esauriente e dettagliato delle effettive condizioni di conservazione delle singole offerte e specificare se le buste risultano adeguatamente richiuse oppure aperte.” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 03.02.2000, n. 661)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.03.2008 n. 1219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZISulla partecipazione delle società miste comunali alle gare di appalto di servizi pubblici indette da altri enti.
La giurisprudenza amministrativa nell'esame della questione relativa alla partecipazione delle società miste comunali alle gare di appalto di servizi pubblici indette da altri enti, si è attestata sul principio in base al quale tali società, pur legittimate in via di principio a svolgere la propria attività anche al fuori del territorio del Comune dal quale sono state costituite, in quanto munite dal legislatore di capacità imprenditoriale, sono pur sempre tenute, per il vincolo genetico funzionale che le lega all'ente di origine, a perseguire finalità di promozione dello sviluppo della comunità locale di emanazione. Il vincolo funzionale che la norma istitutiva ha implicitamente imposto alle imprese miste va confrontato con l'impegno extraterritoriale richiesto in concreto e inibisce tale attività quando diventino rilevanti le risorse e i mezzi eventualmente distolti dalla attività riferibile alla collettività di riferimento senza apprezzabili utilità per queste ultime.
Si tratta, in definitiva, di verificare che l'impegno da assumere non comporti una distrazione di mezzi e risorse tali da arrecare pregiudizio alla predetta collettività, in sostanza la necessità di una concreta verifica intesa ad accertare se l'impegno extraterritoriale eventualmente non distolga, e in caso positivo in che rilevanza, risorse e mezzi, senza apprezzabili ritorni di utilità (anch'essi da valutarsi in relazione all'impegno profuso e agli eventuali rischi finanziari) per la collettività di riferimento. Tale verifica non può che ritenersi rimessa alle commissioni giudicatrici delle gare quando a queste chiedano di partecipare società miste.
La capacità, in termini di mezzi tecnici e finanziari, della società mista ad assumere, in aggiunta a quelle derivanti dal servizio svolto per l'ente di riferimento, anche il servizio oggetto della specifica gara alla quale chiede di partecipare, attiene alla legittimazione della società a partecipare alla gara ed assume quindi la valenza di un requisito soggettivo che, in quanto tale, deve essere assoggettato a verifica come avviene per altri requisiti soggettivi. La prova di tale requisito soggettivo, secondo i principi stessi della partecipazione alle gare, incombe sull'aspirante (C.G.A.R.S., Sez. giurisdizionale,
sentenza 21.03.2007 n. 197 - link a www.dirittodeiservizipubblici).

APPALTI SERVIZISull'illegittimità della previsione in un bando per l'appalto di servizi di progettazione, della prestazione in sede di gara di una cauzione provvisoria e di una cauzione definitiva, oltre alla polizza di responsabilità civile professionale.
E' illegittima la previsione contenuta in un bando di gara relativo ad un appalto-servizio indetto da una regione, avente ad oggetto il servizio di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, nella parte in cui prescrive, ai fini dell'ammissione, oltre alla presentazione di una polizza di responsabilità civile e professionale, anche il versamento di una cauzione provvisoria pari al 2% della base d'asta e di una cauzione definitiva del 10% dell'importo contrattuale, in quanto il comma 5 del art. 30 della l. 11.02.1994, n. 109 prescrive l'obbligo in capo al progettista unicamente della presentazione di una polizza assicurativa di responsabilità civile professionale per i rischi derivanti dallo svolgimento della propria attività.
Il sistema delle garanzie previsto dalla legge non è suscettibile, invero, di interpretazioni estensive e, d'altro canto, l'attività amministrativa deve essere incentrata sul principio di non aggravamento del procedimento; in tal senso, la richiesta della cauzione nei confronti del progettista si risolverebbe in un ulteriore onere economico a carico del progettista medesimo, la cui eventuale responsabilità, invece, si concretizza in un momento successivo a quello della partecipazione alla gara e riguarda specificamente il risultato ancora da compiersi, la progettazione, nel caso in cui si evidenzino degli errori e/o omissioni nella redazione dei progetti.
La richiesta delle due tipologie di cauzioni, provvisoria e definitiva, in aggiunta alla polizza di cui all'art. 30, comma 5, della legge quadro, determinerebbe, pertanto, un aggravamento degli oneri di accesso alla gara di appalto a carico del progettista del tutto ingiustificato (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 13.03.2007 n. 1231 - link a www.dirittodesiervizipubblici.it).

APPALTI SERVIZISu alcune questioni relative all'affidamento di un servizio pubblico a mezzo trattativa privata.
In base ai principio di libera concorrenza, di legalità e di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa, l'impresa operante in un settore economico è legittimata ad impugnare il provvedimento con cui l'amministrazione disponga la stipula di un contratto a trattativa privata riferito allo stesso settore e non abbia posto in essere la scelta del contraente con le debite procedure ad evidenza pubblica
Un comune non può motivare l'affidamento di un servizio pubblico a mezzo trattativa privata, facendo riferimento alle pretese ragioni di urgenza gravanti sull'ente pubblico all'indomani della scadenza del contratto col precedente gestore: la scadenza del precedente rapporto, infatti, è un dato ben noto all'Amministrazione, che avrebbe potuto (e dovuto) attivarsi per tempo ai fini dell'individuazione del successivo gestore del servizio (soprattutto nel caso in cui si tratti di un servizio di routine, caratterizzato dalla continuatività e non occasionalità).
La giurisprudenza individua l'elemento distintivo tra concessioni di servizi pubblici ed appalti di pubblici servizi nell'eventuale incidenza dell'onere economico a carico dell'ente pubblico appaltante o concedente. Più in particolare: è elemento tipico dell'appalto di servizi pubblici l'obbligo per la stazione appaltante di corrispondere al gestore del servizio una utilità economica, quale corrispettivo per la fornitura del servizio all'ente stesso o alla comunità da esso rappresentata (per esempio, appalto del servizio di pulizia degli uffici comunali; appalto del servizio pubblico di scuolabus per gli alunni delle scuole elementari). Viceversa, nella concessione di servizio pubblico il concessionario ritrae il proprio guadagno direttamente dal pagamento di una tariffa posta a carico degli utenti del servizio stesso (per esempio, servizio di trasporto urbano affidato a soggetti terzi che gestiscono "a proprio rischio"). In breve, con l'appalto di servizio l'ente pubblico si procura una utilità diretta e ne paga il relativo costo; con la concessione, invece, esso trasla su soggetti terzi (piuttosto che fornirlo in prima persona) la gestione di un servizio, destinato a favore di una platea più o meno ampia di utenti, e consente al gestore di ricavarne un utile attraverso la percezione del corrispettivo pagato dai fruitori.
Anche l'affidamento in concessione di un pubblico servizio non sfugge all'applicazione dei principi comunitari in tema di pubblicità della gara, concorrenzialità e non discriminazione, previsti per la materia degli appalti pubblici, pena la creazione di una "zona franca" che -sotto l'ombra di un diverso nomen iuris- consenta agli enti pubblici di eludere le disposizioni comunitarie in un settore in cui sussistono le medesime esigenze (Tar Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 12.03.2007 n. 461 - link a www.dirittodeiservizipubblici).

APPALTISull'illegittimità di una informativa antimafia basata sul fatto che il coniuge del titolare dell'impresa è imparentato con esponenti della camorra.
La misura interdittiva conseguente ad una informativia antimafia di cui all'art. 4 D.Lgs. n. 490/1994, con la quale si esclude dal mercato dei pubblici appalti l'imprenditore che sia sospettato di legami o condizionamenti mafiosi, ha lo scopo di mantenere un atteggiamento intransigente contro rischi di infiltrazione mafiosa per contrastare un eventuale utilizzo distorto delle risorse pubbliche. Secondo l'indirizzo della giurisprudenza, la informativa non deve dimostrare l'intervenuta infiltrazione, essendo sufficiente dimostrare la sussistenza di elementi dai quali sia deducibile il tentativo di ingerenza.
Tuttavia, la stessa giurisprudenza ha più volte ribadito come il delicato equilibrio tra gli opposti interessi che fanno capo, da un lato, alla presunzione di innocenza di cui all'art. 27 Cost. ed alla libertà d'impresa costituzionalmente garantita e, dall'altro, alla efficace repressione della criminalità organizzata, comporta che l'interpretazione della normativa in esame debba essere improntata a necessaria cautela. In definitiva l'esigenza di contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel modo più efficace, e dunque anche nel caso in cui sussistano anche semplici elementi indiziari, non esclude che la determinazione prefettizia (pur se espressione di un ampia discrezionalità) possa essere assoggettata al sindacato giurisdizionale sotto il profilo della sua logicità e dell'accertamento dei fatti rilevanti.
Ciò posto, deve ritenersi che nella fattispecie in esame non sia idonea a sorreggere l'impugnato provvedimento prefettizio la sussistenza di legami di parentela con esponenti di clan camorristici. La circostanza infatti che il titolare della impresa sia imparentato (tramite la moglie) con esponenti della camorra non può essere di per sé prova sufficiente di infiltrazione mafiosa nella gestione dell'impresa ove a tale dato anagrafico non si accompagni una acclarata frequentazione e comunanza di interessi con tali ambienti, di cui non v'è traccia nel provvedimento impugnato (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.03.2007 n. 1056 - link a www.dirittodesiervizipubblici.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato rimette alla Corte di Giustizia delle Comunità europee la questione se il riconoscimento in capo alle imprese costituite in ATI ad impugnare in via autonoma l'aggiudicazione contrasti con le direttive comunitarie.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee deve risolvere la questione se l'art. 1 della direttiva del Consiglio 21.12.1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all'applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18.06.1992, 92/50/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di servizi, debba essere interpretato nel senso che osta a che, secondo il diritto nazionale, il ricorso contro una decisione di aggiudicazione di un appalto possa essere proposto a titolo individuale da uno solo dei membri di un'associazione temporanea priva di personalità giuridica, che ha partecipato in quanto tale ad una procedura d'aggiudicazione di un appalto pubblico e non si è vista attribuire il detto appalto (cfr. CdS, sez. V, 14/11/2006, n. 6677) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 06.03.2007 n. 1042 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI1. Per la proposizione di una impugnativa contro clausole del bando che precludono la partecipazione, non è necessaria la domanda di partecipazione alla gara.
2. Sull'illegittimità di una clausola contenuta in un bando di gara che prescrive che non sono ammesse a partecipare alla procedura le ATI.

1. Non è necessaria la domanda di partecipazione alla gara quale condizione per la proposizione di una impugnativa avverso clausole del bando tali da precludere in maniera assoluta e certa la partecipazione alla gara del soggetto aspirante, poiché detta domanda si risolverebbe in un mero adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di estromissione, e perciò privo di un'effettiva utilità pratica.
2. La "ratio" dell'istituto del raggruppamento temporaneo di imprese non è soltanto quella di consentire la partecipazione alle gare pubbliche di imprese che, singolarmente considerate, non potrebbero essere ammesse perché carenti dei requisiti economici, tecnici ed organizzativi indispensabili per la partecipazione, ma anche quella ulteriore di poter utilizzare un'opzione operativa di sinergia strategica tra soggetti già capaci di concorrere singolarmente.
Pertanto, è illegittima la prescrizione contenuta nel bando della gara ufficiosa (appalto concorso) indetta da un comune, secondo cui sono ammesse alla partecipazione singole società in possesso delle prescrizioni indicate e non sono ammesse a partecipare le A.T.I. (TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 06.03.2007 n. 800 - link a www.dirittodesiervizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAPossibile condonare gli immobili all’asta. Il termine per la sanatoria decorre dalla comunicazione della vendita.
Chi acquista un immobile sottoposto a pignoramento può chiedere il condono non appena venga a conoscenza dell’abuso (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 03.03.2007 n. 1366 - link a www.cittadinolex.kataweb.it).

EDILIZIA PRIVATA: Riesame del nulla osta paesaggistico - Tutela paesistico/ambientale e di vincolo della zona - Esercizio dei poteri di riscontro della legittimità - Limiti - Iniziativa istruttoria abnorme - Illegittimità - Sanatoria “ex post” - Compatibilità urbanistica ed edilizia dei lavori - Fattispecie.
In materia di riesame del nulla osta paesaggistico, non è legittima la richiesta da parte della Soprintendenza di conoscere, a mezzo di dichiarazione per atto notorio, di un dato temporale che, costituisce elemento del tutto ininfluente agli effetti dell’esercizio dei poteri di riscontro della legittimità del nulla osta sindacale in raffronto alle disposizioni di tutela paesistico/ambientale e di vincolo della zona. (Nella specie, è stata richiesta la data in cui è stato consumato l’abuso edilizio, pretesa, che assume esclusivo rilievo ai fini del controllo sulla compatibilità urbanistica ed edilizia dei lavori -in base alla successione nel tempo delle disposizioni che consentono la sanatoria “ex post”- riservato all’esclusiva competenza dell’Autorità comunale. Si versa, quindi, a fronte di un’iniziativa istruttoria che non trae serio fondamento in effettive carenze della documentazione annessa al nulla osta paesistico, tali da precludere il controllo di legittimità entro il termine di legge che non può, quindi, considerarsi interrotto per l’esercizio dell’attività istruttoria).
Riesame di legittimità del nulla osta paesistico - Termini di sessanta giorni - Computo - Acquisizioni istruttorie - Procedimento di controllo interorganico.
Ai fini del decorso del termine di sessanta giorni per il riesame di legittimità del nulla osta paesistico rilasciato dall’Amministrazione delegata, è necessario che esso pervenga corredato dagli elementi documentali utili al controllo.
Detto indirizzo trova, conforto nella lettera dell’ art. 82 del d.P.R. 24.07.1977, n. 616 -come integrato dall’art. 1 della legge 08.08.1985, n. 431, e poi riprodotto all’art. 151, comma quarto, del d.lgs. 29.10.1999, n. 490- ove è stabilito che “le regioni danno immediata comunicazione al Ministero per i Beni Culturali e Ambientali delle autorizzazioni rilasciate e trasmettono contestualmente la relativa documentazione”.
La possibilità di disporre acquisizioni istruttorie e del resto evenienza procedimentale peculiare ad ogni procedimento di controllo interorganico e si collega all’esigenza che il controllo medesimo avvenga secondo criteri di serietà e di piena cognizione di ogni elemento rilevante ai fin del giudizio di legittimità dell’atto.
Riesame di legittimità del nulla osta paesistico - Atto autorizzatorio - Carenze di elementi documentali utili all’esercizio del potere di verifica della legittimità - Acquisizioni documentazione integrativa - Effetto interruttivo del termine - Vigore “ex novo” del termine.
In tema di riesame di legittimità del nulla osta paesistico l’Amministrazione delegata, in presenza di eventuali carenze di elementi documentali utili all’esercizio del potere di verifica della legittimità dell’atto autorizzatorio possono disporre acquisizioni e dare ingresso all’attività c.d. istruttoria con effetto interruttivo del termine assegnato per il controllo in base al noto principio “contra non valentem non agit prescriptio”.
Una volta pervenuta alla Soprintendenza la documentazione integrativa indispensabile per il riscontro di legittimità prenderà vigore “ex novo” il termine perentorio per il riesame di secondo grado.
Riesame del nulla osta paesaggistico - Richieste di integrazioni istruttorie - Presupposti - Effettiva necessità.
In materia di riesame del nulla osta paesaggistico, le richieste istruttorie devono, fondarsi su un’effettiva insufficienza del supporto documentale necessario al riesame di legittimità del nulla osta regionale.
Esse devono essere finalizzate all’acquisizione di elementi documentali afferenti al titolo autorizzatorio, così da consentire una corretta, completa ed attenta valutazione della tipologia dell’intervento assentito, in raffronto alla disciplina di tutela dei valori paesaggistici ed ambientali della zona e della stessa conformazione dei luoghi oggetto di modifica (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 03.03.2007 n. 1019 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Sull'obbligo per le ATI, costituite o costituende, di dichiarare sempre e comunque le relative quote di partecipazione prima dell'aggiudicazione.
La legge impone alle a.t.i., costituite o costituende, di dichiarare le quote di partecipazione sempre e comunque prima dell'aggiudicazione. Le fonti del principio si rinvengono nell'art. 13, c. 5-bis, della l. n. 109 del 1994, laddove dispone che: "E' vietata qualsiasi modificazione alla composizione delle associazioni temporanee e dei consorzi di cui all'art. 10, c. 1, lettere d) ed e), rispetto a quella risultante dall'impegno presentato in sede di offerta". Ed inoltre nell'art. 93, c. 4, del d.P.R. n. 554 del 1999, laddove dispone che: "Le imprese riunite in associazione temporanea devono eseguire i lavori nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento".
La prima norma testé richiamata, introdotta dall'art. 9 della l. n. 415 del 1998, dopo la caduta del divieto originariamente previsto di costituire associazioni temporanee e consorzi concomitanti o successivi all'aggiudicazione di gara, non prevede espressamente il momento in cui la partecipante è tenuta a dichiarare l'importo dei lavori del raggruppamento in relazione alle singole compartecipazioni, ossia se sin dall'ammissione alla gara o successivamente all'aggiudicazione.
Tuttavia lascia deporre a favore della necessità della dichiarazione (e del possesso dei requisiti) sin dall'ammissione alla gara il fatto che il legislatore, nel ridisciplinare l'art. 13 richiamato, non abbia modificato il primo comma, laddove subordina la partecipazione alla procedura concorsuale delle associazioni temporanee alla condizione che la mandataria e le altre imprese del raggruppamento siano già in possesso dei requisiti di qualificazione per la rispettiva quota percentuale, con ciò evidentemente riaffermando la necessità della previa indicazione delle quote di partecipazione. Infatti aver conservato tale norma anche nell'attuale sistema, dove è possibile costituire raggruppamenti, significa che il legislatore ha ritenuto necessaria la preventiva verifica dei requisiti in relazione alle singole quote di partecipazione anche nel nuovo regime (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 01.03.2007 n. 1001 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Sull'illegittimità di una disposizione regolamentare che impone ai consiglieri comunali di motivare le richieste di accesso agli atti del comune.
Il diritto di accesso del consigliere comunale agli atti del comune assume un connotato tutto particolare, in quanto finalizzato "al pieno ed effettivo svolgimento delle funzioni assegnate al consiglio comunale".
Ne consegue che sul consigliere comunale, pertanto, non grava, né può gravare, alcun onere di motivare le proprie richieste d'informazione, né gli uffici comunali hanno titolo a richiederle ed conoscerle ancorché l'esercizio del diritto in questione si diriga verso atti e documenti relativi a procedimenti ormai conclusi o risalenti ad epoche remote. Diversamente opinando, infatti, la struttura burocratica comunale, da oggetto del controllo riservato al consiglio, si ergerebbe paradossalmente ad "arbitro", per di più, senza alcuna investitura democratica, delle forme di esercizio della potestà pubbliche proprie dell'organo deputato all'individuazione ed al miglior perseguimento dei fini della collettività civica.
L'esistenza e l'"attualità" dell'interesse che sostanzia la speciale actio ad exhibendum devono quindi ritenersi presunte juris et de jure dalla legge, in ragione della natura politica e dei fini generali connessi allo svolgimento del mandato affidato dai cittadini elettori ai componenti del consiglio comunale.
Pertanto, è illegittima una disposizione del regolamento comunale che imponga ai consiglieri comunali di motivare le richieste di accesso agli atti del comune (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 22.02.2007 n. 929 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICA: Piano di recupero - Delibera consiliare di approvazione - Impugnazione da parte del consigliere comunale - Limiti.
E’ da escludere la legittimazione dei consiglieri comunali ad impugnare in sede giurisdizionale le delibere dell’organo di appartenenza per tutto quanto non inerisca alla denuncia di vizi che si sostanzino nella lesione del diritto all’ufficio (ad esempio irritualità della convocazione dell’organo, violazione dell’ordine del giorno, difetto di costituzione del collegio); pertanto, i vizi che investono la deliberazione nei contenuti sostanziali sono sottratti all’azione giurisdizionale dei componenti del collegio, essendo a ciò legittimati solo i soggetti destinatari dell’atto (TAR Veneto, Venezia, Sez. I, 12.03.2004, n. 640 e TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 28.06.2004, n. 2300) (fattispecie in materia di impugnazione della delibera consiliare di approvazione di un piano di recupero di iniziativa pubblica, adottata con il voto contrario del ricorrente) (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 17.02.2007 n. 466 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAINQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - Regolamenti comunali - Criteri di localizzazione non preclusivi dell’installazione - Legittimità.
Non si pongono in contrasto con l’art. 8 della L. n. 36/2001 le norme regolamentari comunali che introducano vincoli all’installazione di stazioni radio base secondo un criterio di localizzazione non preclusivo dell’installazione stessa, segnatamente ove i vincoli, che non abbiano natura indeterminata e assolutamente discrezionale, non siano tali da pregiudicare l’interesse protetto dalla legislazione nazionale alla realizzazione di reti di telecomunicazione (nella specie, il regolamento comunale non consentiva l’installazione di apparati su edifici scolastici, sanitari, assistenziali, sportivi, vincolati ai sensi della normativa vigente, classificati di interesse storico architettonico, monumentale, di pregio storico, culturale e testimoniale o nel perimetro di 100 metri dagli stessi) (TAR Sicilia-Catania, Sez. II,
sentenza 16.02.2007 n. 303 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela degli interessi paesistici - Interventi edilizi in zona vincolata - Assenza del titolo abilitativo - Condono - Esclusione - Art. 32 D.L. n. 269/2003.
Ai sensi dell'art. 32 del D.L. n. 269/2003, non sono suscettibili di sanatoria, le nuove costruzioni realizzate, in assenza del titolo abilitativo edilizio, in area assoggettata a vincolo imposto a tutela degli interessi paesistici (in tal senso, Cass., Sez. III, 05.04.2005, n. 12577, Ricci; Cass., 01.10.2004, n. 38694. Canu ed altro; Cass., 24.09.2004, n. 37865, Musio).
Tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici - Interventi edilizi di minore rilevanza (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) - Sanatoria - Nulla osta - Necessità.
Nelle aree sottoposte a vincolo di cui all'art. 32 lett. a) del comma 26 della legge n. 47/1985 e s.m. (trattasi anche dei vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici) è possibile ottenere la sanatoria soltanto per gli interventi edilizi di minore rilevanza (corrispondenti alle tipologie di illecito di cui ai nn. 4, 5 e 6 dell'allegato 1: restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria), previo parere favorevole da parte dell'autorità preposta alla tutela del vincolo.
Tutela del patrimonio storico artistico o tutela della salute - Titolo abilitativo edilizio in sanatoria - Acquisizione dei pareri - Necessità - T.U. n. 380/2001 - D. Lgs. n 152/2006 - D.Lgs. n. 42/2004.
Ai fini dell'acquisizione dei pareri "si applica quanto previsto dall'art. 20, comma 6, del D.P.R. n. 380/2001" ed "il motivato dissenso espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico - territoriale, ivi inclusa la Soprintendenza competente, alla tutela del patrimonio storico artistico o alla tutela della salute preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria" (comma 4).
Zone paesaggisticamente vincolate - Modificazione dell'assetto del territorio - Artt. 143, 5° c., lett. b, e 149, D.Lgs. n. 42/2004.
Nelle zone paesaggisticamente vincolate è inibita -in assenza dell'autorizzazione già prevista dall'art. 7 della legge n. 1497 dei 1939, le cui procedure di rilascio sono state innovate dalla legge n. 431/1985 e sono attualmente disciplinate dall'art. 146 del D.Lgs. n. 42/2004- ogni modificazione dell'assetto del territorio, attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi, con le deroghe eventualmente individuate dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma - lett. b, del D Lgs. n. 42/2004, nonché ad eccezione degli interventi previsti dal successivo art. 149 e consistenti (tra l'altro) nella manutenzione, ordinaria e straordinaria, e nel consolidamento statico o restauro conservativo, purché non alterino Io stato dei luoghi e l'aspetto esteriore degli edifici.
Intervento edilizio mediante D.I.A. (restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria) su immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale - Interventi - Nulla osta - Necessità - Art. 22, 6° c., T.U.E. n. 380/2001 - D.Lgs. n 152/2006 - D.Lgs. n. 42/2004.
In materia urbanistica, qualora un qualsiasi intervento edilizio da realizzarsi mediante D.I.A. (quali la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo) riguardi immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale [ai sensi del D.Lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio); della legge n. 394/1991 (Legge-quadro sulle aree protette); della legge n. 183/1989 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) e del D.Lgs. n 152/2006 (Norme in materia ambientale)] l'effettuazione delle stesso e subordinata al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative (art. 22, 6° comma, del TU. n. 380/2001).
Costruzioni in zone sismiche - Vincoli in genere - C.d. "zone di rispetto - Art. 32 L. n 47/1985 e s.m..
Con elencazione avente carattere meramente esemplificativo può ricordarsi che l'art. 32 legge n 47/1985 e s.m. inerisce -oltre che ai vincoli paesistici ed ambientali- ai vincoli storici, artistici, architettonici ed archeologici; ai vincoli idrogeologici; ai vincoli previsti per i parchi e le aree naturali protette; ai vincoli derivanti dall'esistenza di usi civici; ai vincoli derivanti dalle c.d. "zone di rispetto" del demanio stradale, ferroviario ed aeroportuale, dei cimiteri; alle prescrizioni imposte per le costruzioni da eseguirsi in zone sismiche; ovvero ad altre limitazioni poste dal D.M. 01.04.1968, n. 1404. (D.L.vo n. 380/2001 Testo Unico edilizia; D.Lgs. n 152/2006 Norme in materia ambientale; D.Lgs. n. 42/2004 Codice dei beni culturali e del paesaggio; L. n. 394/1991 Legge-quadro sulle aree protette).
Aree assoggettate a vincolo paesaggistico-ambientale - Interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo - Rilascio del parere o dell'autorizzazione - Necessità.
L'effettuazione di interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, da realizzarsi in aree assoggettate a vincolo paesaggistico-ambientale, sono subordinati al preventivo rilascio del parere o dell'autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative (si pensi, ad esempio, al notevole impatto che può avere sul paesaggio già il solo rifacimento totale dell'intonacatura e del rivestimento esterno di un edificio qualora ne alteri il precedente aspetto esteriore).
Tuttavia, per l'acquisizione dell'autorizzazione paesaggistica la conferenza di servizi non è imprescindibilmente obbligatoria.
Condono edilizio - Nuova formulazione normativa - Comportamento omissivo - Valenza di silenzio-rifiuto - Silenzio-assenso - Esclusione - T.U. n. 380/2001 - D.Lgs. n 152/2006 - D.Lgs. n. 42/2004.
La normativa statale sul condono edilizio, per la sua natura straordinaria ed eccezionale, è di stretta interpretazione. Infatti, con la nuova formulazione normativa viene ripudiato l'istituto del silenzio-assenso ed al comportamento omissivo protrattosi oltre 180 giorni dalla richiesta di parere si attribuisce valenza di silenzio-rifiuto tutti i tipi di vincoli.
Opere abusive insanabili - L. n. 47/1985 e s.m..
Ai sensi degli articoli 32 e 33 della legge 28.02.1985, n. 47, le opere abusive non sono suscettibili di sanatoria, qualora: siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;''.
Ordine di demolizione - Funzione - Sanatoria ed estinzione dei reati edilizi - Poteri del Giudice.
In materia di sanatoria ed estinzione dei reati edilizi, sussiste in capo al giudice penale la competenza istituzionale per compiere l'accertamento di conformità alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Di conseguenza, risulta legittima la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell'opera abusiva [Cass. Sez. III, 17.04.2003, n. 18304, Guido; Sez.III, 07.04.2000, n, 4086, Pagano; Sez. V, 30.09.1498, n. 10309, Licata; Cass. Sezioni Unite 03.02.1997, sentenza n, 714, ric. Luongo.
Cosicché, deve ritenersi definitivamente superata, in materia urbanistica, la visione di un giudice supplente della pubblica Amministrazione, in quanto è il territorio a costituire l'oggetto della tutela posta dalle relative norme penali: non può affermarsi, pertanto, che la legge riserva all'autorità amministrativa ogni tipo di intervento nella materia e, avendo l'ordine di demolizione la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, ben può trovare applicazione l'art. 165 cod. pen..
Sanatorie amministrative - Sanzionabilità penale.
Solo il legislatore statale può incidere sulla sanzionabilità penale (per tutte v. la sentenza C. Cost. n. 487 del 1989) e che esso, specie in occasione di sanatorie amministrative, dispone di assoluta discrezionalità in materia di estinzione del reato o della pena, odi non procedibilità (C. Cost. sentenze n. 327 del 2000, n. 149 del 1999 e n. 167 del 1989; C. Cost. n. 196/2004).
Illeciti ammessi a sanatoria - Profili esclusivamente penali - Estinzione dei reati edilizi - Effetti.
Il comma 36 dell'art. 32 del D.L. n. 269/2003 ricollega la produzione degli "effetti di cui all'art. 38, comma 2, della legge 28.02.1985, n. 47" (estinzione dei reati edilizi e di quelli già previsti dalle leggi n. 1086/1971 e n. 64/1974) ai soli illeciti ammessi a sanatoria. Il comma 1 del novellato art 32 della legge n. 47/1985 dispone che soltanto "il rilascio del titolo abilitativo edilizio [previo parere favorevole delle Amministrazioni preposte alla specifica tutela vincolistica n.d.r.] estingue anche il reato per la violazione del vincolo", (Corte Costituzionale n. 196/2004). Conseguentemente, l'art. 39 della legge n. 47/1985, non può essere applicato per le opere che oggettivamente non abbiano i requisiti di condonabilità di cui all'art. 32 del D.L. n. 269/2003.
Condono edilizio - Sospensione del processo - Poteri del giudice - Sospensione in assenza dei presupposti di legge - Effetti.
Il giudice, già prima di sospendere il processo ex art. 44 della legge n. 47/1985, deve effettuare un controllo in ordine alla sussistenza delle condizioni legittimanti l'accesso alla procedura sanante (data di esecuzione delle opere, stato di ultimazione delle stesse secondo la nozione fornita dall'art. 31 della legge n. 47/1985; rispetto dei limiti volumetrici, eventuali esclusioni oggettive della tipologia d'intervento dalla sanatoria; tempestività della presentazione, da parte di soggetti legittimati, di una domanda di sanatoria riferita alle opere abusive contestate nel capo di imputazione), (Cass. Sezioni Unite 24.11.1999, sentenza n. 22, ric. Sadini).
L'ambito di tale potere di controllo è strettamente connesso all'esercizio della giurisdizione penale, perché è il giudice che deve eseguire, in conclusione, l'indispensabile verifica degli elementi di fatto e di diritto della causa estintiva. Trattasi, inoltre, di compiti propri dell'autorità giurisdizionale -conformi al dettato degli artt. 101, 2° comma, 102, 104, 1° comma, e 112 Cost.- che non possono essere demandati neppure con legge ordinaria all'autorità amministrativa in un corretto rapporto delle sfere specifiche di attribuzione.
Nel caso in cui il giudice sospenda il processo (ex arti. 44 o 38 della legge n. 47/1985) in assenza dei presupposti di legge, la sospensione è inesistente ed il corso della sospensione non è interrotto (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.02.2007 n. 6431 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Annullamento del nulla osta paesaggistico - Sentenza di annullamento - Diniego di sanatoria edilizia fondato sul decreto soprintendentizio - Caducazione - Esclusione - Invalidità ad effetto caducante e invalidità ad effetto viziante.
Il diniego di sanatoria edilizia, ancorché fondato sul decreto soprintendentizio di annullamento del nulla osta paesaggistico, non è caducato dalla sentenza di annullamento di quest’ultimo atto, vertendosi nell'ambito dell'invalidità ad effetto cd. "viziante". La tradizionale distinzione, elaborata in sede giurisprudenziale, tra invalidità ad effetto caducante ed invalidità ad effetto viziante, si basa sulla diversa intensità che contraddistingue il nesso di presupposizione o di derivazione intercorrente tra l'atto annullato e l'atto successivo. Quando l'atto presupposto entra nel modello legale dell'atto conseguenziale come requisito di esistenza opera l’effetto caducante.
Nel caso dell’invalidità ad effetto viziante, invece, l’atto consequenziale risulta invalido per vizio derivato, ma resta efficace, salva un’apposita ed idonea impugnativa, resistendo all’annullamento dell’atto presupposto (cfr. Cons. Stato Sez. V 22/11/1996 n. 1389; TAR Veneto Sez. I 09/05/1996 n. 901, in materia di illegittimità caducante nell’ambito del rapporto endoprocedimentale, o TAR Puglia Sez. I 06/11/2002 n. 4837, Cons. Stato Sez. V 11/02/2002 n. 785, in ipotesi di rapporto di “preordinazione funzionale”).
Così, l’effetto caducante si realizza, tipicamente, per tutti gli atti che, in quello annullato, trovano il loro antecedente necessario, purché non sia frattanto intervenuto un nuovo e diverso atto, il quale, come suo proprio effetto e indipendentemente dall’atto annullato, modifichi irreversibilmente le situazioni giuridiche; in quest’ultimo caso, gli atti, seppur viziati, potranno essere annullati soltanto se tempestivamente gravati; nel primo il ricorrente non ha evidentemente l’onere d’impugnare gli atti consequenziali che in quello annullato trovano il loro antecedente necessario (cfr. C.d.S., V, 24.05.1996, n. 592).
Nel caso di specie, gli atti in questione (annullamento del nulla osta comunale e diniego della concessione in sanatoria) pur collegati nell’ambito del rapporto procedimentale, esprimono una differente valutazione di interessi, e non sussiste quel rapporto strettamente funzionale, tale da far ritenere il rapporto di necessaria presupposizione tra atti, riconducibile al novero della “preordinazione funzionale”.
Invero, il diniego di concessione in sanatoria, seppure fondato sulla presa d’atto dell’annullamento del nulla osta paesaggistico, è espressione di una rinnovata valutazione di interessi da parte della autorità comunale, tale da non poter essere travolto dai vizi del precedente provvedimento (TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 12.02.2007 n. 997 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPreavviso di rigetto e controdeduzioni del privato.
Il G.A. piemontese ha stabilito che, ai sensi dell'art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, il provvedimento di diniego a fronte di un'istanza del privato deve riportare le ragioni per la cui la P.A. ha ritenuto di non accogliere le deduzioni prodotte dal richiedente in riscontro al cd. "preavviso di rigetto" della sua domanda pretensiva; diversamente, il provvedimento risulta illegittimo.
Le regole in tema di partecipazione al procedimento, infatti, sono finalizzate a consentire al privato una fattiva partecipazione all'istruttoria procedimentale; ciò importa che, ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. b), della stessa legge, l'amministrazione ha l'obbligo di valutare le memorie scritte ed i documenti prodotti dall'interessato, ove siano pertinenti all'oggetto del procedimento, e di dare conto, nella motivazione del provvedimento finale, delle ragioni che l'hanno indotta a non accogliere quanto rappresentato dal privato.
E, pertanto, illegittimo il provvedimento che non esterni compiutamente e specificamente la motivazione che ha indotto l'amministrazione all'adozione dell'atto pur in presenza di controdeduzioni formalizzate dal destinatario dell'azione amministrativa (
TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 07.02.2007 n. 505 - link a www.altalex.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: INFORMAZIONE AMBIENTALE - D.Lgs. n. 195/2005 - Nozione - Dichiarazione in ordine all’interesse all’accesso - Necessità - Esclusione.
Si definisce “informazione ambientale”, di cui al D.Lgs. 195/2005, qualsiasi informazione disponibile in forma scritta, visiva, sonora, elettronica od in qualunque altra forma materiale concernente:
1) lo stato degli elementi dell'ambiente, quali l'aria, l'atmosfera, l'acqua, il suolo, il territorio, i siti naturali, compresi gli igrotopi, le zone costiere e marine, la diversità biologica ed i suoi elementi costitutivi, compresi gli organismi geneticamente modificati, e, inoltre, le interazioni tra questi elementi;
2) fattori quali le sostanze, l'energia, il rumore, le radiazioni od i rifiuti, anche quelli radioattivi, le emissioni, gli scarichi ed altri rilasci nell'ambiente, che incidono o possono incidere sugli elementi dell'ambiente, individuati al numero 1);
3) le misure, anche amministrative, quali le politiche, le disposizioni legislative, i piani, i programmi, gli accordi ambientali e ogni altro atto, anche di natura amministrativa, nonché le attività che incidono o possono incidere sugli elementi e sui fattori dell'ambiente di cui ai numeri 1) e 2), e le misure o le attività finalizzate a proteggere i suddetti elementi;
4) le relazioni sull'attuazione della legislazione ambientale;
5) le analisi costi-benefìci ed altre analisi ed ipotesi economiche, usate nell'àmbito delle misure e delle attività di cui al numero 3);
6) lo stato della salute e della sicurezza umana, compresa la contaminazione della catena alimentare, le condizioni della vita umana, il paesaggio, i siti e gli edifici d'interesse culturale, per quanto influenzabili dallo stato degli elementi dell'ambiente di cui al punto 1) o, attraverso tali elementi, da qualsiasi fattore di cui ai punti 2) e 3).
L’informazione può essere richiesta da qualsiasi persona fisica o ente “senza che questi debba dichiarare il proprio interesse”, ad ogni Autorità pubblica che ne abbia il possesso “in quanto dalla stessa prodotta o ricevuta o materialmente detenuta” (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 07.02.2007 n. 294 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività valutativa ed elaborativa - Istanza generica di accesso agli atti - Limiti - Diniego di accesso - Fattispecie.
Quando l'istanza di accesso agli atti postuli un'attività valutativa ed elaborativa dei dati in possesso dell'amministrazione, è precluso il suo accoglimento, poiché rivela un fine di generale controllo sull'attività amministrativa che non risponde alla finalità per la quale lo specifico strumento in parola può venire azionato, che è solo quella della tutela di un ben specifico interesse (Consiglio Stato, sez. IV, 09.08.2005, n. 4216) (Fattispecie: lesioni da inquinamento acustico, accesso alla documentazione concernente il procedimento avviato dall’ARPA Lazio per il risanamento acustico dell’area. Quanto al procedimento sanzionatorio a carico dell’Impresa in relazione all’inquinamento acustico lamentato, la nota del Comune informava l’interessato che il procedimento era in corso di svolgimento, procedendosi alle verifiche richieste. Pertanto, l’auspicato intervento sanzionatorio si trovava in una fase interlocutoria, destinata all’accertamento dei presupposti legali per l’adozione del provvedimento, quindi, l’Amministrazione non era in condizioni di esibire un documento di natura provvedimentale, che integrava in modo compiuto l’esito delle valutazioni necessarie) (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 31.01.2007 n. 408 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Installazione di una stazione radio base - Istanza di rilascio del permesso di costruire - Formazione del silenzio assenso ex art. 87 del D.Lgs. n. 259/2003 - Esclusione.
Una volta inoltrata, in vigenza dell’art. 87 del D. Lgs. n. 259/2003, la domanda di rilascio del permesso di costruire per l’installazione di una stazione radio base, il richiedente non può più avvalersi dell’istituto del silenzio assenso ex art. 87 citato.
Se è vero che l’Amministrazione ha l’obbligo di attenersi ai principi di cui all’art. 97 della Cost. nell’espletamento della propria attività amministrativa, in modo conforme deve agire anche la parte privata, evitando, cioè, di chiedere un determinato provvedimento con l’intento di avvalersi, in caso di negato rilascio, di un altro e ben diverso provvedimento.
Nel caso specifico, quindi, proprio perché era stato espressamente chiesto il permesso di costruire, l’Amministrazione non aveva alcun obbligo di intendere diversamente la domanda.
Regione Marche - L.R. n. 124/2001 - Comuni - Potere di individuare i siti idonei alla localizzazione degli impianti di telefonia mobile - Sussistenza - Preventivo invito ai gestori a presentare osservazioni - Legittimità del regolamento comunale.
E’ legittimamente adottato un regolamento comunale per l’installazione delle infrastrutture di comunicazione elettronica, posto che, ai sensi della Legge regionale Marche n. 124/2001, ai Comuni è demandata la possibilità di individuare sul proprio territorio i siti più idonei per la localizzazione di nuovi impianti di telefonia mobile; tanto a maggior ragione se (come nella specie) l’individuazione è preceduta dall’espresso invito ai gestori delle reti a comunicare le proprie osservazioni in seno alla procedura di variante al P.R.G. adottata (TAR Marche, Sez. I,
sentenza  31.01.2007 n. 28 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento idrico - Acque - Nuova attività produttiva nel medesimo impianto - Autorizzazione allo scarico - Mutamento titolare dello scarico - Autonoma autorizzazione - Necessità - Valori limite di emissione - Fattispecie - Art. 45 D. L.vo n. 152/1999 (ora art. 124 D.Lgs. n. 152/2006.
L’insediamento di una nuova attività produttiva nel medesimo capannone facente capo a diversa persona giuridica priva di ogni collegamento con quella precedentemente insediata, seppure avente non dissimile oggetto sociale, impone necessariamente l'acquisizione di autonoma autorizzazione allo scarico da emettersi a seguito di nuova valutazione dell'attività produttiva e delle caratteristiche dello scarico.
Ciò in quanto l'autorizzazione allo scarico ex art. 45 D. Legislativo n. 152/1999 (ora art. 124 del D. Lgs. n. 152/2006) è necessariamente funzionale alle caratteristiche qualitative e quantitative dello scarico, alla indicazione dei mezzi tecnici indicati nel processo produttivo e nei sistemi di scarico nonché all'indicazione dei sistemi di depurazione utilizzati per conseguire il rispetto dei valori limite di emissione (art 46 D. Lgs.vo. 152/1999). Fattispecie: nuovi scarichi di acque reflue industriali, mediante immissione in rete fognaria pubblica. (conferma, Tribunale di Modena sentenza del 03/10/2005).
Inquinamento idrico - Tutela delle acque - Nuovi scarichi di acque reflue industriali, mediante immissione in rete fognaria pubblica - Controlli - Natura - Titolare dell'attività autorizzata - Mutamento del titolare - Autonoma autorizzazione - Necessità - Artt. 59, c. 1° e 45, D.Lgs. n. 152/1999 (ora artt. 137 e 124 D. Lgs. n. 152/2006).
In materia di tutela delle acque, la natura temporanea dell'autorizzazione allo scarico è stabilita anche in funzione di un controllo circa l'affidabilità del relativo destinatario in ordine alla piena osservanza di tali prescrizioni. Sicché, non è indifferente per il legislatore l'identità del soggetto, persona fisica o giuridica, destinatario della autorizzazione allo scarico, che appunto l'art. 45 del D. Lgs. n. 152 (ora art. 124 del D.Lgs. n. 152/2006) prevede che possa essere rilasciata unicamente "al titolare dell'attività da cui origina lo scarico".
Un tale collegamento presuppone il controllo preventivo sulle caratteristiche e sulle qualità soggettive di affidabilità dell'impresa richiedente, a garanzia, già nella fase preliminare del procedimento di autorizzazione, dell'effettiva osservanza, da parte del destinatario di questa, delle prescrizioni imposte dalla legge e dall'autorità amministrativa in materia di scarichi (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.01.2007 n. 2877 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BOSCHI E FORESTE - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Area boscata - Nozione - Qualifica di bosco - Presupposti - Inclusione negli elenchi - Necessità - Esclusione - Art. 163 D. Lgs. n. 490/1999 - Art. 181 D. Lgs. n. 42/2004.
Il taglio del bosco eseguito con tecnica a raso e non culturale configura il reato dell'articolo 163 d.lgs. n. 490/1999, ora sostituito dall'articolo 181 del D.Lgs. n. 42 della 2004 (Sez. 3 n 18695 dell'11.03.2004, rv 228452).
Un’area boscata è qualificabile dalla presenza effettiva del bosco quando un terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, abbia i requisiti indicati dalla normativa in materia, (ad es. estensione, copertura, ecc). e ciò indipendentemente dal dato che la zona sia riportata come tale in specifici elenchi.
Sicché, ai fini della sottoposizione a vincolo paesaggistico non può assumere una portata riduttiva la nozione di "territorio coperto da bosco".
BOSCHI E FORESTE - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Nozione di "territorio coperto da bosco" - Zona boscata - Natura.
La nozione di "territorio coperto da bosco", ai fini della sottoposizione a vincolo paesaggistico ai sensi dell'art. 1, lett. g), della legge 08/08/1985 n. 431 e s.m., non può assumere una portata riduttiva (Sez. 3, n. 1551 del 10/04/2000 Rv. 216980), sicché la natura di zona boscata è determinata dalla presenza effettiva di bosco fitto di alto fusto o di bosco rado indipendentemente dal dato che la zona sia riportata come tale dalla Carta tecnica regionale (Sez. 3, n. 17060 del 21/03/2006 Rv. 234318).
BOSCHI E FORESTE - BENI CULTURALI E AMBIENTALI - Macchia mediterranea - Zona boscata - Tutela.
La macchia mediterranea interessata dalla predominanza, rispetto ai sottostanti cespugli, di alberi di medio fusto o di essenze arbustive di elevato sviluppo -e non avente, quindi, caratteristiche di macchia bassa o rada- rientra nella previsione dell'art. 1, lett. g), della legge 08/08/1985 n. 431 e s.m. (da ultimo Sez. 3, n. 48118 del 04/11/2004 Rv. 230483) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 25.01.2007 n. 2864 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Zonizzazione - Inserimento nella stessa classe di aree aventi valenza e destinazione diversa - Abitazioni e insediamenti industriali - Irragionevolezza.
Non risulta ragionevole, perché non fondato su una realistica rappresentazione della situazione considerata, un azzonamento acustico che preveda l’inserimento nella stessa classe di aree aventi valenza e destinazione diversa, atteso che, in questo modo, si assoggettano tali aree agli stessi limiti di emissione, pregiudicando le esigenze dei soggetti che operano nel settore industriale, ove lo stesso legislatore ha consentito più elevati livelli di rumorosità in considerazione delle esigenze scaturenti dalla natura dell’attività svolta. (cfr. Tar Milano n. 1231/2004) (nella specie, l’amministrazione comunale aveva creato una macrozona contenente parti del territorio significativamente diverse per destinazione - zone C e D, interessate da insediamenti industriali e da abitazioni - determinandosi ad attribuire, nella medesima macrozona, una duplice, diversa classificazione acustica - II e III -).
Zonizzazione - Divieto di contatto diretto di aree con grado acustico non immediatamente consecutivo - Art. 4 L. n. 447/1995 - Procedimento - Zone cuscinetto - Piani di risanamento acustico.
La creazione di macrozone che comprendano parti del territorio del tutto eterogenee non può essere giustificata dall’esigenza di rispettare il divieto, sancito normativamente dall’art. 4 della L. 447/1995, di contatto diretto di aree aventi grado acustico non immediatamente consecutivo (come può avvenire quando zone urbanisticamente qualificate produttive sono collocate a ridosso di aree residenziali).
In tal caso, infatti, il piano di zonizzazione acustica dovrà prevedere la realizzazione di zone cuscinetto, ovvero, se neppure questo è praticabile, imporre piani di risanamento acustico (TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 24.01.2007 n. 187 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Immobile abusivo - Acquisizione al patrimonio comunale - Ordine di demolizione - Interesse a sospendere o paralizzare l'esecuzione - Limiti.
Dopo l'acquisizione del bene al patrimonio comunale, viene di regola comunque meno per il condannato l'interesse a sospendere o paralizzare l'esecuzione dell'ordine di demolizione in quanto nel frattempo è il Comune ad essere divenuto proprietario del bene.
Demolizione del manufatto abusivo - Esecuzione dell'ordine - Domanda di condono edilizio - Presupposti - Verifiche del giudice.
In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito con la sentenza di condanna, il giudice, al fine di pronunciarsi sulla sospensione dell'esecuzione a seguito dell'avvenuta presentazione della domanda di condono edilizio ex art. 32 del D.L. 30.09.2003 n. 289, convertito con modificazioni in legge 24.11.2003 n. 326, deve accertare l’esistenza delle seguenti condizioni:
a) la tempestività e proponibilità della domanda;
b) la effettiva ultimazione dei lavori entro il termine previsto per l'accesso al condono;
c) il tipo di intervento e le dimensioni volumetriche;
d) la insussistenza di cause di non condonabilità assoluta;
e) l'avvenuto integrale versamento della somma dovuta ai fini dell'oblazione;
f) l'eventuale rilascio di un permesso in sanatoria o la sussistenza di un permesso in sanatoria tacito (Cass. Sez. 3, n. 3992 del 12/12/2003 Rv. 227558) e che, quindi, non può essere disposta in sede di esecuzione la sospensione dell'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna in attesa della definizione della procedura relativa al rilascio della concessione in sanatoria qualora l'opera non rientri tra quelle condonabili (Cass. Sez. 3, n. 49399 del 16/11/2004 Rv. 230798).
Ordine di demolizione accessivo alla condanna principale - Autonomia funzionale - Finalità - Ristoro dell'offesa al territorio.
In materia urbanistica, sussiste l’autonomia funzionale dell'ordine di demolizione accessivo alla condanna principale. Lo stesso persegue la finalità di ristoro dell'offesa al territorio e che le modalità di applicazione e di esecuzione del provvedimento ripristinatorio devono trovare esatta corrispondenza nella situazione lesiva da rimuovere (Cass. S.U. n. 15 del 1996, RV 205336).
Manufatto abusivo - Demolizione - Sanzione - Riesamina in fase esecutiva - Art. 31 D.P.R. n. 380/2001.
La sanzione della demolizione del manufatto abusivo, prevista dall'art. 7 della legge 28.02.1985 n. 47 ed ora sostituito dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380, è sottratta alla regola del giudicato ed è riesaminabile in fase esecutiva (Cass. Sez. 3, n. 23992 del 16/04/2004 Rv 228691).
Opera abusiva - Ordine di demolizione emesso dal giudice penale - Acquisizione gratuita nel patrimonio indisponibile del comune - Incompatibilità - Esclusione - Deliberazione consiliare - Condizioni.
L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva patrimonio indisponibile del comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice penale ed eseguito dal pubblico ministero, potendosi ravvisare un'ipotesi di incompatibilità soltanto se la deliberazione consiliare abbia statuito di non dover demolire l'opera acquisita ravvisando l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive. (ex plurimis Cass. Sez. 3, n. 37120 del 08/07/2003 Rv. 226321; Cass. Sez. 3, n. 26149 del 09/06/2005 Rv. 231941; Cass. Sez. III, n. 37120 del 11/05/2005 Rv. 232174).
Ordine di demolizione impartito dal giudice penale - Natura - Autonoma funzione ripristinatoria - Art. 31, ultimo c., T.U. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione impartito dal giudice penale ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge n. 47/1985 (attualmente previsto dell'art. 31, ultimo comma, del T.U. n. 380/2001), assolvendo ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, ha natura di provvedimento accessorio rispetto alla condanna principale e costituisce esplicitazione di un potere sanzionatorio, non residuale o sostitutivo ma autonomo rispetto a quelli dell'autorità amministrativa, attribuito dalla legge al giudice penale (vedi: Cass. sentenza n. 37120/2005; Cass., Sez. Unite, 24.07.1996, n. 15, ric. PM in proc. Monterisi).
Opera abusiva - Ordine demolitorio impartito dal giudice penale - Acquisizione gratuita - Patrimonio indisponibile del comune - Finalità - Consiglio Comunale - Poteri e limiti.
L'acquisizione gratuita, in via amministrativa, è finalizzata essenzialmente alla demolizione, per cui non si ravvisa alcun contrasto con l'ordine demolitorio impartito dal giudice penale, che persegue lo stesso obiettivo: il destinatario di tale ordine, a fronte dell'ingiunzione del P.M., allorquando sia intervenuta l'acquisizione amministrativa a suo danno, non potrà ottemperare all'ingiunzione medesima allorquando il Consiglio Comunale abbia già ravvisato (ovvero sia sul punto di deliberare) l'esistenza di prevalenti interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive.
Ove il Consiglio comunale non abbia deliberato il mantenimento dell'opera, il procedimento sanzionatorio amministrativo (per le opere realizzate in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali) ha come sbocco unico ed obbligato la demolizione a spese del responsabile dell'abuso.
Ordine di demolizione - Fase di esecuzione - Provvedimenti concorrenti - Risoluzione - Incompatibilità.
Nella fase di esecuzione dovranno risolversi le questioni riguardanti i rapporti con i provvedimenti concorrenti della pubblica Amministrazione e potrà disporsi la revoca dell'ordine di demolizione (statuizione sanzionatoria giurisdizionale, che, avendo natura amministrativa, non è suscettibile di passare in giudicato) che risulti non compatibile con situazioni di fatto o giuridiche sopravvenute, quali atti amministrativi della competente autorità, che abbia conferito all'immobile altra destinazione o abbia provveduto alla sua sanatoria.
Tale incompatibilità, però, oltre che assoluta, deve essere già esistente ed insanabile e non invece futura e meramente eventuale (Cass., Sez. 3^: 17.12.2001, Musumeci ed altra; 30.03.2000, Ciconte; 14.02.2000, Cucinella; 04.02.2000, Le Grottaglie; 07.03.1994, Iannelli e 7.3.1994, Acquafredda).
Manufatto abusivo - Ordine di demolizione adottato dal giudice penale - Efficacia e limiti - Acquisizione al patrimonio del Comune - T.U. n. 380/2001.
L'ordine di demolizione del manufatto abusivo, adottato dal giudice penale ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della Legge 28.02.1985, n. 47, (attualmente previsto dell'art. 31, ultimo comma, del T.U. n. 380/2001) conserva efficacia fino a quando la Pubblica Amministrazione rimanga inerte, omettendo sia di ingiungere la demolizione, sia di procedere all'acquisizione di diritto del manufatto al patrimonio del Comune (in questo senso Sez. III, n. 22743 del 15/04/2004 Rv. 228721).
Pertanto, una volta esauritasi la procedura ablatoria con il provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio comunale -provvedimento che costituisce titolo per la successiva immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari- il condannato è privato della titolarità e disponibilità del bene stesso e, quindi, viene a trovarsi nella condizione dell'impossibilità di eseguire l'ordine giudiziale di demolizione, se non compiendo un atto di intervento su cosa altrui (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1904 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia o permesso di costruire - Legittimità del titolo abilitativo - Poteri del giudice penale - Giudicato amministrativo.
Il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal titolo abilitativo edificatorio (vedi Cass., Sez. Un., 28.11.2001, Salvini).
Deve escludersi che -qualora sussista difformità dell'opera edilizia rispetto a previsioni normative statali o regionali ovvero a prescrizioni degli strumenti urbanistici- il giudice debba comunque concludere per la mancanza di illiceità penale qualora sia stata rilasciata concessione edilizia o permesso di costruire, in quanto detti provvedimenti non sono idonei a definire esaurientemente lo statuto urbanistico ed edilizio dell'opera realizzanda.
Inoltre, deve escludersi che una qualsiasi pronuncia del giudice amministrativo, coinvolgente l'atto amministrativo costituente elemento di fattispecie penalmente rilevante, possa inibire al giudice ordinario la valutazione dei profili di illegittimità dello stesso.
Titolo edilizio illegittimo - Esecuzione di lavori edilizi in assenza di permesso di costruire - Configurazione del reato.
Il reato di esecuzione di lavori edilizi in assenza di permesso di costruire può ravvisarsi anche in presenza di un titolo edilizio illegittimo, (Cass. Sez. III, sentenza del 21.03.2006, ric. Di Mauro), salvo che provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell'opera.
Prescrizioni degli strumenti urbanistici - Difformità da disposizioni legislative o regolamentari - Poteri del giudice penale - Elementi di natura extrapenale.
Nel caso di accertata difformità da disposizioni legislative o regolamentari, ovvero dalle prescrizioni degli strumenti urbanistici, non si configura una non consentita "disapplicazione", da parte del giudice penale dell'atto amministrativo concessorio (Cass., Sez. Un., 12.11,1993, Borgia), in quanto lo stesso giudice, qualora come presupposto o elemento costitutivo di una fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo ovvero l'autorizzazione del comportamento del privato da parte di un organo pubblico, non deve limitarsi a verificare l'esistenza ontologica dell'atto o provvedimento amministrativo, ma deve verificare l'integrazione o meno della fattispecie penale, "in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo" (vedi Cass., Sez. Un., 28,11.2001, Salvini; nonché Sez. VI, 18.03.1998, n. 3396, Calisse ed altro).
Illegittimità sostanziale di un titolo abilitativo edilizio - Poteri del giudice penale - Art. 5 L. n. 2248/1863, all. E).
Il giudice penale, allorquando accerta profili di illegittimità sostanziale di un titolo abilitativo edilizio, procede ad una identificazione in concreto della fattispecie sanzionata e non pone in essere alcuna "disapplicazione" riconducibile all'art. 5 della legge 20.03.1863, n. 2248, allegato E), né incide, con indebita ingerenza, sulla sfera riservata alla Pubblica Amministrazione, poiché esercita un potere che trova fondamento e giustificazione nella stessa previsione normativa incriminatrice. (Cass., Sez. III, 28.09.2006, sentenza n. 40425, Consiglio).
Non conformità dell'atto amministrativo alla normativa - Sindacato del giudice penale.
La non conformità dell'atto amministrativo alla normativa che ne regola l'emanazione alle disposizioni legislative statali e regionali in materia urbanistico-edilizia ed alle previsioni degli strumenti urbanistici può essere rilevata non soltanto se l'atto medesimo sia illecito, cioè frutto di attività criminosa, ed a prescindere da eventuali collusioni dolose del soggetto privato interessato con organi dell'amministrazione.
Il sindacato del giudice penale, al contrario, è possibile tanto nelle ipotesi in cui l'emanazione dell'atto sia espressamente vietata in mancanza delle condizioni previste dalla legge quanto in quelle di mancato rispetto delle norme che regolano l'esercizio del potere.
Costruzione edilizia - Conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici - Potere e limiti del giudice penale.
Il potere del giudice penale di accertare la conformità alla legge ed agli strumenti urbanistici di una costruzione edilizia trova un limite nei provvedimenti giurisdizionali del giudice amministrativo passati in giudicato che abbiano espressamente affermato la legittimità della concessione o della autorizzazione edilizia ed il conseguente diritto del cittadino alla realizzazione dell'opera (vedi: Cass., Sez. III, 21.10.2003, n. 34707, Luterano di Scorpianello) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1894 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Distanze legali minime tra costruzioni - Disciplina applicabile ai rapporti tra privati - Art. 9 del D.M., n. 1444/1968 - Esclusione - Disciplina codicistica - Art. 873 segg. cod. civ..
La disciplina delle distanze legali minime tra costruzioni posta dall'art. 9 del D.M., n. 1444/1968 non è applicabile ai rapporti tra privati, trattandosi di disposizione esclusivamente dedicata ai Comuni, i quali sono tenuti al rispetto delle menzionate distanze nella predisposizione degli strumenti urbanistici.
Ne consegue che: a) se lo strumento urbanistico si ponga in contrasto con l'art. 9 del D.M. n 1444/1968, esso può essere finanche disapplicato dal giudice ordinario, che può riconoscere immediata precettività al predetto art. 9, divenuto, per inserzione automatica, parte integrante dello strumento urbanistico in sostituzione della disposizione disapplicata; b) se lo strumento urbanistico non stabilisca distanze legali minime per le costruzioni in una determinata area, dall'impossibilità di applicazione dell'art, 9 D.M. n. 1444/1968 nei rapporti interprivati discende che alla costruzioni si applica la disciplina codicistica, con possibilità di edificazioni sul confine o in aderenza (artt. 873 segg. cod. civ.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1894 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nozione di bosco - Tutela paesaggistica - Competenze dello Stato e delle Regioni - Lotta contro gli incendi boschivi - Art. 2, c. 6, D.Lgs. n. 227/2001.
La definizione della nozione di bosco ai fini della tutela paesaggistica spetta solo allo Stato, che l'ha esercita attraverso il comma 6, dell'art. 2 del D.Lgs. 18.05.2001 n. 227, mentre spetta alle Regioni stabilire eventualmente un diverso concetto di bosco per i territori di loro appartenenza, solo per fini diversi, attinenti per esempio allo sviluppo dell'agricoltura e delle foreste, alla lotta contro gli incendi boschivi, alla gestione dell'arboricoltura da legno etc..
E' evidente che se le Regioni formulassero una diversa definizione di bosco avente efficacia anche per la individuazione dei territori boschivi protetti dal vincolo paesaggistico finirebbero per interferire sulla estensione della tutela dell'ambiente, che per precisa scelta costituzionale è riservata allo Stato. (Legge costituzionale 18.10.2001 n. 3, che ha modificato la ripartizione delle competenze regionali tra Stato e Regioni).
Individuazione dei territori boschivi protetti dal vincolo paesaggistico - Nozione di bosco.
La nozione di bosco ai fini della individuazione dei territori boschivi protetti dal vincolo paesaggistico è stata definita nel comma 6 dell'art. 2 del D.Lgs. 18.05.2001 n. 227, e coincide con ogni terreno coperto da vegetazione forestale arborea, associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sugherete o da macchia mediterranea, purché avente estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati, larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento. Inoltre, sono assimilati al bosco i fondi gravati dall'obbligo di rimboschimento per fini di tutela ambientale, nonché le radure e le altre superfici di estensione inferiore a 2.000 metri quadrati che interrompono la continuità del bosco.
INCENDI boschivi - Elaborazione dei piani regionali - Competenza regioni - Limiti.
In materia di incendi boschivi, la legge 21.11.2000 n. 353 (legge quadro in materia di incendi boschivi), affida alle regioni il compito di elaborare piani regionali per la programmazione delle attività di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi, sulla base di linee guida e direttive deliberate dal Consiglio dei ministri.
Tutela dei boschi - Concetto di bosco - Fattispecie.
Il D.Lgs. 18.05.2001 n. 277, all'art. 2, stabilisce una definizione generale, valevole per ogni normativa che si riferisca ai boschi ed espressamente per la normativa ambientale che tutela i boschi, quale è l'art. 146, comma 1, lett. g), D.Lgs. 490/1999, ora sostituito dall'art. 142 comma 1, lett. g) D.Lgs. 22.01.2004 n. 42.
Tale generale definizione vale sino a che le regioni, per gli stessi fini previsti dalle norme nazionali, non provvedano a definire il concetto di bosco relativamente al territorio di loro competenza, e a meno che le stesse regioni non abbiano diversamente già definito il concetto per gli stessi fini previsti dalle leggi nazionali.
Nella specie, il concetto di bosco definito dal piano regionale della Sardegna approvato allo specifico fine della prevenzione e repressione degli incendi boschivi, non può sostituire la definizione di bosco formulata nel comma 6 dell'art. 2 su riportato valevole al fine della tutela paesaggistica.
Nozione di bosco - Fattispecie giuridica di "bosco" - Giurisprudenza - Art. 2 del D.Lgs. 227/2001.
Nella nozione di bosco rientra sia la vegetazione arborea, sia la macchia mediterranea come tale, indipendentemente dal suo carattere arboreo o arbustivo, sicché non si dovrebbe più distinguere tra "macchia alta", di predominanza arborea, e "macchia bassa", di natura arbustiva.
In tal senso non si può condividere Cass. Sez. III, n. 6011 del 14.12.2001, Martella, rv. 221164 (poi seguita da Cass. Sez. III, n. 48118 del 04.11.2004, Cani, rv. 230483), che ha il merito di aver rigorosamente distinto, secondo criteri botanici, le nozioni di macchia alta, macchia bassa e macchia rada o "gariga", ma anche il difetto di aver del tutto ignorato la definizione da poco formulata dal legislatore con l'art. 2 del D.Lgs. 227/2001. (In relazione a tale definizione, si potrebbe plausibilmente sostenere che dei tre tipi di macchia individuati nella sentenza Martella, solo la "gariga", cioè la scarna coltre vegetale dei suoli più poveri, resti estranea alla nozione legislativa di bosco).
Alla luce dei principi su esposti, del tutto correttamente il giudice del riesame ha ritenuto che nel caso di specie ricorresse la fattispecie giuridica di "bosco", come tale vincolata a fini paesaggistici, atteso che il terreno sul quale era in corso di realizzazione l'intervento de quo era coperto da macchia mediterranea c.d. alta, composta da tipica vegetazione arborea, associata a vegetazione arbustiva (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1874 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Tutela paesaggistica - Intervento edilizio effettuato con permesso di costruire ma in assenza della autorizzazione paesaggistica - Violazione, dell’art. 181 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 - Sussiste - Reato di cui all'art. 44 lett. c) D.P.R. 380/2001, in relazione agli artt. 142 e 146 D.Lgs. 42/2004 - art. 2, comma 6, D.Lgs. 227/2001.
In materia di tutela paesaggistica, deve essere ravvisato il fumus della contravvenzione di cui agli artt. 142 e 146 (rectius di cui all'art. 181 in relazione agli artt. 142 e 146) D.Lgs. 22.01.2004 n. 42 sul rilievo che un intervento edilizio sia stato effettuato in forza di una concessione edilizia (rectius permesso di costruire), ma in assenza della autorizzazione paesaggistica prescritta dal citato art. 146 (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.01.2007 n. 1874 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICAPiano regolatore: in caso di stravolgimento è necessaria la riadozione.
Laddove previsioni di incremento edilizio ed urbanistico siano state drasticamente ridimensionate a seguito della presentazione di alcune “osservazioni” riduttive di carattere generale condivise e fatte proprie dal Comune e, in aggiunta, nella fase di approvazione regionale siano stati apportati ulteriori stralci che hanno in definitiva ridotto la variante dall’iniziale previsione di espansione edilizia, il ridimensionamento operato appare effettivamente consistente ed esso ha operato uno stravolgimento delle originarie scelte dell’Amministrazione, con un radicale cambiamento della filosofia ispiratrice della variante; si tratta di una profonda deviazione, insomma, dai criteri originariamente posti alla base dell’intervento di pianificazione.
In casi di questo genere, peraltro, la modifica in itinere del Piano, sia che intervenga in sede di accoglimento da parte del Comune di osservazioni pervenute, sia che trovi ragione in atti regionali della fase di approvazione, non è rispondente allo schema ed ai limiti di cui agli artt. 9 e 10 della L.U. del 1942, ma ne costituisce deviazione e presuppone dunque la riadozione del piano e la riapertura della fase delle osservazioni.
Se anche poi la modifica a seguito delle osservazioni è nel caso in esame da imputare, sul piano dispositivo, alle determinazioni regionali (qualificando come “mera proposta” quella che il Comune ha inteso dare al recepimento, da parte sua, delle osservazioni stesse e conseguenti modifiche di Piano), ugualmente, ad avviso del Collegio, si è nella specie al di fuori (per il rilievo delle modifiche stesse e considerato che non tutte sono motivate con quelle ragioni di protezione ambientale le quali solamente potrebbero al limite giustificare anche modifiche essenziali del Piano in sede di approvazione) degli ambiti modificativi ammessi in sede regionale.
Quanto agli stralci, va rilevato, in generale, che essi, per la loro rilevanza, ben possono incidere sul piano nella sua interezza determinandone, in violazione dei normali percorsi procedimentali previsti dalla legge, una radicale immutazione, dando luogo, sostanzialmente, ad un piano del tutto diverso da quello adottato. Nella fattispecie all’esame, appunto, stralci e prescrizioni si solo sovrapposti ed il procedimento ne è risultato alfine viziato
(TAR Toscana, Sez. I, sentenza 18.01.2007 n. 45 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATA: Immobile abusivo - Confisca - Inammissibilità - Demolizione - Art. 44, lett. b), D.P.R. n. 380/2001 Testo unico dell'edilizia - L. n. 47/1985 - Art. 240 c. p. - Art. 444 e ss. c.p.p..
Allorché viene contestata l'ipotesi di cui all'articolo 44, lettera b), del D.P.R. n. 380 del 2001, già ipotesi prevista dalla lettera b) dell'articolo 20 della legge n. 47 del 1985, non può essere disposta la confisca, né obbligatoria né facoltativa, ai sensi dell'art. 240 c. p., giacché questa norma generale è derogata dalla disciplina speciale di cui all'art. 31, comma 9 e 9-bis, del D.P.R. citato (già articolo 7 della legge n. 47 del 1985), il quale prevede per i reati di cui all'articolo 44 e per gli interventi di cui all'articolo 22, comma terzo, una sanzione amministrativa ripristinatoria affidata all'autorità comunale (con ordine sindacale di demolizione, salva delibera consiliare di acquisizione gratuita al patrimonio del comune) o in via subordinata all'autorità giurisdizionale (con ordine giudiziale di demolizione, se non contrastante con le determinazioni dell'autorità comunale - Cass. n. 4089 del 2002). Nella specie, il giudice dell'udienza preliminare non avrebbe potuto disporre la confisca del manufatto costruito in violazione dell'art. 44, lett. b), e 64, 65, 71 del Testo unico dell'edilizia. Anzi, pronunciando una sentenza ex art. 444 e ss. c.p.p., che è espressamente equiparata a una decisione di condanna, doveva restituire all'avente diritto il manufatto sequestrato (ex art. 262/4 o ex art. 323/3 c.p.p.) e contestualmente disporne la demolizione, essendo quest'ultima una sanzione amministrativa atipica che il magistrato ha l'obbligo d'irrogare anche se estranea al patteggiamento della pena (cfr per tutte Cass. Sez. Un. 15.05.2002 n. 5777).
Confisca giudiziaria ex art. 240 c.p. - Espropriazione a favore dello Stato - Ratio.
La confisca giudiziaria ex art. 240 c. p., come misura di sicurezza patrimoniale che attua l'espropriazione a favore dello Stato di cose che servirono a commettere un reato o che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo o che sono intrinsecamente criminose, è oggettivamente incompatibile con la disciplina speciale di cui all’art. 7 legge n. 47 del 1985, (con previsione riprodotta nell'art. 31, 9^ comma, del T.U. 06.06.2001, n. 380), che affida invece all'autorità comunale la facoltà di scegliere tra la demolizione e la conservazione del manufatto sequestrato nel patrimonio immobiliare del comune in considerazione di prevalenti interessi pubblici.
Demolizione - Potere giurisdizionale - Giurisprudenza.
Solo il potere giurisdizionale di demolizione, che la stessa disciplina speciale affida in via subordinata al giudice penale, resta coordinato al potere amministrativo spettante al sindaco e al consiglio comunale, sia per espressa disposizione della legge (laddove prevede che il giudice ordina la demolizione "se ancora non sia stata altrimenti eseguita"), sia per consolidata interpretazione giurisprudenziale. (Cfr. Cass. n. 104/1995; Cass. n. 12288/2000; Cass. n. 4089/2002; Cass. n. 45674/2003).
Ordine di ripristino e demolizione - Lottizzazione abusiva - Proscioglimento con formula diversa dall'insussistenza del fatto - Confisca - Obbligatoria.
Nessun coordinamento è previsto dal sistema codicistico tra il potere della pubblica amministrazione del ripristino e l'ordine giurisdizionale di confisca, giacché questo, per espressa disposizione di legge (art. 86 disp. att. c.p.p.), sfocia nella vendita delle cose confiscate e in via subordinata nella loro distruzione.
Vero è che la distruzione può equipararsi sostanzialmente alla demolizione; ma è altrettanto certo che essa, a differenza della demolizione disposta ai sensi dell'art. 31, comma 9 e 9-bis, del T.U. n. 380/2001, resterebbe sottratta all'eventualità di una diversa determinazione da parte dell'autorità che ha la competenza in materia edilizia e urbanistica.
Solo nell'ipotesi di lottizzazione abusiva, la confisca è prevista obbligatoriamente anche in caso di proscioglimento con una formula diversa dall'insussistenza del fatto (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.01.2007 n. 591 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni mobile di interesse storico, artistico archeologico - Omessa denuncia all’autorità - Confisca - Annullamento - Restituzione dei beni allo Stato - Onere della prova.
L'annullamento della confisca, in materia beni mobili di interesse storico, artistico archeologico, non comporta, anche l'annullamento dell'ordine di restituzione dei beni allo Stato ed è comunque possibile per la parte ottenere la revoca o la modifica di esso in sede di esecuzione fornendo la dimostrazione della sussistenza delle condizioni che legittimano la detenzione dei beni medesimi.
Ritrovamento o scoperta dei beni di interesse storico, artistico archeologico - Amministrazione statale - Azione di revindica di beni archeologici - Possessore - Onere della prova - L. n. 364/1909.
Nell'azione di revindica di beni archeologici promossa dall'amministrazione statale, il ritrovamento o la scoperta dei beni stessi in data anteriore all'entrata in vigore della L. n. 364 del 1909, non é fatto costitutivo negativo del diritto azionato, ma fatto impeditivo che deve essere provato da chi l'eccepisce: dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archeologiche, ed il relativo regime di appartenenza, si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d'interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti, onde qualora l'amministrazione intenda rientrare in possesso dei beni detenuti da soggetti privati, incombe al possessore l'onere della prova della dedotta scoperta e appropriazione anteriormente all'entrata in vigore della L. n. 364 del 1909, a partire dalla quale le cose ritrovate nel sottosuolo appartengono allo Stato". Cass. Sez. 1 civile, n. 2995 del 10.02.2006).
Codice dei beni culturali d.lgs. n. 42/2004 - Verifica di "culturalità" di un bene - Riconoscimento - Atto di certazione - Disciplina.
In materia di tutela dei beni culturali, anche con riferimento al Codice dei beni culturali, di cui al d.lgs. n. 42/2004, resta il principio fondamentale per cui, fino al compimento della verifica di "culturalità" (qualora questa dovesse avere esito negativo), le cose sono comunque sottoposte alla legislazione di tutela" e che "la verifica concernente i beni di proprietà pubblica, non si estrinseca in una formale "dichiarazione" (art. 13, comma 2, Codice) in quanto il riconoscimento di culturalità non è provvedimento costitutivo, che si basi sull'esercizio della discrezionalità amministrativa, ma solo atto di certazione, che rivela prerogative che il bene possiede per le sue caratteristiche e che, ove l'atto di certazione non sia intervenuto, ciò non significa che il bene sia di proprietà privata, od oggetto di libera apprensione ed usucapione".
Rapporto di continuità normativa tra l’art. 48 della legge 1089/1939 e quelle degli articoli 87 del d.Lvo n. 490/1999 e 90 del d.lvo n. 42/2004 - C.d. successione di leggi nel tempo ex art, 2 cod. pen..
Sussiste un rapporto di continuità normativa tra l’art. 48 della legge 1089/1939 e quelle degli articoli 87 del d.Lvo n. 490/1999 e 90 del d.lvo n. 42/2004 ad essa rispettivamente succedute costituendo queste ultime, per l'oggetto della tutela, la sostanziale riproposizione della norma precedentemente in vigore.
Infatti, gli articoli 87 d.Lvo n. 490/1999 e 90 d.lvo n. 42/2004, pur introducendo il termine di ventiquattro ore per la denuncia della scoperta delle cose immobili o mobili che presentano interesse archeologico, riproducono per il resto in maniera pressoché identica il testo dell'art. 48 della legge 1089/1939 (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2007 n. 458 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Natura precaria di una costruzione - Nozione - Destinazione oggettiva della opera - Fattispecie - Reato edilizio - Realizzazione abusiva di una veranda - Demolizione del manufatto.
La natura precaria di una costruzione non dipende dal tipo di materiali usati o dalla tecnica costruttiva o dalla facile rimovibilità della struttura, ma dalla destinazione oggettiva della opera. (Nella specie, è stato ritenuto esistente il reato edilizio ed ordinata la demolizione del manufatto, in relazione all’edificazione abusiva di una veranda, presentata come una struttura volante fatta con un cannucciato ed un telo di limitate dimensioni avente l'unica funzione di riparare dal sole).
Natura precaria di una costruzione - Nozione - Manufatti di assoluta ed evidente precarietà - Permesso di costruire - Necessità - Esclusione.
In materia edilizia, le costruzioni di natura precaria, non necessitino di permesso di costruire i manufatti di assoluta ed evidente precarietà destinati a soddisfare esigenze contingenti, specifiche, cronologicamente delimitate e ad essere rimossi dopo il momentaneo uso (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.01.2007 n. 455 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOConcorsi e mancato rispetto della riserva alle donne nelle commissioni.
Nei concorsi pubblici, la nomina delle commissioni esaminatrici e la verifica dei presupposti legali posseduti dei loro componenti è una scelta che rientra nei poteri discrezionali della pubblica amministrazione.
Inoltre, la norma che prescrive la riserva alle donne di almeno un terzo dei posti nelle commissioni esaminatrici è solo diretta a tutelare la parità dei sessi nell’accesso al pubblico impiego, pertanto il mancato rispetto non discrimina lo svolgimento delle prove concorsuali
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 12.01.2007 n. 149 - link a www.altalex.com).

APPALTI: Sull'illegittimità di una procedura negoziata per la mancata consultazione con tutti gli offerenti prevista dal c. 40 dell'art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006.
Deve essere annullata l'intera procedura di gara in quanto è illegittimo il procedimento seguito dalla stazione appaltante, la quale dopo aver ha indetto una procedura negoziata, non ha proceduto alla negoziazione con tutti gli offerenti, violando così la disciplina della normativa negoziata, ponendo in essere una procedura anomala, tipica della cd. procedura aperta.
La disciplina della procedura negoziata, dettata dal d.lgs. n. 163 del 2006, presuppone che si svolga una negoziazione che non può essere riservata al solo concorrente che abbia proposto, sin dall'inizio, il prezzo più basso, ma deve svolgersi tra l'ente aggiudicatore e i vari concorrenti al fine di arrivare alla scelta del prezzo più conveniente per la fornitura del servizio.
La negoziazione con tutti gli offerenti costituisce quindi, un elemento essenziale della procedura negoziata; al riguardo è opportuno precisare che, poiché il c. 40 dell'art. 3 del d.lgs. n. 163 del 2006, usa l'espressione negoziano con uno o più di essi, è anche possibile che la negoziazione avvenga con uno solo degli offerenti, ma ciò può avvenire solo quando una simile possibilità sia stata espressamente prevista nel bando (TAR Lombardia, Milano, Sez. I,
sentenza 11.01.2007 n. 8 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Esalazioni maleodoranti provenienti da stalle, allevamenti o luoghi simili - Reato di cui all'art. 674 c.p. - Sussistenza - Risarcibilità ex art. 844 c.c. - Fattispecie.
Le esalazioni maleodoranti provenienti da stalle, allevamenti o luoghi simili configurano il reato di cui all'articolo 674 c.p. e non solo un illecito penale risarcibile ex articolo 844 c.c. allorché siano idonee a creare offesa al benessere dei vicini e grave pregiudizio per lo svolgimento della loro attività (Cass n. 678 del 1996 P.M. in proc. Viale; Cass n. 138 del 1995 Composto; 1293 del 1994 Sperotto). Nella specie, dai manufatti destinati all'allevamento di suini e pollame ed ubicati ad una distanza di circa 10 - 20 metri dalle abitazioni, si avvertivano cattivi odori i quali provocavano nei confronti delle persone offese ivi residenti uno stato d'ansia accertato documentalmente, che nonostante, l'avvenuto adeguamento della porcilaia alle prescrizioni vigenti non escludeva la sussistenza del reato proprio perché le emissioni maleodoranti non erano state comunque eliminate.
"Esalazioni" maleodoranti - Superamento del limite della normale tollerabilità - Molestie - Nozione - Fattispecie - Relazione del medico dell'azienda sanitaria e dei sopraluoghi espletati.
Per molestia deve intendersi ogni fatto idoneo a recare fastidio, disagio o disturbo ed in genere qualsiasi fatto idoneo a turbare il modo di vivere quotidiano.
Il superamento del limite della normale tollerabilità costituisce il parametro principale (ma non l'unico) per valutare l'idoneità dell'esalazione maleodorante a recare offesa o molestia e ciò perché le emissioni maleodorante sono vietate nei casi non consentiti dalla legge, la quale contiene una sorta di presunzione di legittimità delle emissione dei fumi che non superino la soglia fissata da leggi speciali.
Nella fattispecie, anche se non è stata espletata alcuna perizia tecnica (ma di ciò non si è doluto il ricorrente, il quale non ha sollevato alcuna specifica doglianza in merito ad un eventuale mancato superamento dei limiti di tollerabilità), si è comunque accertato per mezzo della relazione del medico dell'azienda sanitaria e dei sopraluoghi espletati dagli inquirenti, che si trattava di esalazioni non tollerabili tanto e vero che creavano "una condizione di disagio che culminava nella non vivibilità dell'ambiente" (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.12.2006 n. 42087 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAInteresse ad agire dei vicini, sopraelevazione, distanze dei fabbricati.
La situazione giuridica soggettiva azionata dai proprietari di immobili situati nelle immediate vicinanze dell'opera assentita ed ivi residenti, comporta la sussistenza di quella situazione di stabile collegamento giuridico con il terreno oggetto dell'intervento costruttivo autorizzato richiesta per la titolarità della potestà di impugnativa in materia e al riguardo laddove i ricorrenti facciano valere in primo luogo un interesse giuridicamente protetto di natura urbanistica, quale è quello dell'osservanza delle prescrizioni regolatrici dell'edificazione, non occorre procedere ad alcuna ulteriore indagine al fine di accertare, in concreto, se i lavori assentiti dall'atto impugnato comportino o meno un effettivo pregiudizio per il soggetto che propone l'impugnazione (vd. ad es. CdS, IV, n. 6467/2005);
La sopraelevazione -per tale intendendosi qualsiasi costruzione che si eleva al di sopra della linea di gronda di un preesistente fabbricato- deve rispettare le distanze legali tra costruzioni stabilite dalla normativa vigente al momento della realizzazione della stessa, poiché comporta sempre un aumento della volumetria preesistente (vd. ad es. TAR Puglia Lecce, n. 565/2006);
Le norme sulle distanze dei fabbricati contenute nel D.M. n. 1444 del 1968, a differenza di quelle sulle distanze dai confini derogabili mediante convenzione tra privati, hanno carattere pubblicistico e inderogabile, in quanto dirette alla tutela di interessi generali in materia urbanistica, sicché l'inderogabile distanza di dieci metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con il suddetto limite minimo è illegittima essendo consentito alla p.a. solo la fissazione di distanze superiori (vd. ad es. TAR Liguria, 1027/2005);
Gli strumenti urbanistici locali devono osservare la prescrizione di cui all'art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968 che prevede la distanza minima inderogabile di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; pertanto, nel caso di norme contrastanti , il giudice è tenuto ad applicare la disposizione di cui al citato art. 9, in quanto automaticamente inserita nello strumento urbanistico in sostituzione della norma illegittima (vd. ad es. Cass. Civile, n. 12741/2006);
In linea di diritto deve escludersi che l'ampliamento di un fabbricato attraverso la sopraelevazione di un piano possa configurarsi alla stregua di una mera ristrutturazione. Infatti ai fini dell'individuazione della tipologia di un intervento edilizio, il concetto di sopraelevazione si differenzia da quello di mero innalzamento, dovendosi considerare che quest'ultimo, specie se modesto ed inidoneo a determinare un incremento volumetrico, può risultare compatibile con la nozione di ristrutturazione, mentre altrettanto non può affermarsi nel caso di una sopraelevazione che sia inscindibilmente connessa all'incremento volumetrico in ragione di un rapporto di causa ed effetto e che sia quindi diretta all'accrescimento della cubatura di un fabbricato (vd. ad es. TAR Piemonte, n. 1603/2003);
Le autorizzazioni paesaggistiche, sebbene abbiano natura di atti ampliativi della sfera giuridica dei destinatari, debbono essere congruamente motivate in modo che possa essere ricostruito l'iter logico che ha condotto a ritenere le opere autorizzate non lesive dei valori paesistici sottesi all'imposizione del vincolo (vd. ad es. TAR Liguria n. 1408/2005)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.12.2006 n. 1711 - link a www.altalex.com).

ESPROPRIAZIONEOccupazione temporanea e d'urgenza - Procedura accelerata ex art. 3 Legge 1/1978 - Ambito di applicazione - Edilizia agevolata - Esclusione.
La procedura accelerata ex art. 3 Legge 1/78 vigente al momento dei fatti di causa riguarda solo le opere pubbliche e tra queste si devono ricomprendere anche gli interventi di edilizia sovvenzionata in ragione della natura di opere pubbliche rivestita dagli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ma non gli interventi di edilizia agevolata, che, al contrario di quelli sovvenzionati, sono eseguiti da soggetti privati e si traducono nella realizzazione di beni di natura privata (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2962 - massima tratta da www.solom.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAtti e comportamenti della P.A. - Danno e pericolo di danno - Assenza di potere autoritativo e discrezionale - Giurisdizione A.G.O..
Il privato proprietario che subisca danno o pericolo di danno per effetto di azioni od omissioni della P.A., contrarie alle regole della diligenza, prudenza e tecnica nella costruzione di un'opera pubblica, deve richiedere tutela al Giudice Ordinario ogniqualvolta l'attività materiale della amministrazione si sostanzi in meri "comportamenti" e non possa ricondursi all'esercizio di un potere autoritativo e discrezionale (nel caso di specie il TAR ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione attesa la domanda di accertamento e conseguente condanna di un Comune a modificare la pendenza degli scarichi dell'acqua piovana a seguito della manutenzione di una strada operata dallo stesso Comune) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2954 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Contratti della P.A. - Appalti - Bando - Termine per la presentazione delle offerte - Ratio.
2. Contratti della P.A. - Appalti - Bando - Termine per la presentazione delle offerte - Derogabilità - Avviso pubblico di preinformazione - Necessità.

1. Il termine minimo di 52 giorni, previsto ex art. 6 D.Lgs. 358/1992, art. 9 D.Lgs. 157/1995 e art. 70 D.Lgs. 163/2006 per la ricezione delle offerte, risponde all'esigenza di consentire ai concorrenti di approntare la documentazione che il bando richiede ai fini della qualificazione alla gara e di formulare un'offerta sufficientemente ponderata e idonea a conseguire l'aggiudicazione.
2. Tale termine può essere suscettibile di deroga da parte delle stazioni appaltanti solo previo apposito procedimento di pubblicazione di un avviso di preinformazione: in mancanza di ciò il bando è illegittimo e deve essere annullato (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2953 - massima tratta da www.solom.it).

APPALTI1. Verifica offerte - Mancanza di contestazioni e ammissione dell'offerta - Completezza documentale - Si presume.
2. Verifica offerte - Completezza documentale - Verifica supplementare successiva all'apertura delle buste - Possibilità - Limiti.

1. Poiché il momento rilevante della verifica delle offerte coincide con la formale operazione di apertura delle buste innanzi al seggio di gara, la mancanza di contestazioni al riguardo e l'ammissione dell'offerta ne fa presumere la completezza documentale.
2. A fronte dell'attestazione, contenuta nei verbali di gara, della completezza della documentazione allegata alle offerte, già verificata in seduta pubblica, una successiva verifica dei documenti è possibile, nel contraddittorio dei concorrenti, solo in presenza di determinate condizioni che garantiscano il rigore formale della gara, prima fra tutte l'adeguata conservazione degli atti concernenti le offerte delle diverse imprese secondo modalità di conservazione delle offerte e dei documenti allegati (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.12.2006 n. 2928 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Accumulo dei rifiuti - Nozione - Caratteristiche modalità e tempi.
Le caratteristiche delle modalità e dei tempi d'accumulo dei materiali delineano la nozione normativa di discarica abusiva punibile quando, per effetto di una condotta ripetuta, i rifiuti vengono scaricati in una determinata area, trasformata di fatto in deposito o ricettacolo di rifiuti, sicché rientra nella nozione in parola l'accumulo sul ruolo ripetuto dei rifiuti con tendenziale carattere di definitività, in considerazione delle quantità considerevoli dei rifiuti e dello spazio occupato, a nulla rilevando la circostanza che tale accumulo avvenga sullo stesso terreno in cui è situato l'operatore che in parte li tratta [Cassazione Sezione III n. 7577/1992, Abortivi, RV. 190924].
Rifiuti - Differenza tra abbandono e discarica abusiva - Fattispecie - D. L.vo n. 36/2003 - Art. 6 lett. m. decreto n. 22/1997.
Solo l'abbandono di rifiuti connotato dall'assenza di caratteristiche quantitative e di sistematicità, vale ad escludere la realizzazione o la gestione di una discarica abusiva. Rientra,. in specie, nella definizione di discarica introdotta col decreto legislativo n. 36/2003, la realizzazione di un depositato incontrollato nell'area circostante a una segheria di un ingente quantità di rifiuti prodotti dalla lavorazione del marmo [polveri e fanghi di marmo] raccolti in vasche di decantazione aziendali per oltre un anno.
Né era in atto una legittima operazione preliminare all'attività di gestione, preparatoria al recupero non ricorrendo un deposito temporaneo di rifiuti [art. 6 lett. m. decreto n. 22/1997] "quale raggruppamento dei rifiuti effettuando, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi sono prodotti" nel rispetto di precise condizioni temporanee, quantitative e qualitative.
Rifiuti - Deposito di rifiuti nel luogo diverso da quello in cui sono stati prodotti - Gestione di rifiuti non autorizzata - Presupposti.
Il deposito di rifiuti nel luogo diverso da quello in cui sono stati prodotti è equiparabile giuridicamente all'attività di gestione di rifiuti non autorizzata, prevista come reato dall'art. 51 del d. lgs. 22/1997 (Cass. Sez. III n. 7140, 21.03.2000, Eterno, RV 216977).
In specie, correttamente è stata esclusa la ricorrenza delle condizioni che integrano il concetto normativo di deposito temporaneo di rifiuti poiché risulta che non sono state rispettate la condizioni relative alle cadenze temporali di raccolta e d'avviamento alle operazioni di recupero o di smaltimento; ai termini massimi di durata e alle modalità de deposito stesso.
Quindi, i detentori si sono disfatti degli scarti della lavorazione del marmo effettuando un'attività di smaltimento mediante deposito al suolo di rifiuti per un tempo prolungato (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.12.2006 n. 40446 - link a www.ambientediritto.it).

LAVORI PUBBLICIContratti della P.A. - Associazione temporanea di imprese - Ammissione alla gara - Incremento ex art. 3, D.P.R. 34/2000 - Applicazione a tutte le imprese associate - Possibilità - Non sussiste.
In caso di partecipazione di una Ati alla gara per l'affidamento di un appalto di lavori pubblici, va esclusa la possibilità di applicare a tutte le imprese associate l'incremento del quinto della classifica posseduta quando esse non sono qualificate per una classifica pari ad almeno 1/5 dell'importo dei lavori a base di gara, atteso che ex art. 3 D.P.R. 34/2000 l'aumento di 1/5 riguarda non il raggruppamento, ma le imprese in sé considerate, le quali beneficiano dell'aumento a condizione che siano qualificate per una classifica pari ad almeno un quinto dell'importo dei lavori a base di gara (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2927 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. Contratti della P.A. - Servizi pubblici - Affidamento in house - E' fattispecie residuale ed eccezionale.
2. Contratti della P.A. - Servizi pubblici - Affidamento in house - Elementi necessari.

1. L'affidamento "in house" è fattispecie residuale ed eccezionale rispetto all'ipotesi normale rappresentata dall'affidamento della concessione di pubblico servizio mediante procedura ad evidenza pubblica, in ossequio ai princìpi di trasparenza, pubblicità e concorrenza vigenti nella materia.
2. Tre sono gli elementi che devono cumulativamente concorrere per consentire l'eccezionale affidamento in house: il capitale interamente pubblico della Società affidataria; l'esercizio, da parte degli Enti Locali soci, di un controllo sulla Società analogo a quello esercitato sui propri servizi; la realizzazione, da parte della Società, della quota più importante della propria attività con l'Ente o con gli Enti Pubblici che la controllano (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2920 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI1. Contratti della P.A. - Appalti - Divieto di subappalto - Ambito di applicazione - Categorie OG.
2. Contratti della P.A. - Appalti - Divieto di subappalto - Facoltà della P.A. di subappaltare - Limiti.

1. Il divieto di subappalto di cui all'art. 13, comma 7, Legge 109/1994 si applica alle categorie generali OG in forza del loro essere categorie caratterizzate dalla medesima specializzazione delle categorie speciali OS e quindi una sommatoria di opere speciali.
2. Le amministrazioni possono, tuttavia, contemplare nei bandi di gara la possibilità di subappaltare la categoria generale scorporata, verificando l'operatività del divieto in relazione alla singola categoria di opera speciale in essa compresa; dunque in presenza di più opere speciali il divieto di affidamento in subappalto si applica alle sole opere altamente specializzate, indicate nel bando come scorporabili, le quali abbiano singolarmente valore superiore al 15% dell'importo totale dei lavori, senza bisogno che, qualora vi siano altre categoria altamente specializzate, anche le altre -singolarmente considerate - siano tutte di importo superiore al 15% del valore complessivo dell'intervento (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2912 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI1. Autorizzazione e concessione - Concessione di servizi pubblici e contratto di appalto di servizi - Criteri distintivi.
2. Autorizzazione e concessione - Concessione di servizi pubblici - Soggetti legittimati al conferimento - Società di persone - Esclusione.

1. Il tratto distintivo delle concessioni di servizi pubblici rispetto agli appalti di servizi consiste nel fatto che, mentre nell'appalto si prevede un corrispettivo pagato direttamente dall'amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi, nella concessione la remunerazione del prestatore di servizi proviene non già dall'autorità pubblica interessata, ma dagli importi versati dai terzi per l'utilizzo del servizio;
2. Ai sensi dell'art. 113 D.Lgs. 267/2000, la gestione delle reti e l'erogazione dei servizi pubblici di rilevanza economica può essere affidato esclusivamente a società di capitali aventi determinate caratteristiche, con esclusione delle società di persone (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.12.2006 n. 2908 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADella motivazione e della partecipazione nei procedimenti sanzionatori edilizi.
Il concetto di disponibilità di cui all'art. 3 della L. n. 241 del 1990 non comporta che l'atto amministrativo richiamato "per relationem" debba essere unito imprescindibilmente al documento, bensì che il documento sia reso disponibile a norma della stessa legge, vale a dire che esso possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi.
In sostanza, detto obbligo determina che la motivazione del provvedimento deve essere portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, sicché nella motivazione "per relazione" è sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi dell'atto richiamato, mentre non è necessario che lo stesso sia allegato, dovendo essere messo a disposizione e mostrato su istanza di parte.
La normativa generale sull'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo ai possibili destinatari dell'emanando provvedimento, di cui agli art. 7 e ss. della L. n. 241 del 1990, deve trovare applicazione anche nei procedimenti preordinati all'emanazione di provvedimenti di ingiunzione della demolizione di opere edili abusive, laddove il Comune non abbia emesso alcun provvedimento di sospensione dei lavori, suscettibile di assumere una tale natura.
La mancata indicazione di precisi confini ovvero dell'area di sedime che verrebbe acquisita nell'ipotesi di inottemperanza all'ordine di demolizione non costituisce causa di illegittimità dell'ingiunzione a demolire, in quanto tali indicazioni più propriamente si appartengono al successivo atto di accertamento dell'inottemperanza e di acquisizione gratuita al patrimonio comunale
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 04.12.2006 n. 13652 - link a www.altalex.com).

PUBBLICO IMPIEGOOrdinamento degli uffici comunali: esercizio del potere regolamentare. L'esercizio del potere regolamentare comunale in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi non può invadere la sfera di competenza riservata alla contrattazione collettiva.
Lo hanno stabilito i giudici del Tar Lecce per i quali la disposizione regolamentare comunale che istituisce l'area professionale dei professionisti dipendenti, “alla quale appartengono i laureati specialistici di tipo professionale, il cui profilo ... preveda lo svolgimento di mansioni per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione, previo superamento dell'esame di Stato, agli albi speciali previsti dalla legge per i dipendenti comunali”, va ad incidere sulla classificazione del personale dipendente, poiché crea una nuova area professionale cui aggregare il personale stesso in possesso di particolari titoli professionali (laurea ed iscrizione in appositi albi professionali)
(TAR Puglia-Lecce, sentenza 02.12.2006 n. 5636 - link a www.altalex.com).

APPALTIContratti della P.A. - Appalto in generale - Gara - Ammissione - Soggetto pubblico - Esclusione - Legittimità.
Al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, è fatto divieto alle società a capitale interamente pubblico o misto costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti di svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici, né in affidamento diretto né con gara, né le stesse possono partecipare ad altre società o enti (il TAR ha dichiarato l'illegittimità dell'aggiudicazione ad un'Azienda Ospedaliera toscana di una gara di appalto bandita dalla Regione Lombardia) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 24.11.2006 n. 2840 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Difetto di motivazione - Carenza d'istruttoria - Illegittimità.
2. Ricorso giurisdizionale - Risarcimento danni - Prova del danno - Necessità.

1. E' illegittimo per difetto di motivazione e carenza di istruttoria il provvedimento che, in violazione degli articoli 3 e 10 Legge 241/1990, non appaia assistito da congrua motivazione e che non tenga adeguatamente conto delle osservazioni presentate dal destinatario del provvedimento stesso.
2. Ai fini dell'ammissibilità dell'azione per risarcimento danni ai sensi dell'art. 35 D.Lgs. 31.03.1998 n. 80, costituisce passaggio necessario la prova da parte dell'interessato dell'esistenza del danno non potendo il Giudice Amministrativo supplire alle lacune probatorie di parte (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 23.11.2006 n. 2837 - massima tratta da www.solom.it).

APPALTI1. Contratti della P.A. - Licitazione privata - Offerte anomale - Giustificazioni - Mera allegazione parere del legale della P.A. e delle osservazioni della controinteressata - Illegittimità.
2. Ricorso giurisdizionale - Risarcimento danni - Annullamento atto amministrativo - Permanenza del potere rinnovatorio della P.A. - Esclude il risarcimento.

1. La valutazione sull'anomalia dell'offerta presentata da un concorrente non può essere ricavata per relationem dalla mera allegazione al provvedimento di aggiudicazione delle giustificazioni fornite dal concorrente stesso e del parere reso dal legale della stazione appaltante.
2. Non vi sono i presupposti per disporre il risarcimento del danno derivante dall'emanazione di un provvedimento illegittimo laddove il suo annullamento lasci spazi all'attività rinnovatoria della Amministrazione e questa sia caratterizzata da margini di discrezionalità (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2180 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della P.A. - Bando di gara - Licitazione privata -Sostituzione tardiva dell'offerta economica - Illegittimità.
Le disposizioni del regolamento per l'amministrazione del patrimonio e la contabilità generale dello Stato contenute nel R.D. 827/1994, richiamate nella lettera di invito di una licitazione privata, che consentono la sostituzione dell'offerta delle imprese partecipanti alla gara oltre la scadenza dei termini per la presentazione dei plichi contenenti le offerte, o persino dopo l'apertura degli stessi, devono ritenersi superate dalla normativa successiva e incompatibili con i princìpi inderogabili della par condicio tra i concorrenti e del regolare, trasparente e imparziale svolgimento della gara, vigenti in tema di procedure ad evidenza pubblica.
Pertanto la sostituzione dell'offerta economica oltre i termini per la presentazione dei plichi contenenti le offerte ed addirittura dopo l'apertura degli stessi, è illegittima (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2179 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Accesso ai documenti - Presupposti - Interesse qualificato - Nozione.
2. Accesso ai documenti - Presidente Consiglio di Amministrazione di Società per la tutela ambientale - Revoca della carica - Diritto - Sussiste.

1. Ai sensi degli art. 22 e ss. L. 241/1990 il diritto di accesso ai documenti amministrativi formati dalle P.A. o, comunque, utilizzati ai fine dell'attività amministrativa, è riconosciuto in favore di chiunque vi abbia un interesse diretto, concreto e attuale, differenziato rispetto a quello della generalità dei consociati e corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso.
2. Sussiste il diritto di accesso ai documenti amministrativi in capo al Presidente del Consiglio di Amministrazione di una Società per la tutela ambientale nel caso di proposta di revoca, da parte della Provincia, del medesimo dalla propria carica (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2177 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Interesse all'impugnazione - Bando - Clausole impeditive della partecipazione in via di fatto - Impugnazione immediata - Sussiste.
2. Contratti della P.A. - Appalto di servizi - Settori esclusi - Valutazione delle offerte - Art. 14 d.lgs. n. 164/2000 - Interpretazione.

1. L'interesse, rectius l'onere della immediata impugnazione del bando e della lettera di invito prima dell'aggiudicazione sussiste non solo ove questi contengano clausole escludenti, le quali, richiedendo determinati requisiti per l'ammissione alla procedura che l'impresa interessata non possiede, precluderebbero immediatamente la partecipazione (Cons. St., Ad. Plen. 29.01.2003 n. 1), ma anche ove le modalità stabilite nel bando o nella lettera d'invito per la presentazione dell'offerta siano illogici e non consentano di formulare una proposta logica e razionale.
Ciò in quanto tali previsioni ledono immediatamente la posizione dell'impresa, rendendo difficoltoso o addirittura impedendo la partecipazione alla gara con la formulazione di una corretta proposta contrattuale. Si tratta di un impedimento realizzantesi sul piano di fatto e non di diritto, ma che non per questo è meno incisivo e idoneo ad esplicitare effetti anticoncorrenziali, perché l'impresa che non è in grado di formulare un'offerta ragionevole sarà indotta a non partecipare alla gara (cfr. TAR Milano, Sez. III, 14.10.2005 n. 3793).
2. L'art. 14 del d.lgs. 23.05.2000 n. 164 non reca indicazioni circa il peso da attribuire ai singoli elementi da prendere in considerazione ai fini della valutazione delle offerte.
La norma di bando che attribuisce maggior peso ponderale al canone, favorendo di conseguenza i concorrenti che formuleranno la migliore offerta economica, a discapito della qualità del servizio e delle finalità sottese alla riforma del settore, appare frutto di ragionevole, e come tale insindacabile, esercizio di discrezionalità (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 13.11.2006 n. 2168 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Preavviso ex articolo 10-bis deve esser dato in ogni procedimento amministrativo.
In una fattispecie di diniego ad un permesso a costruire, che risulta non essere stato preceduto dalla comunicazione dei motivi ostativi, ex art. 10-bis, L. 07.08.1990 n. 241, il carattere vincolante dell’adozione dell’atto di diniego non appare sussistente, attesa la complessità delle fattispecie.
In ogni caso, questa Sezione ha più volte ribadito come non vada attribuito carattere dirimente, rispetto all’obbligo di comunicazione ex art. 10-bis, L. 241/1990, sopra citato, all’eventuale natura di atto vincolato del diniego
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 06.11.2006 n. 3674 - link a www.altalex.com).

LAVORI PUBBLICIContratto di appalto e profili di responsabilità in capo al committente dei lavori.
In presenza di fatto illecito posto in essere nell’esecuzione di lavori dedotti in un contratto di appalto, il soggetto committente non è esente da responsabilità concorrente con quella dell’impresa appaltante ove risulti che l’appaltatore abbia dovuto eseguire un progetto predisposto dal committente sotto la sua diretta sorveglianza, e che il committente si sia ingerito nella realizzazione dell’opera, riducendo l’autonomia dell’appaltatore (Tribunale Vibo Valentia, sentenza 23.10.2006 n. 669 - link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Atto vincolato - Motivazione - Rilevanza - Limiti.
2. Calamità naturali - Contributi di ricostruzione - Diniego - Applicazione criteri fissati nella delibera della Giunta Comunale - Difetto di motivazione - Non sussiste.

1. La motivazione per i provvedimenti vincolati rileva solo in relazione al riscontro dei presupposti.
2. In caso di calamità naturali, qualora il provvedimento di diniego di contribuiti risulti motivato solo in relazione al calcolo degli stessi, ma tale calcolo derivi dall'applicazione di criteri fissati nella delibera del Comune, mai impugnata, non può configurarsi difetto di motivazione, dal momento che a seguito di tale delibera la discrezionalità della P.A. deve ritenersi vincolata al calcolo delle somme dovute (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.10.2006 n. 2021 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI1. Ricorso giurisdizionale - Interesse all'impugnazione - Consigliere provinciale - Vizi procedurali -Impugnazione di delibera consiliare - Limiti.
2. Ricorso giurisdizionale - Interesse all'impugnazione - Consigliere provinciale - Vizi procedurali - Acquiescenza - Inammissibilità riscorso.

1. I consiglieri provinciali di minoranza che, pur avendo rilevato, nel corso di una seduta del Consiglio, vizi procedurali, non si siano valsi degli strumenti interni posti a tutela della loro funzione dalla legge e dal regolamento e che si siano solo astenuti dalla votazione finale, hanno prestato acquiescenza, evidenziando in modo chiaro ed univoco la volontà di accettare implicitamente le eventuali precedenti violazioni procedurali dagli stessi ravvisate.
2. L'acquiescenza, pur avendo natura sostanziale, comporta il riconoscimento della legittimità del precedente operato dell'amministrazione e quindi la rinuncia all'interesse legittimo che il titolare avrebbe potuto far valere, con conseguenti effetti anche sul piano processuale, nel senso dell'illegittimità del ricorso (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.10.2006 n. 2015 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI1. Interesse all'impugnazione - Comune e Provincia - Consigliere provinciale - Impugnazione di delibera consiliare - Limiti.
2. Competenza e giurisdizione - Contratti di diritto privato della P.A. - Giurisdizione Ordinaria.

1. I consiglieri provinciali non sono legittimati, in quanto tali, ad agire contro la P.A. di appartenenza, in quanto il processo amministrativo non è, di regola, aperto alle controversie tra organi o componenti di uno stesso organo, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, mentre i conflitti interorganici trovano composizione in via amministrativa.
Infatti, la legittimazione dei componenti di un organo collegiale dell'ente locale ad agire contro lo stesso sussiste solo in caso di vizi propri del subprocedimento di deliberazione, che si concretino in violazioni procedurali direttamente lesive dell'incarico rivestito dal componente dell'organo, ovverosia in violazioni dello jus ad officium (il TAR ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso, per carenza di legittimazione attiva, proposto dai consiglieri di minoranza della Provincia di Milano avverso le delibere con le quali la Giunta, previa definizione delle linee di indirizzo concernenti la riorganizzazione ed il rafforzamento delle partecipazioni della Provincia in alcune Società, ha deliberato di potenziare le partecipazioni azionarie provinciali nella "Serravalle- Milano Tangenziale S.p.A." mediante l'acquisto di nuove azioni della succitata Società da parte dell'ASA S.p.A. - ora ASAM S.p.A., società partecipata al 99% dalla Provincia).
2. Appartengono alla Giurisdizione Ordinaria le controversie nelle quali la P.A. non agisce attraverso atti autoritativi, bensì interviene nella sua qualità di socio di maggioranza di altra Società, atteso che in tale occasione l'azione della P.A. è espressione di posizione giuridiche di diritto societario (il TAR ha ritenuto quindi non rientranti nella sua giurisdizione le controversie concernenti i contratti mediante i quali è stata posta a compimento la complessa operazione di finanziamento dell'acquisito delle azioni della Serravalle da parte di ASAM) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 17.10.2006 n. 2014 - massima tratta da www.solom.it e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIMorti bianche: è responsabile l'imprenditore che non vigila.
Il datore di lavoro che sceglie un professionista come responsabile della sicurezza non si libera delle conseguenze legate alla sua posizione di garanzia se non designa un professionista idoneo, non elabora insieme a questi un piano di sicurezza, non gli mette a disposizione i mezzi per attuarlo, non vigila su tale attuazione (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 04.10.2006 n. 41943 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAClausola di precarietà non applicabile al titolo per l’autorizzazione di antenne.
L’apposizione di una clausola di precarietà in sede di rilascio di una concessione edilizia (clausola peraltro mai richiesta dalla ricorrente) è idonea a costituire motivo di annullamento di una concessione edilizia, solo nel caso in cui sia dimostrato che in assenza di tale clausola l’intervento non era assentibile.
In tutti gli altri casi, l’illegittimità della clausola può condurre al massimo alla eliminazione della stessa, ma non dell’intero provvedimento, rispetto al quale la clausola non costituiva elemento essenziale
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 04.09.2006 n. 5096 - link a www.altalex.com).

ATTI AMMINISTRATIVIGara d'appalto e diritto di accesso ai curricula professionali dei concorrenti.
Già in precedenza, questo Consiglio di Stato ha evidenziato che la partecipazione ad una gara comporta, tra l'altro, che l'offerta tecnico progettuale presentata fuoriesca dalla sfera di dominio riservato dell'impresa per porsi sul piano della valutazione comparativa rispetto alle offerte presentate da altri concorrenti, con la conseguenza che la società non aggiudicataria ha interesse ad accedere alla documentazione afferente le offerte presentate in vista della tutela dei propri interessi giuridici.
In altri termini, in presenza di una offerta vincente, non può negarsi ad altra impresa partecipante l'accesso agli atti necessari alle finalità di controllo dei requisiti tecnici e di tutte le altre caratteristiche del prodotto, oggetto della fornitura, minuziosamente contemplati nel relativo bando di gara.
Il bilanciamento tra il diritto di accesso degli interessati e il diritto alla riservatezza dei terzi non è stato rimesso alla potestà regolamentare o alla discrezionalità delle singole amministrazioni, ma è stato compiuto direttamente dalla legge che, nel prevedere la tutela della riservatezza dei terzi, ha fatto salvo il diritto degli interessati alla visione degli atti relativi ai procedimenti amministrativi, la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici. Il concetto di difesa degli interessi giuridici assume un carattere generale, comprensivo sia della difesa tecnica processuale, sia della difesa procedimentale.
A tal fine, con particolare riguardo alle procedure di evidenza pubblica, la difesa degli interessi giuridici del partecipante alla gara, risultato non aggiudicatario, va limitata a quei documenti o parti di essi valutati dall’amministrazione per l’ammissione alla procedura, per la verifica della sussistenza dei requisiti di partecipazione e per la valutazione dell’offerta e l’attribuzione dei punteggi
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.06.2006 n. 3418 - link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio di una concessione o autorizzazione in sanatoria (accertamento di conformità), ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (e oggi ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380), è possibile solo quando l’opera realizzata in assenza del preventivo titolo abilitativo risulti conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera sia al momento della presentazione della domanda.
Per il procedimento volto al rilascio di concessioni edilizie in sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (ed oggi dell’art. 36 del nuovo T. U. dell’edilizia), nel quale occorre una verifica sulla conformità urbanistica delle opere realizzate in assenza del necessario previo titolo abilitativo, si deve ritenere normalmente necessario il parere della Commissione Edilizia a meno che l’eventuale diniego al rilascio del titolo abilitativo non si fondi su ragioni puramente giuridiche o, come è oggi ammesso, la Commissione Edilizia, sia stata soppressa dal Comune o dichiarata non legittimata ad esprimersi su alcuni determinati tipi di interventi edilizi.

Il rilascio di una concessione o autorizzazione in sanatoria (accertamento di conformità), ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (e oggi ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, recante il Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), è possibile solo quando l’opera realizzata in assenza del preventivo titolo abilitativo risulti conforme agli strumenti urbanistici generali e di attuazione approvati e non in contrasto con quelli adottati sia al momento della realizzazione dell’opera sia al momento della presentazione della domanda.
La giurisprudenza che ritiene superfluo il parere della Commissione Edilizia per il rilascio delle concessione in sanatoria, peraltro sul punto oscillante, si riferisce al procedimento di rilascio di concessioni edilizie in sanatoria ai sensi degli articoli 31 e seguenti della legge n. 47 del 1985
(condono edilizio) e cioè a quei casi nei quali non occorre una verifica sulla compatibilità urbanistica delle opere abusive realizzate. La questione si pone in modo diverso invece per il procedimento volto al rilascio di concessioni edilizie in sanatoria ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47 del 1985 (ed oggi dell’art. 36 del nuovo T. U. dell’edilizia) nel quale occorre al contrario proprio una verifica sulla conformità urbanistica delle opere realizzate in assenza del necessario previo titolo abilitativo.
In tale procedimento si deve ritenere normalmente necessario il parere della Commissione Edilizia a meno che l’eventuale diniego al rilascio del titolo abilitativo non si fondi su ragioni puramente giuridiche o, come è oggi ammesso, la Commissione Edilizia, sia stata soppressa dal Comune o dichiarata non legittimata ad esprimersi su alcuni determinati tipi di interventi edilizi
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 13.09.2004 n. 11950 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 22.06.2011

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NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PUBBLICO IMPIEGO: Le ferie non incidono sul godimento dei permessi mensili per assistere i disabili.
La Direzione Generale per l'Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con l'interpello 17.06.2011 n. 21/2011 sostiene che la fruizione delle ferie non va ad incidere sul godimento dei permessi di cui all’art. 33, L. n. 104/1992 e che quindi non è ammissibile un proporzionamento degli stessi permessi in base ai giorni di ferie fruiti nel medesimo mese.
A seguito di richiesta di interpello avanzata dal NURSIND, in merito alla possibilità di proporzionare i permessi ex art. 33, Legge n. 104/1992 in base ai giorni di ferie usufruite nel mese, la Direzione Generale per l'Attività Ispettiva chiarisce, data la diversa finalità, che i due istituti (ferie e permessi per assistere i disabili) hanno natura totalmente diversa e non sono interscambiabili.
Conseguentemente, conclude la risposta ministeriale, si ritiene che la fruizione delle ferie non vada ad incidere sul godimento dei permessi di cui all’art. 33, Legge n. 104/1992 e pertanto non appare possibile un proporzionamento degli stessi permessi in base ai giorni di ferie fruiti nel medesimo mese (commento tratto da www.ipsoa.it).

NEWS

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Misure urgenti per l’economia: Governo ottiene la fiducia.
Nella seduta odierna (21.06.2011) la Camera con 317 voti a favore e 293 contro ha votato la fiducia posta dal Governo sull'approvazione, senza subemendamenti ed articoli aggiuntivi, del suo emendamento Dis. 1.1 interamente sostitutivo dell'articolo unico del disegno di legge di conversione del decreto-legge 13.05.2011 n. 70 concernente Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia (C. 4357-A) (il cosiddetto "decreto sviluppo").

APPALTI SERVIZIOk ai servizi in house o misti. Confermati gli affidamenti coerenti con l'ordinamento Ue.
LE CONDIZIONI - Controllo «analogo» da parte degli enti locali soci e svolgimento della maggior parte dell'attività della società a favore degli stessi.

Il risultato del referendum non tocca le gestioni di servizi pubblici locali esistenti che possono proseguire sino alla scadenza naturale, a condizione che siano coerenti con l'ordinamento comunitario. L'abrogazione dell'articolo 23-bis della legge n. 133/2008 a seguito degli esiti della consultazione del 12-13.06.2011 (quesito numero 1) produce una serie di effetti sul sistema di riferimento per i servizi pubblici locali con rilevanza economica, dei quali i comuni devono tener conto per l'elaborazione di adeguate strategie.
Una delle conseguenze del venir meno della norma è rilevabile nelle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 26.01.2011 (con la quale è stato ritenuto ammissibile il quesito referendario).
La Consulta, facendo riferimento in molti punti alla sua analisi del sistema dei servizi pubblici prodotta con la sentenza n. 325/2010, ha evidenziato che l'articolo 23-bis costituiva normativa più restrittiva rispetto al quadro regolativo comunitario, il quale si pone come normativa diretta a favorire l'assetto concorrenziale minimo e inderogabile del mercato.
L'articolo 86, comma 2, del Trattato Ue, infatti, determina anche per le società partecipate l'essere soggette alle regole della concorrenza.
L'esito di maggior impatto del referendum è senza dubbio la possibilità di proseguire le gestioni esistenti, affidate a società in house o miste, sino alla loro scadenza naturale, poiché la dead line del 31.12.2011 non è più prevista. La rilevanza dell'ordinamento comunitario sancita dalla Corte costituzionale impone tuttavia alle amministrazioni locali di sottoporre a un'accurata revisione tutti gli affidamenti di servizi pubblici in essere, per verificarne la coerenza e tenuta rispetto ai parametri delineati dall'Unione europea per la gestione dei servizi di interesse generale, nonché per stabilire un'adeguata strategia nel medio periodo.
Per gli affidamenti in house sfumano i presupposti di eccezionalità e non è più necessario il parere dell'Agcm, ma devono necessariamente sussistere sia il controllo analogo da parte degli enti locali soci, sia lo svolgimento della maggior parte dell'attività della società a favore degli stessi.
Qualora un'amministrazione intenda costituire una società mista, dovrà comunque attenersi ai principi del partenariato pubblico privato di tipo istituzionale, individuati dalla Commissione Ue nella comunicazione interpretativa C(2007)6661 del 05.02.2008, nella quale stabilisce che il socio privato deve essere scelto con procedura ad evidenza pubblica (gara) ed allo stesso devono essere affidati contestualmente specifici compiti operativi. Anche questo principio è stato assunto nella giurisprudenza nazionale. Le linee-guida della Commissione Ue non individuano peraltro alcuna percentuale di capitale sociale da attribuire al partner privato.
Per questo tipo di organismi risulta possibile l'acquisizione di servizi ulteriori, tuttavia solo partecipando a gara, come la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale hanno evidenziato, anche di recente (Consiglio di Stato, sezione V, sentenza n. 2222 dell'11.04.2011).
L'eliminazione dei vincoli dettati dall'articolo 23-bis in ordine ai modelli gestionali per i servizi pubblici locali permette di ipotizzare soluzioni diverse, tra le quali anche la gestione in economia, quando il servizio sia di modesta entità (come affermato dal Consiglio di Stato, sezione V, con la sentenza n. 552 del 26.01.2011).
Gli effetti dell'abrogazione del l'articolo 23-bis non incidono invece sulle discipline settoriali della distribuzione di gas naturale, della distribuzione di energia elettrica, della gestione delle farmacie comunali e del trasporto ferroviario regionale, espressamente sottratte dalla stessa norma alla sua sfera applicativa ed evidenziate come oggetti esclusi dalla portata del referendum dalla sentenza n. 25/2010 della Corte costituzionale. Pertanto può proseguire il processo di sviluppo delle gare per il gas sulla base della recente determinazione degli ambiti territoriali minimi (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2011 - link a www.corteconti.it).
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Personale, vincoli a reclutamento e costi.
L'affidamento di servizi pubblici locali a società partecipate mediante il modulo dell'«in house providing» deve essere comunque fondato sui presupposti richiesti dall'ordinamento comunitario. L'abrogazione dell'articolo 23-bis della legge n. 133/2008 a seguito del referendum elimina i presupposti particolari che dovevano guidare le amministrazioni nell'analisi di sostenibilità del particolare modulo, nonché l'intera procedura relativa al parere obbligatorio dell'Agcm.
Tuttavia il nuovo quadro di riferimento deve essere fondato sui parametri affinati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue a partire dalla sentenza Teckal del 1998, come evidenziato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 325/2010.
Secondo la normativa comunitaria, le condizioni che consentono questa soluzione gestionale sono tre e devono sussistere contestualmente: capitale totalmente pubblico, controllo esercitato dall'aggiudicante sull'affidatario di «contenuto analogo» a quello esercitato dall'aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte più importante dell'attività dell'affidatario in favore dell'aggiudicante.
La Consulta richiama l'orientamento storico della Corte di giustizia Ue, per la quale le condizioni per l'affidamento diretto devono essere interpretate restrittivamente, poiché l'in house providing costituisce un'eccezione rispetto alla regola generale dell'affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. L'eccezione è giustificata dal diritto comunitario sulla base di una valutazione per cui le tre condizioni escludono che l'in house configuri un rapporto contrattuale intersoggettivo (tra amministrazione e società affidataria) distorsivo del confronto concorrenziale, determinando invece una vera e propria relazione organizzativa (sancita come rapporto interorganico).
L'elemento-chiave è individuabile nel controllo analogo, che deve tuttavia essere sostanziato con varie misure (norme statutarie, previsioni nei patti parasociali, disposizioni nel contratto di servizio), combinate in modo tale da permettere all'ente locale di esercitare un'influenza effettiva sui principali processi decisionali della società partecipata alla quale è stato assegnato il servizio pubblico in via diretta.
Rispetto alle gestioni esistenti derivanti da affidamenti teoricamente impostati secondo il modulo in house, le amministrazioni locali sono chiamate a riesaminare gli strumenti di interazione con le affidatarie, al fine di eliminare possibili criticità che potrebbero evidenziarne comunque l'incoerenza con i necessari presupposti fissati in ambito comunitario. La configurazione di una società come gestore di un servizio in base all'in house providing e quindi quale organismo del sistema pubblico allargato ne determina la sottoposizione alle stesse regole organizzative e contabili.
L'abrogazione dell'articolo 23-bis e l'inapplicabilità del Dpr n. 168/2010 non incidono sull'assoggettamento delle società affidatarie dirette di servizi pubblici all'articolo 18 della legge n. 133/2008, con conseguente obbligo di adozione di regole parapubblicistiche per il reclutamento di risorse umane e con il necessario contenimento della spesa per il personale, come più volte evidenziato dalla Corte dei conti.
I presupposti tipici dell'in house corrispondono peraltro ai caratteri identificativi degli organismi di diritto pubblico (personalità giuridica, istituzione finalizzata al soddisfacimento di esigenze di interesse generale, gestione soggetta al controllo totalitario di amministrazioni pubbliche): pertanto le società affidatarie dirette di servizi pubblici locali secondo tale modulo sono senza dubbio qualificabili come Odp e devono applicare alle loro procedure di acquisto e di appalto le regole del codice dei contratti pubblici (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2011 - link a www.corteconti.it).
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Tariffe modulate su investimenti e gestione delle reti.
PROFILI OPERATIVI - I contratti di servizio devono tenere conto delle norme «sopravvissute» dell'articolo 113 del Tuel.
Le relazioni tra amministrazioni locali e società affidatarie dei servizi pubblici locali sono regolate da un complesso sistema di norme e devono essere comunque reimpostate per ottimizzare gli investimenti.
L'abrogazione dell'articolo 23-bis della legge n. 133/2008 non ha scalfito l'articolato sistema normativo regolante i rapporti tra amministrazioni pubbliche e società partecipate, formato negli anni da varie leggi di natura finanziaria.
Continuano pertanto a esplicare i loro effetti nei rapporti tra enti locali e società in house o miste l'articolo 13 della legge n. 248/2006 (limiti relativi all'affidamento di servizi strumentali), l'articolo 3, comma 27, della legge n. 244/2007 (verifica della coerenza delle partecipate con le attività istituzionali dell'ente socio), l'articolo 18 della legge n. 133/2008 (regole pubblicistiche per le assunzioni nelle partecipate e limiti alla spesa per il personale). In questo quadro incidono anche le previsioni dell'articolo 6, comma 19 (divieto di ripiano delle perdite delle partecipate) e dell'articolo 14, comma 32 (divieto di costituzione e liquidazione delle società partecipate da Comuni con meno di 30mila abitanti) della legge n. 122/2010.
L'esito positivo del secondo quesito referendario sull'acqua (quesito numero 2) ha determinato l'eliminazione dell'adeguata remunerazione del capitale investito portando all'attenzione il tema della corretta gestione delle reti e dei relativi piani di investimento.
Questi aspetti devono essere oggetto di una dettagliata regolamentazione nei contratti di servizio, non solo per quello idrico, ma per tutte le tipologie di servizi pubblici locali.
I Comuni, in particolare, entrano in gioco su questo versante, poiché sono chiamati a ripensare alle politiche strutturali delle reti e al finanziamento delle stesse, anche in rapporto alle tariffe.
Lo stesso articolo 154 del Dlgs n. 152/2006 al comma 7 prevede che l'eventuale modulazione della tariffa tra i Comuni (appartenenti al medesimo Ato) tiene conto degli investimenti pro capite per residente effettuati dai Comuni medesimi che risultino utili ai fini dell'organizzazione del servizio idrico integrato.
La norma evidenzia quindi la possibilità di intervento attivo degli enti locali sulle reti, con incidenza direttamente valutabile anche sulle tariffe e con conseguente necessità di clausole che regolino la messa a disposizione dei nuovi impianti ai soggetti gestori.
Se le linee di rapporto istituzionale sono ampiamente dettagliate dalla normativa, i profili operativi e di regolazione devono essere ridisciplinati nei contratti di servizio, per i quali valgono le norme "sopravvissute" dell'articolo 113 del Tuel (comma 11) e quelle delle normative speciali (ad esempio l'articolo 151, comma 2 dello stesso Dlgs n. 152/2006, che prevede i dettagliati contenuti della convenzione per il servizio idrico) (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2011).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: L. Prati, La responsabilità soggettiva per inquinamento e bonifica in danno della procedura fallimentare (nota a Trib. Milano n. rg. 10655/2010) (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Bertuzzi, Rifiuti speciali. Decreto 11.04.2011, n. 82. Regolamento per la gestione degli pneumatici fuori uso (PFU) (link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: M. Grisanti, La statica e la sicurezza delle costruzioni quali presupposti di esistenza dei titoli abilitativi per l’attività edilizia (primo commento alla sentenza n. 3505 dell'08/06/2011 del Consiglio di Stato) (link a www.lexambiente.it).

APPALTI: A. P. Mazzuccato, L’attestazione di intervenuta efficacia dell’aggiudicazione definitiva negli appalti pubblici  (link a www.altalex.com).

PUBBLICO IMPIEGO: S. Mattia, Gli incarichi dirigenziali a contratto negli enti locali. I limiti percentuali fissati dalla disciplina statale per gli incarichi a soggetti esterni si applicano anche agli enti locali? Dipende… (link a www.leggioggi.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. Quaranta, Bonifica provvisoria a carico del proprietario incolpevole (link a www.ipsoa.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali sono le date di entrata in funzione del SISTRI dopo la nuova proroga?
Domanda.
Vorrei sapere quali sono, precisamente, le date di scadenza della "fase transitoria" del SISTRI, dato che il D.M. 26.05.2011 riporta delle indicazioni che mi sembrano differenti da quelle diffuse dal Ministero dell'ambiente in un comunicato stampa ufficiale?
Risposta.
Il Decreto 26.05.2011 del MATTM è intitolato "Proroga del termine di cui all'articolo 12, comma 2, del decreto 17.12.2009, recante l'istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti" (pubblicato sulla G.U. n. 124 del 30.05.2011) e dispone lo slittamento della fase transitoria "a doppio regime" documentale (adempimenti ambientali "tradizionali" e adempimenti nuovi del SISTRI), periodo che, per l'appunto, è disciplinato dall'art. 12, comma 2, del decreto istitutivo e s.m.i.
La nuova proroga disposta dal D.M. 26.05.2011:
• ha il "fine di consentire ai soggetti obbligati di far fronte alle "rispettive differenziate esigenze di adeguamento operativo necessarie a garantire la piena funzionalità del sistema della tracciabilità SISTRI";
• recupera, per così dire, quel "criterio di gradualità" che aveva caratterizzato le previsioni del MATTM relative all'avvio sia della fase di iscrizione sia di quella dell'operatività del SISTRI, laddove venivano previste date diverse per singoli gruppi di produttori/gestori di rifiuti, a cominciare da quelli di più grandi dimensioni per arrivare, gradualmente, sino alle imprese col numero più piccolo di dipendenti.
Infatti, in proposito, il D.M. 26.05.2011 parla di "tempistiche proporzionate e graduate".
In altre parole, è previsto un avvio a tappe della obbligatorietà del SISTRI e queste sono le date da ritenere corrette, cioè quelle indicate dall'art. 1, comma 1, del D.M. 26.05.2011:
• 1° settembre 2011,
• 1° ottobre 2011,
• 2 novembre 2011,
• 1° dicembre 2011,
• 2 gennaio 2012.
Più precisamente, l'art. 1 (Proroga di termini) del D.M. 26.05.2011 proroga il pieno avvio del SISTRI:
- al 1° settembre 2011 [comma 1]:
a) per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a) TU SISTRI] che abbiano più di 500 dipendenti,
b) per le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che hanno più di 500 dipendenti,
c) per le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale (c.d. "trasportatori professionali") autorizzati per una quantità annua complessivamente trattata superiore a 3.000 tonnellate;
d) per i soggetti di cui all'art. 3, comma 1, lettere c) e d) del TU SISTRI (stimati in circa 5.000 impianti).
- sempre al 1° settembre 2011 [comma 6]:
- per i soggetti di cui all'art. 3 del TU SISTRI, non menzionati nei commi da 1 a 5 dell'art. 1, D.M. 26.05.2011, nonché per i soggetti di cui all'art. 4 del TU SISTRI.
- al 1° ottobre 2011 [comma 2]:
a) per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 251 a 500 dipendenti,
b) per le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA] che hanno da 251 a 500 dipendenti,
c) per i Comuni, gli enti e le imprese che gestiscono i rifiuti urbani della regione Campania;
- al 2° novembre 2011 [comma 3]:
a) i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 51 a 250 dipendenti,
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che hanno da 51 a 250 dipendenti.
- al 1° dicembre 2011 [comma 4]:
a) i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano da 11 a 50 dipendenti,
b) le imprese e gli enti produttori di rifiuti speciali non pericolosi [ex art. 184, comma 3, lettere c), d) e g), TUA], che hanno da 11 a 50 dipendenti,
c) le imprese e gli enti che raccolgono o trasportano rifiuti speciali a titolo professionale (i c.d. "trasportatori professionali") che sono autorizzati per una quantità annua complessivamente trattata fino a 3.000 tonnellate (stimati in un numero di circa 10.000);
- al 2 gennaio 2012 [comma 5]:
- per i produttori di rifiuti [ex art. 3, comma 1, lettera a), TU SISTRI] che abbiano fino a 10 dipendenti (17.06.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Un consorzio può essere definito "stabile" solo se caratterizzato dall'esistenza di una struttura stabile e duratura il cui fine sia quello di operare nel settore dei contratti pubblici.
Il consorzio, per essere ritenuto “stabile” deve:
a) possedere almeno tre consorziati;
b) consorziare imprese che abbiano deciso (attraverso una determinazione assunta dai propri organi deliberativi) di operare congiuntamente nel settore dei contratti pubblici per un periodo di tempo non inferiore a cinque anni;
c) avere una autonoma struttura imprenditoriale tale per cui esso può essere in grado di eseguire direttamente i contratti pubblici allo stesso aggiudicati (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 17.06.2011 n. 1104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - URBANISTICAE' legittima –proprio al fine di evitare difficoltà insormontabili nei Comuni di medie e piccole dimensioni– l'approvazione dello strumento urbanistico per parti separate, con l’astensione per ciascuna di esse di coloro che in concreto vi abbiano interesse, purché a ciò segua una votazione finale dello strumento nella sua interezza; in tale ipotesi a quest’ultima votazione non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell’amministratore in conflitto.
Con riguardo agli effetti dell’obbligo di astensione in sede di votazione dello strumento urbanistico dei consiglieri in posizione di conflitto di interessi ai sensi del citato art. 78, d.lgs. nr. 267 del 2000, questa Sezione si è già espressa nel senso della legittimità –proprio al fine di evitare difficoltà insormontabili nei Comuni di medie e piccole dimensioni– di una approvazione dello strumento urbanistico per parti separate, con l’astensione per ciascuna di esse di coloro che in concreto vi abbiano interesse, purché a ciò segua una votazione finale dello strumento nella sua interezza; si è aggiunto anche che in tale ipotesi a quest’ultima votazione non si applicano le cause di astensione, dal momento che sui punti specifici oggetto del conflitto di interesse si è già votato senza la partecipazione dell’amministratore in conflitto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.06.2004, nr. 4429).
Alla luce di tale orientamento, che il Collegio condivide, risulta legittimo l’operato dell’Amministrazione nel caso di specie, essendosi proceduto a votazioni separate (fra le quali, per quanto qui interessa, quella relativa al suolo in proprietà dell’odierno appellato, nella quale un solo consigliere si astenne) e quindi a votazione finale della variante nella sua globalità, con la regolare partecipazione di tutti gli amministratori che nelle singole votazioni precedenti avevano ritenuto di non partecipare alla deliberazione.
Ne consegue che nemmeno può parlarsi di insussistenza del quorum strutturale di cui all’art. 19 del Regolamento consiliare, atteso che:
a) in nessuna delle votazioni parziali è contestata la sussistenza del detto quorum, essendosi registrata in ciascuna di esse l’astensione di uno o due consiglieri;
b) del pari pacifica è la sussistenza del quorum nella votazione finale, in occasione della quale –come si è visto– nessun consigliere aveva l’obbligo di astenersi.
Le considerazioni che precedono, disvelando l’infondatezza delle censure accolte dal primo giudice, consentono di sorvolare sulle questioni –pure sollevate dall’Amministrazione appellante– in ordine alla sussistenza o meno dell’interesse a ricorrere in capo all’originario istante (ivi compresa quella di un eventuale interesse “strumentale” all’integrale rinnovazione dell’attività pianificatoria, per effetto dell’auspicato travolgimento dell’intero strumento a causa del prospettato vizio procedimentale).
Inoltre, può omettersi anche l’approfondimento dell’ulteriore questione se l’obbligo di astensione ex art. 78, d.lgs. nr. 267 del 2000 comporti anche la necessità di un allontanamento fisico dall’aula dell’amministratore in conflitto di interessi, dal momento che su tale punto il primo giudice si è espresso nel senso dell’insussistenza di tale necessità, con statuizioni non oggetto di impugnazione incidentale da parte dell’odierno appellato
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.06.2011 n. 3663 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
In sé, un atto illegittimo o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri elementi sopra richiamati

Per mobbing si intende comunemente –in assenza di una definizione normativa- una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.
Nel verificare l’integrazione della fattispecie che si esamina è quindi necessario, anche in ragione della sua indeterminatezza, attendere ad una valutazione complessiva ed unitaria degli episodi lamentati dal lavoratore, da apprezzare per accertare tra l’altro:
- da un lato, l'idoneità offensiva della condotta datoriale (desumibile dalle sue caratteristiche di persecuzione e discriminazione),
- e, dall'altro, la connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della condotta.
Ne consegue che la ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante andrà esclusa quante volte la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
E’ in primo luogo necessaria, quindi, la prova dell'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alla sue finalità i singoli atti cui viene riferito.
D’altra parte, determinati comportamenti non possono essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.
In sé, un atto illegittimo o più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore non sono sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante, occorrendo che ricorrano tutti gli altri elementi sopra richiamati (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3648 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Gare: certificazione di qualità solo parziale, niente cauzione ridotta.
Al fine di poter accedere al beneficio della dimidiazione della cauzione provvisoria ex art. 75, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006, è necessario che sussista una più o meno perfetta corrispondenza tra le lavorazioni certificate e quelle da eseguire.
Viene impugnata l’aggiudicazione di una gara d’appalto per l’affidamento dei lavori di ristrutturazione di un complesso edilizio provinciale da parte della ditta seconda in graduatoria; la controinteressata spiega ricorso incidentale, assumendo, oltre al resto, l’inammissibilità del ricorso principale in quanto la ricorrente (principale) avrebbe dovuto essere esclusa dalla procedura in quanto aveva presentato per la partecipazione alla gara una cauzione provvisoria illegittimamente dimidiata nel suo importo.
Il Tribunale amministrativo di Bolzano stabilisce di esaminare prioritariamente il ricorso incidentale proposto dall’A.T.I. controinteressata, come tale preordinato a paralizzare la possibilità di accoglimento del ricorso principale e delle censure con esso dedotte.
Tra l’altro il deducente incidentale lamenta la violazione dell’art. 75, comma 7, del D.Lgs. n. 163/2006 avendo la ricorrente principale presentato una cauzione provvisoria dimidiata senza essere in possesso dei requisiti richiesti dalla norma citata.
Il motivo viene condiviso dal Collegio.
Ha infatti rilevato il T.R.G.A. che la facoltà di presentare la cauzione provvisoria in un importo ridotto del cinquanta per cento, come previsto dal comma 7 della norma suindicata, costituisce un beneficio a favore di imprese che offrono garanzie di maggiore affidabilità, in quanto sono in possesso di una capacità certificata nell’esecuzione dell’opera oggetto dell’appalto.
La seconda in graduatoria, a tal fine, ha presentato il certificato di attestazione del sistema di qualità rilasciato da una società specializzata, con il quale viene certificato che il: “… sistema di gestione per la qualità implementato dall’organizzazione è conforme alla norma UNI EN ISO 9011:2008 e alle prescrizioni del documento Sincert RT per le attività: progettazione, installazione e manutenzione di impianti termotecnica”.
Orbene, ha statuito il Collegio tirolese che, se è vero che in astratto la certificazione è conforme all’art. 75, comma 7 del D.Lgs. n. 163 cit., la stessa tuttavia è limitata agli impianti termici, che, a norma del disciplinare di gara costituisce soltanto il 22,14 % dell’importo d’opera.
Logica e buon senso, a suo avviso, suggeriscono che dev’esservi –al fine di poter accedere al beneficio della dimidiazione della cauzione– una più o meno perfetta corrispondenza tra le lavorazioni certificate e quelle da eseguire.
Questa tesi, ha soggiunto il G.A. altoatesino, è stata seguita anche dall’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici (pareri n. 155 e 156 del 09.09.2010) laddove viene puntualizzato che: “nel caso in cui la certificazione identifica espressamente talune tipologie di lavorazioni, la predetta certificazione attesta la capacità organizzativa ed operativa dell’impresa limitatamente alle lavorazioni indicate, per tutte le altre, invece, l’impresa risulta priva della certificazione di qualità”.
Tesi, peraltro, costantemente seguita dalla giurisprudenza amministrativa (da ultimo, si veda TAR Liguria, Sez. II, 24.06.2010, n. 5260).
Poiché secondo il disciplinare di gara la garanzia per la cauzione provvisoria (per un importo di Euro 104.430,80, pari al 2% dell’importo complessivo dei lavori) doveva essere inserita nella busta A relativa alla “documentazione amministrativa” a pena di esclusione, la presentazione di una cauzione per un importo ridotto rispetto a quello prescritto, equivale alla mancata presentazione di tale garanzia e, quindi, ha concluso il T.R.G.A. di Bolzano, a una fattispecie alla quale avrebbe dovuto necessariamente seguire l’esclusione dell’offerta dalla gara della ricorrente principale (commento tratto da www.ipsoa.it - TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 09.06.2011 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Scelte di pianificazione urbanistica del Consiglio Comunale.
Le scelte di panificazione fanno parte di una competenza specifica del Consiglio comunale, quale ente esponenziale della comunità, a cui solo spetta la potestà di valutare, nell'esercizio degli ordinari poteri di pianificazione urbanistica, la congruità delle scelte urbanistiche proposte e la loro compatibilità con gli obiettivi fondamentali che l'ente si è dato, o che intenda fissare, per il migliore assetto del territorio comunale (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 21.10.2008, n. 5146).
Per questo, in assenza di plateali e reiterate inadempienze, il giudice amministrativo non può, in sede dello speciale procedimento per il silenzio affidare al Commissario ad acta la definizione di un singolo segmento della pianificazione del territorio comunale interessante il ricorrente in maniera del tutto disgiunto dalle scelte di politica urbanistica, ovvero imporre termini del tutto incongrui in relazione all’importanza e rilevanza sociale dei procedimenti ed all’entità e gravosità degli adempimenti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3490 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZILa gara per la tesoreria non è soggetta al «Codice».
La gara per l'affidamento del servizio di tesoreria di un ente locale non è soggetta alla disciplina del Codice dei contratti pubblici (Dlgs 163/2006) e quindi non sussiste l'obbligo per l'aggiudicatario di prestare la cauzione definitiva.

È quanto affermato dal Consiglio di Stato con la sentenza 06.06.2011 n. 3377, chiarendo che il contratto di tesoreria rientra fra le concessioni di servizi ed evidenziando che la modalità di remunerazione costituisce il tratto distintivo dell'appalto. Così, si avrà concessione quando l'operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull'utenza, mentre si avrà appalto quando l'onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull'amministrazione.
Peraltro, la giurisprudenza interna ha più volte posto l'accento sulla tipologia del rapporto, configurando l'appalto in caso di prestazioni rese in favore dell'amministrazione (rapporto bilaterale), diversamente dalla concessione di servizi che instaura un rapporto tra ente, concessionario e utenti (rapporto trilaterale).
La conclusione cui perviene il Consiglio di Stato si pone senz'altro in linea con la più recente giurisprudenza comunitaria: con la sentenza del 10.03.2011 la Corte di giustizia Ue ha infatti affermato che nella concessione la remunerazione non è garantita dall'amministrazione aggiudicatrice, bensì dagli importi riscossi presso gli utenti del servizio.
Il contratto di tesoreria va quindi qualificato in termini di rapporto concessorio e non di appalto di servizio, come più volte affermato dalla Cassazione con le pronunce 8113/2009, 9648/2001 e 874/1999. Si tratta in sostanza del medesimo rapporto che si configura nel caso di accertamento e riscossione delle entrate locali (Consiglio di Stato, 5566/2010, 4510/2010 e 236/2006). La procedura di gara è pertanto assoggettata al Dlgs 163/2006 solo nei limiti indicati dall'articolo 30, che esclude l'applicabilità del Codice dei contratti alle concessioni di servizi, ma impone comunque il rispetto dei principi generali, prevedendo una gara informale a cui invitare almeno cinque concorrenti e con predeterminazione dei criteri selettivi.
Occorre quindi rispettare i "principi" desumibili dalla normativa sugli appalti, individuati di volta in volta dalla giurisprudenza. Infatti, alcune disposizioni del Dlgs 163/2006, in quanto espressione di principi generali, sono state ritenute applicabili anche alle concessioni: tra queste, l'articolo 83 sulla definizione dei criteri di valutazione delle offerte (Tar Toscana 1710/2008). Altre norme del Dlgs 163/2006 sono state invece ritenute inapplicabili alle concessioni: tra esse, gli articoli 86 e seguenti sull'anomalia dell'offerta (Consiglio di Stato, 1784/2011 e 513/2011) (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2011 - link a www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Rifiuti. Impianti mobili di macinatura.
In tema di rifiuti devono ritenersi sicuramente assoggettati al procedimento autorizzatorio di cui all’articolo 208 D.Lv. 152/2006 gli impianti mobili adibiti alla macinatura, vagliatura e deferrizzazione dei materiali inerti prodotti da cantieri edili di demolizione, in quanto non possono essere considerati impianti che effettuano una semplice riduzione volumetrica e separazione di eventuali frazioni estranee, essendo essi impiegati per effettuare un’operazione “di trattamento” il cui principale risultato è quello di permettere ai residui ferrosi “di svolgere un ruolo utile” (in linea anche con la nozione di “recupero” posta dal D.Lgs. 03.12.2010, n. 205, ove viene espressamente previsto che l’elenco delle operazioni di cui all’allegato C del D.Lgs. n. 152/2006 (non è per nulla esaustivo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.06.2011 n. 21859 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Opere nel sottosuolo.
Il reato di cui all’ari. 181, comma 1-bis, del D. L.vo 42/2004 (che si pone come tipica ipotesi di reato di pericolo), si configura anche in caso di lavori realizzati, in difetto di autorizzazione, nel sottosuolo di zone sottoposte a determinati vincoli paesaggistici in quanto la norma in parola vieta l’esecuzione di lavori di qualunque genere su beni paesaggistici, dovendosi ritenere realizzata anche in tali casi una modificazione, anche se non immediatamente visibile, dell’assetto del territorio.
La ratio della norma incriminatrice , quindi, la tutela massima del paesaggio, dovendosi escludere il reato solo nella residuale ipotesi che, nemmeno in via astratta, l’opera realizzata (o in corso di esecuzione) sia idonea a pregiudicare il bene paesaggistico protetto dalla norma (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.06.2011 n. 21842 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Variazioni essenziali.
Secondo le disposizioni dell’art. 32, lett. c), del T.U. n. 380/2001, costituiscono variazioni essenziali le “modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza”.
Ne consegue che la modifica della localizzazione dell’edificio integra una variazione essenziale rispetto al progetto qualora si sia in presenza di una traslazione tale da comportare lo spostamento del fabbricato su un’area totalmente o pressoché totalmente diversa da quella originariamente prevista: a detta modifica, pertanto, si connette la necessità di una nuova valutazione del progetto da parte dell’amministrazione concedente, sotto il profilo della sua compatibilità con i parametri urbanistici e con la considerazione dell’area (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.05.2011 n. 21781 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Beni ambientali. Installazione pannelli solari.
L’installazione di pannelli solari è inequivocabilmente un intervento idoneo ad incidere negativamente sull’assetto paesaggistico e richiede l’autorizzazione dell’ente preposto alla tutela del vincolo (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19328 - link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione abusiva, nozione, precisazioni.
Si ha lottizzazione abusiva di terreni a scopo edificatorio non solo quando vengono iniziate opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia dei terreni stessi in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici, vigenti o adottati, e comunque stabilite dalle leggi statali o regionali o senza la prescritta autorizzazione) ma anche quando tale trasformazione venga predisposta attraverso il frazionamento e la vendita, o atti equivalenti, del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche quali la dimensione in relazione alla natura del terreno e alla sua destinazione secondo gli strumenti urbanistici, il numero, l'ubicazione o la eventuale previsione di opere di urbanizzazione ed in rapporto ad elementi riferiti agli acquirenti denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 13.05.2011 n. 2937 - link a www.altalex.com).

CONSIGLIERI COMUNALIPer la sfiducia al sindaco basta la motivazione politica.
RICORSO BOCCIATO - Secondo il primo cittadino, era necessaria l'indicazione di circostanze e fatti riconducibili alla sua responsabilità.

È legittima la delibera del Consiglio comunale che ha approvato la mozione di sfiducia al sindaco, motivandola con la diversità di orientamento politico tra il sindaco stesso e la maggioranza consiliare.
Così ha stabilito il TAR Sicilia–Catania, Sez. III, con la sentenza 12.05.2011 n. 1170, la quale ha confermato con ulteriori argomenti le linee giurisprudenziali del Consiglio di Giustizia amministrativa della Regione siciliana, 28.09.2007, n. 886.
Il caso riguardava un Comune siciliano nel quale, trascorso un anno e mezzo dallo svolgimento della competizione elettorale e dall'insediamento del sindaco, sei consiglieri su 12 avevano depositato una mozione di sfiducia nei confronti del primo cittadino, e il consiglio, con i voti favorevoli di 11 dei 12 consiglieri, aveva approvato tale mozione.
Il sindaco sfiduciato aveva allora proposto ricorso al Tar, affermando che –in base all'articolo 10, comma 2, della legge regionale siciliana 35/1997– la mozione di sfiducia doveva essere «motivata», nel senso che avrebbe dovuto riferirsi a circostanze e fatti effettivamente accaduti ed esistenti, riconducibili a una responsabilità del sindaco stesso.
Ma il Tar non ha accolto questa tesi e ha quindi respinto il ricorso, per le seguenti ragioni:
1) la mozione di sfiducia al sindaco è caratterizzata da una elevatissima discrezionalità, sindacabile soltanto in casi di manifesta illogicità o evidente travisamento dei fatti;
2) l'articolo 10, comma 2, della legge 35/1997 della Regione siciliana prevede sì come condizione di legittimità della mozione di sfiducia al sindaco, che essa sia «motivata», ma non contiene ulteriori precisazioni sulle modalità di questa motivazione;
3) in conseguenza, la motivazione della sfiducia al sindaco può essere non soltanto di tipo politico-giuridico-amministrativo, ma di carattere politico, e può legittimamente basarsi sulla diversità di orientamento politico tra sindaco e maggioranza consiliare.
La sentenza è da condividere. Essa –in riferimento allo specifico caso affrontato– contiene il persuasivo argomento che, in mancanza di una diversa qualificazione legislativa della motivazione, è sufficiente che vi sia una motivazione basata sulla diversità di orientamento politico tra sindaco e maggioranza consiliare.
Va detto, inoltre, che la sentenza si inquadra esattamente anche nei rapporti tra gli organi dell' ente locale. È, infatti, necessario che vi sia sempre una consonanza politica tra il sindaco e il consiglio, tant'è vero che l'approvazione della mozione di sfiducia al sindaco comporta non solo la cessazione della carica di quest'ultimo, ma anche il cosiddetto "effetto Sansone", vale a dire il contemporaneo scioglimento del consiglio (articolo Il Sole 24 Ore del 20.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

URBANISTICAIn materia di impugnazione di piani urbanistici, l'ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di qualificata frequentazione) con la zona interessata dall'operazione contestata, specificandosi che detti soggetti sono legittimati all'impugnazione ove possano lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso.
Il pregiudizio che può conseguire ad un intervento di pianificazione può consistere nella possibile diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore qualità ambientale: una volta accertata la “vicinitas”, rappresentata dal collegamento territoriale, vanno valutate le implicazioni urbanistiche dell’intervento e le conseguenze prodotte sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorative e simili ragioni, sono in durevole rapporto con la zona interessata dall’intervento.
In punto di diritto, va richiamato il consolidato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in materia di impugnazione di piani urbanistici, l'ordinamento riconosce una posizione qualificata e differenziata a tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento (residenza, possesso o detenzione di immobili, o altro titolo di qualificata frequentazione) con la zona interessata dall'operazione contestata, specificandosi che detti soggetti sono legittimati all'impugnazione ove possano lamentare una pregiudizievole alterazione del preesistente assetto urbanistico ed edilizio per effetto della realizzazione dell'intervento controverso (cfr. Cons. St., Sez. IV, 10.04.2008, n. 1548).
Come è stato evidenziato, proprio in tema di impugnazione di un P.I.I. (cfr. TAR Lombardia Sez. II, 09.07.2009 n. 4345), il pregiudizio che può conseguire ad un intervento di pianificazione può consistere nella possibile diminuzione di valore del proprio immobile o nella peggiore qualità ambientale: una volta accertata la “vicinitas”, rappresentata dal collegamento territoriale, vanno valutate le implicazioni urbanistiche dell’intervento e le conseguenze prodotte sulla qualità della vita di coloro che per residenza, attività lavorative e simili ragioni, sono in durevole rapporto con la zona interessata dall’intervento
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.04.2011 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 R.D. 1265 del 1934 persegue una triplice finalità: a) assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero, b) garantire la tranquillità e il decoro ai luoghi di sepoltura, c) consentire futuri ampliamenti del cimitero.
Una volta intervenuta la soppressione del cimitero, si apre una fase temporale di quindici anni dall’avvenuta ultima inumazione, all’esito della quale, previo dissodamento del terreno, il sito ove era allocato il cimitero può essere destinato a tale funzione.

Il R.D. 27.7.1934 n. 1265 -T.U. delle leggi sanitarie- all’art. 338 dispone che i cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato, vietando la costruzione intorno ai cimiteri di nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell'impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge.
La medesima norma, in forza delle modifiche da ultimo introdotte dall’art. 28 della L. 01.08.2002 n. 166, prevede la possibilità di deroga da parte del Consiglio comunale, previo parere favorevole della ASL, sino al limite di m. 50, in concorrenza di determinate condizioni.
La giurisprudenza ha rilevato (cfr. ex multis: TAR Brescia, sez. I, 01.12.2009 n. 2381, TAR Toscana Sez. III, 12.07.2010 n. 2446, Cons. St., Sez. V, 14.09.2010 n. 6671) che la fascia di rispetto cimiteriale prevista dall'art. 338 R.D. 1265 del 1934 persegue una triplice finalità: a) assicurare condizioni di igiene e di salubrità mediante la conservazione di una "cintura sanitaria" intorno allo stesso cimitero, b) garantire la tranquillità e il decoro ai luoghi di sepoltura, c) consentire futuri ampliamenti del cimitero.
Va poi rilevato che la procedura di soppressione dei cimiteri risulta disciplinata dagli artt. 96-99 del D.P.R. 10.09.1990 n. 285. In particolare, l’art. 97 dispone (al primo comma) che il terreno di cimitero di cui sia stata deliberata la soppressione non può essere destinato ad altro uso se non siano trascorsi almeno 15 anni dall'ultima inumazione, con la conseguenza che per tale periodo esso rimane sotto la vigilanza dell'autorità comunale e deve essere tenuto in stato di decorosa manutenzione; mentre, una volta che è trascorso tale lasso di tempo, (secondo comma) il terreno del cimitero soppresso, prima di essere destinato ad altro uso, deve essere dissodato per la profondità di metri due al fine di recuperare tutte le ossa che si rinvengono da depositarsi nell'ossario del nuovo cimitero.
L’art. 98 prevede poi la possibilità, per i concessionari di posti per sepolture private nel vecchio cimitero, di ottenere a titolo gratuito, nel nuovo cimitero, un posto corrispondente in superficie a quello precedentemente loro concesso, per il tempo residuo spettante secondo l'originaria concessione, o per la durata di 99 anni nel caso di maggiore durata o di perpetuità della concessione estinta, nonché il gratuito trasporto delle spoglie mortali dal soppresso al nuovo cimitero, da effettuare a cura del Comune.
L’art. 99 infine disciplina la sorte dei monumenti funerari del cimitero soppresso.
Da tale complesso normativo si evince quindi che, una volta intervenuta la soppressione del cimitero, si apre una fase temporale di quindici anni dall’avvenuta ultima inumazione, all’esito della quale, previo dissodamento del terreno, il sito ove era allocato il cimitero può essere destinato a tale funzione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 18.04.2011 n. 575 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 20.06.2011

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AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Oggetto: Comunicato alle SOA e alle Stazioni appaltanti su criteri interpretativi per il rilascio della validità delle attestazioni di qualificazione nel periodo transitorio previsto dal D.P.R. n. 207/2010 come modificato dal D.L. n. 70/2011 (comunicato del Presidente del 10.06.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 13.06.2011, "Criteri e modalità per l’erogazione dei contributi agli enti locali ed agli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite (art. 79, comma 1, lett. b), l.r. 12/2005)" (decreto D.S. 08.06.2011 n. 5173).

ENTI LOCALI: G.U. 13.06.2011 n. 135, suppl. ord. n. 144, "Patto di stabilità interno per il triennio 2011-2013 per le Province e i Comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, circolare 06.04.2011 n. 11).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: G. Guzzo, L’assetto della disciplina SPL di rilevanza economica all’indomani del risultato del referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011: riflessioni minime (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L. Bellagamba, La tracciabilità dei flussi finanziari nelle concessioni di lavori pubblici e di servizi, dopo la legge di conversione del D.L. 187/2010: il perseverare dell’Autorità nell’errore di fondo (det. 10/2010) (link a www.linobellagamba.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: V. Paone, Il rapporto tra il reato di gestione illecita di rifiuti e l’inosservanza di modalità operative (nota a Cass. pen. n. 22763/2010) (link a www.lexambiente.it).

ENTI LOCALI - VARI: M. Villani, Tarsu soppressa dal 2010 e 2011 (link a www.filodiritto.com).

SINDACATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Fac-simile di Contratto Collettivo Decentrato Integrativo per l'anno 2011 (versione modificabile a piacimento) (CISL-FP di Bergamo, giugno 2011).

PUBBLICO IMPIEGOL'indennità di disagio negli enti locali (CGIL-FP di Bergamo, nota 15.06.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: Comunicato ai pubblici dipendenti (CSA di Roma, comunicato 14.06.2011).

UTILITA'

APPALTIProcedura Negoziata: definizioni, domande e risposte. Estratto del Convegno sul nuovo Regolamento dei Contratti pubblici.
La procedura negoziata consente alle Stazioni Appaltanti di consultare gli operatori economici da loro scelti e negoziare con uno o più di essi le condizioni dell'appalto.
Essa può essere “previa pubblicazione di bando” o “senza previa comunicazione di bando”.
Ricordiamo brevemente che:
la procedura negoziata previa pubblicazione di un bando di gara è applicabile:
-
quando tutte le offerte presentate sono irregolari ovvero inammissibili, in ordine a quanto disposto dal presente codice in relazione ai requisiti degli offerenti e delle offerte;
- nel caso di appalti per lavori realizzati unicamente a scopo di ricerca, sperimentazione.
la procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando di gara è applicabile:
- nel caso in cui non sia stata presentata nessuna offerta, o nessuna offerta appropriata, o nessuna candidatura;
- se il contratto possa essere affidato unicamente ad un operatore economico determinato il per ragioni di natura tecnica o artistica ovvero attinenti alla tutela di diritti esclusivi;
- in casi di estrema urgenza, risultante da eventi imprevedibili per le stazioni appaltanti.
Il Decreto Sviluppo (Decreto Legge 13.05.2011, n. 70) ha innalzato i limiti di importo per l'affidamento degli appalto mediante procedura negoziata (fino alla soglia comunitaria), con l'obbligo di invitare almeno 5 operatori per importi inferiori a 500.000 euro e almeno 10 operatori per importi maggiori di 500.000 euro.
La redazione di BibLus-net propone ai propri lettori un estratto in formato audio-video del seminario di aggiornamento e studio riguardante il nuovo “REGOLAMENTO DI ESECUZIONE ED ATTUAZIONE DEI CONTRATTI PUBBLICI”, organizzato dall'Ordine degli Ingegneri di Avellino il 16.05.2011, che riporta la relazione del dott. Ugo MONTELLA (Vice Procuratore Generale presso la Corte dei Conti) con domande e risposte sulla Procedura Negoziata.
In particolare,
vengono analizzati gli artt. 56, 57 e 122 del D.Lgs 163/2006 e le modifiche apportate dal D.P.R. 207/2010 e dal Decreto Sviluppo e vengono fornite le risposte ai quesiti dei partecipanti (news del 16.06.2011 - link a www.acca.it).

APPALTIClausole di tracciabilità: dal 17.06.2011 adeguamento automatico di tutti i contratti.
Come previsto dalla Legge n. 127/2010, dal 17.06.2011 tutti i contratti stipulati prima del 10 settembre 2010, non adeguati volontariamente, saranno automaticamente integrati con le clausole di tracciabilità previste Legge n. 136/2010.
In particolare, per questi contratti, le varie stazioni appaltanti dovranno chiedere (entro venerdì) il CIG (Codice Identificativo di Gara) e dovranno effettuare i pagamenti tramite bonifico bancario o postale o altri strumenti tracciabili.
L'AVCP consiglia alle stazioni appaltanti di inviare una comunicazione agli operatori economici per evidenziare l'adeguamento automatico del contratto e comunicare il CIG, dove non fosse già previsto.
Per approfondire la problematica relativa ad adempimenti e procedure si rinviano i lettori all'articolo sulla Tracciabilità dei flussi finanziari.
In allegato si riportano le diverse Determinazioni dell'AVCP (news del 16.06.2011 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVORODocumento di Valutazione dei Rischi: redazione e aggiornamento e miglioramento in otto mosse!
Il D.V.R. (Documento di Valutazione dei Rischi) è lo strumento attraverso il quale il Datore di Lavoro effettua “la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori” (D.Lgs. 81/2008), al fine di garantire il miglioramento dei livelli di sicurezza nel tempo.
In particolare, il Datore di Lavoro nel DVR definisce l'organizzazione che ha predisposto per garantire la sicurezza dei Lavoratori.
Tuttavia, si osserva che molto spesso il DVR predisposto in adempimento dell'art. 17 del D.Lgs. 81/2008 ha un eccessivo contenuto formale e non è uno strumento efficace per gestire le varie problematiche della sicurezza dei Lavoratori. Inoltre, nonostante la redazione del DVR sia un obbligo INDELEGABILE, talvolta il datore di lavoro non ne conosce il contenuto.
Lo S.P.I.S.A.L. (Servizio di Prevenzione Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro) USSL 5 ovest vicentino propone 8 punti chiave per la redazione/aggiornamento del DVR. ... (news del 16.06.2011 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVOROOtto regole vitali per chi lavora in edilizia. Un interessante vademecum per la sicurezza sui cantieri.
Il SUVA (INAIL svizzero) ha pubblicato un vademecum sulle regole da far seguire in cantiere.
Il documento è indirizzato ai Datori di Lavoro o ai formatori sulla sicurezza e contiene le regole basilari da impartire ai lavoratori, esposte in modo semplice, chiaro e preciso, con illustrazioni, schemi e foto.
Innanzitutto vengono forniti consigli ai Datori di Lavoro su come predisporre la formazione dei lavoratori, come preparare le lezioni, come impartire le regole e come rapportarsi con i propri dipendenti.
Vengono poi analizzate singolarmente otto regole fondamenti, corredate da opportune schede esplicative, consigli e istruzioni da impartire.
Le regole sono:
1- mettere in sicurezza le aperture nel vuoto a partire da un'altezza di 2 m;
2- mettere in sicurezza le aperture nel pavimento;
3- manovrare opportunamente le gru e imbracare opportunamente i carichi;
4- fare uso del ponteggio quando necessario ;
5- controllare il ponteggio ogni giorno;
6- realizzare accessi sicuri a tutti i posti di lavoro;
7- utilizzare i D.P.I.;
8- mettere in sicurezza gli scavi (news del 16.06.2011 - link a www.acca.it).

QUESITI & PARERI

AMBIENTE-ECOLOGIA: Quali sono le incombenze se il produttore intende movimentare un rifiuto già registrato sul registro di carico e scarico ma non ancora caricato sull’area registro cronologico SISTRI? (link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il registro cronologico – SISTRI sostituisce il registro di carico scarico? (link a www.ambientelegale.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Chi è responsabile della veridicità dei dati inseriti nel SISTRI? (link a www.ambientelegale.it).

PUBBLICO IMPIEGOMerito e professionalità: quali strumenti premiali?
Domanda.
E' possibile per gli Enti Locali assegnare premialità con strumenti ulteriori rispetto a quelli previsti dall'art. 20 del D.Lgs. n. 150/2009?
Risposta.
Si, in quanto se da un lato il comma 3 dell'art. 31 stabilisce che gli Enti Locali, al fine di premiare il merito e la professionalità, utilizzano gli istituti premiali di cui all'art. 20 della Riforma Brunetta, dall'altro si aggiunge "oltre a quanto autonomamente stabilito nei limiti delle risorse disponibili per la contrattazione integrativa".
Quindi, in buona sostanza, qualora in sede di contrattazione decentrata vengano individuate risorse disponibili, se ne può fissare la destinazione ad altre ulteriori forme di premialità rispetto a quelle previste dal citato art. 20 del D.Lgs. 27-10-2009, n. 150 (13.06.2011 - commento tratto da www.ipsoa.it).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI SERVIZI: Prime osservazioni sull’affidamento dei servizi pubblici locali e sulla tariffa del servizio idrico integrato in esito al referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011 (ANCI, nota interpretativa 14.06.2011).

ENTI LOCALIOggetto: Applicazione dell'art. 9 D.L. 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella L. 30.07.2010, n. 122, recante "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica" (Ministero dell'Economia e delle Finanze, Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, circolare 15.04.2011 n. 12).

COMPETENZE PROFESSIONALI: Oggetto: Competenze professionali (Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati, circolare 14.04.2011 n. 22/2011).

COMPETENZE PROFESSIONALI: Oggetto: competenza perito termotecnico per la progettazione di un impianto di smaltimento acque nere e meteoriche di un piano di lottizzazione residenziale (Consiglio Nazionale dei Periti Industriali e dei Periti Industriali Laureati, nota 14.01.2011 n. 196 di prot.).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI: Niente politica estera per i comuni. Al bando promozioni, fiere, scambi e aiuti alle imprese. Per la Corte conti gli enti non hanno competenza in materia. E scatta il danno erariale.
I comuni non possono svolgere attività di «politica estera», consistenti in svariate iniziative di promozione all'estero delle attività imprenditoriali locali, come fiere, scambi internazionali e aiuti alle imprese.
Lo chiarisce la Corte dei Conti, Sez. I giurisdizionale centrale, sentenza 28.07.2008 n. 346, che ha condannato amministratori e funzionari che hanno dato materialmente corso alle attività oggetto della censura. Per altro, la sentenza della sezione centrale ha riformato la pronuncia del giudice di primo grado, secondo il quale non si erano verificate le condizioni per accertare il danno erariale, perché la legge non vieterebbe espressamente una funzione di promozione all'estero in capo ai comuni.
Tale assunto, tuttavia, viene approfonditamente contestato dalla sezione centrale, a seguito di una compiuta analisi del riparto normativo delle competenze in materia di politica estera e di promozione commerciale e di immagine.
La sezione mette correttamente in evidenza come sia erroneo analizzare la legittimità delle azioni amministrative sulla semplice base della constatazione dell'assenza di espliciti divieti. L'ordinamento giuridico è un insieme coerente e complesso: se, nonostante, manchi un divieto espresso, in capo a un ente, a svolgere una certa attività, ma, contestualmente, l'ordinamento quella stessa attività l'assegni alle competenze di altro ente, tale assegnazione costituisce un limite invalicabile.
Ciò è quanto avviene nel campo della promozione all'estero. Risulta assolutamente chiaro a chiunque che tale materia, rientrante nella complessa politica estera, appartenga in esclusiva allo stato. Per altro, limitate funzioni di rilievo internazionale possono essere svolte anche dalle regioni, in base al dpr 31.03.1994, «Atto di indirizzo e coordinamento in materia di attività all'estero delle regioni e delle province autonome», il quale, tuttavia impone alle amministrazioni regionali di coordinarsi strettamente con lo stato, per non contrastare con gli indirizzi di politica internazionale.
Il citato decreto non assegna alcuna competenza in materia ai comuni; né tale attribuzione di competenze emerge dalla legge n. 59/1997 o dal dlgs 112/1998, i quali, al contrario, prevedono l'assegnazione in via esclusiva alle sole regioni di funzioni attinenti la promozione delle imprese.
Insomma, il sistema del «policentrismo istituzionale» o federalismo, secondo la magistratura contabile, non può essere intese che ciascun soggetto istituzionale che lo compone sia libero di svolgere qualsiasi iniziativa, al di fuori di regole di ripartizione delle competenze: ciò determinerebbe, infatti, l'impossibilità del controllo delle politiche di finanza pubblica.
Dall'esame delle norme regolanti la materia della politica e della promozione all'estero, dunque, secondo la sezione centrale emerge senza ombra di dubbi che gli enti locali, in particolare i comuni non dispongono di alcuna competenza a svolgere attività all'estero o, comunque, aventi carattere internazionale. Ciò per la semplice ragione che tali attività per il loro rilievo, non possono essere gestite in modo efficiente al livello comunale: la corretta applicazione del principio di sussidiarietà verticale impone che tali funzioni siano svolte al massimo livello organizzativo pubblico, lo stato.
La sussistenza, allora, di un chiaro sistema normativo implica la colpa grave di amministratori, funzionari e segretari comunali, che hanno materialmente attivato una pluralità di viaggi all'esterno non utili per fini pubblici apprezzabili. Nei quali, per altro, rileva la sentenza, sono state attivate spese per mance, pay-tv, addebitate al comune, senza che da esse potesse cogliersi alcuna possibile utilità per la comunità amministrata, per altro ulteriormente danneggiata dalla circostanza che importanti energie e risorse lavorative, utilizzate per le attività all'estero, sono state distolte dagli ordinari compiti propri del comune (articolo ItaliaOggi dell'08.08.2008).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: La colpa grave non è assicurabile. L’ente locale non può estendere la copertura dei danni. La Corte conti Lombardia bacchetta il sindaco di Erba: la polizza fa scattare il danno erariale.
Agli enti locali è permesso sottoscrivere un contratto assicurativo che preveda il risarcimento all’amministrazione dei danni causati dagli amministratori o dai dipendenti con colpa lieve.
In nessun caso è permesso all’ente stesso di assicurare i danni causati dagli stessi con colpa grave, posto che in tal caso il premio eventualmente pagato non risponde ad alcun pubblico interesse e costituisce danno erariale per il dirigente che ha sottoscritto la polizza.
Altresì non è possibile per l’ente integrare una copertura assicurativa danni per colpa lieve con una clausola che estenda la responsabilità per colpa grave, con il pagamento della relativa quota di premio a carico del contraente. In tale ultimo caso, l’amministratore o il dipendente potrà concludere separati contratti per coprire la colpa grave in maniera del tutto autonoma e con oneri a proprio carico.

Le interessanti conclusioni sopra riportare pervengono da un rilevante parere che la sezione regionale di controllo della Corte dei conti per la Lombardia ha reso in questi giorni (parere 22.07.2008 n. 57) sulla vexata quaestio della legittimità dell’assicurazione degli amministratori e dipendenti, con onere a carico del bilancio comunale, per coprire i danni commessi.
Qui si tratta della possibilità, ventilata dal sindaco di Erba, di assicurare amministratori e dipendenti per la colpa lieve e di prevede, nello stesso contratto, una clausola di estensione anche per la colpa grave, con pagamento relativo di premio esclusivamente a carico dei contraenti.
Innanzitutto, bisogna ricordare che la scorsa Finanziaria, all’articolo 3, comma 59, ha disposto la nullità del contratto di assicurazione con il quale un ente pubblico assicuri propri amministratori per i rischi derivanti dall’espletamento dei compiti istituzionali connessi con la carica e riguardanti la responsabilità per danni cagionati
allo stato o a enti pubblici.
Una mano pesante, quella legislatore, previsto che l’amministratore che ponga in essere un simile contratto (e il beneficiario della copertura assicurativa) siano tenuti a rimborsare, quale vero e proprio danno erariale, una somma pari a dieci volte l’ammontare del premio relativo.
Una disposizione che viene fuori da un filone giurisprudenziale che ormai si è consolidato (su tutte, Corte conti Sicilia n. 3471/2005), secondo cui stipulare un contratto che «copre» il danno erariale (e pertanto quando è stata acclarata la colpa grave) non può che definirsi esso erariale, quanto «del tutto privo di sinallagma con la p.a. e non rispondente ad alcun pubblico interesse».
Ora, rimane la possibilità che a carico dell’ente restino le conseguenze di fatti causativi di danno posti in essere da amministratori e dipendenti senza dolo o colpa grave. Per tali tipologie è possibile ricorrere a una copertura assicurativa a carico dell’erario, in cui l’assicurato e il beneficiario sia l’ente locale stesso.
È questa una forma ammissibile di tutela dai danni che altrimenti rimarrebbero a totale carico delle stesse amministrazioni locali e, giustamente, il premio relativo è posto a carico della p.a., in quanto soggetto garantito dall’assicurazione.
Non è invece possibile, ha ammesso il collegio, inserire in un contratto assicurativo per «colpa lieve», una clausola estensiva che copra anche la colpa grave, anche quando l’onere sia a carico degli amministratori e dei dipendenti. A prima vista, ciò non sembrerebbe contrastare con il divieto posto dalla finanziaria 2008, ma è pur vero che tale clausola, in cui contraente e beneficiario dell’assicurazione è l’amministratore o il dipendente, «non troverebbe giustificazione nella polizza assicurativa conclusa dal comune», non trovando ragion d’essere nel contratto concluso dal comune.
Se gli amministratori o i dipendenti, ha concluso la Corte, vogliono tutelarsi dai danni commessi per colpa grave, potranno concludere, con oneri a proprio carico, «separati contratti che l’impresa assicuratrice intenda autonomamente proporgli».
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I PUNTI DEL PARERE
• La legge finanziaria 2008 ha posto un divieto assoluto a stipulare contratti di assicurazione, con oneri a carico della p.a., che coprano il rischio di danni commessi con colpa grave;
• È tuttavia possibile stipulare contratti di assicurazione che tutelino l’amministrazione dai danni commessi con colpa lieve, i cui oneri sono da imputare al bilancio della stessa p.a.;
• Non è invece ammissibile l’inclusione in contratti a copertura di danni da colpa lieve, di una clausola estensiva alla colpa grave, ancorché il relativo premio sia a carico del contraente. I soggetti, siano essi amministratori o dipendenti, che intendano tutelarsi in tal modo, potranno sottoscrivere separati contratti, con oneri a proprio carico
(articolo ItaliaOggi dell'08.08.2008).

PUBBLICO IMPIEGO: Per i dipendenti pubblici vige, nel nostro ordinamento giuridico, il principio immanente di onnicomprensività del trattamento economico per cui non è possibile remunerare il dipendente con compensi extra-ordinem per compiti rientranti nelle mansioni dell'Ufficio ricoperto. Alla luce del quadro normativo sopra delineato si evince, senza alcuna ombra di dubbio, che il pubblico dipendente, compreso quello in servizio nel territorio regionale, non può essere in alcun modo ricompensato extra-retribuzione per lo svolgimento di mansioni riguardanti l'Ufficio ricoperto e che allo stesso, salvo i casi espressamente previsti da apposite disposizioni, non possono essere conferiti incarichi libero-professionali.
La ratio del divieto di conferire incarichi libero-professionali ai dipendenti pubblici, al di fuori delle ipotesi espressamente previste, discende dal principio di esclusività che li lega all'Ente datore di lavoro, e consiste nell'evitare commistioni di qualsiasi tipo tra interessi pubblici e privati che potrebbero minare il principio costituzionale di imparzialità dell'azione amministrativa; ciò è anche conseguenza della incompatibilità logica, prima che giuridica, tra lo svolgimento della libera professione ed il rapporto di pubblico impiego, tradizionalmente richiedente, come sopra delineato, una esclusività della prestazione lavorativa in favore dell'amministrazione di appartenenza, non esigibile da chi svolge anche una libera professione.
Deve ravvisarsi in capo all'odierno convenuto il requisito soggettivo della colpa grave, considerata la chiarezza del quadro normativo di riferimento che, stante la particolare posizione apicale ricoperta dall'ing. ... nell'ambito dell'apparato burocratico del Comune di Gela, non avrebbe potuto essere in alcun modo ignorata.
Il conferimento degli incarichi libero-professionali ai dipendenti del Comune di Gela ha costituito, pertanto, un danno erariale in quanto avvenuto contra legem, non rilevando in alcun modo che l'ente locale avrebbe ottenuto un risparmio di spesa per non avere fatto ricorso a professionisti esterni, considerato che, prescindendo da ogni ulteriore circostanza, l'effettuazione di una spesa in violazione di chiara e puntuale normativa non può trovare alcuna giustificazione da parte di una pubblica amministrazione.

... considerato che ai predetti dipendenti è stato conferito un incarico libero professionale al di fuori delle mansioni d'ufficio, ritenuto fonte di illecito erariale, è necessario esaminare innanzi tutto la relativa normativa.
L'art. 60 del d.p.r. n. 3/1957, in materia di disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, prevedeva espressamente il divieto per i pubblici dipendenti di eserciate “il commercio, l'industria, né alcuna professione”.
L'art. 58 del decreto legislativo n. 29/1993, trasfuso successivamente nell'art. 53 del decreto legislativo n. 165/2001, riguardante norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, i cui principi desumibili dall'art. 2 della legge n. 421/1992 e dall'art. 11 co. 4° della legge n. 59/1997 costituiscono per le regioni a statuto speciale norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, ha esteso a tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità previste dall'art. 60 del d.p.r. n. 3/1957, fatte salve le eccezioni previste per i dipendenti a tempo parziale: “le pubbliche amministrazioni non possono conferire ai dipendenti incarichi, non compresi nei compiti e doveri d'ufficio, che non siano espressamente previsti o disciplinati dalla legge o da altre fonti normative, o che non siano espressamente autorizzati ... in ogni caso il conferimento operato direttamente dall'amministrazione, nonché l'autorizzazione all'esercizio di incarichi che provengano da amministrazione pubblica diversa da quella di appartenenza … sono disposti dai rispettivi organi competenti secondo criteri oggettivi e predeterminati, che tengano conto della specifica professionalità, tali da escludere casi di incompatibilità, sia di diritto che di fatto, nell'interesse del buon andamento della pubblica amministrazione”.
La legge regionale n. 21/1985, come modificata dalla legge regionale n. 10/1993, ha stabilito:
- all'art. 5, che la progettazione può essere affidata agli Uffici tecnici, con indicazione dei criteri per l'incentivazione economica dei rispettivi dipendenti, previa adozione di apposito regolamento, come quello adottato con la delibera della Giunta Municipale di Gela n. 158 del 23.10.1995, nonché a professionisti esterni, disciplinando con un proprio regolamento le modalità per i conferimenti degli incarichi di progettazione e di direzione dei lavori; inoltre, ai sensi dell'ultimo comma del citato articolo, ha previsto che gli enti non possono avvalersi, come professionisti esterni, di dipendenti di uffici tecnici di altri enti pubblici, ancorché autorizzati dall'ente di appartenenza, con la conseguenza che a maggior ragione tale incarico non può essere conferito con contratto libero-professionale a propri dipendenti al di fuori delle ipotesi permesse;
- agli artt. 8, 9 e 19, che possono essere attribuiti gli incarichi di ingegnere-capo, collaudatore tecnico-amministrativo, di collaudatore statico anche a funzionari dipendenti, secondo le modalità indicate con decreto dell'assessore regionale per i lavori pubblici che dovrà fissare anche “il compenso massimo complessivo per ciascun biennio percepibile dai funzionari regionali”.
L'art. 17 della legge n. 109/1994, in materia di lavori pubblici, trasfuso successivamente nell'art. 90 del Codice dei lavori pubblici, i cui principi ai sensi dell'art. 1 costituiscono norme fondamentali di riforma economico sociale per le regioni a statuto speciale, prevede che l'attività di progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva, la direzione dei lavori, nonché gli incarichi di supporto tecnico-amministrativo, sia affidata agli uffici tecnici delle stazioni appaltanti, con gli incentivi previsti dal successivo art. 18, o a soggetti che esercitano professionalmente la relativa attività e che non possono identificarsi in generale, tranne espresse eccezioni normative, con coloro che hanno la qualità di pubblici dipendenti (cfr. art. 17 co. 8°: “indipendentemente dalla natura giuridica del soggetto affidatario dell'incarico, lo stesso deve essere espletato da professionisti iscritti negli appositi albi previsti nei vigenti ordinamenti professionali, personalmente responsabili e nominativamente indicati già in sede di presentazione dell'offerta, con la specificazione delle rispettive qualificazioni professionali”); le forme di incentivazione per il personale dell'amministrazione appaltante, stabilito in una percentuale dell'importo posto a base di gara, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, tra il responsabile unico del procedimento, gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori: modalità e criteri di ripartizione sono previsti in sede di contrattazione decentrata e assunti in un regolamento adottato dall'Amministrazione appaltante; in detta percentuale devono essere inseriti anche gli oneri riflessi, come sancito dall'art. 3 co. 29° della legge n. 350/2003 riguardante i compensi erogati dagli enti locali e come disposto con interpretazione autentica dall'art. 1 co. 207° della legge n. 266/2005.
L'art. 2 co. 3° della legge regionale n. 23/1998 ha recepito, comunque, l'art. 6 della legge n. 127/1997 e successive modifiche e integrazioni, il cui co. 13° ha sostituito l'art. 18 co. 1° della citata legge n. 109/1994; a sua volta il suddetto art. 6 della legge n. 127/1997 è stato modificato dall'art. 2 co. 18° della legge n. 191/1998 e, successivamente, dall'art. 13 co. 4° della legge n. 144/1999.
Il Comune di Gela ha adottato il relativo regolamento con delibera della Giunta Municipale n. 238 del 12.11.2002.
L'art. 13 co. 4° della legge n. 144/1999 ha abrogato l'art. 62 co. 4° e 5°del regio decreto n. 2537/1925 che prevedeva la possibilità, per le sole amministrazioni dello Stato, di liquidare ai propri funzionari i corrispettivi per le prestazioni compiute per enti pubblici o aventi finalità di pubblico interesse con una riduzione non inferiore ad un terzo né superiore alla metà delle tariffe professionali; sul punto è necessario puntualizzare che l'art. 21 della legge n. 734/1973 prevedeva che i compensi previsti dal suddetto art. 62 avrebbero dovuto essere versati “al bilancio dello Stato in conto entrate eventuali del Tesoro” e che “nessun corrispettivo è dovuto agli interessati per l'attività professionale dagli stessi eventualmente svolta quali dipendenti o in rappresentanza dello Stato eccettuato il compenso per lavoro straordinario per l'attività svolta oltre il normale orario di lavoro anche in eccedenza ai limiti orari previsti dalle norme in materia, e l'indennità di missione per i servizi resi fuori sede”.
In ultimo sulla materia de qua, l'Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici, con atto di regolazione datato 08.11.1999, ha definito l'attività di progettazione svolta da funzionari pubblici come “attività professionalmente qualificata, ma non di libera professione” ed ha ribadito il divieto per i dipendenti pubblici a tempo pieno di assumere incarichi da parte delle pubbliche amministrazioni in qualità di liberi professionisti e la possibilità per i dipendenti part-time di ricevere incarichi di progettazione esterna, purché previa procedura concorsuale e con le limitazioni territoriali di cui all'art. 18, comma 2-ter della legge n. 104/1994.
Aggiungasi che per i dipendenti pubblici vige, nel nostro ordinamento giuridico, il principio immanente di onnicomprensività del trattamento economico per cui non è possibile remunerare il dipendente con compensi extra-ordinem per compiti rientranti nelle mansioni dell'Ufficio ricoperto (ex plurimis Consiglio di Stato, Sezione V, 09.09.1999 n. 1027 e Sezione VI, 05.05.1995 n. 419; Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, 04.01.1995 n. 94; Corte dei Conti, Sezione Campania 18.11.1991 n. 3 e 08.11.1994 n. 54, Sezione Puglia 10.05.1994 n. 43; nonché Sezione II Centrale d'Appello 30.10.2000 n. 327 e 13.03.2001 n. 115 e Sezione III Centrale d'Appello n. 179/2006).
Alla luce del quadro normativo sopra delineato si evince, senza alcuna ombra di dubbio, che il pubblico dipendente, compreso quello in servizio nel territorio regionale, non può essere in alcun modo ricompensato extra-retribuzione per lo svolgimento di mansioni riguardanti l'Ufficio ricoperto e che allo stesso, salvo i casi espressamente previsti da apposite disposizioni, non possono essere conferiti incarichi libero-professionali.
Ciò posto, l'ing. ... con la determina n. 162 del 05.08.1999 (segr. n. 839 del 15.09.1999) ha conferito, per la realizzazione di 700 loculi nel cimitero di Farello, incarichi libero-professionali agli ingg. ... e ..., quali coordinatori per l'esecuzione, e all'arch. ..., quale collaudatore statico in corso d'opera, per mansioni non rientranti nei compiti d'istituto, e remunerati secondo tariffa professionale abbattuta del 20%, ai sensi dell'art. 4 co. 12-bis della legge n. 155/1989, giusta la determina dirigenziale n. 277 del 17.11.1999 (seg. n. 1227 del 18.11.1999).
Innanzitutto, è palese la contraddizione nella quale cade l'ing. ... circa l'obbligo dei suddetti dipendenti di svolgere i compiti attribuiti al di fuori dell'orario di servizio, considerato che è irragionevole il solo supporre, anche alla luce del comune buon senso, che il funzionamento di un cantiere edile possa essere subordinato all'orario di lavoro a tempo pieno di un pubblico dipendente.
Aggiungasi che nessuna norma dell'ordinamento statale, né di quello regionale autorizzava l'ing. ... a conferire tali incarichi libero-professionali ai dipendenti di cui sopra, né gli stessi potevano dirsi autorizzati dall'Ente di appartenenza, considerato che la Giunta Municipale (delibera n. 186/1999) non aveva approvato il relativo regolamento predisposto dall'ing. ... per il conferimento di incarichi professionali ai dipendenti.
Del resto, la ratio del divieto di conferire incarichi libero-professionali ai dipendenti pubblici, al di fuori delle ipotesi espressamente previste, discende dal principio di esclusività che li lega all'Ente datore di lavoro, e consiste nell'evitare commistioni di qualsiasi tipo tra interessi pubblici e privati che potrebbero minare il principio costituzionale di imparzialità dell'azione amministrativa; ciò è anche conseguenza della incompatibilità logica, prima che giuridica, tra lo svolgimento della libera professione ed il rapporto di pubblico impiego, tradizionalmente richiedente, come sopra delineato, una esclusività della prestazione lavorativa in favore dell'amministrazione di appartenenza, non esigibile da chi svolge anche una libera professione.
In ultimo, non risulta in alcun modo dimostrato che i compiti attribuiti esulassero dalle mansioni d'ufficio degli interessati, già coinvolti a diverso titolo nella realizzazione dell'opera pubblica di cui sopra, e che non potessero essere svolti dall'ordinaria organizzazione burocratica dell'ente appaltante.
In conclusione, deve ravvisarsi in capo all'odierno convenuto il requisito soggettivo della colpa grave, considerata la chiarezza del quadro normativo di riferimento che, stante la particolare posizione apicale ricoperta dall'ing. ... nell'ambito dell'apparato burocratico del Comune di Gela, non avrebbe potuto essere in alcun modo ignorata; aggiungasi che la proposta di delibera n. 186 del 24.06.1999 dallo stesso inoltrata per il conferimento di incarichi professionali a professionisti dipendenti non è stata approvata dalla Giunta Municipale, considerato il parere negativo del segretario generale che non ha ritenuto legittimo il conferimento di suddetti incarichi, e le cui argomentazioni sono state ribadite nel verbale della riunione del 21.07.1999.
Il Collegio ritiene che la nota dell'A.N.C.I. datata 08.06.1999 non possa acquisire efficacia esimente, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa in quanto la stessa reca una data anteriore alla mancata approvazione da parte della G.M. della proposta di delibera n. 186 del 24.06.1999 e alla riunione del 21.07.1999.
Il conferimento degli incarichi libero-professionali ai dipendenti del Comune di Gela ha costituito, pertanto, un danno erariale in quanto avvenuto contra legem, non rilevando in alcun modo che l'ente locale avrebbe ottenuto un risparmio di spesa per non avere fatto ricorso a professionisti esterni, considerato che, prescindendo da ogni ulteriore circostanza, l'effettuazione di una spesa in violazione di chiara e puntuale normativa non può trovare alcuna giustificazione da parte di una pubblica amministrazione (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia, sentenza 26.03.2007 n. 801 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOL'esclusività del rapporto di lavoro del pubblico dipendente con l'ente di appartenenza ha costituito un caposaldo storico del pubblico impiego, in tempi relativamente recenti mitigato dalle norme che hanno previsto e disciplinato la possibilità di espletare attività lavorative ulteriori, rispetto a quella propria di pubblico dipendente (v., in particolare, art. 1, comma 56/65 della l. n° 62/1996 e relative circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri n° 3 e n° 6 del 1997, pure considerate da parte attrice) .
Ora, la inosservanza di siffatte norme, da parte del pubblico dipendente, se sul piano estrinseco e formale dei doveri di servizio violati può anche indurre all'adozione di sanzioni disciplinari e se, sul piano più strettamente laburista, può anche costituire “giusta causa di recesso” da parte dell'ente datore di lavoro (ex art. 1, comma 61, della citata l. n° 662/1996), sul piano erariale, invece, è certamente fonte di danno, quante volte il dipendente continua a percepire -per effetto di detta violazione- la retribuzione del rapporto di lavoro a “tempo pieno”, in luogo della retribuzione del rapporto di lavoro “a tempo parziale”, effettivamente spettategli.
E' evidente che la violazione del dovere di esclusività lavorativa e, quindi, delle norme sul part-time, incide sull'equilibrato esplicarsi del rapporto sinallagmatico tra le prestazioni lavorative del pubblico dipendente e le prestazioni retributive dell'ente datore di lavoro, con negative ricadute per quest'ultimo, che continua ad erogare una retribuzione (piena) non più giustificata dalle prestazioni lavorative (a tempo parziale) del primo.
... la Procura ha invitato l'odierno convenuto a dedurre, ai sensi dell'art. 5 della l n° 19/1994, contestandogli:
a) di “aver svolto direttamente ed autonomamente attività lavorative professionali a scopo di lucro, in qualità di geometra, risultati incompatibili con il suo status di dipendente pubblico”, ai sensi dell'art. 1, comma 60, della l. 662/1996 e dell'art. 53 del DLvo n° 165/2001;
b) di essere stato “socio accomandante dal 28/09/2000 al 22/02/2002 presso l'impresa di servizi Studio ... (figlia del geometra comunale), in violazione dei precitati articoli”;
c) di avere instaurato, dall'01/12/1999 al 31/09/2000 e senza esserne preventivamente autorizzato, “un rapporto di collaborazione con la ... SRL a scopo di lucro, in maniera non occasionale e non temporanea, per la vendita di contratti di assicurazione della “Baierische”, ancora in violazione dei ripetuti articoli, come illustrate dalle circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri-Funz. Pubblica n° 3 e n° 6 del 1997, e di aver poi proseguito “tale attività sotto la copertura dello Studio ... , dall'01/10/2000”;
d) di essersi assentato dal servizio negli ultimi cinque anni per periodi di tempo frequenti e prolungati, accumulando (svariati) giorni di assenza dal lavoro a causa di malattia, (e di avere) durante tali assenze svolto attività lavorativa in proprio come geometra, ovvero stipulato contratti della Baierische, ovvero ancora svolto viaggi a scopo turistico o partecipato a convegni e meeting e viaggi di formazione organizzati dalla holding Star Service International SRL.
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L'esclusività del rapporto di lavoro del pubblico dipendente con l'ente di appartenenza, in realtà, ha costituito un caposaldo storico del pubblico impiego, in tempi relativamente recenti mitigato dalle norme che hanno previsto e disciplinato la possibilità di espletare attività lavorative ulteriori, rispetto a quella propria di pubblico dipendente (v., in particolare, art. 1, comma 56/65 della l. n° 62/1996 e relative circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri n° 3 e n° 6 del 1997, pure considerate da parte attrice) .
Ora, la inosservanza di siffatte norme, da parte del pubblico dipendente, se sul piano estrinseco e formale dei doveri di servizio violati può anche indurre all'adozione di sanzioni disciplinari e se, sul piano più strettamente laburista, può anche costituire “giusta causa di recesso” da parte dell'ente datore di lavoro (ex art. 1, comma 61, della citata l. n° 662/1996), sul piano erariale, invece, è certamente fonte di danno, quante volte -come nel caso di specie- il dipendente continua a percepire -per effetto di detta violazione- la retribuzione del rapporto di lavoro a “tempo pieno”, in luogo della retribuzione del rapporto di lavoro “a tempo parziale”, effettivamente spettategli.
E' evidente, infatti, che la violazione del dovere di esclusività lavorativa e, quindi, delle norme sul part-time, incide sull'equilibrato esplicarsi del rapporto sinallagmatico tra le prestazioni lavorative del pubblico dipendente e le prestazioni retributive dell'ente datore di lavoro, con negative ricadute per quest'ultimo, che continua ad erogare una retribuzione (piena) non più giustificata dalle prestazioni lavorative (a tempo parziale) del primo.
In questo contesto, quindi, appare del tutto corretta l'impostazione data in citazione da parte attrice al danno in questione, così come appare del tutto corretto il criterio seguito da parte attrice medesima per la determinazione del danno stesso.
A tal ultimo riguardo, infatti, evidenti ragioni di garanzia hanno, anzitutto, indotto a fissare l'entità del part-time -nel caso- nel limite “non superiore al 50% di quello a tempo pieno”, di cui all'art. 1, comma 56, della l. n° 662/1996”; limite, questo, che oltretutto è anche quello (l'unico) che consente di espletare attività che richiedo l'iscrizione ad albi professionali, come quella di geometra, pure in concreto espletata dal ...
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria, sentenza 09.01.2004 n. 2 - link a www.giustizia-amminisrativa.it).

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VARIEffetti normativi conseguenti agli esiti del referendum del 12-13.06.2011.
In seguito all'esito delle consultazioni referendarie numerose sono le norme abrogate in materia di:
a) Energia nucleare;
b) Servizi Pubblici di rilevanza economica;
c) Tariffa del servizio idrico integrato.
A) ENERGIA NUCLEARE.
Il D.L. 31.03.2011, n. 34, convertito dalla Legge n. 75/2011, ha sancito l’abrogazione della normativa inerente il ritorno alla produzione di energia nucleare prevedendo, però, una moratoria al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare. Il quesito referendario, così come riformulato con D.P.R. del 9 giugno 2011, abroga il comma 1 e il comma 8 dell’articolo 5 che disponevano la moratoria sul nucleare e l’adozione della Strategia energetica nazionale.
Resta esclusa dalla portata del referendum la disciplina sullo stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché dei sistemi per il deposito definitivo dei materiali e rifiuti radioattivi. Proseguirà pertanto l’iter legislativo previsto dal D.Lgs. n. 31/2010 per la localizzazione, costruzione ed esercizio del Parco tecnologico e del Deposito nazionale per i rifiuti radioattivi.
B) SERVIZI PUBBLICI LOCALI DI RILEVANZA ECONOMICA.
L’esito del voto referendario ha comportato l’abrogazione della disciplina inerente l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica introdotta recentemente dall’articolo 23-bis del D.L. n. 112/2008 così come convertito dalla legge 133/2008.
Si ricorda che tale normativa comprendeva, tra i settori oggetto di riforma, quello del servizio idrico, quello dei trasporti pubblici locali, quello dello smaltimento dei rifiuti urbani e tutti i servizi pubblici aventi rilevanza economica ad esclusione dei settori della distribuzione di gas naturale e di energia elettrica, il cui mercato è già liberalizzato, del trasporto ferroviario regionale e quello della gestione delle farmacie comunali. Nelle Regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano sono esclusi anche i contratti di servizio in materia di trasporto pubblico locale su gomma.
L’esito del referendum comporta quindi il ripristino dell’articolo 113 “gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica” di cui al D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), il quale consente all’ente pubblico di optare liberamente tra le tre differenti modalità di affidamento di un servizio pubblico a rilevanza economica:
– a società di capitali individuate attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
– a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l'espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
– a società a capitale interamente pubblico a condizione che l'ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o gli enti pubblici che la controllano.
Si evidenzia che, in base ai dati pubblicati dalla Commissione nazionale per la vigilanza sui servizi idrici (oggi Agenzia Nazionale di Vigilanza sulle Risorse Idriche) nel Rapporto annuale sullo stato dei servizi idrici, delle 92 Autorità d’ambito previste sono 69 quelle che hanno effettuato gli affidamenti per un totale di 114 affidamenti societari di cui:
- 57 sono stati effettuati a favore di società pubbliche;
- 7 società private;
- 23 società mista con partner selezionato;
- 9 società mista con partner finanziario quotato in borsa;
- più 18 casi non specificati.
Le concessioni in essere termineranno pertanto alla scadenza prevista dal contratto di servizio non essendo più in vigore l’obbligo, per l’ente pubblico gestore, di indire apposita gara.
In particolar modo per il settore del trasporto pubblico locale su gomma, l’esito del referendum comporta il ripristino della disciplina settoriale dettata dal D.Lgs. n. 422/1997, centrata sulle gare ad evidenza pubblica, unitamente, però alle deroghe successivamente consentite dall'art. 61 della legge n. 99/2009. Tale legge, richiamando il Regolamento europeo 1370/2007, ha introdotto la possibilità di procedere all'affidamento dei servizi con modalità "in house" diretta per servizi di entità minore e per servizi ferroviari, prevedendo un periodo transitorio di 10 anni per rispettare la normativa (2009-2019).
C) TARIFFA DEL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO.
Il referendum comporta l’abrogazione di parte dell’articolo 154 del D.Lgs. 152/2006 recante “Norme in materia ambientale”. Nello specifico viene previsto che nel determinare il corrispettivo tariffario del servizio idrico integrato, i gestori del servizio non debbano tenere più conto del criterio dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito. Restano in vigore gli altri criteri:
- qualità della risorsa idrica, del servizio, delle opere e degli adeguamenti necessari;
- entità dei costi di gestione delle opere e delle aree di salvaguardia;
- recupero della quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito;
- copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio.
L’effetto dell’abrogazione della norma è quindi quello di ridurre la profittabilità del settore, in quanto non sarà più concessa la remunerazione del 7% del capitale investito medio netto prevista a copertura degli oneri finanziari e fiscali della gestione (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com).

EDILIZIA PRIVATASportello Unico attività produttive. Comuni, obbligo di telematica. Commissariamento per chi non si attiva entro il 30/09/2011.
Acceleratore premuto sullo sportello unico delle imprese. Se il Comune non provvede a fornire alle Camere di commercio i dati necessari affinché lo Sportello unico per le attività produttive possa essere attivato dalla Camera di commercio, il Prefetto può nominare un commissario ad acta.
È questo quanto hanno proposto le commissioni permanenti bilancio, tesoro e programmazione e finanze nel ddl di conversione del decreto legge Sviluppo (si veda ItaliaOggi di ieri), entrato in vigore lo scorso 13 maggio (dl 70/2011).
Lo Sportello, comunemente chiamato Suap, formalmente istituito più di dieci anni fa con il dlgs 112/1998, ma di fatto mai decollato in quanto non obbligatorio, ha subito un'accelerazione con il dl 112/2008 che aveva idealmente previsto, con l'articolo 38, l'«impresa in un giorno» di cui lo Suap doveva rappresentare il naturale strumento per la sua realizzazione.
Da allora, grazie anche al dlgs 59/2010 di recepimento della direttiva Servizi, la strada è stata in discesa fino a quando con il dpr n. 160/2010, pubblicato nella GU del 30.09.2010, (la data di pubblicazione è importante perché a questa fanno riferimento i diversi step previsti per la sua attuazione) sono state dettate le disposizioni di dettaglio di questo strumento di semplificazione ed il 29 marzo avrebbe dovuto, nelle intenzioni del legislatore, rappresentare la data di svolta. Ciò in quanto da tale data le Scia, segnalazione certificata d'inizio attività, avrebbero dovuto essere trasmesse soltanto con modalità telematica o ai comuni che avevano ottenuto l'accreditamento dal ministero dello sviluppo economico o dalla Camera di commercio se l'amministrazione comunale territorialmente competente fosse rimasta inattiva.
Sta di fatto che pochi giorni prima della scadenza del 29 marzo scorso una circolare a firma congiunta dei responsabili degli uffici legislativi del ministero della semplificazione e dello sviluppo economico aveva informato gli enti interessati che tutto poteva continuare come prima, nel senso che le Scia potevano continuare a essere presentate in forma cartacea. Ciò in quanto gli enti locali avevano difficoltà a informatizzarsi.
Dalla lettura dell'articolato normativo che le commissioni parlamentari hanno licenziato, emerge ora che il Commissario ad acta nominato dal Prefetto avrà il compito di fornire alle camere di commercio gli elementi necessari all'intervento sostitutivo, che sarà peraltro limitato, perché sarà il Comune interessato a concludere il procedimento relativo all'esercizio dell'attività di impresa in quanto non c'è stato trasferimento di funzione. Di conseguenza, i comuni dovranno comunque disporre dei requisiti per il procedimento telematico previsto espressamente dal Codice dell'Amministrazione digitale (dlgs 235/2010).
La disposizione che prevede la nomina del Commissario ad acta perché le Camere di commercio possano essere messe nella condizione di operare in sostituzione dei comuni inadempienti, non lascia spazi di sorta a ulteriori rinvii, in vista della prossima scadenza di fine settembre. Da tale data, infatti, non soltanto le Scia ma anche tutte le domande relative all'esercizio dell'attività di impresa dovranno essere inoltrate telematicamente. Ciò in quanto in base alla normativa vigente (art. 38 del dl 112/2008), gli Suap devono essere l'unico punto d'accesso per le pratiche amministrative relative allo svolgimento dell'attività imprenditoriale.
In altre parole tutte le comunicazioni, comprese le Scia, devono transitare attraverso questo canale telematico ai sensi dell'art. 5 del dpr 160/2010 e, successivamente, le richieste di autorizzazione ai sensi dell'articolo 7 del medesimo decreto (articolo ItaliaOggi del 17.06.2011).

ENTI LOCALIPatto, scocca l'ora X. Rgs: termine di 45 giorni dalla pubblicazione in G.U.. Prospetti da inviare via web al Mef.
Patto di stabilità alla resa dei conti. Dopo aver conosciuto ufficialmente (con la pubblicazione in G.U. del dpcm 23.03.2011) l'ammontare degli sconti utilizzabili, solo per quest'anno, dai comuni sopra i 5 mila abitanti e dalle province, per gli enti locali soggetti al Patto è giunto il momento di iniziare a compilare i prospetti che certificano il rispetto degli obiettivi programmatici e che andranno trasmessi esclusivamente via web (attraverso il portale www.pattostabilita.rgs.tesoro.it) alla Ragioneria generale dello stato.
I prospetti sono contenuti in un decreto del ministero dell'economia e delle finanze datato 7 giugno che, dopo aver ricevuto parere favorevole dalla Conferenza stato-città e autonomie locali il 31 maggio scorso, è stato anticipato ieri sul sito internet del dipartimento guidato da Mario Canzio, in attesa che venga pubblicato in Gazzetta Ufficiale. E sarà proprio dalla pubblicazione in G.U. che inizierà a decorrere il termine di 45 giorni per la trasmissione.
Una scadenza che gli enti locali dovranno assolutamente rispettare se non vorranno essere considerati (così come previsto dalla legge di stabilità 2011) inadempienti al Patto.
Il decreto del Mef fissa un timing particolare solo per comuni e province che abbiano rideterminato i propri obiettivi sfruttando i margini di flessibilità offerti dal patto regionalizzato. Dovranno trasmettere i prospetti entro 15 giorni dalla rideterminazione degli obiettivi.
Dopo aver ancora una volta messo in guardia le amministrazioni che chi non provvederà a inviare i prospetti «nei modi e nei tempi indicati» sarà considerato inadempiente al Patto, il decreto avverte anche che, terminato l'anno di riferimento, non sarà più consentito variare le voci che vanno a comporre l'obiettivo per l'anno in corso.
Pertanto, eventuali acquisizioni, rettifiche o variazioni potranno essere apportate esclusivamente tramite web e non oltre il 31.12.2011.
Infine, la Ragioneria dello stato rassicura gli enti che, qualora dovessero sopravvenire ulteriori novità normative volte a modificare le regole di calcolo degli obiettivi, gli allegati al decreto con i prospetti saranno aggiornati dandone comunicazione alla Conferenza stato-città-autonomie locali, all'Anci e all'Upi (articolo ItaliaOggi del 17.06.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Le commissioni rispecchino gli equilibri consiliari.
Un consigliere comunale, nominato membro di tre commissioni consiliari in rappresentanza di uno dei gruppi di minoranza, è fuoriuscito da tale gruppo per andare a costituire, sempre in quota allo schieramento politico di minoranza, un gruppo misto di minoranza unipersonale; inoltre, per effetto di una specifica previsione regolamentare, è decaduto dalla carica di componente in tutte le commissioni. Il gruppo di appartenenza originaria è legittimato a designare un proprio nuovo rappresentante nelle commissioni?

In base a quanto disposto dall'art. 38, comma 6, del dlgs n. 267/2000, le commissioni consiliari, una volta istituite sulla base di una facoltativa previsione statutaria, sono disciplinate dall'apposito regolamento comunale con l'inderogabile limite, posto dal legislatore, del rispetto del criterio proporzionale nella composizione. Ciò significa che le forze politiche presenti in consiglio devono essere il più possibile rispecchiate anche nelle commissioni, in modo che in ciascuna di esse sia riprodotto il peso numerico e di voto.
Il Tar Lazio, con sentenza sez. staccata di Latina, 24/07/2004, n. 649, ha precisato che la previsione legislativa del criterio proporzionale «serve ad assicurare l'apporto delle idee e della volontà della minoranza consiliare, in applicazione del criterio di governo democratico degli enti locali, alle deliberazioni da assumersi dalle stesse commissioni».
Sebbene il legislatore non abbia precisato come debba essere applicato tale criterio di proporzionalità, è da ritenersi che spetti al regolamento, cui sono demandate le determinazioni dei poteri delle commissioni nonché la disciplina dell'organizzazione e delle forme di pubblicità dei lavori, stabilire i meccanismi idonei a garantirne il rispetto.
Nel caso di specie, se il regolamento del consiglio comunale prevede che la designazione dei consiglieri incaricati di far parte delle commissioni consiliari in rappresentanza dei singoli gruppi presenti nel consiglio, così come la determinazione numerica dei commissari, è demandata alla conferenza dei capigruppo, «mantenendo il rapporto esistente in consiglio tra maggioranza e minoranza» e garantendo che i gruppi siano complessivamente rappresentati in rapporto proporzionale alla propria consistenza, gli eventuali mutamenti in corso di consiliatura nel rapporto tra maggioranza e minoranza consiliare, ovvero nella consistenza numerica dei gruppi, dovrebbero implicare una revisione, a cura della conferenza dei capigruppo, degli assetti preesistenti nelle commissioni consiliari, al fine di ripristinare il rispetto di tali criteri.
L'ipotesi del distacco di uno o più consiglieri dal gruppo di appartenenza originaria per aderire o formare altro gruppo va, quindi, inquadrata nell'ambito di un riequilibrio generale degli assetti presenti nelle commissioni, e non già di mera sostituzione degli stessi (articolo ItaliaOggi del 17.06.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Scioglimento consigli.
In caso di scioglimento dei consigli di due dei comuni costituenti un'unione di comuni, la rappresentanza in seno agli organi assembleari dell'ente comunitario spetta ai commissari straordinari oppure ai consiglieri, in virtù della «prorogatio» di funzioni?

L'art. 141, comma 5, del Testo unico 267/2000, dispone che «i consiglieri cessati dalla carica per effetto dello scioglimento continuano ad esercitare, fino alla nomina dei successori, gli incarichi esterni loro eventualmente attribuiti».
Sulla questione, in vigenza dell'art. 39 della legge n. 142/1990, il cui contenuto è stato trasfuso nella citata disposizione, si è pronunciato il Consiglio di stato con il parere n. 666 del 10/07/2000 della prima sezione, il quale, sebbene riferito alla rappresentanza in seno alla comunità montana dei comuni a gestione commissariale, può essere senz'altro esteso alle unioni di comuni, configurandosi le comunità montane come una particolare espressione delle unioni stesse.
L'Alto consesso ha sottolineato che la norma sulla permanenza in carica dei consiglieri deve intendersi come espressiva di un principio di carattere generale: pertanto andrà interpretata nel senso che la permanenza del consigliere nell'incarico fino alla nomina del successore costituisce la regola, mentre la decadenza costituisce l'eccezione, come nell'ipotesi di scioglimento per infiltrazione mafiosa, di cui all'art. 143 del Tuel. Secondo il medesimo orientamento, lo scioglimento del consiglio, in assenza di una previsione di legge o di statuto, non incide sul mandato elettivo di secondo grado, che «resterà pieno iure esercitato sino alla nomina dei nuovi rappresentanti».
È stato, inoltre, chiarito che gli incarichi esterni, dai quali i consiglieri comunali non decadono per effetto dello scioglimento del consiglio, sono essenzialmente quelli relativi agli organismi ed enti di natura associativa o consortile, cui sono ricondotte le comunità montane e le unioni di comuni. Considerata l'attualità del parere del Consiglio di stato, non si ravvisano, pertanto, motivi per discostarsi dall'orientamento espresso (articolo ItaliaOggi del 17.06.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOProgressioni, obiettivo risparmio. Sulle verticali riduzione della spesa. Caos sulle orizzontali. L'attesa circolare Rgs sugli effetti del dl 78 rischia di creare più di un problema agli enti locali.
Progressioni orizzontali effettuate negli anni 2011, 2012 e 2013 valide solo a fini giuridici ma non economici. Progressioni verticali (oggi di carriera) valide ai soli fini giuridici solo se attivate prima dell'entrata in vigore del dlgs 150/2009 (avvenuta il 15/11/2009).
La circolare 15.04.2011 n. 12 della ragioneria generale dello stato sull'applicazione dell'articolo 9 del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010 cerca di fare chiarezza sul comma 21 dell'articolo medesimo, sposando in parte posizioni espresse dalla Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, ma risulta fuorviante, in particolare per il comparto enti locali.
Progressioni orizzontali. L'istituto consiste nella possibilità di attribuire ad un dipendente pubblico, a parità di mansioni e profilo professionale, senza alcuna promozione, dunque, a mansioni e qualifiche superiori, un incremento economico, su basi selettive. Esse sono state variamente disciplinate dai contratti nazionali collettivi ed oggi trovano regolamentazione nell'articolo 23 del dlgs 150/2009, che le qualifica espressamente «progressioni economiche».
La stessa denominazione legislativa dell'istituto, di per sé rivela come le progressioni economiche non abbiano alcun effetto giuridico, poiché ne comportano solo di economici. L'interpretazione fornita dalla circolare 12/2011, dunque, si rivela oggettivamente contraria alla legge. Del resto, l'articolo 9, comma 21, della manovra estiva 2010 si riferisce molto chiaramente al diverso istituto delle progressioni di carriera, disciplinato dall'articolo 24 del dlgs 150/2009, che sostituisce le abolite progressioni verticali.
È vero che l'articolo 21 parla di progressioni di carriera «comunque denominate», ma non si può correttamente ritenere che le progressioni economiche siano equivalenti a quelle di carriera, pur essendo diversamente «denominate»: sono proprio cosa totalmente diversa.
In alcuni comparti pubblici, alla posizione economica corrisponde anche una certa posizione giuridica: ascendendo la prima, si modifica e migliora, dunque anche il trattamento giuridico. Solo in questi casi può valere quanto afferma la circolare 12/2011, quando indica «le progressioni di carriera comunque denominate del personale non contrattualizzato nonché le progressioni di carriera comunque denominate e i passaggi tra le aree del personale contrattualizzato disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 abbiano effetto, per i predetti anni, ai soli fini giuridici. Ad esempio, il computo ai fini giuridici rimane salvaguardato nel caso di progressione alla posizione superiore per la quale sia prescritta una determinata anzianità per un ulteriore avanzamento di qualifica/posizione, fermo restando che vanno comunque esclusi effetti economici anteriormente al 1° gennaio 2014».
Nel comparto regioni enti locali ciò risulta del tutto impossibile. Infatti, l'articolo 5, comma 1, del Ccnl 31/03/1999 è sul punto chiarissimo: «All'interno di ciascuna categoria è prevista una progressione economica che si realizza mediante la previsione, dopo il trattamento tabellare iniziale, di successivi incrementi economici secondo la disciplina dell'art. 13».
Dunque, non possono esservi effetti esclusivamente giuridici, per la semplice ragione che non esistono. Per altro, non si vedrebbe come gli organi di revisione potrebbero accettare procedure di progressione che andrebbero ad impegnare le risorse stabili nel 2014, non potendo conoscere la consistenza delle risorse a quella data.
Progressioni verticali. In merito alle progressioni verticali la Ragioneria generale legge l'articolo 9, comma 21, della manovra 2010 nel senso che «la limitazione degli effetti nei casi di passaggi tra le aree è circoscritta alle sole procedure, eventualmente ancora in corso, svolte anteriormente all'entrata in vigore dell'articolo 24 del decreto legislativo n. 150/2009 il quale ha equiparato i suddetti passaggi alle assunzioni ordinarie (fatta salva la riserva di posti) anche in termini procedurali oltre che di copertura finanziaria dell'onere conseguente».
In questo modo, la circolare limita le conseguenze di risparmio dell'articolo 9, comma 21, alle sole progressioni verticali indette prima della vigenza della riforma-Brunetta, salvaguardando, di conseguenza, le progressioni di carriera vere e proprie, previste dall'articolo 24 del dlgs 150/2009, effettuate successivamente.
Dunque, secondo la Ragioneria, laddove un dipendente pubblico venisse assunto nella quota di riserva nell'ambito di procedure concorsuali pubbliche, ai sensi degli articoli 24 del dlgs 150/2009 e 52, comma 1-bis, del dlgs 165/2001, otterrebbe non solo i benefici giuridici dell'ascensione ad una qualifica o categoria superiore, ma anche quelli economici senza dover attendere il 2014. In questo caso, l'interpretazione suggerita corregge l'evidente vizio di illegittimità costituzionale dell'articolo 9, comma 21, ma si pone in chiarissimo contrasto con esso (articolo ItaliaOggi del 17.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATASISTEMA CASA QUALITÀ: il nuovo sistema unico di Certificazione della qualità edilizia residenziale.
Sistema Casa Qualità”, un nuovo sistema di certificazione volontaria con l’obiettivo di indurre un cambiamento culturale nell’edilizia: i costruttori dovrebbero realizzare edifici di qualità certificata, mentre i Comuni e le Regioni, dovrebbero prevedere agevolazioni di varia natura (premi volumetrici, sconti sull’ICI, etc.).
Questo il nuovo disegno di legge approvato dalla Camera e passato al Senato.
La certificazione valuterà i consumi energetici, considerando una serie di parametri quali l'isolamento, l'esposizione, l'orientamento, l'ombreggiamento, la ventilazione e l'utilizzo di fonti energetiche rinnovabili.
La classificazione avverrà assegnando una lettera decrescente in base alla qualità dell'edificio, in analogia con quanto avviene per la certificazione energetica, con la quale dovrà esserci corrispondenza.
Si tratta, quindi, di un sistema di certificazione che si pone l'obiettivo non solo di migliorare la qualità ambientale, attraverso il ridimensionamento dell'impatto che l'edilizia ha sull'ambiente, ma anche il benessere psicofisico di chi gli edifici li abita (news del 16.06.2011 - link a www.acca.it).

APPALTI SERVIZIServizi, affidamenti diretti fino a 40.000 euro. Certificazioni da inviare alla banca dati contratti pubblici in 30 giorni.
Affidamenti diretti di servizi e forniture possibili fino a 40.000 euro; certificazioni delle prestazioni volte da trasmettere alla Banca dati dei contratti pubblici entro 30 giorni, affidamento in subappalto dei lavori della categoria prevalente fino al 20% in caso di trattativa privata; procedure ristretta con scelta degli offerenti anche per servizi e forniture, possibilità per i contraenti generali di utilizzare i requisiti anche per i lavori subappaltati e affidati a terzi, esclusione della disciplina sull'accordo bonario per i contratti affidati a contraente generale, trattativa privata per gli appalti nel settore dei beni culturali fino a un milione di euro. Confermati il divieto di riserve su progetti validati e il limite del 20% alle varianti.
Sono questi alcuni dei principali effetti derivanti dall'esame e dell'approvazione, in commissione bilancio e finanze
della Camera, degli emendamenti relativi all'articolo 4 del disegno di legge di conversione del decreto legge 70/2011 (il cosiddetto decreto per lo sviluppo), che contiene diverse modifiche al Codice degli appalti pubblici.
Fra le novità approvate in commissione si segnala la modifica all'articolo 62 del Codice che ammette la possibilità di utilizzare la cosiddetta «forcella» nelle procedure ristrette in caso di appalti di servizi e forniture (il cosiddetto passaggio dalla «long list» alla «short list» con una predeterminazione del numero dei soggetti da invitare a presentare offerta), possibilità al momento prevista solo per i lavori.
E' stato poi approvato un emendamento della Lega Nord che porta da 20.000 a 40.000 euro il limite per procedere ad affidamenti diretti di incarichi di servizi e forniture da parte del Responsabile del procedimento (non è stato invece approvato l'innalzamento della soglia dei 100.000 euro —fino a 193.000 euro— per le trattative private con bando relative agli incarichi di progettazione).
Nell'emendamento del relatore approvato in commissione sono contenute anche alcune modifiche relative alla disciplina del contraente generale: l'inapplicabilità dell'articolo 240 (accordo bonario) e la possibilità, per i contraenti generali, di utilizzare i lavori subappaltati o affidati a terzi per la qualificazione SOA Viene inoltre previsto il limite del 20% per i subappalti dei lavori della categoria prevalente in caso di affidamento dell'appalto a trattativa privata (con o senza bando).
Passa a un milione (da 500.000 euro) il limite per gli affidamenti a trattativa privata nel settore dei beni culturali, che nel decreto legge era stato portato a un milione e mezzo (articolo ItaliaOggi del 16.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOScatti di carriera con aumenti solo dal 2014.
La Ragioneria dello Stato sdogana la circolare 15.04.2011 n. 12 sugli scatti dei dipendenti pubblici: soltanto dal primo gennaio 2014 le progressioni potranno produrre gli effetti economici ma senza il beneficio della retroattività.
La circolare dedicata in particolare all'applicazione dell'articolo 9 del Dl 78/2010, con particolare riferimento ai commi 1, 2-bis e 4.
Secondo la Ragioneria, il trattamento ordinariamente spettante per l'anno 2010 è composto dal trattamento fondamentale (lo stipendio base, la tredicesima e la Ria) e dal «trattamento accessorio aventi carattere fisso e continuativo» in cui far confluire l'indennità di amministrazione per lo stato, l'indennità di comparto per gli enti locali, la retribuzione di posizione e le «indennità pensionabili», espressioni non molto felice, considerando che, da11996, anche tutto il salario accessorio è utile ai fini del calcolo della pensione. Non rientrano nel tetto lo straordinario, le maggiorazioni orarie e le indennità di turno.
Per il calcolo, si deve far riferimento al concetto di ordinarietà, e quindi non rilevano i congedi, i permessi non retribuiti e le aspettative. Il limite del 3,20% interessa solo i non dirigenti degli enti locali e i dipendenti della sanità ... (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIAppalti, niente ribassi sul costo del lavoro. Approvato un emendamento dei democratici che blocca gli «sconti» anche per la sicurezza.
Il costo del lavoro non può più essere oggetto di ribassi in tutti gli appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.
A sorpresa, con un emendamento al decreto sviluppo presentato da Cesare Damiano (Pd) e approvato dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera gli appalti perdono una delle voci di costo finora manovrabili in fase di offerta.
L'emendamento prevede che l'offerta migliore deve essere individuata dalla stazione appaltante «al netto delle ... (articolo Il Sole 24 Ore del 16.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

SEGRETARI COMUNALISegretari, rimborsi double face. Sì ai pagamenti. Commisurati a 1/5 del prezzo della benzina.
Le limitazioni imposte dal legislatore alla spesa per missioni del personale pubblico, contenute all'articolo 6, comma 12, della manovra correttiva dei conti pubblici 2010, non disapplicano le norme contrattuali in materia di rimborsi spese per i segretari comunali cosiddetti a scavalco , contenute all'art. 45, comma 2 ... (articolo ItaliaOggi del 15.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIEFFETTI COLLATERALI DEL REFERENDUM/ Il politico ritrova posto nella municipalizzata.
I politici locali possono tornare nelle partecipate. Cancellato il divieto per sindaci e assessori di far parte dei consigli di amministrazione.

Le migliaia di sindaci, presidenti di Provincia, assessori e consiglieri che hanno dovuto dire addio all'incarico dopo le elezioni di maggio hanno una seconda chance: per loro si riaprono le porte dei consigli di amministrazione delle società partecipate dalle amministrazioni locali.
All'indomani di un maxi-turno elettorale, che ha coinvolto il 15% degli enti locali italiani, non è un risultato da poco: tra spoil system e mandati in scadenza naturale, si possono stimare 1.500-2mila posti in palio nei prossimi mesi solo nelle società, all'interno di una partita che in tutti i Comuni e le Province vale oltre 11.500 posti (ce ne sono altri 7mila nei consorzi).
A offrire una seconda opportunità agli ex politici sono i 25,9 milioni di «sì» vergati domenica e lunedì dagli italiani sul primo quesito referendario, che era intitolato alla «privatizzazione dell'acqua» ma in realtà chiedeva l'abolizione dell'intera disciplina recente dei servizi pubblici locali: con la "semi-riforma" del 2008 e la riscrittura del decreto Ronchi nel 2009, il referendum ha buttato a mare anche tutti i regolamenti attuativi, compreso quello che provava a impedire agli ex politici di ricollocarsi nei consigli di amministrazione delle partecipate. Esclusi l'energia e le farmacie, che con un'interpretazione generosa erano stati esonerati dalle nuove regole, tutti gli altri settori vedono riaprirsi a sorpresa una strada ormai considerata chiusa. Non che la nuova griglia delle incompatibilità fosse un esempio di particolare severità.
Arrivata solo nel settembre 2010, con due anni di ritardo sul calendario previsto che aveva «salvato» i rinnovi legati alle amministrative 2009 e 2010, il regolamento era stato oggetto di un braccio di ferro infinito e di continue riscritture, ma almeno provava ad arginare la prassi del "riciclaggio" societario di ex politici. La regola finale era semplice: qualsiasi amministratore locale, in giunta o in consiglio, in maggioranza o in opposizione (per evitare spinte nella carriera favorite da un rovescio elettorale che porta l'ex minoranza a gestire l'ente), avrebbe dovuto fermarsi per almeno tre anni prima di ambire a una poltrona in consiglio di amministrazione.
La stessa regola, poi doveva applicarsi a chi avesse ricoperto un incarico in una delle 337 Unioni che raggruppano 1.708 Comuni italiani (più di un quinto del totale) e chiudeva le porte dei cda per ... (articolo Il Sole 24 Ore del 15.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGOSforbiciata su permessi e congedi. Il periodo concesso ai genitori non può andare oltre i tre anni.
Piccola stretta su congedi e permessi dal lavoro. Il prolungamento del congedo parentale fino a tre anni, previsto a favore dei genitori di bambino con disabilità, comprende anche il congedo ordinario (fino a 10 mesi). Pertanto, complessivamente, il periodo di congedo non pub durare oltre tre anni, includendo sia il congedo parentale ordinario (fino a 10 mesi) che il periodo di prolungamento.
E' questa una delle novità del decreto legislativo di riordino della disciplina in materia di congedi, aspettative e permessi dei lavoratori del settore pubblico e privato, approvato in via definitiva dal consiglio dei ministri il 09.06.2011, in attuazione dell'articolo 23 della legge n. 183/2010 (collegato lavoro).
Congedo di maternità. La disciplina vigente (articolo 16 del Tu. maternità) prevede l'obbligo, perla lavoratrice, di astenersi dal lavoro nel periodo di cinque mesi che va dai due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi al parto.
Ferma restando questa durata complessiva dell'astensione obbligatoria (di cinque mesi), la lavoratrice ha facoltà di posticipare il periodo cominciando ad assentarsi dal mese precedente la data presunta del parto per proseguirlo, così, fino ai quattro mesi successivi (è la cosiddetta flessibilità, disciplinata dall'articolo 20 del T.u. maternità), a condizione che cib non arrechi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.
Durante l'astensione obbligatoria (ora: congedo di maternità) la lavoratrice ha diritto a un'indennità, a carico dell'lnps, pari all'80% della retribuzione media giornaliera.
Integrando direttamente la normativa del Tu. maternità (le modifiche sono apportate all'articolo 20), il decreto di riordino prevede che, nel caso di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180  giorno dall'inizio della gestazione, nonché in caso di decesso del bambino alla nascita o durante il congedo di maternità, le lavoratrici hanno facoltà di riprendere in qualunque momento l'attività lavorativa, dando un preavviso di dieci giorni al datore di lavoro, a condizione che il medico specialista ... (articolo ItaliaOggi del 13.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti con più poteri. Funzioni disciplinari allargate a una serie di infrazioni minori.
Nel quadro di una riforma organica della disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, introdotta con il Dlgs 150 del 27.10.2009 (il cosiddetto decreto Brunetta), anche la normativa riguardante i procedimenti e le sanzioni disciplinari ... (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

APPALTI: Le clausole di tracciabilità entrano in tutti i contratti. Integrazione automatica da venerdì prossimo.
A partire da venerdì 17.06.2011, data di scadenza del periodo transitorio, i contratti sorti prima del 07.09.2010, che non siano stati adeguati volontariamente dalle parti, sono automaticamente integrati (secondo l'articolo 1374 del Codice civile) con le clausole di tracciabilità previste dall'articolo 3, commi 8 e 9, della legge 136/2010 e diventano soggetti ai relativi obblighi; ciò a condizione, ovviamente, che essi siano ancora produttivi di effetti.
Per questi contratti, le oltre 28mila stazioni appaltanti dovranno chiedere, entro il termine del periodo transitorio, il Cig (numero identificativo di gara). I pagamenti andranno effettuati tramite bonifico bancario o postale o altro strumento tracciabile, transitare su conti correnti dedicati, riportare il Cig e, ove necessario, il Cup (codice unico di progetto). Il meccanismo dell'inserzione automatica pone fine all'incertezza che aveva accompagnato la versione iniziale della normativa, semplificando gli oneri per le stazioni appaltanti e per gli operatori privati. Conseguentemente, le stazioni appaltanti sono sollevate anche dall'obbligo di controllare l'inserimento delle clausole nei contratti della filiera.
L'Autorità di vigilanza sui contratti pubblici consiglia alle stazioni appaltanti di inviare una comunicazione agli operatori economici per evidenziare l'adeguamento automatico del contratto e comunicare il Cig, ove non fosse già previsto (determinazione 10/2010).
Intanto per gli operatori restano alcuni dubbi, per esempio sul pagamento delle utenze dalla stazione appaltante, sull'estensione degli obblighi di tracciabilità alle operazioni dove la controparte è la banca tesoriere, sull'applicazione della tracciabilità ai contratti di swap. Fra le difficoltà spunta anche quella legata alla tassazione dei contratti sopra i 40mila euro, i cui importi vanno pagati quadrimestralmente con bollettino Mav. Nel primo anno di applicazione le stazioni appaltanti devono trovare la copertura finanziaria degli oneri straordinari conseguenti alla regolarizzazione dei vecchi contratti sottoscritti prima del 07.09.2010.
L'appesantimento dei nuovi obblighi emerge anche dal comunicato sull'impennata delle richieste telefoniche all'Autorità (da circa 7mila a 60mila contatti mensili) e sull'incremento dell'attività, per cui da novembre 2010 ad aprile 2011 sono stati assegnati circa 1,5 milioni di Cig ai soli fini della tracciabilità. L'Autorità ha già disciplinato procedure semplificate per l'acquisizione del Cig e la possibilità di effettuare un unico adempimento per un dato intervallo temporale con i carnet di Cig.
Queste semplificazioni si applicano ai contratti di lavori fino a 40mila euro e ai contratti di servizi e forniture sotto i 20mila euro (affidati ai sensi dell'articolo 125 del codice dei contratti o mediante procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando) nonché ai contratti esclusi in tutto o in parte dall'applicazione del codice (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ragioneria generale. Monitoraggio degli ispettori dalle violazioni del patto ai compensi a pioggia. I dieci errori più gravi delle amministrazioni.
La Ragioneria generale ha appena pubblicato i risultati della propria attività ispettiva negli enti locali. Dal massimario 2010, è utile trarre il decalogo degli errori più gravi incontrati diffusamente dagli ispettori, per mettere in luce i punti deboli che rimangono nell'attività degli enti.
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Affidamento appalti. Si aggirano i vincoli dettati dal codice degli appalti, attraverso il frazionamento dell'importo: in questo modo gli enti stanno al di sotto della soglia per il conferimento di incarichi di progettazione con i vincoli comunitari e di quelle per i lavori in economia e in amministrazione diretta.
- Anagrafe delle prestazioni. Molte amministrazioni non comunicano al dipartimento della Funzione pubblica le informazioni sugli incarichi conferiti a soggetti esterni (generalità, oggetto, compenso, durata) né quelli conferiti a dipendenti pubblici e ai propri dipendenti.
- Attivazione di nuovi servizi. La parte variabile del fondo per la contrattazione decentrata viene incrementata per l'attivazione di nuovi servizi e/o il loro miglioramento senza che essi siano progettati preventivamente, che determinano risultati tangibili per i cittadini, che la misura degli aumenti sia determinata oggettivamente, ripetendo l'incremento negli anni senza accertare il raggiungimento dell'obiettivo.
- Conferimento degli incarichi di collaborazione. Non si rispettano i vincoli dettati dall'articolo 7, comma 6, del Dlgs 165/2001: l'ente non ha adottato un piano, è stato violato il tetto di spesa, non è stata accertata la mancanza di analoghe professionalità all'interno dell'ente, il compenso non è stato determinato con criteri oggettivi, i collaboratori non sono stati scelti con criteri selettivi, è mancata la pubblicità sul sito internet.
- Indebitamento. Viene violato il principio costituzionale per cui l'indebitamento è consentito solamente per il finanziamento delle spese per gli investimenti. In particolare, si qualificano come tali altre spese.
- Indennità agli amministratori. Sono erogati compensi illegittimi agli amministratori per la remunerazione delle riunioni svolte dalla conferenza dei capigruppo consiliari, l'illegittimo innalzamento e/o la mancata decurtazione delle indennità di carica e gettoni di presenza, il mancato accertamento della presenza e della durata delle riunioni delle commissioni consiliari.
- Onnicomprensività del trattamento accessorio. I dirigenti e, anche se in misura minore, i titolari di posizione organizzativa, ricevono compensi in violazione del principio della onnicomprensività delle indennità di posizione e di risultato: gettoni per le commissioni di concorso e di gara, remunerazione di incarichi ulteriori.
- Produttività. Questo compenso non può essere erogato sulla base di criteri automatici o "a pioggia", quali ad esempio la presenza e l'inquadramento, ma in modo selettivo sulla base di una valutazione effettuata dai dirigenti, dopo che sia stato accertato dal nucleo il raggiungimento degli obiettivi assegnati ed a condizione che questi, assegnati preventivamente, determinino un apprezzabile miglioramento dei normali standard.
- Riduzione del fondo. Il fondo per la contrattazione decentrata deve essere decurtato del salario accessorio in godimento da parte del personale Ata trasferito al ministero della Pubblica istruzione. Gli oneri per il reinquadramento dei vigili e degli operai vanno tolti dal fondo. E così vanno tolte le risorse in godimento da parte del personale cessato per esternalizzazione del servizio.
- Tetto alla spesa del personale e alle assunzioni. Occorre rispettare il tetto alla spesa del personale dell'anno precedente negli enti soggetti al patto e del 2004 in quelli non soggetti al patto. Le assunzioni a tempo indeterminato possono essere effettuate nei vincoli dettati dalle finanziarie e non dagli enti che non hanno rispettato il patto. Le assunzioni flessibili non possono essere prorogate più di una volta e in modo da superare il tetto di tre anni e devono essere adeguatamente motivate (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

SEGRETARI COMUNALI: Rimborsi auto «ultra-light» ai segretari in convenzione.
I segretari in convenzione possono continuare a utilizzare il mezzo proprio, ma il rimborso non può avvenire tramite le tariffe Aci. L'Unità di missione del ministero dell'Interno ha stabilito, infatti, che potrà essere riconosciuto esclusivamente il rimborso pari a un quinto del costo della benzina verde per chilometro. Un apposito parere (
nota 17.05.2011 n. 25402 di prot.) è stato acquisito dalla Ragioneria generale dello Stato. Come per i dipendenti, i dubbi nascevano dalla manovra estiva 2010 (articolo 6, comma 12, del Dl n. 78) che ha reso impossibile l'uso del mezzo proprio per recarsi nei luoghi di missione e trasferta. Nell'ultimo anno sono intervenute più volte le interpretazioni della Corte dei conti. Le conclusioni sono state inserite nelle Deliberazioni n. 8, 9 e 21 del 2011 delle Sezioni riunite.
Ma per i segretari comunali c'era una questione aggiuntiva. Infatti, negli enti locali di minori dimensioni, è ormai consuetudine stipulare apposite convenzioni per avvalersi di tale figura professionale suddividendo in tal modo anche le spese. Gli spostamenti del segretario tra una sede e l'altra sono quindi all'ordine del giorno. Anche in questo caso è scesa la scure? La risposta era giunta dalle Sezioni riunite nella Delibera n. 9/2011: le limitazioni al trattamento di missione non comportano l'inefficacia del l'articolo 45, comma 2 del Ccnl del 16.05.2001 per i segretari comunali e provinciali inerente il rimborso delle spese sostenute dal segretario titolare di sede di segreteria convenzionata. Nulla veniva detto sulla quantificazione del rimborso.
La Ragioneria generale, nella nota 21.04.2011 n. 54055 fatta propria dall'Unità di missione, aggiunge qualche paletto. Le amministrazioni in convenzione potranno continuare a rimborsare l'utilizzo del mezzo proprio da parte del segretario, esclusivamente nell'importo di un quinto del costo della benzina verde per ogni chilometro. Non potrà essere riconosciuto alcun indennizzo per i tragitti abitazione-luogo di lavoro e viceversa.
Questo permetterà agli enti di risparmiare importi fino a 20 centesimi di euro a km, ma molto dipenderà dal mezzo di proprietà del segretario. Per le reggenze e le supplenze, sia a tempo pieno che a scavalco, il risparmio sarà totale in quanto non sarà possibile erogare alcun rimborso (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Sempre necessario il passaggio in consiglio.
Secondo il calendario fissato dal Dl sviluppo, dopo il 12 luglio –cioè 60 giorni dopo l'entrata in vigore del Dl 70/2011– e in attesa delle discipline regionali, il permesso di costruire in deroga è lo strumento per riqualificare le aree dismesse.
È bene anzitutto ricordare che l'articolo 14 del Dpr 380/2001 (permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici) è rilasciato esclusivamente per edifici e impianti pubblici o di interesse pubblico, previa deliberazione del consiglio comunale. Inoltre, la deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare solo i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati dettati dalle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del Dm 1444/1968, in tema di standard minimi per servizi, densità edilizie massime e distanze inderogabili.
Molto opportunamente, dunque, il decreto sviluppo ritiene da un lato che la riqualificazione delle aree urbane costituisca una finalità di interesse pubblico (diversamente l'istituto della deroga non sarebbe utilizzabile), mentre, dall'altro, estende il campo d'azione della deroga anche al mutamento di destinazione d'uso. Sotto quest'ultimo profilo, il principale ostacolo al recupero delle aree dismesse è proprio rappresentato dalla perdurante destinazione produttiva ad esse sovente riconosciuta dal piano regolatore, che inibisce l'insediamento di altre funzioni urbane (come il commercio, la residenza e gli uffici) aventi valore sufficiente a sostenere i costi di bonifica e di trasformazione.
Purtroppo però il procedimento della deroga edilizia non è particolarmente spedito, richiedendo pur sempre una apposita delibera del consiglio comunale.
Non è quindi sufficiente la firma del dirigente sul permesso di costruire né, tanto meno, la presentazione di una Superdia (nei casi residuali in cui il titolo esiste ancora) o di una Scia.
Neppure è possibile che il permesso di costruire possa formarsi per silenzio-assenso secondo le previsioni del Dl 70/2011, valide solo per i progetti conformi (dunque non in deroga) alla disciplina urbanistica ed edilizia applicabile.
Il procedimento in deroga resta comunque assai più veloce di quello della variante urbanistica, che impone due delibere consiliari e, in molte Regioni, la ratifica della provincia o della giunta regionale.
Un'ultima notazione. Il decreto precisa che il cambio d'uso possa avvenire solo verso destinazioni «compatibili o complementari». La norma parrebbe intendere semplicemente che le nuove destinazioni debbano essere coerenti con il contesto urbano in cui si dovranno inserire, secondo una valutazione discrezionale delegata al consiglio comunale (ovviamente sulla scorta delle indicazioni progettuali e dell'istruttoria degli uffici) (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2011).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Gli strumenti del Dl sviluppo in attesa delle leggi decentrate. La deroga rende più facile il recupero aree dismesse.
Obiettivo recupero: il decreto sviluppo (Dl 78/2011), nel semplificare le procedure relative all'attività edilizie e alla trasformazione del territorio, mira anche a favorire il recupero delle aree dismesse attraverso il riconoscimento di incentivi e semplificazioni procedurali. L'articolo 5 del decreto (comma 9 e seguenti), punta sulla razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente attraverso il recupero di aree urbane degradate ed edifici non residenziali dismessi.
Le aree urbane dismesse e il loro recupero rappresentano un problema sempre più attuale e di non facile soluzione, dal momento che la recente crisi economica e la chiusura di stabilimenti produttivi ha determinato il sorgere di nuove are industriali dismesse oltre a quelle già dismesse a inizio anni 90. Problemi ambientali e urbanistici, intreccio di disposizioni non sempre coordinate, tempi incerti, costi potenzialmenti maggiori rispetto ai nuovi sviluppi sono tutte incognite che gravano sul progetto. E questo vale in particolare per la bonifica e il ripristino ambientale, che possono rappresentare un onere eccessivo per gli investitori.
Non sono mancati in passato tentativi legislativi volti a favorire il recupero delle ex aree industriali –come ad esempio l'articolo 252-bis del Dlgs 152/2006– ma questi tentativi si sono rivelati poco efficaci in quanto, pur prevedendo norme ad hoc, risultavano spesso troppo rigidi (conferma della destinazione produttiva delle aree) ed economicamente poco allettanti per gli operatori privati (costi di bonifica interamente a carico della proprietà).
Il Dl sviluppo, invece, sembra compiere un passo in più, in quanto chiede alle regioni di emanare specifiche leggi che incentivino il recupero delle aree industriali dismesse attraverso il riconoscimento di premi volumetrici, trasferimento di volumetrie e inserimento di nuove destinazioni d'uso con interventi di demolizione e ricostruzione. Secondo il calendario fissato dalla norma, le regioni hanno 60 giorni per emanare le leggi specifiche (periodo di tempo sicuramente troppo breve perché venga rispettato), dopodiché –decorso tale termine– i privati avranno comunque facoltà di procedere al cambio d'uso delle proprie aree attraverso un premesso a costruire in deroga allo strumento urbanistico, previsto dall'articolo 14 del Dpr 380/2001, che potrà essere usato anche per effettuare il cambio d'uso, ma dovrà comunque garantire il rispetto delle norme ambientali. Il che significa, nel caso delle aree industriali dismesse, che dovranno essere programmate le opportune verifiche ambientali e le eventuali bonifiche.
La norma nazionale –fermo restando il fatto che l'iter di conversione del Dl è ancora in corso– traccia una cornice entro cui potranno muoversi i legislatori locali. Non erano mancati, in passato tentativi di alcune Regioni, come la Lombardia, che avevano cercato di incentivare il recupero delle aree dismesse anche attraverso la previsione di una definizione di area dismessa (legge regionale 1/2007) o il riconoscimento di strumenti e incentivi economici –quali lo scomputo di parte dei costi di bonifica dagli oneri di urbanizzazione (legge 10/2009)– che potessero effettivamente favorire gli interventi di recupero su tali aree, ma una previsione di legge a livello nazionale è un passo in più.
Due punti, infine, andrebbero migliorati: la nozione di «area dismessa» e l'introduzione di un coordinamento tra l'iter edilizio e urbanistico e quello ambientale di bonifica, così che le due procedure (le due anime del medesimo intervento) vengano coordinate come tempi, approvazioni e certificazioni (articolo Il Sole 24 Ore del 13.06.2011).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Sussiste l'obbligo di rendere la dichiarazione di cui all'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, anche in capo ai soggetti dotati di un ruolo decisionale all'interno della società, al di là della qualificazione formale dei poteri loro attribuiti.
L'art. 38, lett. b), c) e m-ter, del d.lgs. n. 163/2006, va interpretato alla luce del più sostanziale indirizzo orientamento attento all' effettività del rapporto amministrativo, nonché all'affidabilità di chi in esso agisce nell'interesse e per conto del concorrente, secondo cui, la dichiarazione relativa all'insussistenza di cause di esclusione deve essere resa anche dai procuratori speciali, al di là della loro qualifica formale, in virtù dei poteri ad essi in concreto conferiti. Ciò in quanto, la ratio legis è di escludere, dalla partecipazione alla gara, le società in cui abbiano commesso gravi reati i soggetti dotati di un ruolo decisionale e gestionale significativo.
Il fondamento della disposizione consiste infatti nell'assicurare preventivamente la piena affidabilità morale dell'impresa che ambisce all'esecuzione dell'opera pubblica: affidabilità che, ridotta al rango soggettivo in ragione della personalità della responsabilità penale, va garantita e dichiarata anche per quanti, in concreto, risultino svolgere una reale funzione di amministrazione dell'impresa ed esercitarne i tipici poteri di gestione; a maggior ragione quando, come nel caso di specie, tali soggetti si mostrino capaci di reali poteri gestori nei confronti dell'amministrazione pubblica; diversamente, la ratio legis verrebbe elusa e dunque vanificata.
A tal fine, peraltro, rileva anche considerare l'attribuzione del potere di partecipare a pubblici appalti e formulare le relative offerte, come avvenuto nella fattispecie in esame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 15.06.2011 n. 3655 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIInformativa antimafia: la stazione appaltante non è tenuta a comunicare l'avvio del procedimento di revoca dell'aggiudicazione.
L'amministrazione è esonerata dall'obbligo di comunicazione di cui all'art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, relativamente all'informativa antimafia ed al successivo provvedimento di revoca un'aggiudicazione rilasciata, atteso che si tratta di procedimento in materia di tutela antimafia, come tale intrinsecamente caratterizzato da profili di urgenza (in termini C. Stato sent. n. 1148 del 02/09/2009, ove è richiamata copiosa giurisprudenza e precisamente Consiglio Stato, sez. VI, 07.11.2006, n. 6555; conf. anche Cons. Stato, sez. IV, 11.02.1999, n. 150; sez. V 28.02.2006, n. 851) (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 13.06.2011 n. 1470 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Informativa antimafia: può legittimamente fondarsi su fatti e vicende aventi valore meramente sintomatico ed indiziario.
Il Prefetto non deve basarsi su specifici elementi, ma deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni.
L’informativa prefettizia pertanto può legittimamente fondarsi su fatti e vicende aventi valore meramente sintomatico ed indiziario, data la peculiare finalità rivestita di prevenire infiltrazioni mafiose e criminali nel tessuto economico imprenditoriale, anche a prescindere dal concreto accertamento in sede penale di reati specifici (TAR Lazio sez. 1^ di Roma, sent. n. 6487/2008).
Al fine però di evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e di salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, non possono ritenersi sufficienti semplici sospetti o mere congetture prive di riscontro fattuale, in assenza di individuati elementi di fatto obiettivamente sintomatici di concrete connessioni con la criminalità. La valutazione rimessa all’autorità prefettizia nella esternazione della richiesta informativa antimafia costituisce espressione di discrezionalità tecnica, che esclude la possibilità per il giudice di esplicare un sindacato pieno e assoluto, ma non impedisce di formulare un giudizio di logica e di congruità delle informazioni assunte o alle deduzioni che sono state tratte (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 13.06.2011 n. 1469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIIncarichi di progettazione sotto soglia: l'ente appaltante non ha l'obbligo di pubblicare il bando di gara.
Non sussiste la violazione delle norme relative alle procedure ad evidenza pubblica, trattandosi di appalto sotto soglia comunitaria riguardante incarichi di progettazione, per cui l’Ente non era obbligato alla pubblicazione del bando di gara.
Difatti, nonostante il bando contenga erroneamente il richiamo all’art. 124 del codice dei contrati, trattandosi di incarico di progettazione di importo inferiore a 100.000 euro, trova applicazione l’art. 91, 2° comma, cod. contr. che così dispone: “Gli incarichi di progettazione di importo inferiore alla soglia di cui al comma 1 (100.000 euro) possono essere affidati dalle stazioni appaltanti, a cura del responsabile del procedimento, ai soggetti di cui al comma 1, lettere d), e), f), g) e h) dell'articolo 90, nel rispetto dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza, e secondo la procedura prevista dall'articolo 57, comma 6; l'invito è rivolto ad almeno cinque soggetti, se sussistono in tale numero aspiranti idonei.” (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 13.06.2011 n. 1464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINessuna segnalazione all'Authority nel caso di buona fede dell'impresa che abbia ritenuto di possedere il requisito in realtà carente.
Nel caso di buona fede dell'impresa che abbia ritenuto di possedere il requisito in realtà carente o contestato, non ha senso irrogare sanzioni che vadano oltre la fisiologica esclusione dell'impresa dalla gara, quali la segnalazione all'Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (TAR Trentino Alto Adige Trento, 09.02.2011, n. 34): nel caso specifico, era evidente l’assenza di condotte contrarie alla buona fede concorsuale e/o fraudolente, non essendovi state dichiarazioni mendaci nell'ambito della verifica dei requisiti, di guisa che non avrebbero comunque potuto essere adottate le contestate sanzioni (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 13.06.2011 n. 1460 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARISussiste la giurisdizione del g.o. in tema di revoca di contributi per fatto imputabile al beneficiario.
Nell’ipotesi di revoca di contributi per fatto imputabile al beneficiario, riconosce in ogni caso la giurisdizione del Giudice ordinario.
In particolare, nella fase procedimentale successiva all'attribuzione del contributo, il beneficiario risulta titolare di un diritto soggettivo avente ad oggetto la concreta erogazione delle somme disposte con tale finanziamento, con conseguente attribuzione della relativa giurisdizione al G.O. per le controversie relative al pagamento degli importi dovuti ovvero riconducibili ai provvedimenti di decadenza o di risoluzione con i quali la p.a. abbia ritirato la sovvenzione sulla scorta di un preteso inadempimento, da parte del beneficiario, agli obblighi impostigli dalla legge o dalla convenzione posta a fondamento del rapporto di finanziamento (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 03.06.2010, n. 3501; ma anche questo TAR Catania, sez. IV, 16.12.2010, n. 4744).
Viceversa, solo quando nella stessa fase procedimentale la p.a. si determini nel senso di non erogare il finanziamento già accordato, provvedendo, in sede di autotutela, ad annullare il predetto provvedimento per vizi di legittimità ovvero a revocarlo per contrasto originario con l'interesse pubblico, il beneficiario può vantare una posizione di interesse legittimo al corretto esercizio di detti poteri, con conseguente attribuzione delle relative controversie alla giurisdizione del G.A. (cfr. giurisprudenza già richiamata).
In definitiva, sussiste la giurisdizione ordinaria tutte le volte in cui il provvedimento impugnato -a prescindere dal nomen juris adoperato (annullamento, revoca, decadenza, risoluzione)- sia basato sull'asserito inadempimento da parte del concessionario agli obblighi impostigli dalla legge o assunti a fronte della concessione del contributo (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it -  TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 13.06.2011 n. 1459 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'art. 90 del d.lgs. 163/2006 consente lo svolgimento della progettazione di opere pubbliche mediante affidamento delle stesse ad una società in house della stazione appaltante.
L'art. 90, c. 1, del d.lgs. n. 163/2006 prevede che, se non affidate a professionisti, le attività relative alla progettazione di opere pubbliche e quelle relative alla direzione lavori, devono essere espletate dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti, oppure dagli uffici consortili di progettazione e direzione dei lavori o dagli organismi di altre pubbliche amministrazioni di cui le singole stazioni appaltanti possono avvalersi per legge.
Nel concetto di stazione appaltante, va ricompresa anche l'eventuale società in house, poiché quest'ultima non si configura quale soggetto esterno all'amministrazione medesima ma, analogamente ai suoi uffici interni, ne rappresenta una parte integrante, sia pure giuridicamente separata.
La forma societaria è uno strumento che l'Amministrazione ha scelto per l'espletamento delle proprie attività in materia di realizzazione di opere pubbliche, ritenendo che possano più agevolmente essere portate a compimento mediante strumenti civilistici; ma sulla società medesima il Comune esercita un controllo penetrante, il quale esclude che essa possa operare autonomamente.
Le attività di progettazione svolte rientrano, pertanto, nell'ambito di previsione dell'art. 90, c. 1, lett. a), d.lgs. 163/2006, in quanto l'ufficio tecnico della società opera unicamente a favore dell'affidante e sotto il suo diretto controllo, e ciò esclude che nella fattispecie si sia realizzato un affidamento esterno da parte della stazione appaltante in spregio alle norme codicistiche, tanto più che la società di cui si discute è a sua volta è tenuta ad affidare tramite gara la progettazione delle stesse (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 13.06.2011 n. 1041 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente da una gara, per incompletezza della dichiarazione relativa all'insussistenza di cause di esclusione ai sensi dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/2006 (Codice degli appalti).
E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara, adottato da una stazione appaltante nei confronti di un concorrente che abbia reso una dichiarazione incompleta, in ordine alle cause di esclusione previste dall'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, riguardanti tutti i soggetti tenuti per legge ad assolvere a tale obbligo.
Nel caso di specie, l'ATI concorrente ha omesso di rendere la suddetta dichiarazione con riferimento al Presidente del C.d.A. In ordine alle dichiarazioni relative ai requisiti di partecipazione alle pubbliche gare ex art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, la giurisprudenza amministrativa non appare univoca, propendendo talora, per una tesi "sostanzialistica", secondo cui l'esclusione dalla gara può avvenire non tanto per la mancata allegazione della attestazione sull'esistenza di condanne penali per i soggetti indicati, quanto in caso di effettiva esistenza di tali condanne; talaltra, la giurisprudenza privilegia il dato formale della omessa allegazione della dichiarazione.
Peraltro, anche secondo quella giurisprudenza che ha recepito il concetto, di derivazione penalistica, del cd. "falso innocuo", l'omessa dichiarazione in ordine all'esistenza di condanne penali non integra, di per sé, causa di esclusione, salvo espressa previsione del bando, in tal senso. Nel caso di specie, la mancata presentazione di una delle dichiarazioni richieste era sanzionata dal bando con l'esclusione del concorrente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 13.06.2011 n. 1026 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

VARI: E' illegittimo l'utilizzo della insegna costituita dalla croce di colore verde da parte delle parafarmacie.
L'art. 5 del d.lgs. n. 153 del 2009, prevede che "al fine di consentire ai cittadini un'immediata identificazione delle farmacie operanti nell'ambito del Servizio sanitario nazionale, l'uso della denominazione: "farmacia" e della croce di colore verde, su qualsiasi supporto cartaceo, elettronico o di altro tipo, è riservato alle farmacie aperte al pubblico e alle farmacie ospedaliere". La norma contempla, pertanto, il diritto di utilizzo della insegna in esame soltanto alle farmacie. Ne consegue che è illegittimo l'utilizzo della medesima insegna da parte delle parafarmacie.
Inoltre, il Comune ha l'obbligo di vietare tale impiego e dunque di ordinare la rimozione sia in ragione del dovere di vigilanza nella fase di attuazione dell'autorizzazione rilasciata all'esercizio della relativa attività sia in ragione del dovere di reprimere tutte le forme di abusivismo nell'utilizzo di impianti pubblicitari (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.06.2011 n. 900 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Deve considerarsi illegittimo il regolamento comunale che stabilisca le zone del territorio in cui possono essere installati gli impianti radio base di telefonia cellulare e le distanze che gli stessi devono avere dalle civili abitazioni o dalle aree sensibili. Agli enti locali, infatti, spetta solo regolamentare l'installazione dei suddetti impianti da un punto di vista urbanistico e territoriale, dando rilievo a particolari accorgimenti edilizi che possano ridurre ulteriormente l'esposizione alle onde elettromagnetiche.
Ai fini della determinazione della potenza dell'impianto di telecomunicazione, occorre tenere in considerazione solo quella del singolo impianto e non anche quella di altri impianti eventualmente esistenti sul medesimo traliccio.
Il Collegio non ravvisa ragione di discostarsi dalla giurisprudenza secondo cui “è illegittimo un regolamento comunale che stabilisce in quali zone del territorio possono essere installati gli impianti radio base di telefonia cellulare e quali distanze devono avere dalle abitazioni o dalle aree sensibili. I comuni possono solo regolamentare le installazioni delle stazioni radio base sotto il profilo urbanistico e territoriale, non potendo neppure regolamentare l'individuazione dei siti idonei all'installazione. I comuni possono esercitare in materia una potestà regolamentare del tutto sussidiaria, che concerne esclusivamente i profili urbanistici e territoriali (con esclusione dell'individuazione dei siti) e l'eventuale indicazione di ulteriori, particolari accorgimenti edilizi che possano utilmente concorrere alla minimizzazione dell'esposizione” (così TAR Sicilia Catania, sez. III, 29.01.2002, n. 140, successivamente ripresa da TAR Calabria Catanzaro, sez. II, 05.12.2006, n. 1573, di analogo contenuto).
Come già affermato da questo Tribunale nella sentenza n. 16 del 12.01.2007, quindi, è illegittimo il regolamento che esplicitamente estenda i vincoli stabiliti unicamente per impianti di potenza superiore -i quali possono essere realizzati solo previa individuazione dei siti per la localizzazione- anche alle SRB di potenza inferiore a 300W. Per quest’ultime la disciplina è dettata direttamente dalla legge regionale che ne consente la realizzazione in tutto il territorio comunale, salvo gli espliciti divieti di cui alla medesima legge regionale.
Come già affermato dalla giurisprudenza, ai fini della determinazione della potenza dell’impianto si deve considerare solo quella del singolo impianto e non anche quella degli altri impianti eventualmente esistenti sul medesimo traliccio (cfr la sentenza TAR Milano, 10.04.2002, n. 3713, con cui si è esclusa la sommatoria delle potenze di due stazioni presenti sul medesimo traliccio). In tal caso si deve valutare singolarmente l’impianto, fatto salvo l’aspetto dei contributi di campo elettromagnetico, che, nel caso in esame sono stati ritenuti rispettosi degli stretti parametri di legge da parte dell’ARPA
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 13.06.2011 n. 899  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Affidamento senza gara - Proroga dei contratti affidati con gara - Equiparazione - Limiti entro cui è consentita la proroga.
All’affidamento senza una procedura competitiva deve essere equiparato il caso in cui ad un affidamento con gara segua, dopo la sua scadenza, un regime di proroga diretta che non trovi fondamento nel diritto comunitario.
Infatti, le proroghe dei contratti affidati con gara sono consentite se già previste ab origine, e comunque entro termini determinati. Una volta che il contratto scada e si proceda a una sua proroga senza che essa sia prevista ab origine, o oltre i limiti temporali consentiti, la proroga è da equiparare d un affidamento senza gara. (Consiglio Stato , sez. VI, 16.02.2010, n. 850).
RIFIUTI - Servizio di raccolta e trasporto rifiuti - Richiesta di proroga - Affidataria - Rifiuto - Ordinanza contingibile e urgente diretta ad assicurare la continuità del servizio - Affidamento per effetto di provvedimento extra ordinem - Non costituisce impedimento alla partecipazione ad altre gare.
In tema di servizio raccolta e trasporto rifiuti, allorché in prossimità della scadenza della proroga il Comune contatti la società attuale affidataria del servizio al fine di acquisire la disponibilità ad un'ulteriore proroga del servizio, alle medesime condizioni economiche e tecniche in atto, nelle more della predisposizione degli atti e degli adempimenti necessari per l'affidamento mediante pubblica gara del nuovo servizio, e l'affidataria declini la proposta di ulteriore proroga, alla luce del disposto di cui all'art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008, onde evitare il pregiudizio derivante dall'impedimento alla partecipazione ad altre gare, è legittima l'ordinanza contingibile ed urgente assunta dal Sindaco ai sensi dell'art. 50, d.lg. n. 267 del 2000, al fine di assicurare comunque la continuità del servizio di gestione dei rifiuti urbani, tenuto conto della qualità di servizio essenziale, non suscettibile di subire interruzioni; in tal caso l'avvenuto affidamento del servizio alla società per effetto di un provvedimento extra ordinem, assunto sulla base di presupposti di diritto del tutto diversi da quelli in base ai quali in via ordinaria si procede mediante proroga dell'affidamento in corso, non è assimilabile a tale ultima ipotesi e quindi non può costituire per la società istante impedimento per l'eventuale partecipazione ad altre gare (cfr. TAR Veneto, sez. I, 09.07.2010 n. 2906).
Divieto ex art. 23-bis della L. n. 133/2008 - Società private - Applicabilità.
Il divieto previsto all’art. 23-bis, comma 9, L. n. 133/2008 non prevede alcuna delimitazione soggettiva e si presta ad essere applicata in termini generali, a tutela del principio concorrenziale fra gli operatori del mercato pubblici e privati.
Non può pertanto condividersi la tesi secondo cui la norma sarebbe riferibile esclusivamente alle società in house providing e non anche alle imprese private (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 11.06.2011 n. 556 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIQuando il contratto scada e si proceda a una sua proroga senza che essa sia prevista ab origine essa è da equiparare ad un affidamento senza gara.
All’affidamento senza una procedura competitiva deve essere equiparato il caso in cui ad un affidamento con gara segua, dopo la sua scadenza, un regime di proroga diretta che non trovi fondamento nel diritto comunitario.
Infatti, le proroghe dei contratti affidati con gara sono consentite se già previste ab origine, e comunque entro termini determinati. Una volta che il contratto scada e si proceda a una sua proroga senza che essa sia prevista ab origine, o oltre i limiti temporali consentiti, la proroga è da equiparare d un affidamento senza gara (Consiglio Stato, sez. VI, 16.02.2010, n. 850).
Diverso sarebbe stato se lo svolgimento del servizio fosse stato svolto in forza di provvedimento autoritativo (ordinanza contingibile ed urgente, per il periodo strettamente necessario all'espletamento della gara a regime), in quanto "in tema di servizio raccolta e trasporto rifiuti, allorché in prossimità della scadenza della proroga il Comune contatti la società attuale affidataria del servizio al fine di acquisire la disponibilità ad un'ulteriore proroga del servizio (nella specie: per altri sei mesi), alle medesime condizioni economiche e tecniche in atto, nelle more della predisposizione degli atti e degli adempimenti necessari per l'affidamento mediante pubblica gara del nuovo servizio, e l'affidataria declini la proposta di ulteriore proroga, alla luce del disposto di cui all'art. 23-bis, d.l. n. 112 del 2008, onde evitare il pregiudizio derivante (attese le interpretazioni giurisprudenziali rese sul punto) dall'impedimento alla partecipazione ad altre gare, è legittima l'ordinanza contingibile ed urgente assunta dal Sindaco ai sensi dell'art. 50, d.lgs. n. 267 del 2000, al fine di assicurare comunque la continuità del servizio di gestione dei rifiuti urbani, tenuto conto della qualità di servizio essenziale, non suscettibile di subire interruzioni; in tal caso l'avvenuto affidamento del servizio alla società per effetto di un provvedimento extra ordinem, assunto sulla base di presupposti di diritto del tutto diversi da quelli in base ai quali in via ordinaria si procede mediante proroga dell'affidamento in corso, non è assimilabile a tale ultima ipotesi e quindi non può costituire per la società istante impedimento per l'eventuale partecipazione ad altre gare” (cfr. TAR Veneto, sez. I, 09.07.2010 n. 2906) (TAR Sardegna, Sez. I, sentenza 11.06.2011 n. 556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sull'illegittimità dell'operato di una Commissione di gara, che abbia introdotto nuovi e diversi parametri di valutazione, in contrasto con il dettato normativo di cui all'art. 83, c. 4, del d.lgs. n. 163/2006.
E' illegittimo l'operato di una Commissione di gara che, in ordine all'attribuzione dei punteggi indicati nel bando, abbia introdotto, pur qualificandoli come criteri motivazionali, nuovi e diversi parametri di valutazione, con relativi elementi ponderali, in quanto ciò costituisce violazione dell'art. 83, come novellato dal d.lgs. n. 152/2008, il quale, in ossequio ai principi di trasparenza imposti dalla sovraordinata normativa comunitaria, ha abrogato la disposizione che assegnava alla Commissione giudicatrice, prima dell'apertura delle buste contenenti le offerte, la fissazione, in via generale, dei criteri motivazionali cui attenersi, in sede di attribuzione a ciascun criterio e subcriterio di valutazione dei punteggi tra il minimo e il massimo prestabiliti dal bando.
In altri termini, il legislatore, con la previsione dell'art. 83 c. 4, del d.lgs. n. 163/2006 come novellato dal predetto decreto, ha effettuato una scelta finalizzata a ridurre gli apprezzamenti soggettivi della commissione giudicatrice, garantendo l'imparzialità delle valutazioni a tutela della "par condicio" tra i concorrenti, i quali sono messi in condizione di formulare un'offerta che consenta di concorrere effettivamente alla aggiudicazione del contratto in gara.
La gestione dei servizi oggetto del contratto, va determinata e resa nota ai potenziali concorrenti, già al momento della produzione delle loro offerte, e ciò al fine di evitare il pericolo che la Commissione possa orientare, a proprio piacimento ed a posteriori, l'attribuzione di un punteggio determinante e, quindi, l'esito della gara (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 10.06.2011 n. 1035 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L'omessa menzione di condanne penali non gravi, ovvero di violazioni contributive non gravi o non definitivamente accertate, non integra un'ipotesi di falsa dichiarazione e, quindi, causa di esclusione.
L'omessa menzione di condanne penali non gravi, ovvero di violazioni contributive non gravi o non definitivamente accertate, non integra, di per sé, un'ipotesi di falsa dichiarazione e, quindi, causa di esclusione, atteso che, nel caso in esame, il bando di gara non impone ai partecipanti di manifestare qualsivoglia condanna e violazione contributiva, ma solo quelli connotati dal requisito di gravità.
Pertanto, si configura illegittimo un eventuale provvedimento di esclusione, basato sul solo fatto dell'omissione formale. Il giudizio sul connotato, di gravità richiesto dall'art. art. 38, c. 1, lett. c), d.lgs. n. 163/2006, impone una concreta valutazione da parte dell'amministrazione procedente, rivolta alla verifica dell'effettiva incidenza della condanna penale sul vincolo fiduciario da instaurare; pertanto, non è sufficiente un semplice richiamo al tipo di reato ed alla sua attinenza alla materia dell'appalto.
Peraltro, nella fattispecie in esame, non sussiste alcuna violazione contributiva definitivamente accertata, al momento della presentazione della domanda, essendo stati esibiti d.u.r.c. successivi alla stessa, attestanti la regolarità contributiva, e non appalesandosi il superamento delle "soglie" di gravità, in ordine alla rilevanza delle violazioni contributive, indicate nel D.M. 25/10/2007 (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 10.06.2011 n. 889 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti radiomobili, vincoli di localizzazione limitati.
E' consentito alle Regioni ed ai Comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile. Sono considerati criteri localizzativi legittimi i divieti di installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici, mentre vanno ritenute limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed eterogenei.
Secondo il quadro emergente della giurisprudenza costituzionale, è consentito alle regioni ed ai comuni, ciascuno per la sua competenza, introdurre criteri localizzativi degli impianti de quibus, nell'ambito della funzione di definizione degli "obiettivi di qualità", consistenti in criteri localizzativi, di cui all'art. 3, comma 1, lettera d, ed all'art. 8, comma 1, lettera e, e comma 6 della legge quadro, mentre non è consentito introdurre limitazioni alla localizzazione ( conf.: Corte Cost.: 07.10. 2003 n. 307; 07.11.2003, n. 331; 28.03.2006, n. 129).
Coerentemente, vanno considerati criteri localizzativi (legittimi, ancorché espressi "in negativo") i divieti di installazione su ospedali, case di cura e di riposo, scuole e asili nido, siccome riferiti a specifici edifici, mentre vanno ritenute limitazioni alla localizzazione (vietate) i criteri distanziali generici ed eterogenei, quali la prescrizione di distanze minime, da rispettare nell'installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all'esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido, nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi.
Ritiene, quindi, il Collegio, alla stregua dei superiori principi che il Comune potrebbe dotarsi di un Piano o di un Regolamento di localizzazione degli impianti di telefonia mobile, ex art. 8, comma 6, L. n. 36/2001 e art. 5 L.R. n. 30/2000, purché finalizzato a consentire il completamento della rete cellulare e l'efficace copertura di tale servizio su tutto il territorio comunale e non a porre inammissibili limitazioni di localizzazione.
Invero, alla stregua dei superiori principi, nella specie, il Comune non poteva giustificare il parere negativo della procedura edilizia decisa con la nota gravata, in contrasto proprio con le esigenze di speditezza propria di tale settore, che oggi hanno trovato testuale riscontro negli artt. 87 e 87-bis del D.Lgs n. 259 del 2003 (ex plurimis cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. II, 9816/2007, TAR Campania, Sez. VII, 29.05.2006, n. 6199; TAR Abruzzo, 15.06.2006, n. 420; TAR Puglia, Sez. Lecce, 03.11.2006, n. 5142).
Va, infine, precisato che detto arresto procedimentale non poteva neppure essere giustificato in riferimento alle esigenze di tutela della salute della popolazione del Comune (di cui, comunque, non vi è traccia nel corpo motivazionale del provvedimento impugnato), atteso che, ai sensi dell'art. 4 della legge 22.02.2001 n. 36, la materia della salute pubblica inerente all'esposizione ai campi elettromagnetici è riservata alla competenza dello Stato e non del comune (cfr.: Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2002 n. 7274).
Invero, nella specie, le accertate violazioni di legge e discrasie rispetto al paradigma procedimentale previsto dalla legge si traducono anche in un deficit motivazionale ed istruttorio, considerato, in particolare che, nella specie, era intervenuta la nota prot. n. 842/NIR-R/10 del 03.06.2010 dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente della Calabria (A.R.P.A.C.A.L.), attestante la conformità della D.I.A. e la compatibilità del progetto con i limiti di esposizione, i valori di attenzione e gli obiettivi di qualità di cui alla legge 22.02.2001 n. 36 e D.C.P.M 08.07.2003 (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Calabria-Catanzaro, sentenza 10.06.2011 n. 822 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Esproprio di terreni agricoli non coltivati e di fondi inedificabili: é illegittimo il valore agrario.
Con sentenza 10.06.2011 n. 181, la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l'articolo 5-bis, comma 4, del d.l. 11.07.1992 n. 333, convertito con legge 08.08.1992, n. 359, nonché, in via conseguenziale, l'articolo 40, commi 2 e 3, del D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (Testo Unico in materia di espropriazione per pubblica utilità).
La Corte ha affermato che -per le aree agricole non coltivate e per quelle inedificabili- "il valore agrario, previsto di fatto in via automatica, potrebbe non rivelarsi un ^serio ristoro^", con conseguente violazione dell'articolo 117 della Costituzione.
E’ vero, afferma la Corte, che il legislatore "non ha il dovere di commisurare integralmente l’indennità di espropriazione al valore di mercato del bene ablato e che non sempre è garantita dalla CEDU una riparazione integrale". Tuttavia, "proprio l’esigenza di effettuare una valutazione di congruità dell’indennizzo espropriativo, determinato applicando eventuali meccanismi di correzione sul valore di mercato, impone che quest’ultimo sia assunto quale termine di riferimento dal legislatore (sentenza n. 1165 del 1988), in guisa da garantire il “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui".
Diverso é il caso delle aree non edificabili ma coltivate, trattate nel comma 1 del D.P.R. 327/2001, per le quali la mancanza del riferimento al ^valore agricolo medio^ e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono, ad avviso della Corte, una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari.
Per le prime, dunque, é atteso l'intervento del legislatore, che non potrà non muovere, sia pure con gli opportuni correttivi, dal valore venale, ossia di mercato, fissato dall'articolo 37 del T.U. (tratto e link a http://studiospallino.blogspot.com).

APPALTI: La stazione appaltante ha il potere discrezionale di fissare requisiti di partecipazione ad una gara più gravosi rispetto a quelli previsti dalla legge.
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale, la stazione appaltante ha il potere discrezionale di fissare requisiti di partecipazione ad una singola gara, anche più gravosi rispetto a quelli previsti dalla legge, in relazione alle peculiari caratteristiche oggettive ed all'importanza del servizio da affidare.
Detto potere costituisce attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, e può tradursi anche in una richiesta relativa alla dimostrazione del possesso di adeguata capacità economico-finanziaria, correlata allo specifico importo dell'appalto, nonché alla sua durata, ed è ampiamente discrezionale; pertanto, in tali casi, il sindacato del G.A. deve limitarsi alle ipotesi di manifesta irragionevolezza ed illogicità (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 09.06.2011 n. 859 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Stazione appaltante - Fissazione di requisiti più gravosi di quelli previsti dalla legge - Principi di imparzialità e buon andamento - Discrezionalità.
La stazione appaltante ha il potere discrezionale di fissare requisiti di partecipazione ad una singola gara, anche più gravosi di quelli previsti dalla legge, in relazione alle peculiari caratteristiche oggettive ed all’importanza del servizio da affidare.
Detto potere, che costituisce precipua attuazione dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento, può tradursi anche nella richiesta di dimostrazione del possesso di adeguata capacità economico-finanziaria, correlata allo specifico importo dell’appalto ed alla sua durata, ed è ampiamente discrezionale, sicché il sindacato del giudice amministrativo deve limitarsi alle ipotesi di manifesta irragionevolezza ed illogicità (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.10.2004 n. 6972; Id., sez. V, 31.12.2003 n. 9305; deliberazione A.V.C.P. n. 61 del 27.02.2007) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 09.06.2011 n. 859 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione - Presupposto - Preesistenza di un fabbricato da ristrutturare - Ricostruzione su ruderi - Nuova opera.
Il concetto di ristrutturazione postula necessariamente la preesistenza di un fabbricato da ristrutturare, ossia di un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura.
Di conseguenza, la ricostruzione su ruderi o su un edificio già da tempo demolito, anche se soltanto in parte, costituisce una nuova opera e, come tale, è soggetta alle comuni regole edilizie e paesistico-ambientali vigenti al momento della riedificazione (C.d.S. sez. IV 13.10.2010 n. 7476, C.d.S. sez. IV 15.09.2006 n. 5375).
Ciò che contraddistingue la c.d. ricostruzione di ruderi è la circostanza che in tal caso la demolizione del fabbricato preesistente avviene per ragioni assolutamente autonome ed indipendenti dalla volontà di effettuare un intervento di ristrutturazione (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 09.06.2011 n. 847 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Piani di recupero - Finalità - Nuove costruzioni - Ammissibilità - Condizioni. A norma dell'art. 27 della L. 457/1978 i Piani di Recupero sono finalizzati non già al recupero di centri storici o di quartieri, ma al recupero del patrimonio edilizio "esistente".
In coerenza con ciò l'art. 31 della L. 457/1978 prevede che sono ammissibili, sul "patrimonio edilizio esistente", gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, le opere e modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali di edifici, le opere necessarie per realizzare ed integrare servizi igienico-sanitari e tecnologici, gli interventi di restauro e risanamento conservativo, gli interventi di ristrutturazione edilizia, e gli interventi di ristrutturazione urbanistica: eventuali nuove costruzioni sono dunque ammissibili solo ove il Piano di Recupero, in conformità allo strumento urbanistico generale, persegua la finalità di attuare una ristrutturazione urbanistica (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 09.06.2011 n. 847 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Fascia di rispetto stradale - Art. 9 L. n. 729/1961 - Finalità - Divieto assoluto di edificare - Verifica in concreto dei rischi per la circolazione stradale - Necessità - Esclusione.
Il divieto di costruire a una certa distanza dal nastro autostrdale, imposto dall'art. 9 l. n. 729/1961 e dal d.m. Lavori Pubblici 01.04.1968, non può essere inteso restrittivamente, e cioè come previsto al solo scopo di prevenire l'esistenza di ostacoli materiali emergenti dal suolo e suscettibilità di costituire, per la prossimità alla sede stradale, pregiudizio alla sicurezza del traffico e alla incolumità delle persone, in quanto è correlato alla più ampia esigenza di assicurare una fascia di rispetto utilizzabile, all'occorrenza, dal concessionario per l'esecuzione dei lavori, per l'impianto dei cantieri, per il deposito dei materiali, per la realizzazione di opere accessorie, senza limitazioni connesse alla presenza di costruzioni.
Pertanto, il vincolo in questione, traducendosi in un divieto assoluto di costruire, rende legalmente inedificabili le aree site in fascia di rispetto stradale o autostradale, indipendentemente dalle caratteristiche dell'opera realizzata e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale (Cass. civ., sez. II, 03.11.2010 n. 22422; Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2010 n. 2076).
Fascia di rispetto autostradale - Divieto di costruire a distanza inferiore a 25 metri - Art. 9, c. 1 L. n. 729/1961 - Vigenza - Autostrade costruite successivamente all’entrata in vigore della legge.
Il divieto di costruire di ampliare edifici o manufatti di qualsiasi specie, a distanza inferiore a 25 m. dal limite della zona di occupazione dell'autostrada, di cui all'art. 9, 1° comma, l. 24.07.1961, n. 729, opera soltanto per le autostrade la cui costruzione è avvenuta dopo l'entrata in vigore della legge medesima, oppure alle autostrade la cui costruzione è stata già concessa anteriormente a tale data.
È la stessa lettera della legge ad implicare tale conclusione, laddove fa riferimento alle autostrade e ai relativi accessi, previsti sulla base di progetti regolarmente approvati: tanto basta a rendere inapplicabile la nuova normativa ad autostrade già edificate in base al generale principio della irretroattività sancito dall'art. 11 delle preleggi (Consiglio di Stato sez. IV, 29.04. 2002 n. 2277) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3498 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo le procedure che consentono il passaggio da un'area inferiore a quella superiore.
Sulla scorta dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 1 del 1999), e poi della Corte di Cassazione (SS.UU. 15.10.2003 n. 15403), il Consiglio di Stato afferma costantemente che le procedure che consentono il passaggio da un'area inferiore a quella superiore integrino un vero e proprio concorso, tali essendo anche le procedure che vengono denominate selettive, qualunque sia l'oggetto delle prove che i candidati sono chiamati a sostenere, con la conseguenza che le relative controversie sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo (Sez. V, 06.07.2010, n. 4313) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3484 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il rapporto di pubblico impiego in contrasto con le norme imperative che regolano le assunzioni è nullo ma rileva come rapporto di mero fatto.
Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 97, Cost., “…Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediate concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”: affinché possa dirsi esistente (o possa chiedersi la declaratoria di sussistenza di un rapporto di pubblico impiego), l’interessato deve aver utilmente partecipato ad un pubblico concorso, oppure deve sussistere una specifica norma di legge in applicazione della quale la p.a. abbia provveduto all’assunzione, e non rileva, per costante giurisprudenza anche di questo Consiglio di Stato, lo svolgimento di mansioni di fatto anche in presenza dei c.d. elementi rivelatori (cfr. C.S., sez. V, dec. 09.10.2007 n. 5262).
Com’è stato ribadito da questo Consiglio di Stato, “Il rapporto di lavoro avente le caratteristiche del pubblico impiego, costituito in contrasto con le norme imperative che disciplinano le assunzioni della pubblica amministrazione, è nullo ma rileva come rapporto di mero fatto, per il quale, ai fini retributivi e previdenziali, deve trovare applicazione l'art. 2126, c.c.; infatti, gli effetti derivanti dalla predetta norma civilistica sono connessi alle prestazioni lavorative di fatto, che sono tali proprio in quanto gli atti in base ai quali le prestazioni stesse sono state svolte sono affetti da nullità per contrasto con norme imperative” (cfr. C.S., sez. V, dec. 09.10.2007 n. 5262).
Ed ancora, “Quando il rapporto di lavoro avente le caratteristiche del pubblico impiego sia sorto in violazione di norme imperative che ne sanzionavano la nullità di diritto e la improduttività di effetti a carico dell'amministrazione (nella specie, quelle di cui agli art. 18, l. n. 808 del 1977, ed art. 123, d.P.R. n. 382 del 1980), il rapporto stesso viene comunque a rilevare come rapporto di fatto per il quale trova applicazione ai fini retributivi e previdenziali l'art. 2126, c.c., salvo che la nullità derivi dalla illiceità dell'oggetto o della causa”. (cfr. C.S., sez. VI, dec. 04.09.2007 n. 4620) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È sufficiente la mera presentazione di domande di condono per rendere improcedibili i giudizi relativi a pregressi provvedimenti sanzionatori di opere ritenute abusive dall’amministrazione comunale.
Sulla base di un consolidato orientamento giurisdizionale, che il Collegio ritiene di condividere, è sufficiente la mera presentazione di domande di condono per rendere improcedibili i giudizi relativi a pregressi provvedimenti sanzionatori di opere ritenute abusive da parte della competente amministrazione comunale.
La presentazione della suddetta istanza impone infatti al Comune la sua disamina e l'adozione dei provvedimenti conseguenti, sicché gli atti, repressivi dell'abuso, in precedenza adottati perdono efficacia, perché la proposizione dell’istanza stessa può condurre o ad un suo accoglimento (con connesso rilascio della concessione edilizia in sanatoria e superamento degli atti sanzionatori impugnati), oppure alla reiezione l’istanza e la P.A. è, allora, tenuta, in base all’art. 40, comma 1, della l. n. 47/1985 e s.m.i., al completo riesame della fattispecie, assumendo, ove del caso, nuovi, e questa volta definitivi, provvedimenti sanzionatori che troveranno esecuzione, ovvero saranno oggetto di autonoma impugnazione (Consiglio Stato, Sezione V, 19.02.1997, n. 165; Sezione VI, 07.05.2009, n. 2833 e 26.03.2010, n. 1750) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3460 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPuò agire per l'annullamento di una concessione edilizia il proprietario di un'area vicina che faccia valere il pregiudizio derivante dalla illegittima alterazione dell'ambiente circostante.
Va riconosciuto l'interesse ad agire per l'annullamento di una concessione edilizia al proprietario di un'area sita nelle immediate vicinanze della progettata costruzione, che faccia valere il pregiudizio a lui derivante dalla illegittima alterazione dell'ambiente circostante, senza necessità della specifica dimostrazione di un danno particolare.

Sono titolari di una posizione qualificata e differenziata ad impugnare i provvedimenti relativi alla costruzione di un’opera come quella di specie solo i soggetti residenti in immobili siti nella zona in cui la costruzione è permessa e coloro che si trovano in una situazione di stabile collegamento con la stessa. La sussistenza delle anzidette circostanze è idonea quindi a radicare in detti soggetti una posizione di interesse differenziata rispetto a quella posseduta dal “quisque de populo” (Consiglio Stato, sez. IV, 30.11.2009, n. 7490), purché sussista anche un concreto pregiudizio anche solo potenziale, che potrebbe derivare dalla costruzione, della cui esistenza deve essere fornita la prova da parte di coloro che vogliono far valere la illegittimità dei provvedimenti autorizzativi della nuova opera.
Quindi, pur essendo il requisito della “vicinitas” insufficiente a provare, da solo, l'interesse concreto ed attuale a ricorrere dell'interessato, la giurisprudenza non ha tuttavia dubitato che esso interesse sia sempre sussistente nei casi in cui siffatta concreta lesione sia a prima vista ricavabile dalla stessa “vicinitas”, alla costruzione di un’opera, per essere preclusa la vista e l'aria goduta dalle parti deducenti la lesione, come nella fattispecie in esame.
Va, infatti, riconosciuto l'interesse ad agire per l'annullamento di una concessione edilizia al proprietario di un'area sita nelle immediate vicinanze della progettata costruzione, che faccia valere il pregiudizio a lui derivante dalla illegittima alterazione dell'ambiente circostante, senza necessità della specifica dimostrazione di un danno particolare (Consiglio Stato, sez. V, 20.06.1987, n. 403).
Nel caso che occupa non può dubitarsi che la costruzione di una palestra, sia pure in materiale leggero e trasparente, nelle adiacenze degli immobili dei ricorrenti in primo grado, avrebbe sicuramente comportato una limitazione della visuale di cui essi godevano, non esistendo materiali perfettamente trasparenti tali da eliminare totalmente essa limitazione e costituendo comunque la erigenda palestra una struttura edilizia atta ad immutare il preesistente paesaggio libero da costruzioni
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa piena conoscenza dell'attività amministrativa e della sua lesività, al fine del decorso del termine di impugnazione, non può essere affermata in via meramente presuntiva ma deve formare oggetto di prova rigorosa da parte di chi eccepisce la tardività del gravame.
Non può dedursi la assoluta e piena conoscenza di un provvedimento, da parte di chi ha interesse ad impugnarlo, dal solo fatto che dello stesso sia venuto a conoscenza un altro soggetto, anche se legato al primo da determinati rapporti, ivi compreso l'avvocato difensore.
La piena conoscenza dell'attività amministrativa e della sua lesività, al fine del decorso del termine di impugnazione, non può essere affermata in via meramente presuntiva ma deve formare oggetto di prova rigorosa da parte di chi eccepisce la tardività del gravame (CdS sez. IV, 15.05.2008 n. 2236; 18.12.2008 n. 6365).
In base al generalissimo principio, secondo cui la conoscenza dell’atto, ai fini del decorso del termine per la sua impugnazione, deve essere, oltre che piena (con riferimento alla sua esistenza e lesività), anche personale (e quindi formarsi in capo al diretto interessato), non può dedursi la assoluta e piena conoscenza di un provvedimento, da parte di chi ha interesse ad impugnarlo, dal solo fatto che dello stesso sia venuto a conoscenza un altro soggetto, anche se legato al primo da determinati rapporti, ivi compreso l'avvocato difensore.
Invero, alla stregua di consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale il Collegio non ritiene di discostarsi, la conoscenza di un atto da parte del legale non può fornire né prova piena della completa conoscenza dell’atto stesso anche da parte del soggetto interessato, né presunzione assoluta di conoscenza della parte (C.d.S., Sez. IV, 10.04.2008 n. 1556)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3458 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'eventuale erronea determinazione degli oneri connessi al rilascio della concessione edilizia non determina l'illegittimità della concessione stessa.
L'eventuale erronea determinazione degli oneri connessi al rilascio della concessione edilizia non determina l'illegittimità della concessione stessa, e non giustifica quindi la pretesa al suo annullamento giurisdizionale, in quanto il procedimento di determinazione del contributo di urbanizzazione è diverso e autonomo rispetto al procedimento di rilascio della relativa concessione di costruzione, sia perché persegue finalità sue proprie, sia perché si conclude con un provvedimento diverso da quello concessivo del titolo a costruire (Consiglio Stato, sez. IV, 31.01.1995, n. 37).
Anche a seguito dell’entrata in vigore del nuovo T.U sull’edilizia, la giurisprudenza ha ribadito che il procedimento di rilascio del permesso di costruire e quello di determinazione dei contributi continuano ad avere natura distinta ed autonoma, pur essendo necessaria la determinazione del contributo di costruzione prima del rilascio della concessione edilizia (C.d.S sez. IV, 11.05.2007, n. 2325).
Da ciò consegue che il pagamento può intervenire successivamente, anche a rate, e l’erronea determinazione della somma dovuta per oneri non incide sulla legittimità della concessione edilizia e sul diritto dell’Amministrazione di richiedere eventuali conguagli o sul diritto dell’interessato di chiedere la restituzione di quanto eventualmente pagato in eccesso
(TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 08.06.2011 n. 550 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L’escluso dalla gara di appalto non ha titolo per impugnare il bando.
In capo a chi sia stato escluso da una gara con atto non impugnato, non sussiste un interesse al ricorso avverso gli atti della medesima selezione, neppure nella declinazione mediata dell’interesse strumentale alla rinnovazione della intera gara.

Ritiene il Collegio che, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, in capo a chi sia stato escluso da una gara con atto non impugnato, non sussiste un interesse al ricorso avverso gli atti della medesima selezione, neppure nella declinazione mediata dell’interesse strumentale alla rinnovazione della intera gara.
Tali conclusioni sono conformi, oltre che alla prevalente giurisprudenza amministrativa di epoca più risalente, con la recente sentenza dell’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato 07.04.2011, n. 4 che ha ribadito l’orientamento per cui l’esclusione da una gara d’appalto pone l’ escluso in posizione di fatto non diversa dal non partecipante, perché non fa sorgere il titolo su cui si fonda la legittimazione al ricorso.
Non può essere pertanto condivisa la prospettazione della società appellante, secondo cui attraverso la impugnazione del solo bando la stessa ha titolo per far valere soltanto il suo interesse strumentale alla ripetizione delle operazioni di gara (cioè indipendentemente dal possesso di un idoneo titolo partecipativo). Una posizione legittimante all’impugnazione del bando può sussistere solo in capo a chi abbia titolo a partecipare alla gara.
L’eccezione a questa regola riguarda i requisiti richiesti dalla clausola del bando su cui si appunta l’impugnazione; ma non si configura in capo a chi, come l’odierna appellante, pretenderebbe travolgere l’intera gara per pretesa illegittimità del bando, tralasciando di esser stata definitivamente esclusa dalla gara per difetto di requisiti partecipativi diversi da quelli sui quali si appunta l’impugnazione della lex specialis, ovvero per omissioni nella domanda di partecipazione.
In tali casi è evidente il difetto di legittimazione al ricorso del soggetto escluso (che non contesti la propria esclusione), se si considera il dato di base che il processo amministrativo non è un astratto strumento di ripristino della legalità violata indipendentemente da una posizione che configuri un concreto ed effettivo titolo per agire in giustizia.
Nemmeno rileva che l’odierna società appellante, prevedendo di restare esclusa dalla gara a causa della carenza del requisito di capacità tecnica, abbia prodotto la domanda di partecipazione con riconosciuta superficialità (donde le carenze documentali a base della sua esclusione). A rilevare in senso ostativo è il dato oggettivo della carenza di titolo partecipativo in capo alla ricorrente, a causa della sua esclusione dalla gara per fatti e circostanze rimaste inoppugnate, data la mancata proposizione di specifico gravame (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.06.2011 n. 3422 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Differenze retributive per mansioni superiori nel pubblico impiego.
Nell'assetto normativo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998, n. 387, lo svolgimento da parte dei dipendenti pubblici di mansioni superiori rispetto a quelle proprie della qualifica di inquadramento, pur se protratte nel tempo e conferite con atto formale, non dà luogo al diritto del lavoratore a percepire le differenze retributive ed è giuridicamente irrilevante, salvo che tali effetti derivino da un'espressa previsione normativa e salvo in ogni caso il diritto alle differenze retributive per il periodo successivo all'entrata in vigore della richiamata disposizione.

Secondo un consolidato orientamento, da cui non si ravvisano ragioni per discostarsi, nell'assetto normativo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 15 d.lgs. 29.10.1998, n. 387, lo svolgimento da parte dei dipendenti pubblici di mansioni superiori rispetto a quelle proprie della qualifica di inquadramento, pur se protratte nel tempo e conferite con atto formale, non dà luogo al diritto del lavoratore a percepire le differenze retributive ed è giuridicamente irrilevante, salvo che tali effetti derivino da un'espressa previsione normativa e salvo in ogni caso il diritto alle differenze retributive per il periodo successivo all'entrata in vigore della richiamata disposizione (Cons. Stato, IV, 30.06.2010, n. 4165; IV, 26.03.2010, n. 1775; VI, 05.02.2010, n. 532).
Non vi sono ragioni pertanto per non aderire, anche nel caso in esame, alla consolidata valutazione giurisprudenziale (di recente, in questi sensi, Cons. Stato, VI, 24.01.2011 n. 467) secondo cui gli interessi sottostanti al rapporto tra amministrazione e dipendente pubblico, anche se di natura economica, sono indisponibili e derivano da disposizioni di rango primario, per loro natura non derogabili dalla mera volontà delle parti, e dunque caratterizzate da una stringente corrispondenza tra qualifica del dipendente, assetto organizzativo in cui le mansioni vanno svolte e retribuzione (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 18.11.1999, n. 22, che ha ribadito l'irrilevanza giuridica ed economica dello svolgimento di mansioni superiori nel pubblico impiego, salvo che per espressa previsione normativa; e che il principio di corrispondenza di retribuzione a qualità e quantità del lavoro prestato, di cui all'art. 36 Cost., concorre con altri principi di pari rilevanza, come quello dell'art. 98 Cost., che esclude nel pubblico impiego la riduzione alla logica di scambio, e soprattutto quello dell'art. 97 Cost., vale a dire con i principi di buon andamento e imparzialità dell'amministrazione e - in combinato con l'art. 28 Cost. - di rigida determinazione di competenze, attribuzioni e responsabilità dei funzionari; nonché di esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.06.2011 n. 3417 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Procedimento disciplinare nel pubblico impiego.
La valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento.
Le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all'amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l'infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (l'amministrazione dispone, infatti, di un ampio potere discrezionale nell'apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo).
In sede di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, la valutazione circa la gravità dei fatti commessi ai fini dell'irrogazione di una sanzione disciplinare è estrinsecazione di discrezionalità amministrativa ed in quanto tale è insindacabile dal giudice amministrativo, salvo che in ipotesi di eccesso di potere nelle sue varie articolazioni di natura sintomatica, fra cui l'evidente sproporzionalità della misura disciplinare adottata rispetto alla gravità dei fatti accertati.

Il Collegio rammenta il consolidato orientamento -peraltro ben tenuto presente dal giudice di prime cure e dal quale la Sezione non intende discostarsi- secondo cui “la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare, costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l'evidente sproporzionalità e il travisamento.” (ex multis, si veda Consiglio Stato, sez. IV, 31.05.2007, n. 2830).
La Sezione, in particolare, ha di recente affermato che “le norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi e, pertanto, spetta all'amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l'infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità (l'amministrazione dispone, infatti, di un ampio potere discrezionale nell'apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo)”. (Consiglio Stato, sez. VI, 22.03.2007, n. 1350).
In sede di procedimento disciplinare nei confronti di pubblici dipendenti, la valutazione circa la gravità dei fatti commessi ai fini dell'irrogazione di una sanzione disciplinare è estrinsecazione di discrezionalità amministrativa ed in quanto tale è insindacabile dal giudice amministrativo, salvo che in ipotesi di eccesso di potere nelle sue varie articolazioni di natura sintomatica, fra cui l'evidente sproporzionalità della misura disciplinare adottata rispetto alla gravità dei fatti accertati.” (Consiglio Stato, sez. IV, 16.10.2009, n. 6353) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.06.2011 n. 3414 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTISussistenza dell’onere di immediata impugnazione del bando di gara o della lettera d’invito.
Le clausole del bando o della lettera di invito che onerano l'interessato ad una immediata impugnazione sono quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, in riferimento sia a requisiti soggettivi che a situazioni di fatto, la carenza dei quali determina immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta.

In merito alla sussistenza dell'onere di immediata impugnazione del bando o della lettera d'invito, il Collegio non può che richiamare l'ormai consolidata giurisprudenza, maturata a partire dalla decisione dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 1 del 2003, per la quale, ricollegandosi l'onere di impugnazione ad una lesione immediata, diretta ed attuale e non solo potenziale dell'atto, esso sussiste solo allorquando il bando contenga clausole impeditive dell'ammissione dell'interessato alla selezione.
Di conseguenza, le clausole del bando o della lettera di invito che onerano l'interessato ad una immediata impugnazione sono quelle che prescrivono requisiti di ammissione o di partecipazione alla gara, in riferimento sia a requisiti soggettivi che a situazioni di fatto, la carenza dei quali determina immediatamente l'effetto escludente, configurandosi il successivo atto di esclusione come meramente dichiarativo e ricognitivo di una lesione già prodotta (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.06.2011 n. 3413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D.M. n. 1444/1968 - Forza vincolante - Integrazione del regime delle distanze di cui all’art. 872 c.c. - Previsioni di P.R.G. difformi - Illegittimità - Disapplicazione.
Il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola pertanto anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832).
D.M. n. 1444/1968 - Pareti finestrate - Nozione.
Per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) (Corte d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, 10/10/2008 n. 2565) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1419 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATASostituzione ope legis delle N.T.A di un Comune e nozione di pareti finestrate.
Il TAR Milano, Sez. IV, con sentenza 07.06.2011 n. 1419, in conformità a quanto espresso dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 2749/2011, ha dichiarato l’illegittimità di una concessione edilizia rilasciata sulla base di norme tecniche di attuazione che, trovandosi in contrasto con la previsione contenuta nell’articolo 9 del D.M. 1444/1968 del Comune, dovevano ritenersi sostituite ope legis dalle disposizioni del decreto ministeriale.
La sentenza in commento è stata pronunciata in seguito ad un ricorso con il quale veniva contestata la legittimità di una concessione edilizia che in attuazione delle N.T.A. (Norme tecniche di attuazione) del Comune aveva consentito, in contrasto con le disposizioni contenute nell’articolo 9 del D.M., la costruzione di un’autorimessa ad una distanza di cinque metri dal fabbricato dei ricorrenti.
Sul punto i giudici milanesi hanno chiarito come “La giurisprudenza ha costantemente affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 –emanato in virtù dell’art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall’art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)– ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all’art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l’anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832)”.
Sulla nozione di pareti finestrate i giudici del TAR Milano, richiamando quanto statuito in precedenti sentenze sia dal giudice amministrativo che civile, hanno precisato come con tale definizione si devono intendere non soltanto le pareti munite di “vedute”, ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l’esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche un sola delle due pareti.
In attuazione di tali principi i giudici hanno dunque dichiarato l’illegittimità della concessione, disapplicando le regole poste dalle N.T.A., in quanto contrastanti con la previsione dell’articolo 9 del d.m. 1444/1968 (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DELL’ENERGIA - Utilizzo delle fonti rinnovabili - Pubblico interesse e pubblica utilità - Protocollo di Kyoto.
L'utilizzazione delle fonti di energia rinnovabile è considerata di pubblico interesse e di pubblica utilità, e le opere relative sono dichiarate indifferibili ed urgenti (art. 12, comma 1, del D.Lgs. 387/2003), anche in considerazione del fatto che la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra attraverso la ricerca, la promozione, lo sviluppo e la maggior utilizzazione di fonti energetiche rinnovabili e di tecnologie avanzate e compatibili con l'ambiente costituisce un impegno internazionale assunto dall'Italia con la sottoscrizione del cosiddetto “Protocollo di Kyoto” dell'11.12.1997 (ratificato con legge n. 120 del 2002).
DIRITTO DELL’ENERGIA - Impianti eolici - Attività d’impresa liberalizzata - Autorizzazione unica - Conferenza di servizi - Partecipazione del Comune - Interesse alla corretta localizzazione urbanistica.
La realizzazione e gestione di impianti eolici rientra tra le attività di impresa liberalizzate, che, a scopo di semplificazione burocratica ed in ossequio ai principi comunitari, viene sottoposta, previa conferenza di servizi, ad un’autorizzazione unica, che costituisce anche titolo per la costruzione dell'impianto, e, quindi, è anche sostitutiva del permesso di costruire, poiché il Comune può far valere il proprio interesse, ambientale ed urbanistico, ad una corretta localizzazione urbanistica del parco eolico e alla sua conformità edilizia, nell'ambito della suddetta conferenza di servizi (Cons. Stato, Sez. III par. 14.10.2008 n. 2849).
DIRITTO DELL’ENERGIA - “Moratoria eolica” - Contrarietà ai principi di cui alla dir. 2001/77/CE.
La "moratoria eolica” si pone in contrasto con i principi stabiliti dalla disciplina comunitaria in materia e, in particolare, della già citata Direttiva 27.09.2001, 2001/77/CE, che ha individuato, tra gli obiettivi che gli Stati membri sono chiamati a conseguire, quello di "ridurre gli ostacoli normativi all'aumento della produzione di elettricità da fonti energetiche rinnovabili", quello di "razionalizzare e accelerare le procedure all'opportuno livello amministrativo", quello di "garantire che le norme siano oggettive, trasparenti e non discriminatorie e tengano pienamente conto delle particolarità delle varie tecnologie per le fonti energetiche rinnovabili" nonché con lo spirito di “favor” per gli impianti di tale tipologia, che traspare, da tutta la normativa comunitaria ed internazionale in materia.
DIRITTO DELL’ENERGIA - Procedimento unico ex art. 12 d.lgs. n. 387/2003 - Termine di 180 gg. - Principio fondamentale della materia vincolante per le Regioni.
La previsione di un termine massimo di centottanta giorni per la conclusione del procedimento unico, volto al rilascio di un'autorizzazione unica (delineato dall'art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 387), costituisce un principio fondamentale della materia - in quanto ispirata alle regole della semplificazione e della celerità amministrativa - vincolante per le Regioni nella materia di legislazione concorrente di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, cui è da ascrivere la realizzazione e gestione degli impianti di energia da fonte eolica (cfr. Cons. Stato Sez. VI, 22-02-2010, n. 1020) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 07.06.2011 n. 805 - link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVOROChi ne risponde penalmente se il piano antincendio risulta inefficace?
Il dirigente dell'azienda deve garantire la presenza in sede di personale qualificato, in grado di attuare il piano antincendio per far fronte all'emergenza dovuta al propagarsi di fiamme.

E' quanto stabilito dalla quarta sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza 06.06.2011 n. 22334.
La vicenda esaminata dalla Corte di Cassazione riguarda la morte di tre turisti ospiti di un albergo romano a causa di un incendio provocato da due ospiti dell'hotel cittadine americane. In particolare, le donne avevano svuotato inavvertitamente un posacenere nel cestino portarifiuti e, alla vista delle prime fiamme, erano fuggite senza dare l'allarme.
I responsabili dell'hotel sono stati condannati per non aver predisposto un adeguato piano antincendio e che prevedesse sempre la presenza in hotel di personale addestrato per affrontare l'emergenza.
Tale compito spettava infatti alla direttrice che, in quanto dirigente, era responsabile del coordinamento della squadra antincendio e aveva il dovere di predisporre dei turni per la rotazione di personale qualificato. Il piano di emergenza era stato redatto e prevedeva la costituzione di una squadra di emergenza antincendio composta da 24 persone munite di apposito patentino. Il caposquadra era il direttore dell'albergo e in sua assenza un vice.
Nella notte in cui accaddero i fatti non era in servizio nessun dei componenti della squadra, ma solo il portiere e un facchino. Pertanto, il piano era stato disatteso, impedendo di fronteggiare tempestivamente ed adeguatamente all'incendio.
Pertanto il titolare di una struttura ricettiva è tenuto a garantire sempre l'incolumità fisica degli utenti mediante una idonea organizzazione dell'attività di vigilanza rispettando così oltre alle regole legali anche quelle imposte dalla comune prudenza (commento tratto e link a www.acca.it).

EDILIZIA PRIVATANon vi sono controinteressati cui notificare l’impugnativa di una ordinanza di demolizione.
Nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso. Ciò perché la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.

Ritiene il Collegio di dover innanzitutto richiamare, sotto un profilo generale, il condivisibile avviso giurisprudenziale alla stregua del quale nell’impugnazione di un’ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'Amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Ciò perché la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Va da sé, inoltre, che il riconoscimento di una posizione di controinteressato non opera in relazione ad esigenze processuali, ma deve essere condotto sulla scorta del cosiddetto elemento "sostanziale", cioè sulla base dell’individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente, ovvero del cosiddetto elemento "formale", cioè sulla base della indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione.
Traslando tali principi in materia edilizia -ed in particolare con riguardo a provvedimenti di natura repressiva di illecito edilizio, come quelli di cui si discute- consegue che i proprietari confinanti dell’area nella quale è stato realizzato un manufatto abusivo del quale è stata ordinata la demolizione dall’Autorità competente, quali sono i sigg. Cozzi e Ferrara, non rivestono la posizione giuridica di controinteressati nel giudizio instaurato per l'annullamento del provvedimento demolitorio (cfr. tra le ultime, TAR Molise 12.03.2009, n. 79 e la giurisprudenza ivi richiamata) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 06.06.2011 n. 3380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIL’affidamento del servizio di tesoreria non impone la prestazione della cauzione definitiva.
In questa pronuncia decisa dalla quinta sezione del Consiglio di Stato il ricorrente contesta la sentenza di primo grado nella parte in cui ritiene che l’affidamento del servizio di tesoreria abbia natura di concessione e non di appalto e, di conseguenza, afferma l’insussistenza dell’obbligo di prestare la cauzione definitiva di cui all’art. 75 del D.Lgs 163/2006.
I giudici d’appello, rigettando questa tesi, spiegano che il 2° comma dell’art. 30 del D.Lgs n. 163/2006, nel definire la concessione di servizi, precisa che la stessa si caratterizza per il fatto che “la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio”, pur potendo, essere previsto anche un prezzo “qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell’ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico–finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare”.
Non diversamente, le direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del 2004 definiscono la concessione di servizi come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo”. Alla stregua di quanto sopra, poi, ricordano i giudici di Palazzo Spada, la giurisprudenza di questo Consiglio ha avuto modo di precisare che le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa o provvedi mentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato (cfr. Sez. VI 15.05.2002, n. 2634).
Quando l’operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull’utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione: è la modalità della remunerazione, quindi, il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi. Così, si avrà concessione quando l’operatore si assuma in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza, mentre si avrà appalto quando l’onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull’amministrazione.
E tale assunto, è stato più volte confermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia CE, la quale ha ribadito che si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione (Corte Giustizia CE, Sez. III, 15.10.2009, C–196/08), mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l’operazione rappresenta un appalto di servizi (Corte Giustizia CE, Sez. III, 10.09.2009, C–206/08).
Premesso ciò, non c’è dubbio la gara in commento, secondo i giudici di Palazzo Spada, rientri tra quelle in cui “la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio”, e, per ciò solo, tra le concessioni di servizi, ai sensi dell’art. 30, 2° comma, del D.Lgs 163/2006: infatti, la normativa citata “non significa che il concessionario non può trarre alcuna utilità economicamente apprezzabile dallo svolgimento del servizio (se così fosse, ben difficilmente si troverebbero concorrenti per le gare di tesoreria) ma solo che la gara non deve prevedere un prezzo che remuneri il servizio, a carico della Stazione Appaltante; in altre parole, la concessione di servizi prevede il trasferimento in capo al concessionario della responsabilità della gestione, da intendersi come assunzione del rischio, che dipende direttamente dai proventi che il concessionario può trarre dalla utilizzazione economica de l servizio”.
In questo senso, del resto, si è espressa anche la Corte di Cassazione, con la decisione n. 8113/1909, ove viene precisato che “come reiteratamente affermato da queste Sezioni Unite (sentenze n. 13453/1991, n. 874/1999, n. 9648/2001) il contratto di tesoreria … va qualificato in termini di rapporto concessorio, e non di appalto di servizi … avendo ad oggetto la gestione del servizio di tesoreria comunale implicante, ai sensi del T.U. della Legge Comunale e Provinciale, approvato con R.D. 03.03.1934, n. 383, art. 325, il conferimento di funzioni pubblicistiche quali il maneggio del denaro pubblico e il controllo sulla regolarità dei mandati e prospetti di pagamento, nonché sul rispetto dei limiti degli stanziamenti in bilancio”.
L’affidamento del servizio di tesoreria, pertanto, concludono gli stessi giudici, si sostanzia in una concessione di servizi che, in linea di principio, resta assoggettato alla disciplina del Codice degli Appalti solo nei limiti specificati dall’art. 30 che, per quanto qui interessa, non pone di certo l’obbligo di prestare la cauzione definitiva di cui al successivo art. 75 (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2011 n. 3377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Appalto o concessione di servizi, una questione di rischi.
Il Consiglio di Stato torna nuovamente a chiarire quale sia la differenza esistente tra la concessione e l'appalto di servizi; i giudici amministrativi nell'analizzare una questione prospettata a seguito di un ricorso delineano il quadro di differenziazione che si ritiene utile portare, con il presente commento, all'attenzione dei soggetti che si trovano ad applicare con quotidianità, le disposizioni contenute nel D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. (cd. Codice degli Appalti pubblici).
Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 06.06.2011 n. 3377, torna nuovamente a chiarire, in materia di appalti pubblici, quale sia la differenza esistente tra la concessione e l’appalto di servizi; i giudici amministrativi nell’analizzare una questione prospettata a seguito di un ricorso delineano il quadro di differenziazione che si ritiene utile portare, con il presente commento, all’attenzione dei soggetti che si trovano ad applicare con quotidianità, le disposizioni contenute nel D.Lgs. 163/2006 e s.m.i. (cd. Codice degli Appalti pubblici).
La questione.
La vicenda trae origine a seguito del fatto che un ente locale autorizzava con delibera l’avvio della procedura di gara per l’affidamento del servizio di tesoreria, per il periodo 01.01.2010-31.12.2014; alla gara partecipavano due importanti banche.
A seguito della valutazione dell’offerta presentata, seguendo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’ente locale affidava il servizio di tesoreria in via provvisoria ad una delle due banche.
La banca che non si era aggiudicata il servizio ricorreva al TAR che però respingeva il ricorso.
Avverso la decisione dei giudici amministrativi di primo grado la banca ricorreva al Consiglio di Stato.
L’analisi dei Giudici del Consiglio di Stato.
Per i giudici di Palazzo Spada l’appello della banca è da ritenersi infondato. Tra i diversi gravami proposti dalla banca ricorrente , quello che riveste particolare rilevanza è la differenziazione rilevata in merito all’istituto della concessione e dell’appalto di servizi negli appalti pubblici. In particolare la banca ricorrente censura la sentenza del TAR impugnata, laddove ha ritenuto che l’affidamento del servizio di tesoreria abbia natura di concessione e non di appalto, ed ha di conseguenza affermato l’insussistenza dell’obbligo di prestare la cauzione definitiva di cui all’art. 75 del D. Lgs 163/2006.
Tale affermazione per il Consiglio di Stato non può essere condivisa.
Il comma 2°, dell’art. 30 del D. Lgs n. 163/2006 e s.m.i., nel definire la concessione di servizi, precisa che la stessa si caratterizza per il fatto che “la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio”, pur potendo, essere previsto anche un prezzo “qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell’ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell’equilibrio economico–finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare”.
Le direttive comunitarie n. 17 e n. 18 del 2004 definiscono la concessione di servizi come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo”.
Anche l’orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato, né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente una certa attività in capo al soggetto privato.
Quando l’operatore privato si assume i rischi della gestione del servizio, rifacendosi sostanzialmente sull’utente mediante la riscossione di un qualsiasi tipo di canone, tariffa o diritto, allora si ha concessione: è la modalità della remunerazione, quindi, il tratto distintivo della concessione dall’appalto di servizi. Per i giudici di Palazzo Spada si ha concessione quando l’operatore si assume in concreto i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza, mentre si ha appalto quando l’onere del servizio stesso venga a gravare sostanzialmente sull’amministrazione.
Nel caso in esame è evidente che la gara oggetto del ricorso rientra tra quelle in cui “la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio”, e per ciò solo, tra le concessioni di servizi, ai sensi dell’art. 30, comma 2°, del D.Lgs 163/2006.
Conclusioni.
Per i giudici del Consiglio di Stato l’affidamento del servizio di tesoreria si sostanzia in una concessione di servizi che, in linea di principio, resta assoggettato alla disciplina del Codice degli Appalti solo nei limiti specificati dall’art. 30 che, per quanto qui interessa, non pone di certo l’obbligo di prestare la cauzione definitiva di cui al successivo art. 75 del citato D.Lgs. 163/2006 (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAutenticazione della firma digitale nella gara di appalto.
Come ha correttamente rilevato il Tar, dalla legge di gara, e segnatamente dal punto 8 del disciplinare, che elenca le cause di esclusione, si evince che è causa di esclusione l’ipotesi di “cauzione provvisoria non presentata con le modalità di cui all’articolo 2 punto 5 del presente disciplinare, ed in particolare non autenticata con firma digitale da Notaio o da Pubblico Ufficiale”.
Ora, se è vero, in astratto, che nel caso di specie la cauzione recava firma digitale autenticata, è anche vero che, in concreto, l’autenticazione della firma digitale non è pervenuta alla stazione appaltante entro il termine perentorio per la presentazione della domanda di partecipazione e dell’offerta.
Ai fini della gara, rileva pertanto che agli atti di gara vi era una firma digitale non autenticata, che integra la citata causa di esclusione, restando irrilevante il fatto storico che la firma era stata autenticata e l’autentica non trasmessa
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINon è consentita la produzione, dopo la scadenza dei termini fissati dal bando, di documenti essenziali, richiesti a pena di esclusione: la stazione appaltante non può formulare una richiesta di integrazione documentale, qualora si tratti di documenti univocamente previsti dal bando o dalla lettera d’invito a pena di esclusione.
Ai sensi dell’art. 46, codice appalti, la stazione appaltante invita i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto di certificati, documenti e dichiarazioni.
La norma contempla il c.d. potere di soccorso della stazione appaltante, che si articola in una duplice possibilità che può essere accordata ai concorrenti:
- il completamento della documentazione;
- il chiarimento in ordine al contenuto della documentazione già presentata.
La norma è considerata di stretta interpretazione quanto all’ambito dell’integrazione documentale, in quanto, pur essendo essa ispirata al principio della massima partecipazione, tale principio va coordinato con quello di par condicio tra i concorrenti e con le esigenze di celerità dell’azione amministrativa.
Pertanto non è consentita la produzione, dopo la scadenza dei termini fissati dal bando, di documenti essenziali, richiesti a pena di esclusione: la stazione appaltante non può formulare una richiesta di integrazione documentale, qualora si tratti di documenti univocamente previsti dal bando o dalla lettera d’invito a pena di esclusione [Cons. St., sez. III, 19.04.2011 n. 2387; Cons. St., sez. V, 02.08.2010 n. 5084; Cons. St., sez. V, 16.07.2007 n. 4027; Cons. St., sez. IV, 10.05.2007 n. 2254; Cons. St., sez. V, 30.05.2006 n. 3280]
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAvuto riguardo allo scopo dell’autenticazione della firma, ad avviso del Collegio è proporzionato richiedere, in una gara di appalto, la piena prova della provenienza della cauzione da parte del sottoscrittore, e dunque l’autenticazione della firma, perché la cauzione è azionabile a prima richiesta da parte della stazione appaltante, sicché questa ha interesse a non vedersi opporre il disconoscimento della sottoscrizione.
La previsione del requisito dell’autentica della sottoscrizione della cauzione, da parte della lex specialis di gara, non viola, pertanto, il principio di proporzionalità recato dall’art. 74, co. 5, codice appalti.
Questo Consesso si è già pronunciato nei medesimi termini in analoga vicenda, relativa a prescrizione del bando di gara di pubblico appalto che prevedeva l’autentica notarile della sottoscrizione della fideiussione, statuendo che costituisce interesse pubblico l’esatta individuazione del soggetto che presta la garanzia a corredo dell’offerta; sul piano dei rapporti di diritto privato, solo l’autenticazione della sottoscrizione della fideiussione prestata garantisce pienamente l’amministrazione perché determina la piena prova in ordine alla provenienza da chi l’ha sottoscritta, ai sensi degli artt. 2702 e 2703 c.c., impedendo il successivo disconoscimento della stessa.
La clausola del disciplinare che richieda l’autentica della sottoscrizione del soggetto rilasciante la polizza fideiussoria non può in alcun modo ritenersi un mero aggravamento procedimentale ma deve ritenersi legittima perché finalizzata alla tutela dell'interesse pubblico alla certezza sulla provenienza della garanzia.

Con il terzo motivo di appello si ribadisce la censura di illegittimità del bando e del capitolato, che prevedono un requisito, l’autentica di firma, non previsto dall’art. 75 codice appalti, così aggravando il procedimento in modo irragionevole. L’autentica sarebbe irragionevolmente prescritta solo per la polizza assicurativa e non anche per la fideiussione rilasciata da banca o altro intermediario finanziario autorizzato.
Il mezzo è infondato.
Giova anzitutto rilevare che dalla lettura del bando e del capitolato si evince con chiarezza che l’autenticazione della firma digitale è richiesto per qualsivoglia tipo di cauzione provvisoria, sia essa fideiussione bancaria o polizza assicurativa.
Non vi è pertanto la lamentata irragionevole disparità di trattamento tra i diversi tipi di cauzione.
Quanto poi al dedotto contrasto della legge di gara con l’art. 75 codice appalti, lo stesso, ad avviso del Collegio, non sussiste.
E’ vero che l’art. 75, codice appalti, non prescrive, formalmente, l’autenticazione della sottoscrizione apposta alla cauzione.
Ma, a ben vedere, l’art. 75 nemmeno si occupa della sottoscrizione della cauzione.
E’ evidente che la disciplina trova necessario completamento nella disciplina apprestata dall’ordinamento in ordine alla sottoscrizione di atti e dichiarazioni diretti ad una pubblica amministrazione.
Ai sensi dell’art. 38, co. 2 e 3, d.P.R. n. 445/2000, nel testo vigente ratione temporis: “2. Le istanze e le dichiarazioni inviate per via telematica sono valide:
a) se sottoscritte mediante la firma digitale, basata su di un certificato qualificato, rilasciato da un certificatore accreditato, e generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura;
b) ovvero quando l'autore è identificato dal sistema informatico con l'uso della carta d'identità elettronica o della carta nazionale dei servizi.
3. Le istanze e le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre agli organi della amministrazione pubblica o ai gestori o esercenti di pubblici servizi sono sottoscritte dall'interessato in presenza del dipendente addetto ovvero sottoscritte e presentate unitamente a copia fotostatica non autenticata di un documento di identità del sottoscrittore. La copia fotostatica del documento è inserita nel fascicolo. Le istanze e la copia fotostatica del documento di identità possono essere inviate per via telematica; nei procedimenti di aggiudicazione di contratti pubblici, detta facoltà è consentita nei limiti stabiliti dal regolamento di cui all'articolo 15, comma 2 della legge 15.03.1997, n. 59 (oggi art. 25, d.lgs. n. 82/2005)
”.
Mentre il co. 2 si occupa di istanze e dichiarazioni inviate per via telematica, il co. 2 si occupa di istanze e dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà da produrre alla p.a. nelle gare di appalto.
Nel caso di specie, la dichiarazione del garante, non è né una istanza, né una dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Va ascritta al genus delle “dichiarazioni” che sono valide, se inviate per via telematica, se sottoscritte mediante firma digitale (art. 38, co. 2, d.P.R. n. 445/2000, nel testo vigente ratione temporis, nonché, attualmente, art. 65, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 82/2005).
Non si richiede, invece, anche che la firma digitale sia autenticata.
L’autenticazione della firma digitale era invece prescritta per le istanze dirette alla p.a. per via telematica nei pubblici appalti, e dunque per la domanda di partecipazione e per l’offerta, come si desume dall’art. 38, co. 3, d.P.R. n. 445/2000, che rinvia al regolamento di cui all’art. 15, co. 2, l. n. 59/1997, regolamento oggi sostituito, in parte qua, dall’art. 25, d.lgs. n. 82/2005.
Tuttavia, rispetto all’art. 38, d.P.R. n. 445/2000, il codice appalti si pone come legge successiva e specifica, e tale codice:
a) quanto alle offerte trasmesse per via telematica, richiede soltanto la firma digitale, non anche la firma digitale autenticata (art. 77, co. 6, lett. b), codice appalti);
b) quanto alle cauzioni, non si occupa di sottoscrizione e sua autenticazione.
D’altro canto, il d.lgs. n. 82/2005, nell’occuparsi di firma elettronica, firma digitale, firma elettronica autenticata, ne indica le caratteristiche tecniche, ma non anche i presupposti di utilizzo.
Si deve allora pervenire ad una prima conclusione, ed è che in base alle norme primarie, per le istanze e dichiarazioni rese nelle gare di appalto, è sufficiente la firma digitale, non occorrendo anche la firma digitale autenticata.
Si pone allora l’ulteriore questione se la prescrizione imposta autonomamente dal bando, rispetto alla legge, della firma digitale autenticata, sia o meno legittima alla luce del principio di proporzionalità.
Sulla scorta della normativa applicabile al caso di specie ratione temporis, svoltosi prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 70/2011 che ha introdotto il principio di tassatività normativa delle cause di esclusione dalle gare di appalto (art. 4, co. 1, lett. n), d.l. n. 70/2011 e art. 46, co. 1-bis, codice appalti, come novellato dall’art. 4, co. 2, d.l. n. 70/2011), si deve ritenere che le cause di esclusione dalle gare di appalto non sono collegabili solo all’inosservanza di prescrizioni direttamente previste dalla legge o dal regolamento.
Infatti l’art. 74, co. 5, codice appalti, dispone che le stazioni appaltanti, oltre agli elementi essenziali di cui all’art. 74, co. 2, richiedono anche gli altri elementi e documenti necessari o utili, nel rispetto del principio di proporzionalità in relazione all’oggetto del contratto e alle finalità dell’offerta.
Si tratta allora di stabilire se la prescrizione dell’autenticazione sia o meno proporzionata.
Lo scopo dell’autenticazione della firma digitale è di conferire alla sottoscrizione digitale della scrittura privata il valore giuridico di sottoscrizione legalmente considerata come riconosciuta, valore giuridico che per legge è attribuito alla sottoscrizione autenticata (artt. 2702 e 2703 c.c.).
Tanto, al fine della piena prova, fino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi ha sottoscritto la scrittura privata, piena prova che si ha se colui contro cui è prodotta la scrittura privata ne riconosce la sottoscrizione o se la sottoscrizione è legalmente considerata come riconosciuta (art. 2702 c.c.).
E, invero, ai sensi dell’art. 25, co. 1, d.lgs. n. 82/2005, si ha per riconosciuta, ai sensi dell'articolo 2703 del codice civile, la firma elettronica o qualsiasi altro tipo di firma avanzata autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato.
L’autenticazione della sottoscrizione attribuisce certezza alla provenienza della dichiarazione e ne impedisce il disconoscimento da parte del suo autore.
Avuto riguardo allo scopo dell’autenticazione della firma, ad avviso del Collegio è proporzionato richiedere, in una gara di appalto, la piena prova della provenienza della cauzione da parte del sottoscrittore, e dunque l’autenticazione della firma, perché la cauzione è azionabile a prima richiesta da parte della stazione appaltante, sicché questa ha interesse a non vedersi opporre il disconoscimento della sottoscrizione.
La previsione del requisito dell’autentica della sottoscrizione della cauzione, da parte della lex specialis di gara, non viola, pertanto, il principio di proporzionalità recato dall’art. 74, co. 5, codice appalti.
Questo Consesso si è già pronunciato nei medesimi termini in analoga vicenda, relativa a prescrizione del bando di gara di pubblico appalto che prevedeva l’autentica notarile della sottoscrizione della fideiussione, statuendo che costituisce interesse pubblico l’esatta individuazione del soggetto che presta la garanzia a corredo dell’offerta; sul piano dei rapporti di diritto privato, solo l’autenticazione della sottoscrizione della fideiussione prestata garantisce pienamente l’amministrazione perché determina la piena prova in ordine alla provenienza da chi l’ha sottoscritta, ai sensi degli artt. 2702 e 2703 c.c., impedendo il successivo disconoscimento della stessa [Cons. St., sez. III, 19.04.2011 n. 2387].
Sempre secondo l’appena citato precedente, la clausola del disciplinare che richieda l’autentica della sottoscrizione del soggetto rilasciante la polizza fideiussoria non può in alcun modo ritenersi un mero aggravamento procedimentale ma deve ritenersi legittima perché finalizzata alla tutela dell'interesse pubblico alla certezza sulla provenienza della garanzia
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3365 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La violazione degli obblighi di pubblicazione e comunicazione relativi al risultato della procedura di aggiudicazione, non determina l'illegittimità delle pregresse fasi procedimentali di scelta del contraente.
La violazione degli obblighi di pubblicazione e comunicazione dell'avviso riguardante il risultato della procedura di aggiudicazione, secondo quanto stabilito dall'art. 65 del d.lgs. n. 163/2006, non determina l'illegittimità delle pregresse fasi procedimentali di scelta del contraente e non coinvolge, quindi, le situazioni soggettive di un'impresa ricorrente agli effetti di un diverso esito della gara, ciò in base al principio che eventuali vizi della fase di comunicazione e di integrazione dell'efficacia del provvedimento non esplicano effetto invalidante del contenuto del provvedimento medesimo.
Ciò in quanto, in materia di appalti per la fornitura del servizio di contenuti per televideo, come nel caso di specie, resta esclusa l'applicazione delle norme dettate dal codice degli appalti, salvo il rispetto, secondo quanto stabilito dall'art. 27 del d.lgs. n. 163/2006, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, proporzionalità, nonché dell' obbligo di invito ad almeno cinque concorrenti.
Pertanto, la procedura di affidamento non deve essere pedissequamente conformata alle fasi procedimentali quali stabilite e cadenzate dall'art. 11 del medesimo decreto e, segnatamente, alla distinzione sul piano formale ivi prevista fra le fasi di aggiudicazione provvisoria e di aggiudicazione definitiva (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3357 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATAOpere abusive, demolizione senza motivazioni solenni.
Presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo ''in re ipsa'' l'interesse pubblico alla sua rimozione.
In caso di abuso edilizio “l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione; l'abusività costituisce di per sé motivazione sufficiente per l'adozione della misura repressiva in argomento. Ne consegue che, in presenza di un'opera abusiva, l'autorità amministrativa è tenuta ad intervenire affinché sia ripristinato lo stato dei luoghi, non sussistendo alcuna discrezionalità dell'amministrazione in relazione al provvedere” (TAR Lazio Roma, sez. I, 19.07.2006, n. 6021).
Infatti “l'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi” (TAR Marche Ancona, sez. I, 12.10.2006, n. 824) ed, ancora, “presupposto per l'emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive è soltanto la constatata esecuzione di queste ultime in assenza o in totale difformità del titolo concessorio, con la conseguenza che, essendo l'ordinanza atto dovuto, essa è sufficientemente motivata con l'accertamento dell'abuso, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla sua rimozione e sussistendo l'eventuale obbligo di motivazione al riguardo solo se l'ordinanza stessa intervenga a distanza di tempo dall'ultimazione dell'opera avendo l'inerzia dell'amministrazione creato un qualche affidamento nel privato” (Consiglio di Stato, sez. V, 29.05.2006 n. 3270).
Quanto all’avvenuta presentazione ad opera dell’istante di un’istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 D.P.R. 380/2001 (in data 30.12.2009), essa non dispiega efficacia alcuna in punto di legittimità dell’atto impugnato, emanato anteriormente.
Peraltro, la difesa di parte istante non ha dedotto di aver provveduto alla tempestiva impugnazione del provvedimento di diniego, espresso o tacito, della richiesta sanatoria, né ha allegato l’avvenuto rilascio del titolo in sanatoria che, all’opposto, avrebbe determinato l’improcedibilità del presente gravame per sopravvenuta carenza di interesse (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 03.06.2011 n. 2961 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Vietato diffondere il ''cellulare'' altrui.
Commette il reato di cui all'articolo 167 del T.U. della privacy chi diffonda indebitamente il numero di utenza cellulare altrui.

Con un'interessante decisione, la Corte di Cassazione adotta un'interpretazione estensiva della disciplina di tutela della privacy, giustamente estesa, dal punto di vista sanzionatorio, a tutti coloro i quali apprendano e indebitamente diffondano dati sensibili altrui, violandone così le esigenze di riservatezza.
La Corte ha infatti affermato che “chiunque”, quindi anche un soggetto privato in sé considerato, e non solo chi svolga un compito “istituzionale” di depositario della tenuta dei “dati sensibili” e delle loro modalità di utilizzazione all’esterno, può essere chiamato a rispondere del reato di cui all’articolo 167 del decreto legislativo 30.06.2003 n. 196, se ed in quanto dia indebita diffusione di un “dato sensibile” appartenente ad altro soggetto.
Infatti, si è osservato, il divieto di diffusione di dati sensibili altrui riguarda tutti indistintamente i soggetti entrati in possesso dei dati, i quali sono tenuti a rispettare sacralmente la privacy altrui, al fine di assicurare un corretto trattamento di quei dati senza arbitrii o pericolose intrusioni.
Sul punto, il giudice di legittimità ha così precisato che il concetto di “trattamento” preso in considerazione dalla norma incriminatrice, alla luce di quanto dettagliato nell’articolo 4 dello stesso decreto legislativo n. 196 del 2003, va inteso in senso ampio, estendendosi non solo alla raccolta dei dati sensibili, ma anche e soprattutto alla loro diffusione indebita senza il consenso dell’interessato, essendo in proposito irrilevante che tali dati siano stati acquisiti casualmente o no.
Proprio da queste premesse, nella specie, il reato di cui all’articolo 167 citato è stato ravvisato nei confronti di un soggetto che, avendo appreso il numero dell’utenza cellulare personale, quindi un “dato sensibile”, di altro soggetto con cui stava dialogando on-line, l’aveva poi indebitamente diffuso attraverso una chat line pubblica, compromettendo le esigenze di riservatezza del dato che la norma incriminatrice intende salvaguardare.
La Corte, a supporto della propria decisone, ha anche apprezzato che la condotta incriminata rientrava nel paradigma del reato di cui all’articolo 167, in quanto produttiva di danno, elemento infatti preso in considerazione dal legislatore che lo ricollega all’elemento soggettivo del reato inteso quale dolo specifico (“al fine di recare ad altri un danno”): ciò che doveva ravvisarsi nella diffusione in ambito generalizzato di un numero di un’utenza cellulare personale, per sua intrinseca natura riservato, giacché solitamente negli elenchi telefonici pubblici diffusi dalle società telefoniche figura solo il numero telefonico pubblicabile e mai quello di un’utenza cellulare a meno che il suo titolare non vi abbia consentito.
In termini, v. anche Cassazione, Sezione III, 23.10.2008, M., che ha ritenuto di far rientrare tra i dati personali la cui indebita diffusione è sanzionata dall’articolo 167 del decreto legislativo n. 196 del 2003 anche il numero dell’apparecchio cellulare: cosicché, nella fattispecie, l’indebita diffusione è stata ravvisata a carico di un soggetto che aveva diffuso l’utenza cellulare della persona offesa aprendo una casella di posta elettronica sia pure con indirizzo di fantasia (commento tratto da www.ipsoa.it - Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 01.06.2011 n. 21839).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO DELL’ENERGIA - Autorizzazione ex art. 12 d.lgs. n. 387/2003 - Conferenza di servizi - Mancata partecipazione della Soprintendenza - Provvedimento negativo in ordine alla compatibilità paesaggistica assunto al di fuori della conferenza - Illegittimità - Artt. 14-ter, c. 3-bis e 14-quater L. n. 241/1990.
La mancata partecipazione della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici alla conferenza di servizi convocata per l’esame dell’istanza di rilascio dell’autorizzazione unica ex art. 12 d.lgs. n. 387/2003 è circostanza di per sé sufficiente ad inficiare la legittimità del provvedimento negativo reso -al di fuori della conferenza- dall’organo statale periferico in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera proposta (cfr. TAR Molise nn. 98/2011 e 109/2011, TAR Sicilia Palermo, I, 02.02.2010, n. 1297 e 20.01.2010, n. 578, nonché C.G.A.R.S. ordinanza 14.10.2009, n. 1032 e 11.04.2008, n. 295).
Tale considerazione è avvalorata dal contenuto degli articoli 14-ter, comma 3-bis, e 14-quater, primo comma, della legge n. 241 del 1990 nel testo risultante dalle modifiche introdotte con il Decreto Legge n. 78 del 31.05.2010 (TAR Molise, Sez. I, sentenza 01.06.2011 n. 314 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di una veranda con conseguente aumento di volumetria - Ristrutturazione edilizia.
La realizzazione di una veranda cui consegua un aumento di volumetria deve essere qualificata, ai sensi dell'art. 3 del d.P.R. n. 380 del 2001, come ristrutturazione edilizia in quanto essa comporta, in conseguenza dell'aumento di volumetria correlata, la realizzazione di un organismo diverso dal precedente per struttura e destinazione (TAR Lazio Roma, sez. I, 01.09.2010, n. 32098) (TAR Molise, Sez. I, sentenza 01.06.2011 n. 310 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Ordine di rimozione - Proprietario del fondo - Responsabilità oggettiva - Esclusione - Dimostrazione dell’imputabilità soggettiva della condotta - Istruttoria - Art. 192 d.lgs. n. 152/2006.
L’ordine di rimozione dei rifiuti presenti sul fondo può essere rivolto al proprietario (o al titolare di diritti reali o personali di godimento) solo quando ne sia dimostrata almeno la corresponsabilità con gli autori dell’illecito, per avere cioè posto in essere un comportamento, omissivo o commissivo, a titolo doloso o colposo, dovendosi escludere che la norma configuri un’ipotesi legale di responsabilità oggettiva, con conseguente illegittimità degli ordini di smaltimento dei rifiuti indiscriminatamente rivolti al proprietario di un fondo in ragione della sua mera qualità ma in mancanza di adeguata dimostrazione da parte dell’amministrazione procedente, sulla base di un’istruttoria completa e di un’esauriente motivazione, dell’imputabilità soggettiva della condotta (Cons. Stato, V, 25.01.2005, n. 136).
Tale orientamento è stato confermato anche con riferimento al disposto di cui all’art. 192 del d. lgs. 152/2006 (cfr. Cons. Stato, V, 25.08.2008, n. 4061 e Cons. Stato, V, 19.03.2009, n. 1612).
RIFIUTI - Ordine di rimozione - Preventiva comunicazione - Necessità - Art. 192 d.lgs. n. 152/2006.
La cogenza del principio di necessaria preventiva comunicazione di avvio del procedimento è ribadita dal disposto di cui all’art. 192 del d. lgs. 152/2006, che condiziona la perseguibilità del proprietario e dei titolari di diritti reali o personali di godimento sull’area, alla verifica della imputabilità della condotta a titolo di “dolo o colpa in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo” (Cons. Stato, Sez. V, n. 4061/2008) (TAR Molise, Sez. I, sentenza 01.06.2011 n. 302 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: La condotta biasimevole ma isolata del datore non configura il mobbing.
Il mobbing si realizza quando è riconoscibile una azione aggressiva cosciente e volontaria, protratta nel tempo, finalizzata a mettere uno o più lavoratori in una condizione di forte disagio col fine dell’espulsione dal contesto lavorativo o della sottomissione al potere direttivo. Occorre pertanto che la condotta del datore di lavoro si concretizzi in sistematici e reiterati comportamenti ostili da cui può derivare l’effetto lesivo dell’equilibrio psico-fisico del lavoratore.
Con la sentenza 31.05.2011 n. 12048 Corte di Cassazione, Sez. lavoro, ha escluso che possano essere ricondotti ad una azione di mobbing alcuni episodi, comunque marginali ed isolati, riconducibili ad un comportamento scorretto del datore di lavoro ma non connotati da un carattere persecutorio nei confronti del dipendente.
Questi i fatti.
La lavoratrice denuncia un comportamento del datore di lavoro lesivo della sua dignità e decoro personale (lancio dello stipendio sul tavolo, consegna della retribuzione sotto forma di monetine) sostenendo che questi fatti rientrano nella fattispecie di mobbing pur in difetto di un disegno persecutorio finalizzato a espellere il dipendente e chiede, quindi la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno biologico, del danno alla vita di relazione e del danno morale.
La richiesta è stata respinta sia dal Tribunale -che ha ritenuto non fosse emersa la prova del comportamento persecutorio- sia dalla Corte di Appello che ha confermato la sentenza di primo grado. Avverso tali decisioni la lavoratrice ha presentato ricorso in Cassazione lamentando una omessa valutazione degli episodi posti a fondamento della domanda e la falsa applicazione dell’articolo 2087 del codice civile.
In particolare, la ricorrente ha posto il quesito di diritto teso a conoscere se possa riconoscersi la violazione della personalità morale del lavoratore in conseguenza di uno o più atti lesivi della dignità e del decoro professionale del lavoratore stesso, anche in mancanza di un disegno persecutorio finalizzato ad espellere il dipendente.
La decisione della Suprema corte.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 12048/2011 in esame, ritiene il ricorso infondato. Ribadisce la Corte che per mobbing si intende “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e del complesso della sua personalità”.
Già con la sentenza n. 3785/2009 la Cassazione ha sancito che ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono da ritenere rilevanti i seguenti elementi:
a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche liciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Non c'è una responsabilità oggettiva del datore.
Con la stessa sentenza, la Suprema Corte ha altresì affermato che l’articolo 2087 del codice civile non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, con la conseguenza di ritenerlo responsabile ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno nell'esecuzione della prestazione lavorativa, occorrendo invece che l'evento sia pur sempre riferibile a sua colpa, per violazione di obblighi di comportamento, concretamente individuati, imposti da norme di legge e di regolamento o contrattuali ovvero suggeriti dalla tecnica e dall'esperienza, il cui accertamento costituisce un giudizio di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se logicamente e congruamente motivato.
Con riferimento ai fatti in causa, pertanto, ritiene la Corte di cassazione che la Corte territoriale abbia correttamente considerato l’insieme dei comportamenti datoriali, dedotti dalla ricorrente come lesivi, escludendone ogni intento persecutorio. La valutazione di fatto di tali comportamenti è devoluta al giudice di merito, in quanto tale non censurabile quando sia adeguatamente motivata e non appaia, nelle sue risultante contradditoria.
Il giudice di legittimità non può riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, bensì egli deve controllare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Nel caso specifico, detto giudice, valutate tutte le circostanza rappresentate in giudizio ha ritenuto potersi escludere che fosse stata raggiunta la prova di un atteggiamento emarginante, discriminatorio o persecutorio nei confronti della lavoratrice, tale da raffigurare la fattispecie del mobbing (commento tratto e link a
www.diritto24.ilsole24ore.com).

ESPROPRIAZIONEOccupazione appropriativa, la P.A. restituisca!
Nel caso in cui le condizioni di fatto riscontrate deponessero nel senso di un sopraggiunto difetto di interesse della PA a perseguire l’obiettivo originariamente considerato meritevole di soddisfacimento, non vi sarebbe alcun motivo ostativo all’accoglimento della domanda di restituzione del terreno occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, domanda basata sulla richiesta di applicazione delle disposizioni vigenti in tema di risarcimento del danno.

Il Tribunale Superiore delle Acque, pur senza entrare in specifici dettagli circa la cronologia degli eventi, ha affermato, come dato certo, che le opere in questione non erano ancora terminate, né erano all’epoca della decisione destinate al pubblico interesse per cui furono predisposte e progettate ma ha tuttavia ritenuto del tutto irrilevante tale aspetto, e ciò in ragione dell’avvenuta irreversibile trasformazione di parte delle aree legittimamente occupate, attestata sia dal consulente tecnico di ufficio che dal consulente di parte.
Orbene non è dubbio che, alla luce dei consolidati principi vigenti in materia, l’affermata irreversibile (parziale) trasformazione del fondo abbia determinato l’acquisto della proprietà del bene nei limiti della parte trasformata) da parte della Pubblica Amministrazione che aveva dato corso al processo espropriativo.
Peraltro da detta premessa non discende automaticamente (come ha viceversa ritenuto il Tribunale Superiore delle Acque) il rigetto della domanda restitutoria a suo tempo formulata dalla ricorrente.
Ed infatti la ricorrente, invocando la restituzione del bene oggetto del procedimento espropriativo, ha sostanzialmente esercitato, nella sua qualità di danneggiato, la richiesta di reintegrazione in forma specifica del pregiudizio subito, con ciò esercitando il diritto riconosciuto dall’art. 2058, primo comma, c.c.
E’ ben vero che in tali ipotesi (quelle cioè in cui, a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, sia intervenuta l’irreversibile trasformazione del fonda) l’eventuale domanda di risarcimento in forma specifica formulata dal proprietario del terreno interessato è ordinariamente destinata ad un esito negativo, dovendo trovare prioritario soddisfacimento l’interesse posto a base della realizzazione dell’opera pubblica.
Tuttavia nel caso in cui (come viene rappresentato in quello oggetto di esame) le condizioni di fatto riscontrate deponessero nel senso di un sopraggiunto difetto di interesse della Pubblica Amministrazione a perseguire l’obiettivo originariamente considerato meritevole di soddisfacimento, non vi sarebbe alcun motivo ostativo all’accoglimento della domanda di restituzione del terreno occupato a seguito di dichiarazione di pubblica utilità, domanda come detto basata sulla richiesta di applicazione delle disposizioni vigenti in tema di risarcimento del danno.
D’altra parte tale conclusione (quella cioè della necessità di una verifica in ordine al collegamento effettivo fra i lavori di trasformazione compiuti e la realizzazione dell’opera programmata) risulta in sintonia con principi già affermati dal legislatore in tema di espropriazione e dalla giurisprudenza di questa Corte.
In tema di retrocessione, infatti, è stato previsto che, una volta trascorso il termine per l’esecuzione dell’opera pubblica, gli espropriati possono richiedere la decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e la condanna dell’espropriante alla restituzione dei beni precedentemente acquisiti (art. 63 l. 2359/1865 è stato analogamente previsto identico diritto dell’espropriato nel caso in cui il fondo non abbia dell’espropriato nei caso in cui il fondo non abbia ricevuto (sia pure in parte) la destinazione impressa nel progetto originario (artt. 60 e 61 l. 2359/1865); anche con più recente normativa è stato riconosciuto all’espropriato il diritto di chiedere la decadenza dalla dichiarazione di pubblica utilità e la restituzione del fondo nel caso di mancata realizzazione dell’opera nel termine di dieci anni dall’esecuzione dell’espropriazione (art. 46 D.P.R. 08.06.2001, n. 327).
E pure la giurisprudenza di questa Corte, come detto, si è costantemente espressa nel senso ora indicato, ribadendo inoltre, con recente decisione in tema di elementi ostativi alla restituzione dei terreni oggetto di espropriazione al proprietario, ove non risultante la loro conformazione alla programmazione originaria dell’opera.
Conclusivamente, devono essere accolti il quarto ed il quinto motivo dì ricorso con assorbimento degli altri, la sentenza impugnata va conseguentemente cassata, con rinvio al Tribunale Superiore delle Acque pubbliche diversa composizione, per una nuova delibazione in ordine all’istanza di restituzione del terreno oggetto di giudizio proposta dalla ricorrente, sulla base del principio secondo cui il sollecitato riconoscimento del relativo diritto può essere negato quando, oltre all’accertata irreversibilità della trasformazione delle aree occupate, risulti la permanenza e l’attualità dell’interesse della Pubblica Amministrazione alla realizzazione e alla utilizzazione delle opere programmate (commento tratto da www.ipsoa.it - Sentenza Corte di Cassazione, civile, sentenza 31.05.2011 n. 11963).

URBANISTICAAll'interno delle convenzioni di urbanizzazione prevale il profilo della libera negoziazione. Sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all'incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile.
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, all'interno delle convenzioni di urbanizzazione prevale il profilo della libera negoziazione. Infatti, si è affermato che, sebbene sia innegabile che la convenzione di lottizzazione, a causa dei profili di stampo giuspubblicistico che si accompagnano allo strumento dichiaratamente contrattuale, rappresenti un istituto di complessa ricostruzione, non può negarsi che in questo si assista all'incontro di volontà delle parti contraenti nell'esercizio dell'autonomia negoziale retta dal codice civile (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 01.04.2011, n. 2040; Consiglio di Stato, sez. IV, 28.07.2005, n. 4015; Consiglio di Stato, sez. V, 10.01.2003, n. 33).
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La società ricorrente fa riferimento al disposto dell'art. 1379 c.c. che limita gli effetti del divieto di alienare stabilito con contratto, prevedendo che tale divieto ha effetto solo tra le parti e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde ad un apprezzabile interesse di una delle parti.
Circa la portata di tale norma è stato osservato che, con riguardo alle condizioni di validità -limite temporale di durata e rispondenza ad apprezzabile interesse di una parte- del divieto convenzionale di alienare, la stessa si applica, essendo espressione di un principio di portata generale, anche a pattuizioni che, come quelle contenenti un vincolo di destinazione, se pur non puntualmente riconducibili al paradigma del divieto di alienazione, comportino comunque limitazioni altrettanto incisive del diritto di proprietà (cfr. Cass. Civ. civ., sez. II, 17.11.1999, n. 12769; Cass. Sez. I, 11.04.1990 n. 3082).
Pertanto, ad avviso del Collegio, non vi è dubbio che tale disposizione avrebbe potuto essere, in linea di principio, applicata al caso di specie, ma nondimeno ritiene che non ne ricorrano i presupposti
(TAR Veneto, Sez. II, sentenza 31.05.2011 n. 920 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'intervenuta inefficacia di un pregresso vincolo urbanistico di destinazione a pubblico servizio di una determinata area prevista da un piano particolareggiato, comporta la restituzione della stessa alla precedente destinazione urbanistica recata dal P.R.G.; mentre nel caso in cui il vincolo a contenuto espropriativo sia previsto direttamente dal Piano regolatore, la mancata attuazione dello stesso nel termine di cinque anni dalla sua approvazione, comporta la successiva qualificazione dell'area vincolata come zona bianca, soggetta alla disciplina stabilita dell'art. 4, ultimo comma, della legge n. 10/1977, sino all'adozione di nuove prescrizioni di zona da parte dell'Amministrazione comunale.
Ritiene il Collegio, in adesione all'orientamento della giurisprudenza amministrativa, che l'intervenuta inefficacia di un pregresso vincolo urbanistico di destinazione a pubblico servizio di una determinata area prevista da un piano particolareggiato, comporta la restituzione della stessa alla precedente destinazione urbanistica recata dal P.R.G.; mentre nel caso in cui il vincolo a contenuto espropriativo sia previsto direttamente dal Piano regolatore, la mancata attuazione dello stesso nel termine di cinque anni dalla sua approvazione, comporta la successiva qualificazione dell'area vincolata come zona bianca, soggetta alla disciplina stabilita dell'art. 4, ultimo comma, della legge n. 10/1977, sino all'adozione di nuove prescrizioni di zona da parte dell'Amministrazione comunale (cfr. TAR Marche, 17.01.2008, n. 8; TAR Calabria, Catanzaro, 02.03.2004, n. 517; TAR Lazio, Roma, II, 11.09.2000, n. 7000) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 31.05.2011 n. 919 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Commissione di gara - Valutazione delle offerte - Attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica - Condizioni.
Con riferimento alle gare d’appalto, nella fase di valutazione delle offerte da parte di una commissione di gara, l'attribuzione dei punteggi in forma soltanto numerica è consentita quando il numero delle sottovoci, con i relativi punteggi, entro le quali ripartire i parametri di valutazione di cui alle singole voci, sia talmente analitica da delimitare il giudizio delle commissioni nell'ambito di un minimo ed un massimo di portata tale da rendere di per sé evidente l'iter logico seguito nel valutare i singoli progetti sotto il profilo tecnico in applicazione di puntuali criteri predeterminati, essendo altrimenti necessaria una puntuale motivazione del punteggio attribuito (CdS sez. V 03.12.2010 n. 8410) (TAR Marche, sentenza 28.05.2011 n. 430 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Nomina dei commissari di gara esterni alla P.A..
La nomina di un soggetto esterno alla stazione appaltante quale componente della commissione di una gara pubblica deve avvenire nel rispetto delle disposizioni di cui all’art. 84 del D.lgs. 163/2006.

La sentenza 27.05.2011 n. 4810 del TAR Roma-Roma, Sez. II-ter, ha infatti stabilito che nel caso in cui una pubblica amministrazione decida di nominare un soggetto esterno quale componente di una commissione di gara, tale nomina non può prescindere dalle previsioni dell’art. 84, comma 8, del D.lgs. 163/2006, secondo il quale la scelta del commissario esterno deve essere effettuata nell’ambito di un elenco formato sulla base di rose di candidati fornite dagli ordini professionali.
Nel caso di specie, relativo all’affidamento del servizio di trasporto scolastico di un comune laziale era stato impugnato l’atto di nomina di un commissario esterno, un avvocato, esperto in appalti pubblici.
La nomina di questo commissario era infatti avvenuta prescindendo dalle disposizioni del codice.
I giudici di Palazzo Spada, stabiliscono sul punto che “L'art. 84 del codice dei contratti pubblici prevede, infatti, al comma 8, che, nel caso in cui la stazione appaltante ricorra a professionisti esterni, la scelta debba essere effettuata nell'ambito di un elenco formato sulla base di rose di candidati fornite agli ordini professionali. Tale precetto non è stato osservato nel caso in esame, risultando in atti che la scelta, come professionista esterno, (…), nella qualità di esperto in appalti, è stata effettuata senza la preventiva richiesta all’Ordine degli avvocati di una rosa di candidati e la conseguente formazione di un apposito elenco al quale attingere.”
Su quale debba essere l’esatta interpretazione delle disposizioni in esame, i giudici stabiliscono in particolare che: “…..tali disposizioni, recanti norme sulle funzioni, sulla composizione e sulla modalità di nomina dei componenti della Commissione giudicatrice incaricata di esprimersi nell'ipotesi di aggiudicazione con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, pur disciplinando aspetti della procedura di scelta del contraente, sono preordinate a fini diversi rispetto a quelli di garanzia della concorrenzialità, in quanto gli aspetti connessi alla composizione della Commissione giudicatrice e alle modalità di scelta dei suoi componenti attengono all'organizzazione amministrativa degli organismi cui sia affidato il compito di procedere alla verifica del possesso dei necessari requisiti, da parte della imprese concorrenti, per aggiudicarsi la gara.
In generale è tuttavia necessario affermare che le norme del codice dei contratti e tutte quelle disposizioni che impongono il rispetto dei principi della trasparenza, della concorrenzialità e del necessario accesso al libero mercato, rappresentano il recepimento di principi riconosciuti e affermati in sede comunitaria, rispetto ai quali l’ordinamento italiano, in un ottica di adeguamento agli altri ordinamenti europei, non può prescindere (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Gli interventi necessari ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti non rientrano nel concetto di manutenzione straordinaria né in quello di ristrutturazione edilizia, bensì in quello di manutenzione ordinaria, così come definito dall’art. 3, lett. a, del D.P.R. 380/2001.
Gli interventi necessari ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti non rientrano nel concetto di manutenzione straordinaria né in quello di ristrutturazione edilizia, bensì in quello di manutenzione ordinaria, così come definito sia dall’art. 20, lett. a, della L.R. 71/1978, sia dall’art. 3, lett. a, del D.P.R. 380/2001.
E’ stato affermato sul punto che “L'elemento ontologico qualificante dell'attività di manutenzione ordinaria fa sì che gli elementi da rinnovare, integrare e mantenere in efficienza possono anche risultare diversi da quelli oggetto di intervento, con il limite che il nuovo elemento non risulti né tipologicamente né funzionalmente diverso dal precedente, non potendosi dare origine ad un "quid novi” (C. di S., IV, 3555/2005) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 1344 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'eventuale impossibilità di demolire per motivi di statica dell’edifico (conforme) è motivo per evitare l’applicazione delle sanzioni coattive previste dal seguito della procedura di sanzione dell’abuso edilizio in caso di inottemperanza (demolizione d’ufficio ed acquisizione gratuita dell’opera con area di sedime).
La eventuale impossibilità di demolire per motivi di statica dell’edifico non inficia in alcun modo l’ordine di demolizione, ma può al più –qualora effettivamente provata- costituire motivo per evitare l’applicazione delle sanzioni coattive previste dal seguito della procedura di sanzione dell’abuso edilizio in caso di inottemperanza (demolizione d’ufficio ed acquisizione gratuita dell’opera con area di sedime) (in senso conforme Tar Campania, Napoli, sez. VII, n. 1624 del 28.03.2008) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 792 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl tradizionale orientamento della giurisprudenza amministrativa, nel caso di titolo edilizio relativo ad un fabbricato unico, esclude la possibilità di annullamento parziale dello stesso, poiché una simile statuizione è ammissibile solo se nel provvedimento siano individuabili autonome statuizioni.
L’annullamento parziale del permesso di costruire, pertanto, può aversi solo quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti progetti e concessioni; nel caso contrario, dovrà semmai essere il Comune ad eseguire il giudicato d'annullamento rilasciando, a richiesta del privato, un nuovo permesso emendato dai vizi per i quali il precedente era stato annullato.

Occorre domandarsi, al riguardo, se l’accertamento di un’illegittimità che, in relazione alle caratteristiche complessive dell’opera, non presenta rilievo preminente, determini l’annullamento del titolo abilitativo nella sua interezza ovvero limitatamente alle parti dell’edificio riscontrate irregolari.
La più recente giurisprudenza dei giudici di prime cure (pronunciandosi in materia di annullamento d’ufficio da parte della competente amministrazione, ma i termini della questione non sembrano mutare nel caso in cui l’effetto demolitorio derivi dalla pronuncia del giudice), facendo applicazione del principio di proporzionalità, ammette la possibilità di un annullamento parziale del titolo edilizio (TAR Abruzzo, Pescara, 11.03.2010, n. 173).
Pare maggiormente persuasivo, però, il tradizionale orientamento della giurisprudenza amministrativa che, nel caso di titolo edilizio relativo ad un fabbricato unico, esclude la possibilità di annullamento parziale dello stesso, poiché una simile statuizione è ammissibile solo se nel provvedimento siano individuabili autonome statuizioni (Cons. Stato, sez. V, 22.05.2006, n. 2960).
L’annullamento parziale del permesso di costruire, pertanto, può aversi solo quando l'opera autorizzata sia scindibile in modo tale da poter essere oggetto di distinti progetti e concessioni; nel caso contrario, dovrà semmai essere il Comune ad eseguire il giudicato d'annullamento rilasciando, a richiesta del privato, un nuovo permesso emendato dai vizi per i quali il precedente era stato annullato (Cons. Stato, sez. V, 11.10.2005, n. 5495) (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 554 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ambiente in genere. Legittimazione associazioni ambientaliste.
Le associazioni ambientaliste sono legittimate a costituirsi pane civile quando perseguono un interesse non caratterizzato da un mero collegamento con quello pubblico, bensì concretizzatosi in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo: in tal caso l’interesse all’ambiente cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 26.05.2011 n. 21016 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATACon riferimento alla decadenza del permesso di costruire con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in termini generali ed astratti ma con una valutazione di carattere concreto, che contenga uno specifico e puntuale riferimento all'entità delle opere ed all'intervento edificatorio programmato ed autorizzato considerato nel suo complesso.
Secondo quanto disposto dall’art. 15, comma 4, del d.P.R. n. 380 del 2001: “Il permesso decade con l'entrata in vigore di contrastanti previsioni urbanistiche, salvo che i lavori siano già iniziati e vengano completati entro il termine di tre anni dalla data di inizio”.
Invero, come chiarito in giurisprudenza, l'effettivo inizio dei lavori deve essere valutato non in termini generali ed astratti ma con una valutazione di carattere concreto, che contenga uno specifico e puntuale riferimento all'entità delle opere ed all'intervento edificatorio programmato ed autorizzato considerato nel suo complesso (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, 15.07.2008, n. 3527; TAR Toscana, Sezione III, 17.11.2008, n. 2533; TAR Lazio, Latina, Sezione I, 12.11.2008, n. 1587) (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.05.2011 n. 2856 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della legittimità della procedura di realizzazione di un parcheggio pertinenziale nel rispetto dell’art. 9 l. n. 122 del 1989, non è indispensabile che il numero dei proprietari di immobili, siti nelle vicinanze del realizzando parcheggio, sia individuato prima della costruzione di questo e che, quindi, il vincolo pertinenziale debba preesistere, richiedendosi solo che detto vincolo venga previsto e, poi, effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte.
L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo o nei locali siti al piano terreno anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, ha inteso consentire esclusivamente la realizzazione di parcheggi pertinenziali (i parcheggi devono essere al servizio dell’unità immobiliare, anche se adibiti ad un uso diverso da quello residenziale come accade, ad esempio, per gli immobili ad uso commerciale: i parcheggi, in tale ipotesi, non possono essere realizzati derogando alla disciplina urbanistica per essere a servizio di coloro che accedono all’esercizio commerciale).
In materia di realizzazione di interrati da destinare a garage non va ignorato che l’art. 9 della L. 24.03.1989 n. 122 dispone che “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”. La norma non pone cioè alcun tetto massimo per quanto riguarda l’estensione dei locali realizzati nel sottosuolo aventi la destinazione di parcheggi pertinenziali dell’abitazione, ed anzi ne ammette la realizzabilità generalizzata, anche in deroga agli strumenti pianificatori”.

Ai fini della legittimità della procedura di realizzazione di un parcheggio pertinenziale nel rispetto dell’art. 9 l. n. 122 del 1989, non è indispensabile che il numero dei proprietari di immobili, siti nelle vicinanze del realizzando parcheggio, sia individuato prima della costruzione di questo e che, quindi, il vincolo pertinenziale debba preesistere, richiedendosi solo che detto vincolo venga previsto e, poi, effettivamente costituito e trascritto nelle forme prescritte” (TAR Abruzzo Pescara, 12.04.2006, n. 247).
Per ciò che concerne, inoltre, la possibilità di realizzare parcheggi anche in relazione ad immobili non destinati ad uso abitativo, si consideri l’ulteriore indirizzo giurisprudenziale, espresso nella seguente massima: “L’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, che consente la realizzazione di parcheggi nel sottosuolo o nei locali siti al piano terreno anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, ha inteso consentire esclusivamente la realizzazione di parcheggi pertinenziali (i parcheggi devono essere al servizio dell’unità immobiliare, anche se adibiti ad un uso diverso da quello residenziale come accade, ad esempio, per gli immobili ad uso commerciale: i parcheggi, in tale ipotesi, non possono essere realizzati derogando alla disciplina urbanistica per essere a servizio di coloro che accedono all’esercizio commerciale)” (Consiglio Stato, sez. VI, 17.02.2003, n. 844).
Il verificatore ha osservato del resto, nella sua relazione, che, riguardo all’estensione dei parcheggi pertinenziali realizzati nel sottosuolo, ai sensi dell’art. 9 della l. 122/1989, non vi era limite massimo, citando la decisione del TAR Trentino Alto Adige, Trento, 24.02.2003, n. 90 (nella cui parte motiva può leggersi, in effetti, quanto segue: “In materia di realizzazione di interrati da destinare a garage non va ignorato che l’art. 9 della L. 24.03.1989 n. 122 dispone che “i proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti”. La norma non pone cioè alcun tetto massimo per quanto riguarda l’estensione dei locali realizzati nel sottosuolo aventi la destinazione di parcheggi pertinenziali dell’abitazione, ed anzi ne ammette la realizzabilità generalizzata, anche in deroga agli strumenti pianificatori”) (TAR Calabria-Salerno, Sez. II, sentenza 26.05.2011 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL’art. 2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha fissato entro il limite temporale del quinquennio l’efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino l’inedificabilità, si riferisce ai vincoli che producano una pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l’ipotesi di imposizione temporanea di inedificabilità fino all’entrata in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato alcun termine finale certo.
Alla luce dell’orientamento espresso dal Consiglio Stato, sez. IV, 24.03.2009, n. 1765: “L’art. 2, comma 1, l. 19.11.1968 n. 1187, che ha fissato entro il limite temporale del quinquennio l’efficacia delle prescrizioni dei piani regolatori generali nella parte in cui incidono su beni determinati ed assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che comportino l’inedificabilità, si riferisce ai vincoli che producano una pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l’ipotesi di imposizione temporanea di inedificabilità fino all’entrata in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato alcun termine finale certo (TAR Calabria-Salerno, Sez. II, sentenza 26.05.2011 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADifferentemente del provvedimento sanzionatorio, è da ritenersi discrezionale il provvedimento adottato in sede di autotutela, con il quale l’amministrazione comunale vieta lo svolgimento di attività edilizie iniziate a seguito della presentazione di una dia e ordina l’eliminazione degli effetti già prodotti in conseguenza del mancato esercizio dei poteri inibitori; pertanto, l’amministrazione comunale è tenuta, da un lato, a valutare gli interessi in conflitto, anche tenendo conto dell’affidamento ingeneratosi in capo al denunciante, e dall’altro, a motivare in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non coincidente con il mero ripristino della legalità violata.
A differenza del provvedimento sanzionatorio, è da ritenersi discrezionale il provvedimento adottato in sede di autotutela, con il quale l’amministrazione comunale vieta lo svolgimento di attività edilizie iniziate a seguito della presentazione di una dia e ordina l’eliminazione degli effetti già prodotti in conseguenza del mancato esercizio dei poteri inibitori; pertanto, l’amministrazione comunale è tenuta, da un lato, a valutare gli interessi in conflitto, anche tenendo conto dell’affidamento ingeneratosi in capo al denunciante, e dall’altro, a motivare in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non coincidente con il mero ripristino della legalità violata (TAR Lombardia Milano, sez. II, 17.06.2009, n. 4066) (TAR Calabria-Salerno, Sez. II, sentenza 26.05.2011 n. 1008 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' vero che, in base al T.U. n. 380/2001, la ristrutturazione edilizia può consistere nella demolizione e ricostruzione di un edificio, ma questo ha rilievo solo dal punto di vista edilizio. Ai fini dell’applicazione delle norme del Codice della Strada, invece, la demolizione e fedele ricostruzione è assimilata ad una nuova costruzione (art. 26, commi 2 e 3, DPR n. 495/1992). Questo obbedisce all’esigenza di rimuovere con il tempo situazioni di pericolo che preesistevano all’introduzione delle fasce di rispetto.
E' vero che, in base al T.U. n. 380/2001, la ristrutturazione edilizia può consistere nella demolizione e ricostruzione di un edificio, ma questo ha rilievo solo dal punto di vista edilizio. Ai fini dell’applicazione delle norme del Codice della Strada, invece, la demolizione e fedele ricostruzione è assimilata ad una nuova costruzione (art. 26, commi 2 e 3, DPR n. 495/1992).
Questo obbedisce all’esigenza di rimuovere con il tempo situazioni di pericolo che preesistevano all’introduzione delle fasce di rispetto (TAR Marche, sentenza 26.05.2011 n. 361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVISe un provvedimento è fondato su più motivazioni, la validità anche di una sola delle argomentazioni poste autonomamente a base del provvedimento stesso è sufficiente, di per sé, a sorreggerne il contenuto.
Se un provvedimento è fondato su più motivazioni, la validità anche di una sola delle argomentazioni poste autonomamente a base del provvedimento stesso è sufficiente, di per sé, a sorreggerne il contenuto (si veda, in questo senso, da ultimo e per tutti: C.S. n. 828/2010; TAR Basilicata n. 111/2011 e TAR Toscana 336/2011) (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIOSulla questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in cui un condòmino chieda un titolo edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni diverse.
Sulla questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in cui un condomino chieda un titolo edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che nessun assenso deve essere richiesto dal Comune, posto che il condomino possiede una propria legittimazione a richiedere il titolo, e che lo stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con salvezza dei diritti dei terzi”. Si è altresì affermato che i problemi dell’uso delle parti comuni di un edificio costituiscono questione squisitamente civilistica, di cui il Comune non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general, condivisibile) giurisprudenza ha comunque evidenziato che la regola soffre talora di eccezioni, dovute alle peculiarità con cui le singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha stabilito che, quando un condomino abbia realizzato (come nel presente caso) un abuso su aree comuni “l’Amministrazione debba chiedere all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010 (che richiama anche C.S. n. 1654/2007) ha ritenuto che “ciò che rileva è che i lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi (anche) su parti comuni del fabbricato e non riguardino opere connesse all’uso normale della cosa comune”; in tal caso, l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai fini del rilascio della relativa concessione, a richiedere il consenso di tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso anche TAR Calabria-Reggio, con la recente decisione n. 343/2011, aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, “l’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio condivide, hanno ancora maggior rilievo nel caso di specie, considerato che alcuni condomini dapprima e, in seguito, il Condominio stesso si sono inseriti nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione a sanatoria di cui trattasi, manifestando il proprio dissenso alle opere che, secondo la loro prospettazione, incidevano negativamente sul diritto di uso delle parti comuni che spetta a ciascun condomino, ponendo in luce in particolare come -segnatamente le canne fumarie- inducessero limiti all’uso individuale. Secondo TAR Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un vero e proprio obbligo per l’Amministrazione di verificare “la legittimazione ad effettuare l'intervento, soprattutto quando vi sia stata in sede procedimentale un’espressa opposizione da parte di terzi condomini”.
Nello stesso senso è anche C.S. n. 1537/2010, che esplicitamente dichiara che, in caso contrario, “l'Amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere, al contrario, interessati all’eliminazione dell’abuso”.
La posizione contraria manifestata dal Condominio risulta inoltre ulteriormente rafforzata dalla decisione del Tribunale di Trieste del 24.09.2008, che ha rigettato la domanda presentata dei ricorrenti avverso la delibera dell’assemblea condominiale che negava l’assenso ai lavori, avendo ritenuto che tale deliberazione “non abbia inciso su diritti della proprietà privata essendo l’uso particolare e più intenso del bene comune da parte del condomino (e la relativa indagine in merito all’eventuale compressione quantitativa o qualitativa del pari utilizzo, attuale o potenziale, di tutti i comproprietari) questione di ordine condominiale, disciplinata proprio dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà individuali e beni condominiali”.
Né rileva, ai nostri fini, il richiamo alla decisione n. 11/2006 del Consiglio di Stato, che ha bensì ammesso la possibilità del singolo condomino di installare una canna fumaria (come nel presente caso, al servizio di un ristorante) lungo un muro condominiale, anche senza l’assenso del Condominio, “purchè non impedisca agli altri condomini l’uso del muro comune e non ne alteri la normale destinazione”, che è invece proprio quanto è avvenuto nel nostro caso.
In queste condizioni -presenza di esplicito e motivato dissenso del Condominio, unito alla decisione del Giudice Ordinario che ha ravvisato la correttezza della delibera assembleare che negava l’assenso ai lavori- legittimamente, ad avviso del Collegio, il Comune ha negato la richiesta sanatoria delle opere abusivamente realizzate
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Il "servizio di prelievo, trasporto, trattamento e/o smaltimento dei rifiuti prodotti dall'impianto di depurazione delle acque reflue", non è qualificabile quale servizio pubblico locale.
Il "servizio di prelievo, trasporto, trattamento e/o smaltimento dei rifiuti prodotti dall'impianto di depurazione delle acque reflue", non è qualificabile quale servizio pubblico locale, e conseguentemente, non è soggetto alla disciplina dettata dall'art. 23-bis D.L. n. 112/2008, costituendo invece attività rimessa alle libere dinamiche di mercato.
L'ambito di operatività del citato art. 23-bis riguarda, infatti, l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, nell'intento di garantire, da una parte, la più ampia diffusione dei principi di concorrenza e, dall'altra, un'adeguata tutela degli utenti, sicché non trova applicazione laddove il servizio dedotto in contratto non sia qualificabile come servizio pubblico locale (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 25.05.2011 n. 1306 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manufatti abusivi - Provvedimenti di concessione in sanatoria - Impugnazione da parte di terzi - Termine - Decorrenza - Individuazione.
Ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione, da parte di terzi, di provvedimenti di concessione in sanatoria di manufatti abusivi, occorre avere esclusivo riguardo alla data di scadenza della pubblicazione del provvedimento a sanatoria - da effettuarsi in forza dell'art. 20, t.u. in materia edilizia di cui al d.P.R. n. 380 del 2001 e dell'art. 21, l. n. 1034 del 06.12.1971 (applicabili anche a tale tipo di titolo abilitativo), in quanto qui già compiutamente nota la lesione materiale subita, che peraltro continua a costituire, anch'essa, necessitato presupposto per l'impugnativa (TAR Campania Napoli, sez. VII, 06.05.2005, n. 5552; TAR Puglia Lecce, sez. III, 21.05.2009 n. 1200) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.05.2011 n. 971 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le modificazioni del prospetto dell’immobile (modifica della disposizione delle finestre e delle porte-finestre) assumono rilevanza paesaggistica proprio perché incidenti sull’aspetto esterno dell’immobile e, quindi, potenzialmente idonee a determinare una modificazione dell’impatto del manufatto sull’ambiente circostante.
La Sezione deve innanzitutto rilevare come la previsione dell’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42 (codice dei beni culturali e del paesaggio) sottoponga ad autorizzazione paesaggistica tutti gli interventi che possano determinare <<modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione>>; appare pertanto di tutta evidenza come le modificazioni del prospetto dell’immobile in questione realizzate dalla ricorrente (modifica della disposizione delle finestre e delle porte-finestre) assumano rilevanza, ai fini della previsione in questione, proprio perché incidenti sull’aspetto esterno dell’immobile e, quindi, potenzialmente idonee a determinare una modificazione dell’impatto del manufatto sull’ambiente circostante (a questo proposito, è, infatti, irrilevante il fatto che il vincolo ricada sull’area e non sull’immobile, trattandosi di valutare proprio gli effetti che le modificazioni del manufatto possono determinare sull’assetto paesaggistico complessivo dell’area e quindi sul bene soggetto a tutela) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.05.2011 n. 969 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: VIA - Soggetto che intende realizzare un intervento con effetti rilevanti sull’ambiente - Art. 22, c. 3, d.lgs. n. 152/2006 - Elaborazione di uno Studio di Impatto - Valutazione soggettiva preliminare - Successiva valutazione della competente PA - Autonomia di giudizio.
Ai sensi dell’art. 22, c. 3, d.lgs. n. 152/2006 e dell’allegato VII al codice stesso, il soggetto che intende realizzare un determinato intervento con effetti rilevanti sull’ambiente deve elaborare uno studio di impatto con il quale non solo descrivere il relativo progetto ma anche compiere una prima valutazione -sebbene soggettivamente rimessa alle proprie personali (ma pur sempre tecniche) considerazioni- in ordine agli impatti che il medesimo intervento è idoneo ad arrecare sulle principali matrici ambientali.
Valutazione preliminare cui seguirà poi quella della competente PA che dovrà essere condotta in piena autonomia di giudizio secondo i consueti canoni della discrezionalità tecnica. Pertanto, nella elaborazione del SIA non basta limitarsi a segnalare la sussistenza di un determinato fenomeno con potenziali effetti sull’ambiente, dovendosi altresì valutare -almeno in prima battuta- le relative conseguenze in termini di impatto negativo.
VIA - Assoggettabilità a VIA - Presupposto - Possibili effetti negativi e significativi sull’ambiente.
L’assoggettabilità a VIA è subordinata alla presenza di possibili (dunque non certi) effetti negativi e significativi sull'ambiente (cfr. art. 19, comma 4, del decreto legislativo n. 152 del 2006).
VIA - Integrazioni sostanziali del SIA - Riattivazione del procedimento di VIA - Meccanismi partecipativi ex art. 24 d.lgs. n. 152/2006.
A fronte di integrazioni sostanziali dello studio di impatto ambientale, deve ritenersi necessari ala riattivazione del procedimento VIA, se non altro per garantire il pieno rispetto dei meccanismi partecipativi di cui all’art. 24 del codice ambiente (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 25.05.2011 n. 957 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo, tale dovendosi considerare anche il caso in cui il risultato dell’intervento di variazione dell’edificio preesistente consista nella realizzazione di nuove unità abitative.
Per costante giurisprudenza, l’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo (v. TAR Liguria, Sez. I, 08.02.2006 n. 103), tale dovendosi considerare anche il caso in cui il risultato dell’intervento di variazione dell’edificio preesistente consista nella realizzazione di nuove unità abitative (v. TAR Liguria, Sez. I, 18.09.2003 n. 1024).
Con specifico riferimento, poi, all’ipotesi della trasformazione, con opere, di una cantina in abitazione –che a differenza della prima (di natura pertinenziale) si identifica come unità immobiliare autonoma–, è stato rilevato che ciò determina l’aumento del numero delle unità immobiliari, integrando una vera e propria ristrutturazione edilizia (v. TAR Toscana, Sez. III, 20.01.2009 n. 32), e quindi richiede il permesso di costruire, al pari di ogni mutamento di destinazione d’uso del piano interrato da cantina ad abitazione realizzata con opere che generano in tal modo un aggravio del carico urbanistico (v. TAR Lazio, Sez. I, 18.01.2011 n. 381; Sez. II, 08.04.2010 n. 5889).
Ne desume il Collegio che l’intervento oggetto della presente controversia, per consistere –attraverso l’eliminazione di alcune pareti divisorie e l’apertura e chiusura di porte e accessi– nella trasformazione di locali originariamente destinati a cantina in un’unità abitativa autonoma, è stato correttamente qualificato dall’Amministrazione comunale come una ristrutturazione edilizia senza titolo abilitativo. Dal che il fondato richiamo all’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001 (“Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità”) e alle misure repressive ivi previste, in piena conformità, del resto, alla disciplina fissata in ambito regionale dall’art. 26, comma 5, della legge reg. n. 31 del 2002 (“Il mutamento di destinazione d’uso con opere è soggetto al titolo abilitativo previsto per l’intervento edilizio al quale è connesso”).
Né vi osta la circostanza che l’abuso risale agli anni Cinquanta e che all’epoca il mutamento d’uso meramente “funzionale” sarebbe stata attività libera, quindi sottratta alla previa acquisizione di un titolo edilizio. Innanzitutto, non si tratta di variazione di destinazione d’uso senza opere, in quanto una significativa modifica dei locali è intervenuta.
Inoltre, come documentato dall’Amministrazione locale, all’epoca di realizzazione dell’abuso vigeva il regolamento edilizio comunale n. 11 del 09.11.1929, il cui art. 12 (richiamato anche nella licenza comunale n. 473/1953) disponeva che “…chiunque intenda intraprendere nuove fabbriche o apportare modificazioni alle già esistenti … o variare opere già approvate … deve farne preventiva denuncia all’autorità comunale accompagnata dai disegni e progetti …”, sicché la trasformazione in alloggio dei locali ad uso cantina, per comportare una variazione dell’intervento inizialmente assentito, avrebbe richiesto l’espletamento della procedura prevista dalla norma regolamentare, quale condizione per la regolare effettuazione dei lavori inerenti la nuova unità abitativa; è irrilevante, d’altra parte, che di tale previsione normativa non vi sia traccia negli atti impugnati, essendo notorio che la mancata o erronea indicazione delle norme di legge su cui si fonda il provvedimento amministrativo non costituisce ex se ragione di invalidità dell’atto (v., ex multis, TAR Campania, Napoli, 26.07.2002 n. 4412), potendo al più trattarsi di mera irregolarità, che non influisce in alcun caso sul contenuto del provvedimento quale definito dal giudice, il quale, qualificando i fatti e individuando le norme applicabili, non integra la motivazione del provvedimento portato al suo esame, ma applica il principio iura novit curia (v. Cons. Stato, Sez. VI, 03.04.2009 n. 2083) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 25.05.2011 n. 154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso, e ciò in ragione della natura ripristinatoria della sanzione, non ascrivibile al genus delle pene afflittive –cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività–, onde soccorre il principio generale tempus regit actum per l’individuazione della disciplina cui deve attenersi l’Amministrazione comunale che accerti l’abuso.
L’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede uno specifico apprezzamento delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare.

E’ pur vero che la normativa dell’epoca non si occupava delle conseguenze dell’abuso, tuttavia il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è quello vigente al momento dell’irrogazione della sanzione non già quello in vigore all’epoca di realizzazione dell’abuso, e ciò in ragione della natura ripristinatoria della sanzione, non ascrivibile al genus delle pene afflittive –cui propriamente si attaglia il divieto di retroattività–, onde soccorre il principio generale tempus regit actum per l’individuazione della disciplina cui deve attenersi l’Amministrazione comunale che accerti l’abuso (v. TAR Liguria, Sez. I, 21.04.2009 n. 779).
Quanto alla lamentata assenza di motivazione a proposito di un ordine di ripristino dello stato dei luoghi intervenuto a notevolissima distanza di tempo dalla realizzazione dell’abuso –con conseguente necessità di valutazione dell’affidamento ingenerato e della buona fede del privato e di comparazione dell’interesse pubblico con gli altri interessi in tal modo sacrificati–, va richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede uno specifico apprezzamento delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (v., ex multis, Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2011 n. 79) (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 25.05.2011 n. 154 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Lite temeraria, l'accollo delle spese può diventare punitivo.
Il giudice di pace quando rigetta un ricorso stradale infondato può condannare l'automobilista anche al pagamento delle spese vive sostenute dal comune per presentarsi in udienza pur senza avvocato.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 24.05.2011 n. 11389.
Un automobilista incorso in un banale divieto di sosta accertato da un ausiliario del traffico capitolino ha proposto ricorso al giudice di pace ottenendo il rigetto dell'istanza e la conseguente condanna al pagamento delle spese sostenute dal comune per la vertenza determinate in 100 euro.
Contro questa decisione l'interessato ha proposto censure alla corte di cassazione ottenendo un ulteriore aggravio economico della sua vicenda sanzionatoria.
Il collegio ha infatti rigettato la doglianza dell'automobilista che riteneva eccessivo l'importo fissato dal gdp per il ristoro delle spese vive sostenute dal comune che si era presentato in giudizio con un funzionario delegato, senza avvocato.
E ha anche condannato lo sfortunato utente stradale al pagamento di tutte le ulteriori spese.
E' ben vero che l'autorità amministrativa che sta in giudizio con un proprio funzionario, senza patrocinio, non può ottenere la condanna dell'opponente, anche se soccombente, al pagamento degli onorari da avvocato.
In tal caso spetterà però legittimamente al comune il rimborso delle spese, diverse da quelle generali, affrontate per la causa ed evidenziate in apposita nota.
In buona sostanza se il comune evidenzia bene con una nota le spese di cancelleria e quelle impiegate per la materiale realizzazione del deposito della comparsa di costituzione e risposta, il giudice di pace ha ampia discrezionalità nella valutazione dell'importo dovuto dal temerario trasgressore (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer la costruzione e l'esercizio di impianti fotovoltaici per i quali non è necessaria alcuna autorizzazione è sufficiente la dichiarazione di inizio attività.
Nella pronuncia in trattazione la società ricorrente, che esercita attività agricola, lamenta che il Comune in causa abbia rilasciato, al proprietario di un’area vicina a quelle di sua proprietà, un permesso di costruire per la realizzazione di un campo fotovoltaico a terra con relativa cabina elettrica di trasformazione.
Il ricorrente sostiene che il Comune sarebbe incompetente al rilascio del provvedimento, in quanto l’articolo 7-bis, della l.r. 1/2004 (come modificata dalla l.r. 5/2008), coerentemente a quanto consentito dall’articolo 12, comma 3, del d.lgs. 387/2003, stabilisce che l’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili <>. Nel ritenere non condivisibile tale ricostruzione i giudici del Tribunale amministrativo di Perugia ricordano che ai sensi dell’articolo 12, comma 3, del d.lgs. 387/2003 (nella formulazione risultante dalla legge 244/2007) <>.
La formulazione dell’articolo 12, spiegano i giudici umbri, è poco chiara e lascia aperta la questione della competenza, oltre che del procedimento, applicabili nelle ipotesi in cui, non essendo previsto il rilascio di “alcuna autorizzazione” (“altra”, rispetto a quelle richieste dalla generale disciplina urbanistico-edilizia -salva l’applicazione della d.i.a. al di sotto delle soglie di capacità di generazione richiamate dalla tabella A- o dalle specifiche discipline di settore, a tutela dell’ambiente, del patrimonio culturale, etc.), non occorre seguire la disciplina della autorizzazione unica.
Soccorre la disciplina del d.m. 19.02.2007 n. 25336. Secondo l’articolo 5, comma 7, di tale d.m. <>; nell’ambito di una disciplina complessivamente rivolta a tal fine, il predetto comma 7 appare estraneo all’oggetto definito dall’articolo 7, e (peraltro, insieme al comma 8, concernente i presupposti per la sottoposizione del progetto alla valutazione di impatto ambientale, ed al comma 9, concernente la compatibilità con la destinazione urbanistica di zona) appare estraneo anche all’oggetto dell’articolo 5 (<>).
Tuttavia, si tratta di una disciplina che colma un vuoto, e che non risulta coinvolta nella presente impugnazione. Ora, se la formulazione dell’articolo 5, comma 7, del d.m. 19.02.2007 ha un senso, questo non può che consistere nello stabilire che, qualora fosse necessaria l’acquisizione di un solo provvedimento autorizzativo (nel caso in esame, in assenza di vincoli territoriali, il permesso di costruire comunale), detto titolo sostituisse l’autorizzazione unica di competenza regionale o (in forza dell’articolo 7-bis, della l.r. 1/2004) provinciale.
I giudici perugini aggiungono, in conclusione, che la disciplina statale è destinata a cambiare a breve anche a livello legislativo, in forza dell’attuazione della delega di cui all’articolo 17, comma 1, lettera d) della legge 96/2010, per il recepimento delle Direttive 2011/77/CE e 2003/30/CE (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Umbria, sentenza 23.05.2011 n. 145 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione a terzi di manufatto abusivo.
L’esecuzione di un sequestro o di un ordine di demolizione di un immobile abusivamente realizzato non è preclusa dall’intervenuta cessione a terzi del manufatto, operando la demolizione nei confronti di chiunque abbia la disponibilità di un manufatto che continui ad arrecare pregiudizio al territorio (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 19.05.2011 n. 19736 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione strada.
Per la costruzione, l’allargamento o la modificazione di una strada, anche qualora l’allargamento o la modificazione avvengano su una precedente pista o strada, è necessario il permesso di costruire, trattandosi di una trasformazione edilizia del territorio e quando poi la costruzione o l’allargamento o la modificazione di una strada avvengono in zona paesisticamente vincolata, occorre anche l’autorizzazione paesistica, poiché viene posta in essere una trasformazione ambientale, che rende indispensabile l’intervento e la valutazione delle autorità preposte al controllo del paesaggio sotto i diversi profili urbanistico e paesaggistico ambientale (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.05.2011 n. 19568 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi, rilevanza circolari.
La circolare interpretativa è atto interno alla pubblica amministrazione che si risolve in un mero ausilio interpretativo e non esplica alcun effetto vincolante non solo per il giudice penale, ma anche per gli stessi destinatari poiché non può comunque porsi in contrasto con l’evidenza del dato normativo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19330 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Spontanea demolizione abuso edilizio in zona vincolata.
La spontanea demolizione dell’intervento abusivo in zona vincolata effettuata prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa e, comunque, prima che intervenga la condanna, comporta l’estinzione del solo reato paesaggistico di cui al comma 1 dell’articolo 181 D.Lgs. 42/2004 ma non produce alcun effetto estintivo delle violazioni edilizie eventualmente concorrenti, pur potendo essere oggetto di valutazione da parte del giudice penale per la determinazione della pena e relativamente alla mancanza di un danno penalmente rilevante o alla buona fede dell’imputato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19317 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Attività edilizia libera.
La particolare disciplina dell’attività edilizia libera, contemplata dall’articolo 6 D.P.R. 380/2001 come modificato dall’articolo 5, comma secondo Legge 73/2010, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19316 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sui limiti dell’attività edilizia ‘libera’ dopo la L. n. 73/2010.
DISCIPLINA DELL’ATTIVITA’ EDILIZIA PRIVATA – INTERVENTI NON SOGGETTI A TITOLI ABILITATIVI EX ART. 6 D.P.R. N. 380/2001 – MODIFICHE INTRODOTTE DALLA L. N. 73/2010 – NON CONTRASTO CON TUTTA LA NORMATIVA DI SETTORE COMUNQUE INCIDENTE SULL’ATTIVITA’ EDILIZIA – NECESSARIETA’.
Il peculiare regime di cui all’art. 6, D.P.R. n. 380/2001, che consente l’esecuzione di alcune tipologie di opere di scarso impatto territoriale senza il previo ottenimento di un particolare titolo abilitativo, è stato profondamente modificato ad opera della L. n. 73/2010.
Sono infatti esplicitamente indicati alcuni limiti comunque imposti alla legittima realizzazione di tali interventi, enunciati in maniera non tassativa ma esemplificativa. Con la conseguenza che deve ritenersi richiesto il rispetto di tutta la normativa di settore, ancorché non menzionata, che abbia comunque rilevanza nell’ambito dell’attività edilizia.
Dovranno pertanto essere esclusi dall’applicazione di tale particolare regime di favore tutti gli interventi eseguiti in contrasto con le disposizioni precettive degli strumenti urbanistici comunali ed in violazione delle altre disposizioni menzionate. Può quindi affermarsi, in definitiva, il principio secondo il quale la particolare disciplina dell’attività edilizia libera, contemplata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 6 come modificato dalla L. n. 73 del 2010, art. 5, comma 2, non è applicabile agli interventi che, pur rientrando nelle categorie menzionate da tale disposizione, siano in contrasto con le prescrizioni degli strumenti urbanistici (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19316 - commento tratto e link a www.amministrazioneincammino.luiss.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sportello unico.
Lo Sportello Unico per l’edilizia previsto dall’articolo 5 del D.P.R. 380/2001 (testo unico per l’edilizia) ha unicamente finalità di semplificazione procedimentale ed organizzativa, con la conseguenza che la mancata istituzione da parte dell’amministrazione comunale non ha alcuna incidenza sul regime autorizzatorio dell’attività edilizia e non esonera, pertanto, dal conseguimento dei necessari titoli abilitativi (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 17.05.2011 n. 19315 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: PUBBLICITÀ E TRASPARENZA DELLE OPERAZIONI DI GARA: LA SEZIONE QUINTA RIMETTE LA QUESTIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA.
A breve distanza di tempo, la questione relativa alla pubblicità delle sedute di gara nelle procedure ad evidenza pubblica torna d’attualità, per effetto della pronuncia da parte della Sez. V del Consiglio di Stato dell’ordinanza 17.05.2011 n. 2987, qui segnalata.
Un’impresa che aveva partecipato ad una procedura per l’affidamento di un appalto relativo ad impianti di preselezione e bio-stabilizzazione a servizio del sistema di smaltimento di rifiuti solidi urbani aveva impugnato gli atti del procedimento prospettando, fra l’altro, la violazione degli obblighi generali di trasparenza che gravano sull’Amministrazione, derivante dall’omessa pubblicità della seduta in cui la Commissione aveva proceduto all’apertura delle buste contenenti gli elementi costitutivi dell’offerta tecnica, al fine di verificarne la completezza della documentazione.
Il TAR Sardegna–Cagliari, Sez. I, con sentenza n. 2299 del 2010 accoglieva tale censura affermando che il criterio della pubblicità delle sedute, nel corso delle quali la Commissione procede ai necessari adempimenti preordinati alla verifica della regolarità della documentazione richiesta dal lex specialis, è indefettibile, in quanto espressione, sia pure indiretta, del principio d’imparzialità di rilevanza costituzionale, posto a presidio degli interessi, sia pubblici, sia privati, alla possibilità di verificare la correttezza dell’attività amministrativa ad evidenza pubblica.
In questa prospettiva, il TAR riteneva che l’obbligo di pubblicità delle sedute di gara si dovesse estendere anche alla fase di valutazione delle offerte tecniche, limitatamente alla fase di apertura delle buste, con la conseguenza che il mancato rispetto di tale norma principio aveva inevitabilmente inficiato la legittimità della procedura.
Negli appelli promossi avverso tale sentenza, le parti soccombenti in primo grado contestavano la correttezza della motivazione resa sul punto richiamando i precedenti giurisprudenziali, anche del Consiglio di Stato, secondo il quale non sarebbe necessaria (e, anzi sarebbe preclusa) la possibilità di procedere in seduta pubblica all’apertura delle buste contenenti l’offerta tecnica.
La Sezione Quinta, nell’ordinanza di rimessione oggetto di segnalazione ricostruisce sinteticamente i due diversi indirizzi invalsi in materia, rilevando come sussiste un primo orientamento, più radicale, in virtù del quale l’obbligo di pubblicità delle sedute delle commissioni di gara riguarderebbe esclusivamente la fase dell’apertura dei plichi contenenti la documentazione e l’offerta economica dei partecipanti e non anche la fase di apertura e valutazione delle offerte tecniche (cfr. Sezione V, 13.10.2010 n. 7470; 16.08.2010 n. 5722; 13.07.2010 n. 4520; 14.10.2009 n. 6311; 04.03.2008 n. 901; 100.01.2007 n. 45; Sez. IV, 05.04.2003 n. 1787).
Nell’ordinanza di rimessione si richiama anche il secondo indirizzo giurisprudenziale, minoritario, a tenore del quale l’obbligo di pubblicità deve intendersi esteso anche agli adempimenti relativi alla verifica dell’integrità dei plichi contenenti l’offerta, sia che si tratti di documentazione amministrativa sia che si tratti di documentazione in materia di offerta tecnica (cfr. Sezione V, 23.11.2010 n. 8155; 28.10.2008 n. 5386; Sezione VI, 22.04.2008 n. 1856; Sezione IV, 18.10.2007 n. 5217).
La Sezione rimettente non sembra propendere per uno dei due orientamenti in particolare, preoccupandosi piuttosto di mettere in evidenza i limiti connessi ad entrambi gli indirizzi appena richiamati.
Ed invero, quanto al primo orientamento, tendente a restringere la portata applicativa dell’obbligo di pubblicità delle sedute, osserva il Consiglio di Stato come “la necessità che la fase di valutazione delle offerte tecniche si svolga in seduta riservata non implica affatto che anche la fase di apertura delle buste contenenti le offerte tecniche, attività materiale logicamente distinta ed in pratica agevolmente separabile da quella –necessariamente riservata– di valutazione, si svolga in seduta riservata, e quindi in deroga ai princìpi di trasparenza e di pubblicità”. Conseguentemente, la Sezione conclude sul punto non ravvisando “ragioni ostative a che le commissioni di gara procedano all’apertura delle buste in seduta pubblica, per poi procedere in seduta riservata alla valutazione delle relative offerte tecniche”.
Con riferimento al secondo orientamento, volto a dilatare l’obbligo di pubblicità delle sedute di gara, le perplessità manifestate attengono piuttosto alla constatazione che, di regola, “la mera constatazione dell’integrità delle buste, infatti, non soddisfa che in modo parziale le esigenze di trasparenza e pubblicità: essa non consente, infatti, ai concorrenti presenti di prendere contezza dei documenti recanti le offerte tecniche, così come avviene per i documenti amministrativi e per le offerte economiche”. In altri termini, un’indagine relativa al solo dato esteriore della busta contenente l’offerta tecnica, non accompagnata da una “ricognizione pubblica del contenuto documentale delle offerte”, non costituirebbe sufficiente ed adeguata garanzia rispetto al “pericolo di manipolazioni successive delle offerte proprie e di quelle altrui, eventualmente dovute ad inserimenti, sottrazioni o alterazioni di documenti”.
E’ interessante notare, peraltro, come la Sezione Quinta abbia espressamente respinto l’argomento difensivo contrario alla tesi dell’estensione dell’obbligo di pubblicità delle sedute, fondato sul dettato dell’art. 13, co. 2, lett. c) e co. 3, del d.lgs. n. 163 del 2006. Come noto tali disposizioni prevedono il differimento del diritto d’accesso agli atti delle procedure di gara concernenti anche i verbali della gara.
A tal proposito, il Collegio ha affermato come tale differimento debba intendersi come riferito alle sole ipotesi di “accesso esoprocedimentale (art. 22, legge n. 241/1990)”, ossia proposto da soggetto che non abbia partecipato alla gara, e non anche in quelle di ”accesso endoprocedimentale (art. 10, legge n. 241/1990, e s.m.i.)”, ossia proposto su istanza di altro operatore economico partecipante alla procedura (commento tratto da www.amministrazioneincammino.luiss.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - RIFIUTI - Fanghi biologici - Regione - Adozione di misure interdittive al di fuori dei casi previsti dall’art. 4 del d.lgs. n. 99/92 - Illegittimità.
Non compete alla Regione l’adozione di misure interdittive all’utilizzazione dei fanghi biologici in agricoltura al di fuori dei casi espressamente previsti dal legislatore mediante il disposto dell’art. 4 del d.lgs. n. 99/1992, dovendo, invece, l’amministrazione limitarsi all’esplicazione dei poteri previsti dall’art. 6 dello stesso d.lgs., fra i quali è ricompresa la possibilità di adottare mere limitazioni nel rispetto dei presupposti espressamente previsti dalla disposizione normativa.
ACQUA - RIFIUTI - Fanghi biologici - Art. 127 d.lgs. n. 152/2006 - Assenza di particolare potenzialità inquinanti - Riutilizzo.
Ai sensi dell’art. 127 del d.lgs. n. 152/2006, i fanghi biologici devono essere riutilizzati ogni qualvolta il loro reimpiego risulti appropriato, ipotesi che ricorre certamente nei casi in cui non emerga una particolare potenzialità inquinante.
ACQUA - RIFIUTI - Fanghi biologici - Art. 101, c. 10, d.lgs. n. 152/2006 - Stipula di accordi di programma - Recupero dei fanghi di depurazione.
L’art. 101, comma 10, del codice dell’ambiente prevede la possibilità da parte delle autorità competenti di stipulare accordi di programma con i soggetti economici interessati, al fine di favorire il recupero dei fanghi da depurazione e di fissare limiti in deroga alla disciplina generale, nel rispetto comunque delle norme comunitarie e delle misure necessarie al conseguimento degli obiettivi di qualità.
Risulta, infatti, quanto più opportuna in materia ambientale l’utilizzazione del modulo convenzionale che, sulla scia dell’art. 11 della legge generale sul procedimento amministrativo, permetta l’esplicazione della potestà pubblica secondo modalità flessibili, in relazione alle complesse situazioni che la stessa si trova ad affrontare in tale ambito di attività ed in considerazione della particolare rilevanza degli interessi pubblici alla stessa sottesi (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.05.2011 n. 1262 - link a www.ambientediritto.it).

ESPROPRIAZIONE: L’acquisizione senza titolo di suoli privati per pubblica utilità comporta sempre la necessità di risarcire anche il danno da occupazione illegittima.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’ PROCEDURA – UTILIZZAZIONE E TRASFORMAZIONE SENZA TITOLO – DIRITTO DEL PROPRIETARIO DEL SUOLO AL RISARCIMENTO DEI DANNI SUBITI – COMPRENDE L’AUTONOMA SORTE DI DANNO DA OCCUPAZIONE ILLEGITTIMA.

L’utilizzazione senza titolo di un bene di proprietà privata comporta, normalmente, due distinti danni, i quali vanno entrambi risarciti, anche alla luce dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), relativi alla necessaria integrità del ristori del pregiudizio derivante da attività illecita dell’amministrazione
Il primo attiene alla perdita (definitiva) della proprietà, che avviene nel momento in cui è adottato il provvedimento di cui all’articolo 43 del testo unico (norma dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza C. Cost. 293/2010) o quando, come nella specie, il privato “rinuncia” alla proprietà.
Il secondo danno riguarda la mancata utilizzazione del bene (o del suo corrispondente valore monetario) per il periodo compreso tra l’inizio della occupazione senza titolo e la perdita della proprietà.
Tale seconda voce di danno deve essere risarcita in modo pieno e completo, ma, ovviamente, senza determinare duplicazioni o sovrapposizioni con il ristoro già insito nel risarcimento calcolato sulla perdita del bene, opportunamente rivalutato (massima tratta atto da www.amministrazioneincammino.luiss.it - C.G.A.R.S., sentenza 02.05.2011 n. 351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Per il Giudice salentino la “specificazione” ex art. 940 c.c. è una ragionevole via d’uscita dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della c.d. “acquisizione sanante”.
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – INVALIDITA’ DELLA PROCEDURA – SORTE DELL’OPERA PUBBLICA REALIZZATA SUL SUOLO NON LEGITTIMAMENTE ACQUISITO – RICOSTRUZIONE DISCIPLINA APPLICABILE DOPO DECLARATORIA ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE ART. 43 D.P.R. 327/2001 – ACQUISIZIONE A TITOLO ORIGINARIO DEL SUOLO PER SUA “SPECIFICAZIONE” NELL’OPERA PUBBLICA AI SENSI DELL’ART. 940 C.C. – CONSEGUENZE.

Dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’istituto della c.d. “acquisizione sanante”, di cui all’art. 43 D.P.R. n. 327/2001, per consolidare l’effetto acquisitivo del suolo alla mano pubblica, indotto dalla sua ormai irreversibile trasformazione, può utilizzarsi un’applicazione estensiva del principio codificato dall’art. 940 c.c., che riconnette l’acquisto a titolo originario della cosa mobile, quale risultante dalla “specificazione” di un diverso bene.
Per effetto della specificazione del fondo la proprietà dell’opera pubblica viene acquistata, a titolo originario, dall’ente specificatore nel momento in cui l’opera di specificazione è completata, cioè si è avuta la specificazione; questo non in conseguenza di un illecito ma di un istituto che affonda le sue radici nel diritto romano e costituisce un fatto che dà diritto ad un indennizzo non un illecito che dà diritto al risarcimento del danno. Sull’acquisto non influisce quanto può essere ritenuto o meno dal giudice, sicché le norme che disciplinano il fenomeno sono “precise e prevedibili”, rispettano le indicazioni del giudice di Strasburgo.
Le stesse sono anche “accessibili“: quando l’opera è stata realizzata in violazione dei termini fissati, la richiesta indennitaria può essere avanzata nel termine di dieci anni dalla verificazione del fatto; se invece l’opera è stata realizzata a seguito di una procedura successivamente annullata il termine prescrizionale decorre, ex art. 2935 c.c., dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, cioè da quando è passata in giudicato la pronuncia che ha annullato gli atti della procedura (commento tratto da www.amministrazioneincammino.luiss.it - TAR Puglia–Lecce, Sez. I, sentenza 27.04.2011 n. 743 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Il lavoro straordinario svolto nel corso dell’attività di missione può essere remunerato solo nella parte eccedente il normale orario di lavoro ma con esclusione dei tempi necessari per recarsi presso la sede di trasferta e per ritornare presso quella di servizio, che sono già remunerati con il trattamento di missione.
Il diritto al compenso per lavoro straordinario può essere riconosciuto solo in presenza di preventiva e formale autorizzazione. Questa ha lo scopo precipuo di controllare, nel rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, la sussistenza di effettive ragioni di interesse pubblico alla prestazione e di risorse finanziarie a tal fine destinate. In circostanza straordinarie l’autorizzazione può intervenire ex post, a sanatoria, quando lo svolgimento della prestazione sia dovuto ad eccezionali ed improcrastinabili esigenze di servizio, ma comunque non può mai essere esclusa.
La sussistenza di autorizzazione implicita è stata eccezionalmente riconosciuta in casi od eventi straordinari in cui la prestazione sia avvenuta nell’ambito di specifiche ed individuate attività cui il dipendente doveva obbligatoriamente partecipare ovvero nel caso di un servizio indispensabile che l’amministrazione era obbligata a garantire trattandosi di compiti irrinunciabili di assistenza.

Il lavoro straordinario svolto nel corso dell’attività di missione può essere remunerato solo nella parte eccedente il normale orario di lavoro ma con esclusione dei tempi necessari per recarsi presso la sede di trasferta e per ritornare presso quella di servizio, che sono già remunerati con il trattamento di missione.
Inoltre, “secondo consolidati principi (ex multis Cons. St. Sez. V n. 844/2009; Sez. IV n. 2282/2007), il diritto al compenso per lavoro straordinario può essere riconosciuto solo in presenza di preventiva e formale autorizzazione. Questa ha lo scopo precipuo di controllare, nel rispetto del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, la sussistenza di effettive ragioni di interesse pubblico alla prestazione e di risorse finanziarie a tal fine destinate.
In circostanza straordinarie l’autorizzazione può intervenire ex post, a sanatoria, quando lo svolgimento della prestazione sia dovuto ad eccezionali ed improcrastinabili esigenze di servizio, ma comunque non può mai essere esclusa.
La sussistenza di autorizzazione implicita è stata eccezionalmente riconosciuta in casi od eventi straordinari in cui la prestazione sia avvenuta nell’ambito di specifiche ed individuate attività cui il dipendente doveva obbligatoriamente partecipare ovvero nel caso di un servizio indispensabile che l’amministrazione era obbligata a garantire trattandosi di compiti irrinunciabili di assistenza (Cons. St. Sez. V, n. 3503/2001).
Nel caso in esame, nessun principio di prova è stato addotto relativamente alla presenza di autorizzazione alla prestazioni di lavoro straordinario, sia preventiva che a sanatoria, né sono stati documentati eventi che, a causa della loro straordinarietà, possano ricondursi alla fattispecie dell’autorizzazione implicita
.” (C.S. n. 1370/2010) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 19.04.2011 n. 2400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifica dei siti inquinanti. Competenza della Provincia sulle misure per la messa in sicurezza di emergenza. Legittimità di un ordine in materia adottato dopo che è trascorso infruttuosamente il termine per l’emissione del parere del Comune interessato.
L’art. 252 del d.lgs. 03.04.2006 n. 152, in relazione ai siti inquinati di interesse nazionale, devolve al Ministero dell’Ambiente la sola competenza in merito alle procedure di bonifica, lasciando, invece, inalterata la competenza della Provincia, desumibile dall’art. 244 dello stesso d.lgs., ad ordinare l’adozione delle misure ritenute, in via provvisoria, necessarie per la messa in sicurezza di emergenza, in attesa di eventuali ulteriori interventi di bonifica o di messa in sicurezza operativa o permanente del sito di competenza statale (Ha osservato in particolare la sentenza in rassegna che, sul piano letterale, la tesi trova riscontro nell’art. 252, il quale, nel rinviare all’art. 242, devolve al ministero dell’Ambiente la sola competenza in relazione a procedure di bonifica, in relazione ai siti di interesse nazionale, senza però menzionare i provvedimenti espressamente attribuiti alla competenza provinciale dall’art. 244).
L’art. 244 del d.lgs. n. 152/2006, il quale prevede che, la Provincia, "dopo aver svolto le opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell'evento di superamento e sentito il comune, diffida con ordinanza motivata il responsabile della potenziale contaminazione a provvedere ai sensi del presente titolo" va letto nel senso che la Provincia ha il potere di ordinare al responsabile dell’inquinamento l’adozione di quelle misure, preventive e di messa in sicurezza d’emergenza, che il responsabile stesso, ai sensi dell’art. 242, commi 1 e 2, avrebbe già dovuto adottare di sua iniziativa. Tale competenza provinciale permane anche in presenza di un sito di interesse nazionale.
Il provvedimento adottato dalla Provincia ai sensi dell’art. 244 d.lgs. n. 152/2006 ha natura e presupposti diversi rispetto al provvedimento, di competenza ministeriale, che ordina le misure di bonifica e che presuppone, ai sensi dell’art. 242, l’analisi di caratterizzazione. Si tratta, infatti, di un provvedimento di natura provvisoria, volto a porre rimedio ad una situazione di emergenza mediante misure di messa in sicurezza provvisorie, in attesa del definitivo accertamento, da parte del Ministero, dei presupposti per disporre le misure definitive di bonifica e messa in sicurezza permanente.
E’ legittimo il provvedimento con il quale una Provincia, dopo aver chiesto al Comune di espletare le opportune valutazioni prescritte dall’art. 244, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, entro un dato termine che è trascorso infruttuosamente, ha provveduto autonomamente, atteso che l’art. 244 cit. usa l’espressione "sentito il Comune" e non già "acquisito il parere del Comune" (massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12.04.2011 n. 2249 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Selezione interna integralmente riservata al personale dipendente a tempo indeterminato del Comune.
E’ illegittima la determinazione dirigenziale con la quale è stato approvato il bando di selezione interna per progressione verticale relativa a posti di Commissario di Polizia Municipale cat. D3 (posizione economica D3) interamente riservata al personale dipendente a tempo indeterminato del Comune, atteso che tale determinazione confligge con il principio del pubblico concorso enunciato dall’articolo 97 della Costituzione e dall’articolo 35 del D.lgs 165/2001; quest’ultimo strumento, infatti, costituisce la regola per l’ammissione ai pubblici impieghi, mentre la selezione esclusivamente interna rappresenta solo un’eccezione a cui ricorrere in presenza di speciali ragioni, nel caso in questione non ricorrenti (1).
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(1) Nella motivazione della sentenza in rassegna si rileva, tra l’altro, che costituisce un principio generale dell’ordinamento, di rilevo costituzionale, quello per cui «l’area delle eccezioni» al concorso deve essere «delimitata in modo rigoroso» (Corte Cost., sentenza n. 363 del 2006) e che le deroghe sono legittime solo in presenza di «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico» idonee a giustificarle (Corte Cost., sentenza n. 81 del 2006).
Non può, infatti, ritenersi sufficiente, a tal fine, la semplice circostanza che determinate categorie di dipendenti abbiano prestato la propria attività presso l’amministrazione (Corte Cost., sentenza 11.02.2011 n. 42; Corte Cost., sentenza 15.12.2010 n. 354; Corte Cost., sentenza n. 205 del 2006), né basta la «personale aspettativa degli aspiranti» ad una progressione di carriera.
Occorrono invece particolari ragioni giustificatrici, ricollegabili alla peculiarità delle funzioni che il personale da reclutare è chiamato a svolgere, in particolare relativamente all’esigenza di consolidare specifiche esperienze professionali maturate all’interno dell’amministrazione e non acquisibili all’esterno, le quali facciano ritenere che la deroga al principio del concorso pubblico sia essa stessa funzionale alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione.
La natura comparativa e aperta della procedura è, pertanto, elemento essenziale del concorso pubblico. Procedure selettive riservate, che riducano irragionevolmente o escludano la possibilità di accesso dall’esterno, violano il «carattere pubblico» del concorso (Corte Cost., sentenza 13.05.2010 n. 169; Corte Cost., sentenza n. 34 del 2004), e, conseguentemente, i principi di imparzialità e buon andamento, che esso assicura.
Tali principi di rilievo costituzionale sono stati recepiti dal legislatore ordinario che all’articolo 35 del D.lgs 165 del 2001, applicabile agli enti locali in virtù dell’esplicito richiamo di cui all’articolo 88 del D.lgs 267 del 2000, ha previsto che le procedure selettive devono garantire in misura adeguata l’accesso dall’esterno.
Del resto anche l’articolo 91 del citato D.lgs 267 del 2000 prevede esplicitamente la possibilità di effettuare concorsi interamente riservati al personale dipendente, solo in relazione a particolari profili o figure professionali caratterizzati da una professionalità acquisita esclusivamente all'interno dell'ente.
Sul principio v. da ult. Corte cost., sentenza 18.02.2011, n. 52 ed ivi ult. riferimenti (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Emilia-Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 12.04.2011 n. 343 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Ricorso giurisdizionale avverso una deliberazione del Consiglio comunale recante indirizzo al Sindaco ed alla Giunta comunale per l’introduzione e l’integrazione nel territorio comunale di zone a traffico limitato.
L’atto di indirizzo è in genere un atto di natura programmatica proveniente dall’organo competente ad esprimere la volontà "politica" dell’ente di riferimento, che si traduce nell’indicazione di obiettivi, priorità, criteri all’attività dell’organo cui è diretto, al fine di orientarne l’azione, senza produrre effetti giuridici direttamente vincolanti se non per quest’ultimo.
E’ inammissibile, per difetto di lesività del provvedimento impugnato, il ricorso avverso una deliberazione del Consiglio comunale recante indirizzo al Sindaco ed alla Giunta Comunale per l’introduzione e l’integrazione di zone a traffico limitato, nonché per l’introduzione di una zona a traffico limitato con accesso subordinato al pagamento di una tariffa cosidetta ECOPASS; infatti, l'art. 7, comma 9, del D.Lgs. 30.04.1992, n. 285, attribuisce espressamente alla Giunta il compito di procedere all'istituzione ed all'individuazione della Zona a Traffico Limitato, con la conseguenza la suddetta deliberazione del Consiglio comunale, non rientrando in alcuno degli atti di indirizzo tassativamente elencati dall’art. 42, D.Lgs. n. 267 del 2000 (TUEL), lascia impregiudicata, persino nell’an, la sfera discrezionale dell’esecutivo locale (ovviamente sul piano della validità giuridica dell’azione), configurandosi non quale presupposto necessario e vincolante nell’ambito di un procedimento complesso che necessita del previo indirizzo consiliare, ma come mera esortazione, sebbene analiticamente concepita ed espressa, all’adozione di decisioni di governo che competono in via esclusiva alla Giunta; con l’ulteriore conseguenza del difetto di lesività della delibera consiliare e dell’inammissibilità del ricorso giurisdizionale avverso la stessa (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 07.04.2011 n. 264 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: RIPARTO DI COMPETENZE IN MATERIA DI CONTRATTI PUBBLICI.
Sono incostituzionali le disposizioni normative, contenute nella legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 11/2009, come modificate dalla legge n. 12/2010, laddove: a) prevedono che, qualora si applichi il criterio del prezzo più basso, si darà corso, in ogni caso, all'applicazione del sistema di esclusione automatica delle offerte anomale; b) non prevedono l'applicazione delle forme di pubblicità stabilite dall'articolo 122 del Codice; c) prevedono che la procedura selettiva, per l'affidamento dei servizi di progettazione, debba svolgersi tra tre e non tra almeno cinque soggetti.
E' quanto stabilito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 07.04.2011 n. 114, nella quale viene confermata la competenza statuale, cioè la disciplina del Codice (D.Lgs n. 163/2006) in materia di contratti pubblici.
I giudici costituzionali ricordano, preliminarmente, che, ai sensi dell'articolo 4 della legge costituzionale n. 1/1963, la potestà legislativa primaria regionale deve essere esercitata in armonia con la Costituzione, con i principi generali dell'ordinamento giuridico della Repubblica, con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali e con gli obblighi internazionali dello Stato. Ora, non vi è dubbio che le disposizioni contenute nel citato Codice dei contratti pubblici, in tema di tutela della concorrenza e di ordinamento civile, devono essere ascritte, per il loro proprio contenuto d'ordine generale, all'area delle norme fondamentali di riforme economico-sociali, nonché delle norme con le quali lo Stato ha dato attuazione agli obblighi internazionali nascenti dalla partecipazione dell'Italia all'Unione europea.
Al riguardo, la Consulta ricorda che proprio le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e di Bolzano devono rispettare quelle norme del Codice, che attengono, da un lato, alla scelta del contraente (alle procedure di affidamento) e, dall'altro, al perfezionamento del vincolo negoziale e alla correlata sua esecuzione (Corte Cost. n. 45/2010). Di conseguenza, sia le Regioni che le Province autonome devono rispettare due distinte tipologie di principi, che si pongono come ovvio limite alla loro potestà legislativa. Precisamente:
a) i principi della tutela della concorrenza, strumentali ad assicurare le libertà comunitarie e, dunque, le disposizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici che costituiscono diretta attuazione delle prescrizioni poste a livello europeo;
b) i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica, tra i quali sono ricompresi anche quelli afferenti la disciplina di istituti e rapporti privatistici relativi, soprattutto, alle fasi di conclusione ed esecuzione del contratto di appalto, che devono essere uniformi sull'intero territorio nazionale, in ragione della esigenza di assicurare il rispetto del principio di uguaglianza.
Venendo alla concreta vicenda, occorre rilevare che l'Avvocatura dello Stato aveva censurato, davanti alla Corte costituzionale, le disposizioni della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 11/2009, come modificate dalla legge n. 12/2010, prevedenti quanto segue:
1) la possibilità di affidare appalti di lavori sino ad un milione di euro, mediante ricerca di mercato, volta ad individuare operatori economici in possesso dei necessari requisiti di qualificazione, con invito ad almeno 15 soggetti;
2) l'obbligo, in caso di appalti di lavori sino ad un milione di euro, di procedere all'esclusione automatica delle offerte anomale, qualora si applichi il criterio del prezzo più basso;
3) la pubblicazione di esiti di gare per appalti di lavori sino ad un milione di euro solo sull'albo pretorio della stazione appaltante, con contestuale comunicazione all'Osservatorio regionale (invece di: pubblicazione G.U. serie speciale dei contratti pubblici + pubblicazione albo pretorio Ente appaltante + pubblicazione sul sito dell'Osservatorio e sul sito del Ministero delle Infrastrutture + pubblicazione, per estratto, su un quotidiano nazionale ed uno locale);
4) possibilità di affidare servizi di ingegneria-architettura di importo pari od inferiore ad euro 50.000,00, mediante procedura selettiva basata sul solo esame dei curricula di tre soggetti.
Ora, la Corte costituzionale, sulla base delle predette coordinate interpretative, procede alle seguenti decisioni:
- La censura sub 1) non viene accolta, in ragione della genericità dei motivi di doglianza, fondati su non dettagliati richiami alle norme codicistiche, senza congrua indicazione delle asserite difformità.
- La censura sub 2) viene accolta, in quanto la disposizione regionale illegittimamente introduce una disciplina, in tema di offerte anomale, diversa da quella nazionale, idonea ad incidere negativamente sul livello della concorrenza, che deve essere garantito agli imprenditori operanti nel mercato.
- Anche la censura sub 3) viene accolta, in quanto le ridotte forme di pubblicità ledono i minimi livelli di concorrenza, in quanto l'adozione di adeguate misure di pubblicità costituisce un elemento imprescindibile a garanzia della massima conoscenza e della conseguente partecipazione alle procedure di gara.
- Infine, viene accolta la censura sub 4), in quanto la riduzione degli operatori economici, ammessi a partecipare alla procedura selettiva, comporta una diversità di disciplina, rispetto a quella statale, idonea ad incidere negativamente sul livello complessivo di tutela della concorrenza nel particolare segmento di mercato preso in considerazione.
Come ben si vede, la Corte costituzionale interviene, con decisione e puntiglio, a censurare le reali discrasie della normativa regionale, rispetto a quella codicistica, sulla base, primariamente, della necessità di fornire congrua tutela ai primari principi della concorrenza. Principi, che possono essere garantiti in modo pieno e su tutto il territorio nazionale, solo attraverso il rispetto della disciplina del Codice, cioè la disciplina statuale (tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it).

APPALTI SERVIZI: ILLUMINAZIONE VOTIVA.
E' del tutto pacifico in giurisprudenza che l'illuminazione elettrica votiva di aree cimiteriali da parte del privato rappresenti oggetto di concessione di servizio pubblico locale a rilevanza economica perché richiede che il concessionario impegni capitali, mezzi, personale da destinare ad un'attività economicamente rilevante in quanto suscettibile, almeno potenzialmente, di generare un utile di gestione e, quindi, di riflettersi sull'assetto concorrenziale del mercato di settore. Ai sensi dell'articolo 30 del Codice dei contratti pubblici (D.Lgs n. 163/2006), la disciplina sull'anomalia delle offerte non si estende alle concessioni di servizi, a meno che non sia stato previsto in sede di disciplinare di gara.
E' quanto affermato dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 24.03.2011 n. 1784.
Ora, al di là della conferma di un chiaro indirizzo giurisprudenziale in tema di tendenziale inapplicabilità dell'istituto dell'offerta anomala in sede di concessione di servizi, ciò che preme evidenziare è che, ancora una volta, i giudici amministrativi pongono in essere un'analisi dell'illuminazione votiva ancora largamente insoddisfacente. Invero, proprio l'inizio dell'anno in corso ha registrato un inatteso e controverso mutamento del tradizionale orientamento, che può essere così sintetizzato:
a) Fino al 2010, quasi senza eccezioni, la giurisprudenza amministrativa inquadrava l'illuminazione votiva nell'alveo dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, con conseguente applicazione della recente disciplina in materia, rappresentata dall'articolo 23-bis della legge n. 133/2008 e dal regolamento attuativo, approvato con Dpr n. 168/2010 (CdS, sez. V, sentenze n. 1600 e 6049; Tar Lombardia, sez. Brescia II, n. 1509/2009; Tar Calabria, sez. Catanzaro I, n. 2.20/2010).
b) Con la sorprendente sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 26.01.2011, n. 552, si è consumato il primo revirement: E' stato affermato che è legittima la scelta del Comune di gestire direttamente il servizio di illuminazione votiva cimiteriale, esigente solo l'impegno periodico di una persona e la spesa annua di qualche migliaio di euro, laddove l'esborso sarebbe notoriamente ben maggiore solo per potersi procedere a tutte le formalità necessarie per la regolare indizione di una gara pubblica. Ciò, ovviamente, implica l'innovativa connotazione di servizio pubblico locale privo di rilevanza economica.
c) Tale cambiamento di posizione viene confermato dalla successiva sentenza del Tar Lazio, sez. Roma II, 04.02.2011, n. 1.077, ove viene espressamente affermato che, in ragione dei ridotti margini di profitto, non può dubitarsi che il servizio di illuminazione votiva sia privo di rilevanza economica.
d) Con la successiva sentenza Tar Lombardia, sez. Milano I, 11.02.2001, si ritorna alla vecchia tesi dell'illuminazione votiva quale servizio pubblico locale a rilevanza economica.
I movimenti sussultori della giurisprudenza, a ben vedere, non sembrano essersi arrestati con la sentenza in esame.
Infatti, se è vero che il CdS conferma la vecchia tesi della rilevanza economica, è parimenti vero che pone in essere, al contempo, un'operazione ermeneutica assolutamente non chiara, laddove, per giustificare l'inapplicabilità della verifica dell'anomalia delle offerte, fa riferimento alla concessione di servizi. Ora, tale riferimento, chiaro ed espresso, non può che significare che l'illuminazione votiva è una concessione di servizi, quale disciplinata dall'articolo 30 del Codice dei contratti. Tuttavia, la concessione di servizi è un istituto non equivalente ai servizi pubblici locali a rilevanza economica! Questo è il punto centrale della questione ed anche il profilo di maggior interesse della sentenza in esame, nel senso che non è chiaro se il CdS confonda i due istituti, non rilevando fra i due alcuna differenza, o se ritenga che l'illuminazione votiva abbia una natura promiscua (un po' di concessione di servizi ed un po' di servizio pubblico locale a rilevanza economica!).
Scartata la seconda ipotesi, per la sua naturale improponibilità, occorre porre attenzione alle differenze sussistenti fra i due richiamati istituti, diversità, come appare, denegate dal Consiglio di Stato.
In linea generale, deve essere osservato che concessione di servizi e servizio pubblico locale a rilevanza economica presentano le seguenti differenze:
a) Differenze di sede di disciplina: la concessione di servizi è regolamentata dall'articolo 30 del Codice; il servizio pubblico locale a rilevanza economica dall'articolo 23-bis della legge n. 133/2008 e dal Dpr n. 168/2010.
b) Differenze di presupposti applicativi: il servizio pubblico locale esige la sussistenza, ai sensi del comma 1°, dell'articolo 112, del D.Lgs n. 267/2000, di un'attività che abbia per oggetto produzione di beni ed attività rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali. Tale impegnativo presupposto manca del tutto nella concessione di servizi!
c) Differenze in merito alla proprietà delle reti ed impianti ed alla loro gestione separata. Infatti, il comma 5°, dell'articolo 23-bis, della L. n. 133/2008, stabilisce che ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati.
Se analizziamo attentamente tale disposizione normativa, ci accorgeremo che sono evidenti le diversità con l'illuminazione votiva. Ed, infatti:
- La proprietà pubblica delle reti ed impianti costituisce un totem insuperabile per i servizi pubblici locali, i cui affidamenti non possono prescinderne. Viceversa, gli impianti dell'illuminazione votiva diventano di proprietà comunale solo al termine della concessione;
- Non esiste, nel settore dell'illuminazione votiva, alcuna possibilità di separare l'erogazione del servizio dalla gestione delle reti;
- Ancor di più, non è pensabile, per l'illuminazione votiva, una gestione delle reti e degli impianti da parte dei privati, per la banale ed ovvia ragione che gli impianti sono realizzati dal privato concessionario, da lui gestiti e, solo al termine della concessione, vengono conferiti in proprietà al Comune.
Ora, oltre a queste chiare differenze, occorre tener conto di un recente parere dell'Autorità di Vigilanza (n. 28 del 09.02.2011), ove, in relazione ad una fattispecie di affidamento in gestione di sei asili nido comunali di infanzia, comprensivo di manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili concessi in uso gratuito, è stata posta in essere un'interessante analisi del complessivo articolo 30 del Codice, che disciplina la concessione di servizi.
L'AVCP afferma che il predetto articolo distingue testualmente, come possibile oggetto di concessione, tra servizi a terzi (comma 5°) e diritti speciali o esclusivi ad esercitare un'attività di servizio pubblico (comma 6°). In altri termini, ad avviso dell'Autorità di Vigilanza, occorre distinguere due casi:
1) Il caso, in cui un'autorità cede ad un terzo il diritto di svolgere una determinata attività economica.
2) Altro caso è, invece, costituito dalla cessione, in favore di un soggetto privato, di diritti speciali o esclusivi ad esercitare un'attività di servizio pubblico. In tale evenienza, l'attività si colora di particolari connotati pubblicistici, in quanto costituisce adempimento di una specifica missione di interesse pubblico.
Dunque, ad avviso dell'Autorità, la fattispecie sub 1) costituisce la versione più pura di concessione di servizi a terzi, in quanto, a differenza della concessione di servizio pubblico, non contempla mai la corresponsione, da parte della Pubblica amministrazione, di un prezzo a favore del concessionario. Infatti, il 2° comma dell'articolo 30 del Codice stabilisce che la remunerazione del concessionario si fonda in toto sulla gestione del servizio (tipologia pura o calda di concessione di servizi, secondo l'AVCP). Viceversa, la fattispecie sub 2) si riferisce al secondo capoverso del predetto 2° comma, cioè a quella che l'Autorità definisce come concessione di servizio pubblico (o fredda), in cui la Pubblica amministrazione compensa l'operatore economico con un prezzo al fine di mantenere le tariffe al di sotto di un certo livello o garantire lo standard qualitativo del servizio politicamente desiderato.
Dunque, secondo l'analisi dell'Autorità di Vigilanza, la concessione di servizio pubblico si connota peculiarmente per la presenza di un prezzo, che viene corrisposto dall'ente pubblico in favore del privato. Ciò, in conseguenza di ragioni politico-amministrative: qualora al concessionario venga imposto di praticare nei confronti degli utenti prezzi inferiori a quelli corrispondenti alla somma del costo del servizio e dell'ordinario utile di impresa, ovvero qualora sia necessario assicurare al concessionario il perseguimento dell'equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare (art. 30, comma 2°).
Orbene, non può sfuggire, anche in base ad un'analisi non particolarmente approfondita, che l'illuminazione votiva non contempla mai e poi mai la corresponsione dell'illustrato prezzo dall'ente pubblico in favore dell'operatore privato vincitore della gara. Anzi, come dimostrato dalla concreta vicenda esaminata dal Consiglio di Stato, avviene precisamente il contrario: è l'operatore privato, che conferisce alla Pubblica amministrazione un canone!
Ciò dovrebbe dimostrare, ancora una volta, che l'attività di illuminazione votiva non può essere inquadrata nell'alveo dei servizi pubblici locali, indipendentemente dalla rilevanza economica dell'attività medesima. L'attività di illuminazione votiva non manifesta, per le ragioni sin qui dette, alcuna contiguità con i servizi pubblici locali, ma, come correttamente rilevato dall'Autorità di Vigilanza (parere n. 21097/08/UAG del 15.04.2008), oscilla fra la concessione di servizi e la concessione di lavori pubblici (tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: PUBBLICITA' SEDUTE DI GARA.
Il principio di pubblicità, che risponde all'esigenza di garantire la trasparenza delle operazioni di gara, opera, indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in cui all'aggiudicazione si pervenga attraverso un'attività di tipo procedimentale, ancorché semplificata e, quindi, anche in relazione ai cottimi fiduciari.
E' quanto affermato dal TAR Sardegna, Sez. I, con la sentenza 10.03.2011 n. 212, ove viene consolidato l'orientamento favorevole ad una generale applicabilità del principio di pubblicità delle sedute di gara, indipendentemente dalla prescelta tipologia di individuazione del miglior contraente.
Dunque, il cottimo fiduciario, quale procedura negoziata in economia, risulta disciplinato dalle disposizioni normative, contenute nell'articolo 125 medesimo, e dai principi regolanti l'affidamento e l'esecuzione del contratto, previsti dall'articolo 2 del Codice. Ora, fra questi principi, vi è pure quello di pubblicità. Tuttavia, come si anticipava, non risulta del tutto pacifico se, relativamente al cottimo fiduciario, tale principio comporti pure la pubblicità delle sedute di gara, cioè la loro non riservatezza.
In altri termini, si discute se il principio in questione imponga la pubblicità delle sedute di gara di cottimo fiduciario, al pari delle altre procedure di scelta del contraente. Secondo un primo orientamento, le sedute di cottimo possono svolgersi anche in modo riservato:
- Il principio di pubblicità delle gare non si estende alla procedura avente ad oggetto l'acquisizione di forniture in economia ed in cottimo fiduciario, non essendo l'osservanza di tale principio previsto per essa dall'articolo 125, del codice dei contratti pubblici (Tar Piemonte, sez. II, n. 2243/2009).
- Versandosi in tema di cottimo fiduciario, l'invocato principio di pubblicità delle gare non si estende alla procedura avente ad oggetto l'acquisizione di forniture in economia, non essendo l'osservanza di tale principio previsto dall'art. 125 del D.Lgs. 12.04.2006 n. 163 (Tar Friuli, n. 716/2010).
Ad avviso di tale orientamento, assume importanza il fatto che l'articolo 125, che disciplina le procedure in economia ed il cottimo fiduciario, non contempla il principio di pubblicità. In tal modo, si sottovaluta completamente il rinvio, che lo stesso comma 14° dell'articolo 125 compie ai principi desumibili dal codice e dal regolamento. Una lettura indubbiamente restrittiva, che appare preoccupata solo di valorizzare al massimo le caratteristiche di semplificazione del cottimo, dimenticando, in modo non convincente, il rinvio ai principi.
Viceversa, secondo un altro indirizzo, proprio l'assetto dei principi generali, cui anche le procedure in economia debbono inspirarsi, implica la doverosa pubblicità delle sedute di gara: Contrariamente a quanto la resistente amministrazione mostra di ritenere il principio di pubblicità delle sedute, che risponde all'esigenza di garantire la trasparenza delle operazioni di gara, opera, anche nei riguardi del cottimo fiduciario ed indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda (Tar Sardegna, sez. I, n. 85/2011).
Ciò comporta che la fase di apertura dei plichi, contenenti la documentazione amministrativa e la verifica della medesima, nonché quella di apertura delle buste con le offerte economiche, devono sempre avvenire in seduta pubblica, così da assicurare a tutti i partecipanti la possibilità di assistere alle relative operazioni, a tutela del corretto svolgimento della procedura. In precedenza, la pubblicità delle sedute era stata statuita anche dal Consiglio di Stato (sez. V, n. 8006/2010), il quale aveva rilevato che le procedure per l'aggiudicazione di contratti con la P.A., compresa la trattativa privata, debbono rispettare i principi di trasparenza e di adeguata pubblicità.
Il Tar Sardegna, nella pronuncia in esame, aderisce a tale secondo orientamento, sulla base del seguente e convincente percorso argomentativo:
a) Il cottimo fiduciario, ai sensi della richiamata normativa, ha natura di procedura negoziata.
b) Il Dpr n. 384/2001 (regolamento di semplificazione dei procedimenti di spese in economia), cui fa riferimento la difesa dell'impresa controinteressata, nulla dispone in ordine alle modalità di svolgimento delle sedute di gara, per cui non è idoneo a sorreggere un'interpretazione restrittiva della portata applicativa del principio di pubblicità.
c) Diversamente opinando, peraltro, il regolamento sarebbe da disapplicare, in quanto contrastante con un principio operante a livello di norma primaria (art. 2, Codice).
d) Contrariamente a quanto sostenuto dalla stazione appaltante, nessun rilievo può essere attribuito al fatto che l'allegato IX-A al Codice dei contratti pubblici individui le persone ammesse ad assistere all'apertura delle offerte solo con riguardo alle procedure aperte.
e) Infatti, il principio di pubblicità esplica una valenza generale ed opera, anche in quanto diretto a garantire la trasparenza, indipendentemente dal fatto che il bando lo preveda, in tutte le ipotesi in cui all'aggiudicazione si pervenga attraverso un'attività di tipo procedimentale, ancorché semplificata e, quindi, anche in relazione ai cottimi fiduciari.
Il secondo indirizzo, cui aderisce la sentenza in esame, appare sicuramente più convincente, oltre che per le ragioni ora illustrate, anche per due precise considerazioni. In primo luogo, deve essere osservato che il principio di pubblicità delle sedute di gara trova applicazione anche nei settori speciali (gas, energia termica, elettricità, acqua, trasporti, servizi postali, sfruttamento di area geografica): Sussiste la necessità dell'obbligo di seduta pubblica anche nei settori speciali, come da ultimo più volte affermato (TAR Lombardia, Sez. I, 23.09.2009 n. 4801, TAR Lombardia, Sez. I 13.10.2008 n. 4757), atteso che le medesime istanze poste a fondamento del principio di trasparenza, che hanno indotto la stazione appaltante all'apertura in seduta pubblica della documentazione amministrativa, debbano, a maggior ragione, trovare applicazione anche in sede di apertura dell'offerta economica (Ord. Tar Lombardia, sez. Milano, 30.09.2010, n. 1061). Quindi, se il principio trova applicazione anche nei settori speciali, contrassegnati da rilevanti peculiarità anche di disciplina, non si comprende perché non debba trovare cittadinanza in relazione al cottimo fiduciario, ricompreso nei settori ordinari.
In secondo luogo, occorre tener conto anche dell'oramai imminente disciplina regolamentare (Dpr n. 207/2010, entrante in vigore l'08.06.2011). Infatti, il comma 2°, dell'articolo 120, ricompreso nella Parte II, disciplinante i settori ordinari, stabilisce che “in una o più sedute riservate, la commissione valuta le offerte tecniche e procede all'assegnazione dei relativi punteggi applicando, i criteri e le formule indicati nel bando o nella lettera di invito. Successivamente, in seduta pubblica, la commissione dà lettura dei punteggi attribuiti alle singole offerte tecniche, procede alla apertura delle buste contenenti le offerte economiche e, data lettura dei ribassi espressi in lettere e delle riduzioni di ciascuna di esse, procede secondo quanto previsto dall'articolo 121 (calcolo della soglia di anomalia)".
Appare ben chiaro che la seduta pubblica si impone sempre, a prescindere dalla tipologia di gara, mentre la seduta riservata viene confinata alla sola fase di valutazione delle offerte tecniche (tratto dalla newsletter di
www.centrostudimarangoni.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: 1. Inquinamento acustico - Potere di ordinanza ex art. 9 L. n. 447/1995 - Maggiore ampiezza rispetto alla previsione generale di cui all'art. 54 d.lgs. n. 267/2000 - Accertamenti tecnici effettuati dall'ARPA - Minaccia per la salute pubblica.
2. Inquinamento acustico - Ordinanza ex art. 9 L. n. 447/1995 - Competenza del Sindaco.

1. L'art. 9 L. n. 447/1995 attribuisce al Sindaco poteri di intervento richiesto da urgente necessità di tutela della salute pubblica in senso più ampio che non laddove si dovesse ricorrere ai normali poteri di cui all'art. 54 D.lgs. 267/2000.
L'uso del potere di ordinanza contingibile ed urgente, delineato dall'art. 9 cit., deve pertanto ritenersi sempre ammesso laddove gli accertamenti tecnici all'uopo effettuati dalle competenti Agenzie Regionali di Protezione Ambientale rivelino la presenza di un fenomeno di inquinamento acustico, tenuto conto sia che quest'ultimo -ontologicamente (per esplicita previsione dell'art. 2 della stessa Legge n. 447/1995)- rappresenta una minaccia per la salute pubblica, sia che la Legge quadro sull'inquinamento acustico non configura alcun potere di intervento amministrativo "ordinario" che consenta di ottenere il risultato dell'immediato abbattimento delle emissioni sonore inquinanti.
2. Le ordinanze ex art. 9 L. n. 447/1995, in materia di inquinamento acustico, sono attribuite alla competenza del Sindaco (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 31.01.2011 n. 288 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA1. Contributi e oneri concessori - Mutamenti di destinazione d'uso - Necessità.
2. Contributi e oneri concessori - Previsione di distinte sottocategorie di destinazioni d'uso con diversi importi dei contributi concessori - Legittimità.

1. La necessità di corrispondere i contributi concessori anche per i mutamenti di destinazione d'uso è principio enucleabile dall'art. 10, ultimo comma, della Legge n. 10 del 1977, al fine di evitare che, quando la nuova tipologia assegnata all'immobile avrebbe comportato all'origine un più oneroso regime contributivo urbanistico, attraverso la modifica della destinazione il contributo possa essere evaso in tutto o in parte a vantaggio del richiedente e, di contro, con l'aggravio urbanistico già valutato in sede di fissazione di quel regime contributivo.
2. Deve ritenersi legittima la suddivisione delle categorie di destinazione d'uso in più sottocategorie o sottofunzioni, con diversa onerosità dal punto di vista dei contributi di costruzione, laddove ciò sia giustificato da significative diversità del carico urbanistico implicato dall'una o dall'altra di esse, tale da giustificare diverse modulazioni di calcolo del contributo concessorio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.01.2011 n. 240 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Acqua e corsi d'acqua - Vincolo di rispetto fluviale - Art. 39 L.r. Lombardia n. 51/1975 - Opere edilizie preordinate all'esercizio dell'agricoltura - Esclusione dal vincolo - Disciplina urbanistica comunale - Previsione di norme più restrittive - Legittimità.
L'art. 39 della L.R. Lombardia 15.04.1975, n. 51, nella parte in cui esclude le opere edilizie preordinate all'esercizio dell'agricoltura, dal vincolo di rispetto fluviale stabilito dalla legge, non costituisce un limite alla successiva potestà urbanistica comunale.
Il vincolo legale temporaneo introdotto dalla legge regionale non costituisce infatti oggetto necessario della successiva disciplina urbanistica comunale, la quale resta libera di dettare norme diverse, anche più restrittive, come si desume dalla previsione dello scopo "di migliorare le condizioni di tutela del patrimonio naturale e paesaggistico" e dalla previsione che la disciplina urbanistica deve obbligatoriamente ridefinire le condizioni del vincolo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 26.01.2011 n. 239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Responsabilità della pubblica amministrazione - Presupposto colpa - Illegittimità dell'atto - Sufficienza.
Non è richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della P.A., potendo limitarsi ad invocare l'illegittimità dell'atto quale indice presuntivo di colpa.
Spetta all'Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 19.01.2011 n. 138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Istanza di condono successiva all'ordinanza di demolizione - Impugnazione - Improcedibilità.
La presentazione di una istanza di condono edilizio successivamente all'ordinanza di demolizione del manufatto abusivo produce l'effetto di rendere improcedibile l'impugnazione del medesimo ordine di demolizione, per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto il riesame dell'abusività dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, provocato dall'istanza di condono, comporta la necessaria formazione di un nuovo provvedimento che vale comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto dell'impugnativa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.01.2011 n. 133 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione - Ex art. 43 del D.P.R. 327/2001 - Intervenuta illegittimità costituzionale - Rileva.
E' accolto il ricorso avverso il decreto con il quale il Dirigente del Servizio Valutazioni Immobiliari ed Espropri del Comune di Milano ha disposto l'acquisizione, ai sensi dell'art. 43 del D.P.R. 08.06.2001 n. 327, al patrimonio del Comune di Milano dell'immobile di proprietà dei ricorrenti. Si tratta in particolare dell'acquisizione al patrimonio indisponibile dell'Ente di un'area di proprietà delle ricorrenti ex art. 43 che la Corte Costituzionale ha successivamente dichiarato l'illegittimità costituzionale del citato art. 43 in quanto ritenuto in contrasto con l'art. 76 della Costituzione.
Per giurisprudenza costante del giudice amministrativo -inaugurata con la fondamentale pronuncia dell'adunanza plenaria del Consiglio di Stato 08.04.1963 n. 8- la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma che disciplina il potere esercitato dall'amministrazione rende il provvedimento adottato in applicazione di quella norma non già nullo o inesistente ma illegittimo.
La giurisprudenza -al fine di confutare una tesi autorevolmente sostenuta, secondo la quale l'atto emanato sulla base di una norma dichiarata incostituzionale va considerato nullo perlomeno quando la norma stessa è quella che non si limita a disciplinare le modalità di esercizio, ma fonda il potere amministrativo,- ha affermato, da un lato, che il potere esercitato dall'amministrazione si radica pur sempre su una disposizione legislativa vigente al momento dell'adozione del provvedimento, e quindi efficace in quel momento (ancorché illegittima per contrasto a Costituzione); e, da altro lato, che fra provvedimento amministrativo e norma che ne costituisce il presupposto legislativo non intercorre un legame di stretta interdipendenza paragonabile a quello che si instaura fra atto endoprocedimentale e provvedimento finale, ma che al contrario i due atti godono di un certo grado di autonomia che permette al provvedimento di continuare ad esistere nonostante l'intervenuta inefficacia della legge contraria a Costituzione.
Per conseguenza l'atto amministrativo, una volta intervenuta la pronuncia della Corte Costituzionale, continua a produrre i propri effetti sino a che non venga rimosso dall'ordinamento attraverso l'esercizio del potere amministrativo di autotutela ovvero attraverso una sentenza di annullamento emessa dal giudice amministrativo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 29.12.2010 n. 7741 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Reiterazione vincoli urbanistici - Motivazione - Necessità interesse pubblico.
Se non è richiesto che la motivazione della reiterazione dei vincoli urbanistici a contenuto di esproprio sia specifica in relazione alla destinazione di zone delle singole aree, è comunque necessario che essa evidenzi la sussistenza della attualità e della persistenza delle esigenze urbanistiche in quel senso. È necessario evidenziare l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, in quanto si tratta di atti che incidono sulla sfera di un proprietario che già per cinque anni è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di pubblica utilità e successivamente di esproprio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.12.2010 n. 7707 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Piano regolatore generale - Impugnare la delibera di adozione - Facoltativo.
2. Disciplina urbanistica - Vincolo espropriativo - Dovere di motivazione - Non sussiste - Reiterazione sull'area - Difetto di motivazione - Non sussiste.
3. Piano regolatore - Partecipazione alla formazione.
4. Piano regolatore - Varianti - Approvazione - Contestazione sulle prescrizioni - Generica.
5. Piano regolatore - Variante - Piano di servizi - Non necessita.
6. Piano regolatore - Piano finanziario - Espropriazioni .

1. E' respinto il ricorso avverso la deliberazione del Consiglio comunale di adozione del piano regolatore e della Giunta regionale di approvazione con prescrizioni dello stesso piano.
Per costante giurisprudenza, l'impugnazione della delibera di adozione del piano regolatore, qualora sia immediatamente lesiva, costituisce solo una facoltà, in quanto i vizi ad essa riferibili possono essere dedotti in sede di impugnazione della deliberazione: anche i vizi riferibili ad atti intermedi, come la valutazione delle controdeduzioni, possono essere -per giurisprudenza consolidata- dedotti in sede di impugnativa del provvedimento finale di approvazione (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. II, 29.01.2009, n. 989).
2. Infondato è anche il motivo sul difetto di motivazione circa la reiterazione sull' area di proprietà dei ricorrenti: emerge che le aree di cui si tratta sono sottoposte ad una disciplina che non consiste nell'assoggettamento ad un vincolo espropriativo, con conseguente insussistenza di un dovere di puntuale motivazione, atteso che la nuova disciplina urbanistica, posta in essere con gli atti impugnati, non ha comportato alcune reiterazione di vincoli espropriativi.
In particolare, l'individuazione, in sede di pianificazione urbanistica, delle aree soggette a tale regime non comporta alcuna reiterazione di vincoli espropriativi e non impone un particolare onere motivazionale.
3. Sull'inosservanza delle formalità di carattere informativo previste dalla l.r. n. 1/2010 per assicurare la partecipazione della cittadinanza, nonché della regione e della provincia al processo di formazione del piano regolatore, si ribadisce che le formalità pubblicitarie previste dal comma 14, lett. a), si collocano nella fase preliminare di redazione del piano, anzi precedono l'avvio del procedimento di formazione dello strumento urbanistico; si tratta dunque di adempimenti che non possono pretendersi laddove questa fase sia già esaurita. In tema di formazione del piano regolatore generale, l'art. 8 della l. n. 1150/1942 identifica il momento iniziale del procedimento con la deliberazione con la quale il consiglio comunale decide di procedere alla formazione del piano e alla nomina dei progettisti.
4. E' generica la contestazione sulle prescrizioni apposte dalla regione in sede di approvazione della variante, e infatti il ricorrente non ne identifica alcuna che riguardi specificamente la situazione giuridica soggettiva di cui è titolare, a tutela della quale agisce in questa sede e che arrechi alla medesima un vulnus specifico privandolo di una qualche utilità o aspettativa: non è dato comprendere quale lesione ne sia derivata al ricorrente, posto che nessuna delle prescrizioni apposte dalla regione è riferibile alla situazione delle proprie aree.
5. Sulla variante adottata dopo l'entrata in vigore della l.r. n. 1/2001, che prevede il piano di servizi, si ribadisce che la stessa non doveva essere obbligatoriamente corredata dal piano servizi, secondo quanto già evidenziato dal Tribunale su analoga questione (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. II, 29.01.2009, n. 989, nonché Tar Lombardia Milano, sez. II, 15.07.2008 n. 2921).
Infatti, il piano dei servizi è previsto dall'art. 22 della l.r. n. 51/1975 (disciplina urbanistica del territorio regionale), nel testo sostituito dall'art. 7 della l. r. n. 1/2001 (norme per la dotazione di aree per attrezzature pubbliche e di uso pubblico).
6. Il piano finanziario di cui all'art. 30 della l.r. urbanistica (cioè la relazione previsionale di massima delle spese occorrenti) non deve riferirsi indiscriminatamente a tutte le espropriazioni, bensì solo a quelle fondate sull'art. 18 della l. n. 1150/1942, cioè agli immobili (aree inedificate o costruzioni) da espropriare "entro le zone di espansione dell'aggregato urbano di cui al n. 2 dell'art. 7" (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 16.05.2007 n. 4139 e n. 4141, nonché 31.05.2007, n. 4737).
In ogni caso, la relazione economico-finanziaria richiesta dall'art. 30 non costituisce elemento essenziale del piano regolatore generale, potendo sopravvenire in un momento successivo, allorché il Comune deliberi l'espropriazione delle aree private interessate dal vincolo (Consiglio di Stato, sez. IV, 18.10.2002) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 21.12.2010 n. 7636 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano regolatore generale - Adozione - Impugnazione - Facoltà.
La delibera di adozione del Piano regolatore generale [o di una sua variante] può formare oggetto di immediata impugnazione, ma ciò non costituisce un onere ma una semplice facoltà, con la conseguenza che il suo mancato esercizio non comporta alcuna preclusione circa l'impugnazione della successiva approvazione del piano. Quindi, la conoscenza dell'atto di adozione comunale non è idonea a far decorrere il termine per l'impugnazione nei confronti del ricorrente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.12.2010 n. 7623 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Legittimità e illegittimità - Violazioni -Annullamento in s.g - Art. 21-octies L. 241/1990 - Limiti.
Ai sensi dell'art. 21-octies della Legge n. 241 del 1990, non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.12.2010 n. 7622 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cambio di destinazione senza opere - Non determina mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale.
A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 73/1991, per principio generale, il semplice cambio di destinazione attuato senza opere non costituisce mutamento urbanistico-edilizio del territorio comunale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.12.2010 n. 7562 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Inquinamento acustico - Zonizzazione acustica e urbanistica - Corrispondenza - Esclusione.
Non esiste piena corrispondenza tra zonizzazione urbanistica ed acustica: la finalità principale del Piano di zonizzazione acustica è infatti quella della tutela della salute umana in relazione all'inquinamento acustico e deve pertanto ritenersi differente dagli scopi propri della pianificazione urbanistica, con la conseguenza che la classificazione ai fini urbanistici non deve corrispondere pienamente con quella acustica (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 13.12.2010 n. 7545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia - Costruzione - Modifica dello stato dei luoghi.
La nozione di costruzione, ai fini del rilascio della concessione edilizia, si configura in presenza di opere che attuino una trasformazione urbanistico - edilizia del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi, a prescindere dal fatto che essa avvenga mediante realizzazione di opere muraria; infatti è irrilevante che le dette opere siano realizzate in metallo, in laminati di plastica, in legno o altro materiale, laddove comportino la trasformazione del tessuto urbanistico ed edilizio (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.12.2010 n. 7497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere condonabili - Criterio del completamento funzionale dell'opera.
In tema di ultimazione delle opere condonabili, gli articoli 31, comma 2 e 43, comma 5 della Legge n. 47/1985 dettano -in alternativa al criterio della esecuzione al rustico e completamento della copertura dell'edificio- il criterio del completamento funzionale dell'opera, secondo il quale, per i mutamenti di destinazione d'uso di edifici non residenziali, è condonabile la struttura in cui le opere, pur se non perfette fin nelle finiture, possono dirsi individuabili nei loro elementi strutturali con le caratteristiche necessarie e sufficienti ad assolvere la funzione cui sono destinate, in quanto i lavori di completamento di un edificio abusivamente iniziato, non preclusivi della sanatoria, sono quelli che servono a rendere funzionale il rustico di per sé già ultimato, senza intervenire sulla conformazione strutturale del manufatto, che deve rimanere intatto nella sua originaria consistenza.
Non possono, diversamente, considerarsi opere di completamento funzionale quelle che si traducono nella creazione di un quid novi rispetto alla consistenza strutturale e tipologica del manufatto già realizzato e che attribuiscono una diversa caratterizzazione funzionale allo stesso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 10.12.2010 n. 7497 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Piano regolatore - Motivazione dettagliata delle scelte urbanistiche - Non sempre necessaria.
2. Piano regolatore - Area agricola - Utilizzo culture tipiche - Non necessario.

1. L'obbligo di una più puntuale motivazione delle scelte urbanistiche adottate dall'Amministrazione sussiste solo in specifiche evenienze, quali il superamento degli standards minimi, l'esistenza in favore del privato di giudicati favorevoli ovvero la presenza di accordi con l'Ente locale, quali le convenzioni di lottizzazione.
Tali ipotesi non ricorrono nel caso in cui non esiste alcun atto o provvedimento dell'Amministrazione comunale dal quale si possa ragionevolmente desumersi l'esistenza in favore dei ricorrenti di un affidamento qualificato.
2. La destinazione a zona agricola di una determinata area non presuppone necessariamente che essa sia utilizzata per culture tipiche o possegga le caratteristiche per una simile utilizzazione, trattandosi di una scelta, tipicamente e ampiamente discrezionale, con la quale l'Amministrazione comunale ben può avere l'interesse a tutelare e salvaguardare il paesaggio o a conservare valori naturalistici ovvero a decongestionare o contenere l'espansione dell'aggregato urbano (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 25.11.2010 n. 7362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI Controversie in materia di appalto pubblico - Giurisdizione.
Ai fini del riparto della giurisdizione tra g.o. e g.a., rileva non tanto la prospettazione compiuta dalle parti, quanto il "petitum" sostanziale, che va identificato soprattutto in funzione della "causa petendi", ossia dell'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio, (Cassazione civile, sez. un., 25.06.2010 n. 15323), ne consegue che, qualora il petitum sostanziale azionato sia una domanda diretta ad accertare la corretta esecuzione del contratto di appalto, l'illegittimità dell'atto di risoluzione e la persistente vigenza delle obbligazioni reciprocamente assunte, l'oggetto della controversia, concentrandosi inequivocamente sulla disposta risoluzione del contratto, rientra nella sfera di cognizione del giudice ordinario.
È pacifica, infatti, l'appartenenza alla giurisdizione del giudice ordinario delle controversie in tema di appalto pubblico, aventi ad oggetto la risoluzione del contratto con l'appaltatore e l'accertamento del diritto di quest'ultimo a proseguire il rapporto con l'Amministrazione committente, ancorché l'atto rescissorio della P.A. sia rivestito dalla forma dell'atto amministrativo, perché è al giudice ordinario che spetta verificare la conformità alla normativa positiva delle regole attraverso cui i contraenti hanno disciplinato i loro contrapposti interessi e delle relative condotte attuative (ex plurimis, TAR Campania Napoli, sez. VII, 05.06.2009 n. 3110; TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 14.07.2009 n. 511; Consiglio Stato, sez. V, 17.10.2008 n. 5071; Consiglio Stato, sez. V, 28.12.2006 n. 8070) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 24.11.2010 n. 7346 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Atto amministrativo - Motivazione - Finalità.
2. Procedimento amministrativo - Comunicazione di avvio - Necessità.

1. In un atto amministrativo la motivazione è finalizzata ad esternare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno indotto ad adottare una determinata decisione, sia al fine di rendere edotti i destinatari dell'attività amministrativa del percorso seguito per giungere alla predetta decisione, sia per consentire al giudice, eventualmente investito della questione, di sindacarne lo svolgimento e l'esito finale.
2. La comunicazione di avvio del procedimento deve ritenersi tanto più necessaria allorquando venga avviato un procedimento volto all'adozione di un provvedimento di revoca di un atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario, dovendo quest'ultimo essere posto in grado di interloquire sulla (presunta) mancanza dei presupposti a fondamento della revoca (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.11.2010 n. 7284 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di ristrutturazione su immobili abusivi - Effetto preclusivo sulla potestà demolitoria - Esclusione.
Non possono svolgersi opere di ristrutturazione o di manutenzione straordinaria su un manufatto abusivo e mai oggetto di sanatoria edilizia: tale ulteriore attività costruttiva non può spiegare alcun effetto preclusivo sulla potestà di reprimere l'opera abusiva nella sua interezza. Ne consegue che non può invocare il regime sanzionatorio più favorevole previsto per il recupero del patrimonio edilizio esistente legittimamente realizzato, colui che ha svolto opere edilizie su immobili abusivi, le quali assumono la stessa qualificazione giuridica dell'immobile abusivamente realizzato.
In caso contrario, infatti, l'abuso minore successivo in sostanza giustificherebbe l'applicazione di una sanzione minore, addirittura non demolitoria, estinguendo la potestà sanzionatoria nei confronti dell'abuso maggiore precedente (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 08.11.2010 n. 7206 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Finte trasferte del sindaco, condanna per truffa.
Rischia una condanna per truffa il sindaco o l'assessore che spaccia dei viaggi personali con la moglie per occasioni ufficiali e istituzionali, accollando all'ente locale tutte le spese.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza 12.05.2010 n. 18071, ha dichiarato estinto per prescrizione il reato di truffa contestato a un sindaco e ad alcuni amministratori che si erano fatti rimborsare soggiorni e vacanze dal comune, spacciandoli per occasioni ufficiali. Insomma dal Palazzaccio non è arrivata un'assoluzione piena.
Ciò perché, ha motivato la quinta sezione penale, i funzionari comunali che chiedono le indennità e il rimborso spese in relazione a una missione «asseritamente svolta nell'interesse del comune, ma in realtà organizzata per motivi personali, commettono i reati di falso e truffa».
Il caso a San Giovanni Rotondo dove sindaco e assessori andavano in giro per tutta l'Italia in compagnia e si facevano rimborsare anche le spese di mogli e fidanzate la cui presenza non veniva dichiarata ma venivano maggiorate le fatture facendo così pagare con soldi pubblici le spese per di viaggio e soggiorno. Per questo il Tribunale di Foggia aveva condannato il primo cittadino e alcuni amministratori per truffa e falso ideologico.
Nel 2009 la Corte d'appello di Bari aveva confermato la misura. Contro questa decisione i sette imputati hanno presentato ricorso in Cassazione. Per sei di loro la Suprema corte ha dovuto dichiarare la prescrizione ma non li ha assolti pienamente.
Sulle responsabilità degli imputati la quinta sezione penale si è limitata a constatarne la sussistenza, nonostante l'assoluzione per gli stessi fatti dal reato di peculato, e che «non sussistono elementi dai quali possa ritenersi scaturisca evidente la dimostrazione che il fatto non sussiste o che gli imputati non lo abbiano commesso, atteso che la sentenza impugnata dà conto della ragioni della decisione con motivazione ragionevole e condivisibile, fondando il giudizio di responsabilità degli imputati su prove documentali e testimoniali, la cui valenza probatoria risulta ampiamente scrutinata» (articolo ItaliaOggi del 13.05.2010).

I.C.I.: E la destinazione urbanistica non basta per l'esenzione Ici.
Ai fini dell'esenzione dall'Ici, il certificato di destinazione urbanistica, non è sufficiente a qualificare la natura agricola di un fabbricato. Occorre difatti conoscerne l'esatto classamento.

È quanto ha puntualizzato la Corte di Cassazione con sentenza 24.03.2010 n. 7104, dovendo accertare la sussistenza del requisito della ruralità in capo ad un fabbricato strumentale all'esercizio dell'attività agricola, di proprietà di un coltivatore diretto.
Il fatto. Il comune di Basano (Mi), a seguito di un controllo, emetteva avviso di accertamento per omesso versamento dell'Ici nei confronti di un agricoltore, in quanto il fabbricato da questi utilizzato per l'esercizio dell' attività avicola, ancorché compreso in area considerata agricola, difettava del requisito di ruralità.
Interveniva in primo grado la Ctp, osservando che, se correttamente, l'appellante negava che un certificato di destinazione urbanistica, potesse dimostrare la strumentalità del fabbricato rispetto all'impresa agricola, in ogni caso, all'attività avicola in specie, doveva riconoscersi natura agricola, e di conseguenza anche al fabbricato utilizzato per l'esercizio dell'attività agricola. A sostegno di ciò, ribadiva che la qualità di coltivatore diretto, con qualifica Iap, integrava la dimostrazione diretta dei requisiti soggettivi, e indirettamente di quelli oggettivi, ai fini dell'esenzione dall'Ici.
Il Comune a sua volta proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che la Ctp aveva tralasciato di considerare che la qualifica ai fini fiscali della ruralità, è disciplinata dall'art. 9, commi 3 e 3-bis del dl n. 557/1993 convertito in legge n. 133/1994. Che non poteva essere ignorato.
La pronuncia. La Cassazione, dopo aver ripercorso l'originario impianto normativo istitutivo dell'Ici (dlgs n. 504/1992), focalizzando l'attenzione sul presupposto dello stesso tributo, e tenuto conto dell'evoluzione della materia in relazione ai fabbricati rurali, ha osservato che il più recente intervento legislativo, incidente nella materia, è rappresentato dall'art. 23, comma 1, del dl n. 207 del 2008, convertito con modificazioni, in legge n. 14 del 2009.
Tale articolo, intervenendo dopo tante incertezze su una materia complessa, ha chiarito definitivamente, con interpretazione autentica (ossia con retroattività), che i fabbricati rurali non sono soggetti ad Ici, con ciò stabilendo un diretto collegamento tra riconoscimento della ruralità e normativa Ici.
La suprema corte, accogliendo il ricorso del Comune, ha rimandato tuttavia ad altra Sezione della medesima Ctr, per un nuovo esame, alla luce dei riferiti principi, dovendosi verificare il classamento dell'immobile in lite. La sentenza in argomento è importante in quanto solleva ancora una volta l'annoso problema del classamento dei fabbricati rurali, e di conseguenza del riconoscimento della ruralità in capo ad essi qualora ne ricorressero i presupposti.
A tal riguardo, si segnala che sul tema si è pronunciata di recente l'Agenzia del Territorio, con una nota del 26/2/2010, dichiarando che un immobile è considerato rurale indipendentemente dalla categoria catastale di appartenenza, purché vengano soddisfatti i requisiti di ruralità previsti dall'art. 9 del dl n. 557/1993.
Tuttavia, se è vero che il fabbricato rurale, se in possesso dei requisiti suindicati, è escluso dall'area di imponibilità ai fini Ici, a prescindere dal classamento, come puntualizzato dal Territorio, è altrettanto vero che lo stesso fabbricato deve essere dichiarato al Catasto. Difatti, gli immobili che non risultano dichiarati in tutto o in parte, devono essere accatastati, per obbligo normativo, ai fini del classamento e dell'attribuzione della rendita. Salvo i fabbricati iscritti al Catasto terreni (articolo ItaliaOggi dell'08.05.2010).

AGGIORNAMENTO AL 13.06.2011

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SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGOEnte provincia di Bergamo: la costituzione dei fondi per le risorse decentrate in un ente con dirigenza (CGIL-FP di Bergamo, nota 08.06.2011).

AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI

APPALTI: Seminario on-line - Nuovi obblighi di tracciabilità finanziaria nei contratti pubblici: istruzioni per l'uso.
L’Avcp in collaborazione con il FORUM PA propone un seminario on-line dedicato a tutti i soggetti interessati ai nuovi obblighi in materia di tracciabilità dei flussi finanziari.
Il seminario fruibile dal web è gratuito ed avrà inizio alle ore 12.30 di venerdì 17.06.2011. La piattaforma permette l'ingresso di massimo 500 utenti in contemporanea che avranno a disposizione un totorial per le modalità di iscrizione, accesso e partecipazione. ... (link a www.autoritalavoripubblici.it).

APPALTI: Comunicazioni relative ai Certificati di esecuzione dei lavori pubblici - evoluzione della procedura informatica di rilascio ai sensi del DPR 207/2010 (comunicato del Presidente 08.06.2011 - link a www.autoritalavoripubblici.it).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica semplificata: scheda di confronto con l'autorizzazione ordinaria.
E' disponibile una scheda di raffronto della autorizzazione paesaggistica semplificata rispetto all'autorizzazione ordinaria, aggiornata al d.l. 70/2011 (cd. Decreto Sviluppo). La scheda é stata redatta dall'Avv. Ileana Pisani (link a www.studiospallino.it).

APPALTI: Decreto Legge 13.05.2011 n. 70 - Le importanti novità per il settore dei lavori pubblici (ANCE, nota maggio 2011).

VARIGuida allo “spesometro”: soggetti obbligati, elementi da indicare, termini e sanzioni.
Il Decreto Legge 78/2010, al fine di individuare la reale capacità contributiva delle persone fisiche e contrastare l'evasione fiscale, ha introdotto l'obbligo di comunicazione telematica delle operazioni rilevanti ai fini IVA, di importo pari o maggiore a 3.000 euro (il cosiddetto “Spesometro").
L'Agenzia delle Entrate con la circolare 30.05.2011 n. 24/E fornisce chiarimenti sulle modalità di applicazione del nuovo adempimento. ... (news 09.06.2011 - link a www.acca.it).

VARI: Come richiedere gli incentivi per impianti fotovoltaici al GSE.
Il GSE (Gestore Servizi Energetici) informa che è operativa la sezione del sito internet per la richiesta delle tariffe incentivanti previste dal quarto Conto Energia (D.M. 05.05.2011).
Possono accedere agli incentivi gli impianti che entrano in esercizio dal primo giugno 2011 a seguito di interventi di nuova costruzione, rifacimento totale o potenziamento, appartenenti alle seguenti categorie specifiche:
- impianti “su edifici” o “altri impianti” (di cui al Titolo 2);
- impianti fotovoltaici integrati con caratteristiche innovative (di cui al Titolo 3);
- impianti fotovoltaici a concentrazione (di cui al Titolo 4).
Per la richiesta degli incentivi i “Soggetti Responsabili” degli impianti o i “Referenti Tecnici” delegati sono tenuti a utilizzare il portale internet del GSE.
In allegato riportiamo i modelli in formato PDF con campi editabili da utilizzare per la richiesta di incentivazione.
Si ricorda che l'invio delle richieste di incentivazione deve avvenire esclusivamente per via telematica (news 09.06.2011 - link a www.acca.it).

SICUREZZA LAVORO: Lavorare sui cantieri nei giorni di “canicola”: dal SUVA la check list per la valutazione del rischio “caldo.
Canicola, raggi UV e ozono sono fattori di rischio da non sottovalutare, soprattutto per i lavoratori in cantiere.
La canicola rappresenta il periodo di caldo afoso e opprimente delle ore centrali della giornata, caratterizzato da alti valori di temperatura e umidità e assenza di vento. In tali circostanze l’organismo è fortemente sollecitato, soprattutto se l’umidità atmosferica è molto elevata. A soffrirne maggiormente è l’apparato circolatorio. Le temperature molto elevate possono causare crampi, esaurimento fisico o, nella peggiore delle ipotesi, un colpo di calore.
I raggi ultravioletti, invisibili e impercettibili, ci raggiungono ogni giorno tramite l’irraggiamento solare. In estate i valori massimi giornalieri si registrano tra le 11:00 e le 15:00. A partire da una determinata intensità i raggi UV possono provocare tumori della pelle e/o lesioni oculari.
L’ozono si forma quando l’irraggiamento solare risulta molto intenso. I valori massimi giornalieri si registrano nel tardo pomeriggio (all’incirca tra le 16:00 e le 18:00). L’ozono che si forma in prossimità del suolo (ozono troposferico) ha l’effetto di un gas irritante. Una prolungata esposizione ad elevate concentrazioni di ozono può provocare bruciore agli occhi, irritazioni della gola e della faringe, insufficienza respiratoria e mal di testa.
Il SUVA (INAIL svizzero) ha reso disponibile una check-list da utilizzare in cantiere al fine di poter valutare se i lavoratori sono realmente al sicuro da tali pericoli (news 09.06.2011 - link a www.acca.it).

VARI: Finalmente la guida completa sulla Cedolare Secca dell'Agenzia delle Entrate.
Il Decreto Legislativo 14.03.2011, n. 23 (“Disposizioni in materia di Federalismo Fiscale Municipale”) ha introdotto la “cedolare secca” per la tassazione sulla locazione di immobili ad uso abitativo.
Ricordiamo che il nuovo regime di tassazione si applica alle persone fisiche e costituisce un regime tassativo alternativo a quello IRPEF per la tassazione sui redditi derivanti dalla locazione degli immobili ad uso abitativo.
L'Agenzia delle Entrate, con la circolare 01.06.2011 n. 26/E, ha fornito le tanto attese indicazioni per la corretta applicazione della nuova imposta sostitutiva.
Particolare attenzione è riservata all'ambito applicativo e agli immobili esclusi dal nuovo regime di tassazione. ... (news 09.06.2011 - link a www.acca.it).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 10.06.2011, "Aggiornamento Albo Regionale delle imprese boschive - Art. 57 legge regionale n. 31 del 05.12.2008 – Iscrizione nuove ditte" (decreto D.S. 27.05.2011 n. 4842).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 08.06.2011 n. 131 "Regolamento per la gestione degli pneumatici fuori uso (PFU), ai sensi dell’articolo 228 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152 e successive modificazioni e integrazioni, recante disposizioni in materia ambientale" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 11.04.2011 n. 82).

EDILIZIA PRIVATA:  B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2011, "Approvazione nuovo modello di attestato di certificazione energetica degli edifici" (deliberazione G.R. 31.05.2011 n. 1811).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 07.06.2011, "Modalità per il sostegno finanziario degli enti locali e degli enti gestori delle aree regionali protette per l’esercizio delle funzioni paesaggistiche loro attribuite (art. 79, comma 1, lett. b), l.r. 12/2005)" (deliberazione G.R. 31.05.2011 n. 1802).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

APPALTI SERVIZI: A. Barbiero, Quadro delle competenze in ordine agli atti per la definizione del percorso di affidamento di un servizio pubblico locale (29.05.2011 - tratto da www.albertobarbiero.net).

APPALTI SERVIZI: A. Barbiero, Quadro delle competenze in ordine agli atti per la definizione del percorso di affidamento di un servizio pubblico locale (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI SERVIZI: L. Manassero, Il Servizio Idrico Integrato -e gli altri Servizi Pubblici Locali- ed il Referendum 2011: alle soglie di una (contro) rivoluzione? (link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: A. L. De Cesaris, Alcune riflessioni sulle terre da riporto nei procedimenti di bonifica dei siti contaminati (link a www.ambientediritto.it).

SICUREZZA LAVORO: M. Lai, Appalti e sicurezza del lavoro: indicazioni dal Minlavoro (link a www.ipsoa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Bertagna, QUESTIONI VARIE SUL SALARIO ACCESSORIO DEI DIPENDENTI DEGLI ENTI LOCALI (tratto dalla newsletter di www.publika.it n. 42 - giugno 2011).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - INCENTIVO PROGETTAZIONE - PUBBLICO IMPIEGO: Richiesta di parere in merito al trattamento economico dei dipendenti pubblici fissato dall'art. 9, comma 1, D.L. n. 78/2010 i seguenti: 1) compensi legati a spese di progettazione, condono ICI, condono edilizio; 2) salario accessorio legato a specifici progetti; 3) differenze retributive connesse all'aumento dell'orario di lavoro nel contratto part-time.
-
I
compensi legati all’attività di progettazione, potendo rientrare per le loro finalità tra le spese per gli investimenti, non devono essere imputati alle spese di personale di cui all’art. 1, commi 557 e 562, della legge n. 296 /2006.
- La spesa per i compensi incentivanti legati ai condoni edilizi non deve essere computata ai fini del rispetto del limite della spesa del personale, trattandosi di compensi corrisposti con fondi che si autoalimentano e che, di conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa. Inoltre si può certamente ipotizzare che la relativa attività possa essere svolta in tutto o in parte fuori dall’orario di lavoro ovvero mediante incarico esterno.

Circa i compensi legati all’attività di progettazione (cfr. art. 92 D.lgs. n. 163/2006) la Sezione delle Autonomie di questa Corte ha affermato (del. n. 16 del 13.11.2009) che essi, potendo rientrare per le loro finalità tra le spese per gli investimenti, non devono essere imputati alle spese di personale di cui all’art. 1, commi 557 e 562, della legge n. 296 /2006.
Quanto alla spesa per compensi incentivanti legati ai condoni edilizi (cfr. art. 32, comma 40, L. n. 326/2003) si è ritenuto che essa non debba essere computata ai fini del rispetto del limite della spesa del personale (cfr. Sez. reg. controllo per il Veneto par. n. 57 dell'01.06.2010), trattandosi di compensi corrisposti con fondi che si autoalimentano e che, di conseguenza, non comportano un effettivo aumento di spesa. Inoltre si può certamente ipotizzare che la relativa attività possa essere svolta in tutto o in parte fuori dall’orario di lavoro ovvero mediante incarico esterno.
Altrettanto può dirsi per i compensi incentivanti il recupero dell’ICI (cfr. art. 3, comma 57, L. n. 662/1996 e art. 59, comma 1, lett. p), D.lgs. n. 446/1997). Analoghe considerazioni possono valere con riferimento al limite in questione, posto al trattamento complessivo dei dipendenti pubblici per il triennio 2011-2013 e dato dal “trattamento ordinariamente spettante”. In altri termini, i corrispettivi di cui trattasi, per il loro carattere eventuale e per la provenienza dai frutti dell’attività svolta dai dipendenti (c.d. auto alimentazione), non sono riconducibili alla ordinaria dinamica retributiva e, dunque, sfuggono al limite di cui sopra.
Quanto alle variazioni della retribuzione conseguenti a mutamenti della prestazione dedotta nel rapporto di lavoro, come nel caso di aumento di orario nel contratto part-time, esse conseguono ad un incremento quantitativo dell’attività lavorativa, che può anche costituire un diritto del lavoratore (come nel caso della ritrasformazione, prevista dalla contrattazione collettiva, del rapporto part-time in rapporto full-time). Tali variazioni non appaiono, alla luce di quanto sopra esposto, afferire alla dinamica retributiva cui l’art. 9, comma 1, D.L. n. 78 cit. ha inteso porre un freno, fermo restando che esse vanno conteggiate nelle spese generali di personale dell’ente, le quali soggiacciono alle relative limitazioni (cfr., in proposito, questa Sezione par. n. 29 del 25.02.2011).
Rientrano invece nella predetta dinamica i trattamenti accessori del personale, espressamente contemplati dal comma 1 (che riguarda i trattamenti, anche accessori, dei singoli dipendenti) e dal comma 2-bis (che riguarda l’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale) dell’articolo 9 D.L. n. 78 cit. In altri termini, la parte variabile della retribuzione può essere riconosciuta solo se correlata al raggiungimento di specifici obiettivi, che giustificano appunto un compenso aggiuntivo e dedicato, ma ciò non esclude la verifica della compatibilità della spesa medesima con i vincoli di finanza pubblica recati dalla normativa in discorso
(Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 31.05.2011 n. 57).

ENTI LOCALI: Non c'è obbligo per il Comune di accollarsi i debiti di una partecipata.
Nel caso di società partecipate, anche laddove il Comune eserciti sulla stessa un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi, non sussiste un obbligo per l’Ente di assumere a carico del proprio bilancio i debiti societari rimasti insoddisfatti all’esito della procedura di liquidazione della società. Qualora l’Ente, con una scelta del tutto discrezionale, che va adeguatamente motivata, decide di rinunziare al limite legale della responsabilità patrimoniale per debiti, occorre che si individui lo schema causale di contratto al quale ricondurre l’operazione di assunzione del debito, che si dia conto delle ragioni di vantaggio e di utilità evidente per l’Ente che la giustificano e che si verifichi se le condizioni finanziare dell’Ente la permettono. Escluso il ricorso al riconoscimento del debito fuori bilancio, al Comune non resta altra possibilità, per assumere impegni o effettuare spese a soddisfazione dei creditori rimasti insoddisfatti all’esito della procedura liquidatoria di società partecipate, che agire contabilmente secondo le procedure ordinarie disciplinate dall’art. 191 TUEL. La possibilità di avvalersi dei proventi derivanti dalla vendita del patrimonio immobiliare disponibile per spese diverse dagli investimenti, sussiste, eccezionalmente, solo nel caso in cui occorra provvedere al mantenimento degli equilibri di bilancio ex art. 193, 2° e 3° c., TUEL. Se trattasi di proventi rivenienti da alienazione di beni patrimoniali aventi specifica destinazione per legge, il Comune ha facoltà di utilizzarli, oltre i vincoli di legge, ex comma 28 dell’art. 3 della legge n. 350/2003, nei limiti del plusvalore realizzato, quando occorre sostenere spese connesse alle finalità di cui all'articolo 187, comma 2, del TUEL.

Con il parere 17.05.2011 n. 28 la Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per la Regione Basilicata, ha fornito un interessante parere che merita una analisi, in una situazione economica come quella attuale, dove la crisi, potrebbe colpire anche un ente locale che possiede società partecipate.
I giudici contabili affermano sostanzialmente che non c’è nessun obbligo per un ente locale di assumersi nel proprio bilancio i debiti non “saldati” dalla procedura di liquidazione della società partecipata costituita “in house” dall’ente locale stesso.
In particolare la vicenda posta all’attenzione dei giudici contabili nasce a seguito di una istanza di un Sindaco; la situazione rappresentata è quella che nel 2009 è stata posta in liquidazione una SRL a capitale interamente pubblico, costituita nel 2005 ai sensi del comma 5, lett. c), dell’art. 113, del D.Lgs. 276/2000 (nel testo allora vigente), al fine di conferirle direttamente (in house providing) la titolarità di servizi pubblici locali a rilevanza economica. La SRL è tuttora in liquidazione e il Commissario liquidatore ha quantificato la perdita della società e l’ammontare complessivo dei debiti presunti accumulati.
Il sindaco si chiede nell’ipotesi in cui, al termine delle operazioni di liquidazione, la massa attiva (i “fondi disponibili” ex art. 2491 C.C.) dovesse risultare incapiente rispetto ai debiti sociali e, dunque, insufficiente a soddisfare i creditori della società, tra i quali anche lo stesso socio pubblico per la quota sottoscritta e versata, quale sia il comportamento corretto da tenere. Le possibili soluzione avanzate dal Sindaco ai giudici contabili sono le seguenti:
a) riconoscere, quale debito fuori bilancio a carico del Comune, ai sensi dell’art. 194 TUEL, il disavanzo di liquidazione;
b) in alternativa, se sia possibile l’assunzione del debito con procedura ordinaria di iscrizione in bilancio attraverso il reperimento di risorse ordinarie, vuoi in sede di approvazione del bilancio di previsione, vuoi in sede di riequilibrio, ovvero in fase di assestamento;
c) nel caso di risposta positiva (sub. b), non trattandosi di spesa di investimento, se possa essere finanziata con i proventi derivanti dall’alienazione di beni patrimoniali disponibili e nell’ipotesi affermativa se le risorse utilizzabili siano quelle pari al valore complessivo della cessione dell’immobile, ovvero la sola plusvalenza.
La risposta della Corte dei conti.
Per la Corte dei Conti è ferma volontà del legislatore di applicare alle società pubbliche gli stessi istituti previsti dal diritto comune in materia; tali criteri possono essere riscontrati sia dall’art. 6, comma 19, del D.L. n. 78/2010, per quanto riguarda le operazioni sul capitale e i finanziamenti a dette società, sia dall’art. 14, comma 32 dello stesso decreto legge, per quanto riguarda le società partecipate dagli enti locali, la loro liquidazione e la stessa capacità di costituirle.
E’, quindi, da escludersi che si possano ipotizzare diversi e ulteriori casi di responsabilità dell’ente locale per i debiti delle società da esso partecipate, al di fuori di quelli espressamente previsti dal codice civile o dalle leggi speciali in materia. Una particolare riflessione si impone per quei casi in cui proprio la mancanza di (sostanziale) autonomia tra Comune e società giustifica la deroga alle disposizioni comunitarie in materia di conferimento della gestione di servizi pubblici. È questo il caso delle società di capitali, interamente partecipate da enti pubblici locali, come appunto il Comune, costituite per la gestione c.d. “in house” di servizi pubblici locali, secondo le modalità di cui all’art. 113 del D.Lgs. 267/2000 (nel testo tempo per tempo vigente), ovvero secondo l’art. 23-bis, 3°comma , del D.L. n. 112/2008 (conv. L. n. 133/2008).
Per i giudici contabili non sussiste un obbligo per il Comune di assumere a carico del proprio bilancio i debiti societari rimasti insoddisfatti all’esito della procedura di liquidazione. Sussistendone le condizioni, infatti, spetta di regola al creditore agire affinché il Comune sia chiamato a rispondere dei debiti della società partecipata.
Si tratta, tuttavia, di una scelta del tutto discrezionale che va adeguatamente motivata, poiché, con essa, il Comune decide di rinunziare al limite legale della responsabilità patrimoniale per debiti. Si tratta, in ogni caso, di scelte gestionali sulle quali i giudici contabili non possono, né potrebbero, esprimere parere alcuno per non interferire sia con l’attività degli organi di gestione sia con eventuali iniziative giudiziarie di altri Uffici della Corte dei conti o di altre magistrature. L’ente locale chiede, in primo luogo, se sia corretto riconoscere il “disavanzo di liquidazione” quale debito fuori bilancio con la procedura dell’art. 194 del TUEL. Per la Corte dei Conti la risposta non può che essere negativa.
La disposizione citata prevede che, con deliberazione consiliare di cui all'articolo 193, comma 2, o con diversa periodicità stabilita dai regolamenti di contabilità, si provveda al riconoscimento della legittimità dei debiti fuori bilancio derivanti da:
a) sentenze esecutive;
b) copertura di disavanzi di consorzi, di aziende speciali e di istituzioni, nei limiti degli obblighi derivanti da statuto, convenzione o atti costitutivi, purché sia stato rispettato l'obbligo di pareggio del bilancio di cui all'articolo 114 ed il disavanzo derivi da fatti di gestione;
c) ricapitalizzazione, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l'esercizio di servizi pubblici locali;
d) procedure espropriative o di occupazione d'urgenza per opere di pubblica utilità;
e) acquisizione di beni e servizi, in violazione degli obblighi di cui ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 191, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l'ente, nell'ambito dell'espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza.
Escluso il ricorso al riconoscimento del debito fuori bilancio, al Comune non resta altra possibilità, per assumere impegni o effettuare spese a soddisfazione dei creditori rimasti insoddisfatti all’esito della procedura liquidatoria di società partecipate, che agire contabilmente secondo le procedure ordinarie disciplinate dall’art. 191 del D.Lgs. 276/2000.
Ciò comporta che si provveda al previo stanziamento in bilancio, che assume valenza autorizzatoria. I giudici contabili evidenziano che il Comune pone un quesito anche in ordine alla natura delle risorse dalle quali attingere la provvista finanziaria per assumere l’impegno e effettuare il pagamento, secondo l’ordinaria procedura ex art. 191 del D.Lgs. 267/2000. In particolare, nell’istanza è chiesto se possano essere utilizzati i proventi derivanti dalla vendita del patrimonio immobiliare disponibile.
La questione non rileva sul piano della legittimità della procedura contabile, quanto, piuttosto, sul piano della sana gestione e del mantenimento degli equilibri finanziari.
Come correttamente osserva lo stesso Ente istante, la spesa in argomento non è di investimento e, dunque, non dovrebbe essere finanziata con risorse destinate a investimenti, ovvero che discendano dal realizzo del patrimonio comunale.
Particolare attenzione merita, a questo proposito, il ricavato dalla vendita di beni immobili, dovendosi tenere conto della diversa natura che il bene oggetto di cessione può avere, soprattutto con riguardo agli eventuali vincoli di destinazione che l’ordinamento pone al loro realizzo. In generale, i “proventi derivanti da alienazione di beni patrimoniali disponibili” possono essere utilizzati, eccezionalmente, per spese diverse dagli investimenti solo nel caso in cui occorra provvedere al mantenimento degli equilibri di bilancio ex art. 193, 2° e 3° comma del D.Lgs. 267/2000.
Tuttavia l’assunzione dei debiti della società a carico del bilancio comunale presuppone che se ne sia già riscontrata la sostenibilità.
D’altra parte, si deve osservare che il legislatore, con la disposizione contenuta nel comma 28 dell’art. 3 della legge n. 350/2003, ha stabilito che gli enti locali “hanno facoltà di utilizzare le entrate derivanti dal plusvalore realizzato con l'alienazione di beni patrimoniali, inclusi i beni immobili, per spese, aventi carattere non permanente”, connesse alle finalità di cui all'articolo 187, comma 2, del D. Lgs. 267/2000.
Quelle in discussione sono, quindi, risorse che il Comune ha facoltà di utilizzare, oltre i vincoli di legge, che non risultano essere stati abrogati, nei limiti del plusvalore realizzato, quando occorre sostenere spese connesse alle finalità di cui all'articolo 187, comma 2, del D.Lgs. 267/2000 .
Tuttavia, anche in questo caso per i giudici contabili , vale ribadire che l’operazione di accollo del debito non può prescindere dalla previa valutazione di sostenibilità finanziaria per l’Ente (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAEsonero, o meno, dal contributo di costruzione e di scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria per una residenza sanitaria per anziani e inabili.
Il caso in esame non rientra nell’ambito di applicazione della prima fattispecie prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 (“gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”), e, quindi, la progettata residenza sanitaria per anziani e inabili non può beneficiare dell’esonero dal contributo di costruzione e dello scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria previsti dalla legge.

L’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001 dispone che “il contributo di costruzione non è dovuto per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Vengono, cioè, previste due fattispecie riguardanti rispettivamente: 1) “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”; 2) “le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Con riferimento alla prima ipotesi, la norma enuncia due requisiti che devono entrambi concorrere per fondare lo speciale regime di esonero dal contributo di costruzione, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare “opere pubbliche o d’interesse generale”. Per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da “un ente istituzionalmente competente”.
In particolare, il primo requisito è stato esplicitato nel senso che deve trattarsi di opere che, quantunque non destinate direttamente a scopi propri della P.A., siano comunque idonee a soddisfare i bisogni della collettività, di per se stesse –poiché destinate ad uso pubblico o collettivo– o in quanto strumentali rispetto ad opere pubbliche o comunque perché immediatamente collegate con le funzioni di pubblico servizio espletate dall’ente (cfr. in tal senso ex plurimis: C.d.S., sez. IV, 10.05.2005, n. 2226; C.d.S., sez. V, 06.05.2003 n. 5315; C.d.S., sez. V, 25.06.2002, n. 6618).
Con riferimento all’altro requisito (soggettivo), la giurisprudenza amministrativa ha più volte chiarito che la dizione deve riferirsi, oltre che agli enti pubblici in senso proprio, anche ai soggetti che agiscono per conto di enti pubblici, ricomprendendo, pertanto, “i concessionari di opere pubbliche o analoghe figure organizzatorie, caratterizzate da un vincolo tra il soggetto abilitato ad operare nell’interesse pubblico ed il materiale esecutore della costruzione, in modo tale che l’attività edilizia sia compiuta da un soggetto che curi istituzionalmente la realizzazione di opere d’interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate” (in tal senso cfr. fra tutte C.d.S. , sez. VI, 09.09.2008, n. 4296; sez. V, 11.01.2006, n. 51; sez. IV, 10.05.2005, n. 2226).
La ratio della norma contenuta nell’art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 è duplice. Da un lato, è sicuramente quella d’incentivare l’esecuzione di opere da cui la collettività possa trarre utilità. Dall’altro lato, è anche quella di assicurare una ricaduta dello sgravio a vantaggio della collettività, posto che l’esonero dal contributo si traduce in un abbattimento dei costi, cui corrisponde, in definitiva, un minore aggravio di oneri per il contribuente.
In altri termini, l'imposizione del contributo di costruzione ai soggetti che agiscono nell'istituzionale attuazione del pubblico interesse sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi del pagamento di esso.
Sotto tale profilo la giurisprudenza amministrativa ha generalmente accolto un’interpretazione che ricomprende, nell’ambito di applicabilità della norma, oltre agli enti pubblici in senso proprio, anche “quelle figure soggettive che non agiscono per esclusivo scopo lucrativo ovvero che accompagnano al lucro un collegamento giuridicamente rilevante con l'amministrazione, sì da rafforzare il legame istituzionale con l'azione del soggetto pubblico per la cura degli interessi della collettività” (si vedano ex plurimis: C.d.S., sez. V, 20.10.2004, n. 6818; C.d.S., sez. IV, 12.07.2005, n. 3744).
Con riguardo alla seconda fattispecie prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001, secondo cui l’esonero dal contributo di costruzione opera anche nei riguardi di "opere di urbanizzazione eseguite in attuazione di strumenti urbanistici", secondo una consolidata giurisprudenza amministrativa non è assolutamente sufficiente che l’opera sia solamente conforme agli strumenti urbanistici, ma essa deve essere espressamente contemplata come tale nello strumento urbanistico medesimo (in tal senso C.d.S., sez. V, 10.05.1999, n. 536; C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69; C.d.S., sez. V, 01.06.1992, n. 489).
In sostanza, la disposizione beneficia solo il privato che dia immediata esecuzione alla previsione di piano relativa ad una specifica opera di urbanizzazione. Solo in questo caso, infatti, sarebbe contraddittoria ed irragionevole la richiesta al privato del pagamento di un contributo commisurato anche alle "spese di urbanizzazione", che di regola sono sopportate dall'ente pubblico.
Venendo al quesito posto dal comune di Ghisalba, si tratta di verificare se la fattispecie riguardante la progettata casa di ricovero per anziani e inabili possa essere ricompresa nell’ambito di applicazione di almeno una delle due ipotesi di esonero da contributo di costruzione previste dall’art. 17, comma 3, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001. In particolare, con riferimento alla prima fattispecie delineata dalla norma (impianti, attrezzature, opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti), va verificata, come si è detto, la sussistenza di entrambi i requisiti, oggettivo e soggettivo, sopra illustrati.
Quanto al requisito oggettivo, non può disconoscersi che l’opera di costruzione della casa di ricovero per anziani e inabili di riposo sia collegata senz’altro ad una finalità di interesse pubblico generale, stante la prevista convenzione con il comune circa la riserva dei posti letto con retta giornaliera a prezzo calmierato (21 posti per euro 95 al giorno), e stante la possibilità di ottenere l’accreditamento regionale quanto a erogazione di servizi socio-assistenziali.
Con riferimento al requisito soggettivo, invece, appare opportuno effettuare considerazioni più articolate. Si è detto sopra dell’orientamento della giurisprudenza amministrativa che, da un lato, ha interpretato estensivamente la dizione “enti istituzionalmente competenti”, ricomprendendovi, oltre agli enti pubblici in senso proprio, anche altre “figure organizzatorie” che “curino istituzionalmente la realizzazione di opere d’interesse generale per il perseguimento delle specifiche finalità cui le opere stesse sono destinate”; dall’altro lato, ha ricondotto tale espressione prevalentemente alla figura del concessionario. Ciò in ragione della considerazione che gli elementi che connotano l’instaurazione e lo svolgimento del rapporto di concessione sono in grado di garantire di per sé quell’immediato legame istituzionale con l’azione dell’amministrazione per la cura degli interessi della collettività, che si ritiene presupposto indefettibile per l’applicazione dell’esonero contributivo.
In quest’ottica, è stata esclusa l’applicabilità della norma in questione a soggetti privati che esercitino un’attività lucrativa di impresa indipendentemente dalla rilevanza sociale dell’attività stessa (cfr. C.d.S., sez. V, 21.01.1997, n. 69); nonché a soggetti privati che, seppur non perseguenti fini di lucro, realizzino opere destinate a rimanere nella piena disponibilità del privati esecutori in quanto non vincolate in alcun modo al mantenimento della finalità pubblica (cfr. C.d.S., sez. V, 11.01.2006, n. 51).
Peraltro, questa Corte ritiene opportuno non tralasciare la considerazione dell’attuale sviluppo dell’ordinamento della Repubblica e delle modalità di svolgimento dell’azione amministrativa.
Infatti, da un lato, la riforma del Titolo V della Costituzione, operata con la Legge costituzionale 18.10.2001, n. 3, ha inserito espressamente il principio di sussidiarietà, cosiddetto “orizzontale”, nell’ambito delle regole di organizzazione e di esercizio delle funzioni pubbliche, prevedendo all’art. 118, ultimo comma, che “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Dall’altro lato, anche a causa dell'influenza del diritto comunitario, sono sempre più frequenti le forme di collaborazione tra soggetto pubblico e soggetto privato, nonché i casi in cui al soggetto privato sono affidati obiettivi di interesse pubblico.
In sostanza si assiste al passaggio da una configurazione della distribuzione del potere pubblico essenzialmente in via gerarchica ed in via autoritativa ad una distribuzione per così dire “a rete”, estesa anche ad altri soggetti dell’ordinamento che non sono enti pubblici in senso proprio, con la conseguenza che le funzioni pubbliche non necessariamente vengono esercitate mediante esplicazione di poteri autoritativi, ben potendo svolgersi attraverso forme e moduli procedimentali di tipo privatistico.
In quest’ottica si rende opportuna, a parere di questa Sezione, un’interpretazione evolutiva e teleologicamente orientata del concetto di “ente istituzionalmente competente” previsto all'art. 17 del D.P.R. n. 380/2001 (anche al di là delle figure dei concessionari), nell’ambito del quale è possibile ricomprendere anche il caso di specie.
Tuttavia, dal contesto del parere appare assai dubbia la persistenza del requisito soggettivo secondo il quale la progettata residenza per il ricovero di persone anziane o inabili sia stabilmente partecipe della funzione pubblica di assistenza socio-sanitaria. Innanzitutto, perché la stessa amministrazione comunale revoca in dubbio gli accordi già intercorsi con la società Palladio, preferendo alla residenza sanitaria la realizzazione di una nuova scuola dell’infanzia. In secondo luogo, poiché non è specificato, ad eccezione della riserva dei posti letto previsti a favore dei cittadini ghisalbesi, che la struttura sanitaria agisca per uno scopo non lucrativo. Né, infine, appare scrutinabile con quale assetto e forma giuridica verrà gestita la struttura di assistenza, ovvero se con essa s’intenda perseguire esclusivamente finalità di solidarietà sociale nel settore dell’assistenza socio-sanitaria.
Poste le superiori osservazioni, non si può attualmente riconoscere che la citata struttura socio-assistenziale presenti un collegamento giuridico stringente con l’amministrazione comunale, né che sia già programmato il necessario accreditamento regionale che la assimilerebbe sostanzialmente alle strutture pubbliche (in quanto il rapporto di accreditamento integra un rapporto di concessione di pubblico servizio C.d.S., sez. V, 23.07.2009, n. 4595; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 28.05.2008, n. 582).
Alla luce delle considerazioni sopra esposte, deve ritenersi, a parere di questo Collegio, che il caso in esame non rientri nell’ambito di applicazione della prima fattispecie prevista dall’art. 17, comma 3, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 (“gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”), e che, quindi, la progettata residenza sanitaria per anziani e inabili non possa beneficiare dell’esonero dal contributo di costruzione e dello scomputo degli oneri di urbanizzazione secondaria previsti dalla legge.
L’ipotesi formulata nel quesito non appare rientrare nemmeno nell’ambito della seconda fattispecie disciplinata dall’art. 17, comma 3, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001 (opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati in attuazione di strumenti urbanistici), poiché nel contesto del parere non è dato alcun cenno circa l’inserimento dell’opera da realizzarsi in attuazione di un più ampio intervento urbanistico comunale.
Anche sotto quest’ultimo profilo, non si ritiene che la menzionata residenza sanitaria possa usufruire del regime di esonero dai contributi di costruzione e dagli oneri di urbanizzazione secondaria (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 21.02.2011 n. 91).

NEWS

ENTI LOCALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consorzi senza indennità. Divieto esteso a tutte le forme associative tra enti. Il dl 78/2010 fa un'eccezione solo per gli amministratori di comuni e province.
I componenti degli organi dei consorzi hanno ancora diritto a una indennità?
L'art. 5, comma 7, del dl n. 78/2010 stabilisce che «agli amministratori di forme associative di enti locali aventi per oggetto la gestione dei servizi e funzioni pubbliche non possono essere attribuite retribuzioni, gettoni, e indennità o emolumenti in qualsiasi forma siano essi percepiti».
Poiché l'art. 31 del decreto legislativo n. 267/2000, disciplinante i consorzi degli enti locali, è compreso nel capo V del titolo II del medesimo decreto, dedicato alle forme associative, il divieto riguarda in generale anche i componenti degli organi dei consorzi fra enti locali.
Il tenore letterale della norma in questione appare, infatti, indicativo di una precisa volontà del legislatore, nel senso di escludere qualsiasi forma retributiva per gli amministratori di comunità montane, unioni e altre forme associative, ivi compresi i consorzi degli enti locali.
La norma recata dal comma 7 del dl n. 78/2010 interviene in termini generali su tutto il panorama degli amministratori locali, attraverso una duplice direttrice: da un lato, prevedendo che attraverso apposito decreto interministeriale siano fissate le entità retributive degli amministratori di province e comuni, con riduzioni percentuali rispetto ai valori attualmente vigenti; dall'altro, escludendo che gli amministratori degli altri enti locali possano essere a qualsiasi titolo remunerati.
Pertanto, dalla data di entrata in vigore di tale norma, gli amministratori interessati non hanno diritto al percepimento di alcun compenso per le predette cariche (articolo ItaliaOggi del 10.
06.2011).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consigliere presidente di SPA.
Sussiste una causa di incompatibilità per un consigliere comunale presidente di una società per azioni a capitale interamente pubblico, nella quale il comune ha una partecipazione inferiore al 20%?

Qualora con l'espressione «presidente di una società di capitali» si faccia riferimento al presidente dell'assemblea dei soci, la normativa sulle incompatibilità appare senz'altro inapplicabile, in quanto la stessa è rivolta specificatamente a limitare la posizione dell'amministratore locale che sia anche amministratore (cioè componente del consiglio di amministrazione) di una società.
Viceversa, qualora l'espressione abbia voluto indicare il presidente del consiglio di amministrazione di una società di capitali, è inapplicabile al caso in esame l'ipotesi dell' incompatibilità di cui al comma 1, n. 1, dell'art. 63 del dlgs n. 267/2000, in virtù della partecipazione del comune al capitale sociale in misura inferiore al 20%, limite posto all'operatività della norma dal decreto legge 30.06.2005, n. 115, convertito in legge 17.08.2005, n. 168.
La materia delle ineleggibilità e delle incompatibilità rientra, ai sensi dell'art. 117, lett. p), della Costituzione, tra quelle di competenza esclusiva statale, pertanto, in via generale, lo statuto comunale può in tale ambito contenere solo norme che siano compatibili con la disciplina prevista dagli artt. 63 e seguenti del dlgs n. 267/2000. La disposizione statutaria che recasse una preclusione assoluta, per i consiglieri comunali, alla partecipazione ai consigli di amministrazione delle società di capitali non sarebbe, quindi, in linea con quanto stabilito dal legislatore statale.
Se, nel caso di specie, l'oggetto sociale della società comprende esclusivamente attività di gestione di servizi locali, occorre esaminare se non sia riscontrabile la fattispecie di cui al n. 2 del comma 1 del citato art. 63, sempre che l'ente comunale abbia stipulato un contratto di servizio o di appalto con la società in cui il consigliere è amministratore.
In tal caso, infatti, ricorrerebbe il divieto a ricoprire cariche elettive locali per l'amministratore «che abbia parte in servizi, esazioni di diritti, somministrazioni o appalti nell'interesse del comune» (art. 63, comma 1, n. 2).
Sarà cura del comune verificare se sussista un rapporto contrattuale di tale natura tra la società in questione e l'ente stesso, nel qual caso, in conformità al principio generale che ogni organo collegiale deve deliberare innanzitutto sulla regolarità dei titoli di appartenenza dei propri componenti, la contestazione della causa ostativa all'espletamento del mandato è compiuta con la procedura consiliare prevista dall'art.69 del Tuel, che garantisce il corretto contraddittorio tra organo e amministratore, assicurando a quest'ultimo l'esercizio del diritto di difesa e la possibilità di rimuovere entro un congruo termine la causa d'incompatibilità contestata (articolo ItaliaOggi del 10.
06.2011).

PUBBLICO IMPIEGOCongedi e permessi al restyling. Assistenza anche se il disabile è ricoverato a tempo pieno. Via libera definitivo dal consiglio dei ministri al decreto di riforma previsto dal collegato lavoro.
Via libera al riordino della disciplina in materia di congedi, aspettative e permessi dei lavoratori del settore pubblico e privato. La lavoratrice in congedo di maternità (ex astensione obbligatoria) ha facoltà di rientrare in anticipo al lavoro in caso di aborto o morte prematura del bimbo.
Al fine di garantire una tutela reale, inoltre, il congedo straordinario per l'assistenza a disabili (due anni nella vita lavorativa) può essere fruito anche se il disabile è ricoverato a tempo pieno. Infine, il pubblico dipendente che fruisce dell'aspettativa per motivi di studio, se nei due anni successivi interrompe il rapporto di lavoro, deve restituire la retribuzione percepita durante il congedo.

Queste alcune delle novità previste dallo schema di dlgs di attuazione dell'articolo 23 della legge n. 183/2010 (collegato lavoro), approvato ieri in via definitiva dal consiglio dei ministri.
Congedo maternità.
Una prima novità riguarda il congedo di maternità. Nei casi di interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza, successivamente al 180° giorno dalla gestazione, viene prevista la facoltà per la lavoratrice di riprendere in qualunque momento l'attività lavorativa. A tal fine, è necessario tuttavia che un medico specialista (Ssn o in convenzione) e il medico competente (per la sicurezza lavoro) attestino che il rientro anticipato non arreca pregiudizio al suo stato di salute.
Congedo straordinario.
Diverse le novità in merito al congedo straordinario per assistenza a portatori di handicap grave (la cui durata complessiva è pari a due anni nell'arco della vita lavorativa). Innanzitutto viene riscritta la platea dei soggetti legittimati a fruire del congedo, con ordine di priorità recependo le indicazioni della Corte costituzionale. Ha diritto al congedo, prima di tutto, il coniuge convivente della persona disabile. In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti del coniuge, ha diritto a fruirne il padre o la madre anche se adottivi. In caso di decesso, mancanza o in presenza di patologie invalidanti del padre o della madre, anche se adottivi, il diritto passa a uno dei figli conviventi. In caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti dei figli, infine, il congedo spetta a uno dei fratelli o delle sorelle conviventi.
Altra novità è la previsione, allo scopo di consentire una reale assistenza, che il congedo possa essere fruito anche se la persona disabile è ricoverata a tempo pieno e qualora i sanitari della struttura ne attestino l'esigenza.
Aspettativa per studio.
Il dlgs approvato ieri, ancora, disciplina il congedo straordinario per motivi di studio dei pubblici dipendente ammessi ai corsi di dottorato di ricerca. Prevede la discrezionalità dell'amministrazione a concedere il congedo anche ai dipendenti contrattualizzati; mentre la fruizione viene comunque esclusa per i dipendenti che abbiano già il titolo di dottore di ricerca e per quelli che abbiano fruito del congedo con l'iscrizione ai corsi di dottorato per almeno un anno accademico. Il dipendente che interrompe il rapporto di lavoro, nei due anni successivi al periodo di aspettativa, infine, è tenuto a restituire gli emolumenti percepiti durante il congedo.
Congedo per cure agli invalidi.
Ai lavoratori mutilati e agli invalidi civili, cui sia stata riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%, è data la possibilità di fruire, ogni anno, e anche in maniera frazionata, un congedo per cure per un periodo complessivo non superiore a 30 giorni. La novità, in tal caso, è la previsione della retribuzione del congedo. Infatti, durante tale periodo di congedo, il dipendente ha diritto a percepire il trattamento economico secondo il regime delle assenze per malattia.
In tal caso, inoltre, il datore di lavoro non è tenuto a richiedere l'accertamento mediante la normale visita di controllo, ma il lavoratore è tenuto a documentare in maniera idonea l'avvenuta sottoposizione a cure (articolo ItaliaOggi del 10.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAPneumatici, via al sistema di raccolta.
Via al sistema nazionale di gestione di pneumatici fuori uso (Pfu): l'Italia punta a una raccolta pari 100%.

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto ministeriale n. 82 dell'11.04.2011, che attribuisce ai produttori/importatori di pneumatici la responsabilità della raccolta e recupero di questo prezioso materiale. Gli obiettivi alla base del provvedimento, sono in linea con gli indirizzi Ue: evitare la dispersione, sviluppare impieghi nuovi ed esistenti del materiale, ottimizzare il sistema.
A effettuare la raccolta sarà Ecopneus, la società consortile per azioni costituita ad inizio 2009 dalle principali aziende produttrici o importatrici di pneumatici in Italia. E cioè: Bridgestone, Continental, Goodyear-Dunlop, Marangoni, Michelin e Pirelli. Ecopneus effettuerà raccolta, valorizzazione e monitoraggio dei Pfu pari ai quantitativi di immesso nel mercato del ricambio dai principali produttori/importatori in Italia. Gli obiettivi da raggiungere?
• Entro il 2011: 25% di recupero rispetto al quantitativo immesso nel 2010.
• Entro il 2012: 80% di recupero rispetto al quantitativo immesso nell'anno solare precedente.
• Dal 2013: 100% di recupero rispetto al quantitativo immesso nell'anno solare precedente (articolo ItaliaOggi del 10.
06.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOContratti decentrati in un circolo vizioso. La Corte conti stoppa la nota Rgs.
L'adozione dei fondi per la contrattazione decentrata integrativa nei singoli enti locali è praticamente impossibile perché mancano le istruzioni sull'applicazione del tetto non superiore al 2010 e sulla riduzione in caso di diminuzione del numero dei dipendenti in servizio. Tale ritardo mette in dubbio la stessa possibilità di stipulare i contratti decentrati integrativi per l'anno 2011.
L'annunciata circolare della Ragioneria generale dello stato tarda infatti a essere emanata e anzi sembra difficile che ciò possa avvenire in tempi brevi: se infatti sarà confermata l'indiscrezione per cui sul suo testo la Corte dei conti ha formulato osservazioni, ci vorrà parecchio tempo per avere una base di riferimento.
Alle singole amministrazioni, per evitare di trovarsi in una condizione di impasse, che potrebbe determinare effetti pesanti sulla quantificazione delle risorse destinate alla contrattazione, appare utile avanzare la proposta di definire un contratto ponte con le organizzazioni sindacali, così da destinare le risorse necessarie per il pagamento delle indennità vincolate dal contratto nazionale, di dettare i principi per la ripartizione dei compensi collegati alla contrattazione decentrata e di adottare gli obiettivi necessari per l'assegnazione della produttività.
La circolare 40/2010 della Ragioneria generale dello stato ha chiarito che la retribuzione individuale di anzianità, e implicitamente gli assegni ad personam, in godimento da parte dei dipendenti cessati dal servizio non possono andare a integrare la parte stabile del fondo per le risorse decentrate.
Non è chiaro se nel fondo possono confluire le economie derivanti dalla mancata utilizzazione integrale del fondo del 2010 che eccedono l'analoga cifra derivante dai risparmi 2009 confluita nel fondo 2010. In senso negativo si è espressa la sezione regionale di controllo della Corte del Veneto con il parere n. 285/2011.
Lo stesso parere ha esteso tale interpretazione anche ai risparmi derivanti dalla mancata integrale utilizzazione del fondo per il lavoro straordinario. Il parere vieta anche l'inserimento in aumento rispetto all'anno 2010 delle risorse derivanti dalla incentivazione della realizzazione di opere pubbliche, dai maggiori incassi Ici e dalle vittorie in sede processuale.
La sezione regionale di controllo della Corte dei conti del Piemonte, parere n. 5/2011, applica tale principio anche alla incentivazione dei vigili urbani tramite una quota dei proventi derivanti dalle sanzioni per l'inosservanza del codice della strada, con ciò rendendo di fatto inutilizzabile nel triennio 2011/2013 tale istituto.
Non è in alcun modo chiaro se la riduzione del fondo per le diminuzioni di personale debba essere effettuata sulla base del saldo 2010 tra assunzioni e cessazioni ovvero se tale operazione debba essere effettuata con il saldo 2011. Se si opta per la seconda soluzione si pone il problema di come tenere conto del periodo del 2011 in cui tali unità di dipendenti continuano ad essere in servizio.
Per qualunque delle due soluzioni si opti si deve chiarire se le assunzioni che, in modo parziale negli enti soggetti al patto di stabilità ed in modo integrale negli enti non soggetti, possono essere effettuate nell'anno successivo, vadano a incidere sulla diminuzione del fondo.
Si può considerare acquisito che il taglio non deve essere fatto avendo come base il trattamento economico accessorio in godimento da parte dei cessati, ma in modo proporzionale, cioè togliendo dal fondo risorse pari alla incidenza percentuale delle cessazioni sul numero dei dipendenti in servizio a tempo indeterminato. È opportuno rilevare, a latere, che la circolare della funzione pubblica 22.02.2011, avallata dalla ragioneria generale dello stato, sembra consentire alle amministrazioni di conteggiare nei risparmi derivanti dalle cessazioni anche la quota di diminuzione del fondo che matura.
In queste condizioni costituire il fondo deve essere definito come un azzardo, ma si deve anche tenere conto del fatto che difficilmente nel 2012 potranno essere riportate le eventuali economie del fondo 2011, per cui è bene che tali risorse siano utilizzate. La soluzione migliore è quella di stipulare un contratto decentrato integrativo «ponte» per il 2011, che in attesa della costituzione del fondo consenta la ripartizione di una buona parte delle sue risorse, diciamo prudenzialmente nell'ordine dello 80/90%.
Esse andrebbero destinate al finanziamento delle indennità disciplinate interamente dai Ccnl (turno, reperibili, compensi per giornate festive) e di quelle disciplinate dal Ccdi (produttività, specifiche responsabilità etc). Per la produttività ci si potrebbe riservare la integrazione al momento della definizione del fondo le amministrazioni dovrebbero definire gli obiettivi ed i criteri di valutazione, così da renderne possibile la erogazione (articolo ItaliaOggi del 10.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIRestyling appalti via. I collaudi sono affidabili a terzi solo cori gara.
Al via il performance bond nei lavori oltre 75 milioni, nuovi e maggiori oneri per la verifica dei progetti, affidabile anche a professionisti e società se non svolta all'interno della stazione appaltante; i collaudi saranno affidabili a terzi solo con gara, più qualità nei livelli progettuali e negli studi di fattibilità, nuove classifiche di qualificazione per piccoli lavori, limiti ai ribassi nelle gare di progettazione, sanzioni per imprese e Soa per certificati falsi.
Sono questi alcuni dei punti innovativi del dpr 05.10.2010, n. 207 che entra in vigore oggi e che sostituirà molti regolamenti fino a oggi vigenti (dal dpr 554/1999, il regolamento della legge Merloni, al dpr 34/2000 sulla qualificazione delle imprese di costruzioni).
Fra le norme di maggiore impatto, applicabili a tutti i bandi pubblicati a partire da oggi, si segnalano quelle sulla verifica dei progetti dove peraltro si apre un nuovo mercato per professionisti e società di ingegneria e di professionisti, che potranno già da domani verificare progetti fino a 20 milioni di importo di lavori, nel rispetto di una serie di limiti di incompatibilità e separatezza dell'attività progettuale rispetto a quella di verifica. Il regolamento definisce nel dettaglio il contenuto dell'attività di verifica che, diversamente da oggi, dovrà essere contestuale allo svolgimento della progettazione.
Diverse modifiche sono previste anche per il responsabile del procedimento che potrà svolgere le funzioni di progettista e di direttore dei lavori negli interventi ... (articolo ItaliaOggi del 08.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIVerifiche differenziate in base agli importi.
Ai nastri di partenza del regolamento appalti non ci saranno alcune norme che (ricadendo nel regime transitorio dell'articolo 357 del Dpr 207/2010) diverranno concretamente applicabili solo fra qualche tempo.
Attesa prolungata, innanzitutto, per le strutture che potranno compiere la verifica della progettazione, nel caso in cui la stazione appaltante decida di provvedere in proprio, senza rivolgersi al mercato privato specializzato. Per i lavori di importo superiore a 20 milioni di euro, infatti, l'articolo 47 del regolamento ha stabilito che il soggetto abilitato alla verifica sia rappresentato dall'unità tecnica della stazione appaltante accreditata, in base alla norma europea Uni Cei En Iso/Iec, quale organismo di ispezione di tipo B.
Trattandosi, dunque, di un soggetto accreditato come organismo di ispezione, prima che la disposizione diventi operativa, bisognerà attendere la pubblicazione di un decreto delle Infrastrutture, che dovrà essere adottato entro sei mesi da oggi e che conterrà la disciplina delle modalità e delle procedure di accreditamento per tali tipi di organismi. Tuttavia, fino a 180 giorni dopo la pubblicazione del decreto, sarà possibile per le stazioni appaltanti validare i progetti oltre i 20 milioni, tramite gli uffici tecnici.
Per i progetti al di sotto dei 20 milioni di euro, l'attività di verifica potrà essere svolta, oltre che dalla medesima unità tecnica accreditata, anche dagli uffici tecnici delle stazioni appaltanti, dotate di un sistema interno di controllo di qualità. Anche in questo caso, in attesa dell'adeguamento delle amministrazioni, la norma transitoria ha stabilito che, per altri 3 anni (fino al 07.06.2014), gli uffici tecnici delle stazioni appaltanti potranno essere esentati dal possesso del sistema di controllo interno e provvedere, di conseguenza, alla relativa attività di verifica.
Al regolamento era legata la possibilità di ottenere l'attestato "Soa" per l'accesso ai lavori pubblici mediante avvalimento, ovvero con il prestito dei requisiti necessari da parte di un'altra impresa. Ma, l'articolo 357 ha rinviato di 180 giorni (ulteriormente prorogati di altri 180 dal decreto legge 70/2011) la predisposizione di bandi, avvisi, nonché di inviti a presentare offerte, nell'ambito dei quali sarà possibile richiedere la qualificazione Soa ottenuta con il prestito dei requisiti di un'altra impresa legata al concorrente da rapporti societari.
Le norme transitorie fanno slittare di un anno anche la garanzia globale di esecuzione, il nuovo sistema di garanzie che diverrà obbligatorio per gli appalti di progettazione esecutiva ed esecuzione di lavori di ammontare a base d'asta superiore a 75 milioni di euro, per gli affidamenti a contraente generale e, facoltativo anche per i soli lavori oltre i 100 milioni di euro.
Dunque, il nuovo soggetto garante (assicurazioni soprattutto) farà la sua comparsa solamente nei contratti i cui bandi o avvisi di indizione della gara saranno pubblicati a partire dall'08.06.2012.
C'è ancora tempo, dunque, per cercare un soggetto che assuma non solo l'obbligo di pagare alla stazione appaltante quanto dovuto dall'appaltatore a titolo di cauzione definitiva, ma che si accolli anche l'obbligo di far subentrare un sostituto nella esecuzione o nel completamento dei lavori, qualora dovesse verificarsi una risoluzione contrattuale per reati accertati, per decadenza dell'attestazione di qualificazione o, ancora, per grave inadempimento, grave irregolarità e grave ritardo (articolo Il Sole 24 Ore del 08.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIProgetti senza massimo ribasso. Oltre al prezzo vantaggioso si terrà conto di qualità e tempi di esecuzione.
Appalti. In vigore da oggi –dopo 6 mesi di attesa– il regolamento sulle procedure per lavori pubblici, servizi e forniture.

Da oggi nuova scossa agli appalti. Entra, infatti, in vigore il regolamento degli appalti. Si conclude così la lunga vacatio legis di 6 mesi che ha sospeso finora il Dpr 207/2010 di attuazione del codice degli appalti.
Solo due norme infatti –quelle con le sanzioni per le imprese e le società di qualificazione– erano entrate in vigore il 25.12.2010, 15 giorni dopo la pubblicazione del decreto. Tutto il resto –ovvero le procedure per programmare, bandire ed eseguire i contratti di appalto pubblici– era rinviato all'8 giugno.
Questa sospensione dovrebbe aver consentito alle amministrazioni e ai fornitori della Pa di prendere confidenza con tutte le nuove procedure. Che hanno un impatto non solo sui lavori pubblici, ma anche sui contratti di servizi (con il debutto del finanziamento privato e delle forniture e con la nuova figura del direttore dell'esecuzione).
Il regolamento non comporta un cambiamento radicale nella gestione dell'appalto, ma contiene disposizioni e procedure che incidono sulla quotidianità degli operatori.
L'impatto più forte è per le gare di progettazione di opere pubbliche. Il regolamento prova a sperimentare la cancellazione del massimo ribasso. Per acquisire un progetto l'unico sistema di scelta sarà quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa, nel quale il prezzo proposto dal progettista è solo uno degli elementi di giudizio, accanto a qualità e tempi di esecuzione. Una particolare formula di aggiudicazione, poi, (contenuta nell'allegato M) penalizza ancora di più i ribassi elevati nella classifica finale. Con queste modifiche i progettisti hanno ottenuto una disciplina derogatoria: le direttive comunitarie prevedono la piena equivalenza dei criteri di aggiudicazione del massimo ribasso e dell'offerta più vantaggiosa. Così, ingegneri e architetti tentano di combattere il fenomeno dei maxi ribassi che nella progettazione hanno raggiunto punte anche del 70% dopo l'abolizione della tariffe minime.
Scatta da oggi l'obbligo di validare tutti i progetti, nei tre stadi di sviluppo, dal preliminare all'esecutivo. Con questo controllo terzo, affidato a organismi indipendenti (comprese le strutture ad hoc delle amministrazioni o per le piccole opere gli studi dei progettisti) si vogliono correggere in corsa gli errori di progettazione per portare in gara un progetto "senza sorprese".
In questa chiave va letta anche la norma del Dl sviluppo che ha escluso la possibilità per l'appaltatore di prevedere riserve sui progetti già validati. Con l'arrivo del regolamento cambiano anche i bandi di gara. Per i lavori pubblici, ad esempio, aumentano le categorie di lavori in cui può essere scomposta un'opera e per le Pmi arrivano due nuove fasce sui bandi: la III (da 1,033 a 1,5 milioni) e la IV–bis (da 2,5 a 3,5 milioni). Con l'ingresso nel regolamento degli appalti di forniture e servizi (in attuazione del codice appalti che già li aveva unificati) molti istituti propri finora dei lavori vengono estesi anche a questi altri due tipi di contratti.
È il caso della nuova figura obbligatoria del direttore di esecuzione, che solo per contratti sotto i 500mila euro coincide con il responsabile del procedimento. Il regolamento detta poi disposizioni uniformi su tutta la fase di esecuzione di questi contratti, dalla contabilità alle varianti, dalla sospensione delle prestazioni al certificato di ultimazione. Come la sperimentazione sul project financing esteso anche a servizi e forniture. Banchi o le lavagne con il marchio dello sponsor diventano una possibilità reale (articolo Il Sole 24 Ore del 08.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIIl debito blocca il Durc. Il certificato è negato anche per l'inadempienza di un solo mese.
La mancata presentazione del documento unico di regolarità contributiva (Durc) previsto dalle leggi regionali per la validità delle autorizzazioni edilizie non è una violazione penalmente rilevante. È sufficiente, però, che non sia pagato un solo mese di contributi perché l'azienda possa essere esclusa da una gara di appalto.
Sono questi i principi che emergono dalla giurisprudenza più recente sui criteri applicativi del documento unico di regolarità contributiva (si veda la sentenza della Cassazione, sezione penale 21780/2011, illustrata sul Sole 24 Ore del 1° giugno, e quella del Consiglio di Stato 2100/2011).
Il Durc nasce come un documento che certifica la regolarità contributiva e assicurativa del datore di lavoro e nel tempo ha acquistato sempre più importanza nelle dinamiche gestionali delle aziende. Le modalità di rilascio del documento sono fissate nel decreto del ministero del Lavoro del 24.10.2007 (pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale» 279 del 2007), in base a quanto previsto dall'articolo 1, comma 1176, della legge 296/2006.
Le aziende devono essere in possesso del Durc per le seguenti finalità:
- fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale previsti dall'ordinamento italiano;
- fruizione di benefici e sovvenzioni previsti dalla disciplina comunitaria;
- nell'ambito delle procedure di appalto di opere, servizi e forniture pubblici e nei lavori privati dell'edilizia.
In realtà, tenuto conto delle normativa sulla responsabilità solidale delle imprese che opera in ambito contributivo, assicurativo e fiscale, il Durc è richiesto anche nell'ambito di appalti che avvengono tra privati.
Molte leggi regionali hanno subordinato la validità della concessione edilizia per costruire alla presentazione del Durc da parte del costruttore.
Opportunamente, la Cassazione (sentenza 21780/2011), ha confermato che la mancata presentazione del documento di regolarità non può mai integrare i presupposti di un reato ma può produrre effetti sanzionatori solo sul piano amministrativo.
La Cassazione spiega che il legislatore non ha mai inteso introdurre sanzioni penali in questo ambito. Queste, dunque, non possono neanche essere introdotte surrettiziamente.
La richiesta del documento di regolarità deve essere fatta dalle aziende per via telematica sul sito dell'Inps, dell'Inail oppure sul sito www.sportellounicoprevidenziale.it: il documento va rilasciato entro il termine massimo di trenta giorni, salva la formazione del silenzio assenso.
Nell'ambito delle procedure di appalto, il Durc relativo al soggetto appaltatore o subappaltatore può essere richiesto dalle amministrazioni pubbliche o dai soggetti privati a rilevanza pubblica appaltanti e dalle società di attestazione e qualificazione delle aziende (Soa).
Se l'Istituto previdenziale che rilascia il Durc è lo stesso soggetto che ammette il richiedente a fruire del beneficio contributivo o agisce in qualità di stazione appaltante, l'Istituto stesso provvede alla verifica dei presupposti per il suo rilascio, senza emettere il Durc.
Anche se su questa previsione si registrano diversi casi in cui gli Enti previdenziali continuano a richiedere alle aziende appaltatrici di servizi la presentazione del Durc prima di procedere al pagamento dei servizi.
Per la fruizione delle agevolazioni normative e contributive, il Durc ha validità mensile. Nel solo settore degli appalti privati il Durc ha validità trimestrale.
In mancanza dei requisiti, prima dell'emissione del Durc negativo, i soggetti competenti al rilascio devono invitare l'interessato a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni.
Con una recente interpretazione, il ministero del Lavoro ha stabilito che la violazione dei tetti previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro dell'edilizia sul numero massimo di lavoratori part-time che possono essere presenti in azienda, determina una irregolarità contributiva e il mancato rilascio del Durc.
Anche in presenza di un debito, l'azienda ha diritto al rilascio del Durc positivo:
- in pendenza di contenzioso amministrativo, la regolarità può essere dichiarata sino alla decisione che respinge il ricorso;
- in pendenza di contenzioso giudiziario, la regolarità è dichiarata sino al passaggio in giudicato della sentenza di condanna, salvo l'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria abbia adottato un provvedimento esecutivo che consente l'iscrizione a ruolo delle somme oggetto del giudizio.
In questi casi, è opportuno che il datore di lavoro notifichi agli uffici competenti l'instaurazione del contenzioso poiché spesso, per mancanza di comunicazione interna, gli uffici competenti al rilascio del Durc non ne sono a conoscenza (articolo Il Sole 24 Ore del 08.
06.2011).

ENTI LOCALI: Vincoli di spesa, incerta l'inclusione delle partecipate.
LA DELIBERA - Dalle sezioni riunite un'interpretazione restrittiva della norma porta a escludere i costi degli organismi esterni.
La spesa di personale rilevante ai fini del rispetto dei regimi vincolistici in materia di finanza pubblica sembrerebbe doversi calcolare al lordo delle voci già escluse nella determinazione dell'aggregato da considerare per il confronto della serie storica.
Se, dunque, lo stanziamento iscritto al titolo I intervento 01 del bilancio locale non completa il novero di voci da inserire nel calcolo del rapporto fra spesa di personale e spesa corrente dell'ente, diventa difficile determinare il perimetro di consolidamento entro il quale effettuare la verifica del rispetto della percentuale del 40%.

La delibera 12.05.2011 n. 27 delle sezioni riunite della Corte dei Conti, che fornisce un'interpretazione restrittiva della normativa pubblicistica in materia, ponendosi in contrasto con orientamenti giurisprudenziali consolidati di alcune sezioni regionali, reca un riferimento al concetto di organismi esterni all'ente locale, auspicando, ai fini della verifica della rigidità del bilancio, un'impostazione contabile basata sulle disposizioni di cui al primo comma dell'articolo 76 della legge n. 133/2008.
In base a questa norma, costituiscono spese di personale anche quelle sostenute per i rapporti di collaborazione continuata e continuativa, per la somministrazione di lavoro, per il personale di cui all'articolo 110 del Dlgs 18.08.2000, n. 267, nonché per tutti i soggetti a vario titolo utilizzati, senza estinzione del rapporto di pubblico impiego, in strutture e organismi variamente denominati partecipati o comunque facenti capo all'ente.
In sostanza, la spesa di personale da comprendere nella locuzione di organismi esterni è ricavabile da un'interpretazione logico-sistematica che escluderebbe l'estensione alle società partecipate.
La giurisprudenza tuttavia non sempre è stata concorde. Già con la delibera n. 2/2007, la sezione di controllo della Corte dei conti della Lombardia sosteneva la natura pubblicistica di società a partecipazione locale totalitaria o maggioritaria che utilizzassero risorse pubbliche per il raggiungimento degli scopi statutari. Successivamente altre sezioni di controllo hanno individuato la necessità di definire a livello aggregato i costi delle partecipate.
L'articolo 18, comma 2-bis, della legge n. 133/2008 (introdotto dall'articolo 19 Dl 78/2009) nello stabilire che i divieti o limitazioni alle assunzioni di personale si applicano, in relazione al regime previsto per l'amministrazione controllante, anche alle società a partecipazione pubblica locale totale o di controllo che siano titolari di affidamenti diretti di servizi pubblici locali senza gara, sembrerebbe definire i principi cui riferirsi anche per una prima individuazione del perimetro di calcolo della spesa.
L'assenza di asseverati principi di consolidamento fra dati economici (costi e ricavi) e valori finanziari (impegni e accertamenti) rischia tuttavia di rendere arbitraria la verifica del rispetto dei vincoli di finanza pubblica (articolo Il Sole 24 Ore del 06.
06.2011 - tratto da ecostampa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Criteri dettagliati per beni e servizi.
Le gare di appalto per l'acquisto di beni e servizi vanno impostate con un quadro dettagliato dei criteri e con la specificazione delle modalità di attribuzione dei punteggi, mentre per le prestazioni eseguite è d'obbligo la verifica. Il Dpr 207/2010 introduce nella normativa per la selezione dei fornitori e dei prestatori di servizi importanti novità.
Ogni appalto deve essere progettato (articolo 279); quindi le amministrazioni, prima dell'avvio delle procedure selettive, devono definire la relazione di contesto, il quadro economico, il Duvri, il capitolato prestazionale e lo schema di contratto. Il progetto deve essere formalizzato con l'approvazione. La sua struttura molto flessibile permette peraltro di differenziarne i contenuti descrittivi a seconda della tipologia di affidamento e della complessità dell'appalto.
Le stazioni appaltanti sono tenute a specificare nel bando (e nel disciplinare di gara) i criteri di valutazione, i relativi sub-criteri, i pesi ponderali, ma anche le modalità di attribuzione dei punteggi (articolo 283, comma 2). Per regolare questo delicatissimo aspetto, le amministrazioni devono fare riferimento all'allegato P del Dpr 207/2010.
Nell'impostazione di bandi e disciplinari di gara le stazioni appaltanti devono inserire le regole derivanti dalle norme del regolamento attuativo sulla specificazione delle attività principali e di quelle complementari comprese nell'appalto, nonché sulla distribuzione dei requisiti (e delle relative quote di attività) tra i soggetti partecipanti in raggruppamento temporaneo (articolo 275, collegato all'articolo 37, comma 4 del codice).
L'incidenza del regolamento attuativo nella gestione delle procedure selettive per appalti di beni e servizi si rileva anche nella disciplina innovativa (articolo 283) di alcune operazioni di gara e del percorso per la verifica delle offerte anomale (con rinvio all'articolo 121), destinato a concludersi con una seduta pubblica di proclamazione dei risultati e dell'aggiudicazione provvisoria.
Una vera rivoluzione riguarda invece la fase di esecuzione dell'appalto, per la quale il Dpr 207/2010 prevede (per la prima volta nell'ordinamento della contrattualistica pubblica) una disciplina specifica che ha molti punti in comune con quella dei lavori pubblici. Sotto il profilo organizzativo, le amministrazioni devono formalizzare i ruoli del responsabile del procedimento (articoli 272-273) e del direttore dell'esecuzione (articolo 300), da nominare specificamente (anche se per appalti entro i 500mila euro possono coincidere). Sul piano procedurale, l'aspetto più rilevante è la regolamentazione delle varianti (articolo 311), in base alla quale le stazioni appaltanti potranno chiedere adeguamenti quantitativi al contratto solo per circostanze determinate: viene pertanto meno la possibilità di usare "liberamente" il cosiddetto quinto d'obbligo.
Lo sviluppo delle prestazioni deve essere verificato secondo lo schema dei protocolli delineati dal regolamento (articoli 312-325). Le amministrazioni devono pertanto definire i ruoli, nonché organizzare le verifiche e la loro formalizzazione, tenendo conto che sono finalizzate alla produzione dei certificati e delle attestazioni di conformità (articolo Il Sole 24 Ore del 06.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

LAVORI PUBBLICI: Progettazione lavori: il regolamento impone il restyling. Cambiamenti rilevanti anche sulla verifica per la validazione.
Le stazioni appaltanti devono riorganizzare le attività relative alla progettazione dei lavori pubblici, nonché adeguare bandi e capitolati al regolamento attuativo del codice dei contratti, per tutti gli appalti che avvieranno a partire da mercoledì 08.06.2011.
L'entrata in vigore del Dpr 207/2010 ha molte implicazioni nella gestione operativa del ciclo realizzativo delle opere pubbliche. Le novità con maggiore impatto procedurale e organizzativo sono rilevabili dalle disposizioni del regolamento che disciplinano la fase della progettazione (articoli 14-43) e della verifica ai fini della validazione (articoli 44-59).
Il percorso prevede ora la necessaria redazione dello studio di fattibilità come passaggio-chiave per la definizione delle scelte da programmare. Il progetto preliminare e quello definitivo sono molto più articolati e specifici rispetto al quadro precedentemente regolato dal Dpr 554/1999, quindi le stazioni appaltanti devono verificare l'adeguatezza delle competenze delle risorse umane interne per una redazione ottimale.
Il maggiore dettaglio del progetto preliminare rende necessaria una particolare attenzione anche da parte degli amministratori locali, in quanto richiede la definizione di scelte (confluenti nella programmazione) non più facilmente adattabili nelle successive fasi.
Il Dpr 207/2010 prevede un'altra grande novità riferita a questa fase: ogni livello di progettazione dev'essere sottoposto a verifica ai fini della validazione.
Le attività di controllo dei profili sostanziali e documentali dei progetti devono essere realizzate per quelli elaborati sia da tecnici della stazione appaltante sia da professionisti esterni. Le amministrazioni, perciò, devono definire soluzioni organizzative che permettano di svolgere le verifiche mediante gli uffici tecnici e, per lavori di minor rilievo, per mezzo dei responsabili di procedimento, considerando anche che il soggetto verificatore non può svolgere l'attività di progettista.
Sul piano procedurale le disposizioni (in particolare l'articolo 55) evidenziano l'importanza della validazione, che deve essere tradotta in un provvedimento specifico del Rup.
La terza grande novità è determinata dalla disciplina specifica per gli appalti integrati, contenuta principalmente negli articoli 168 e 169, nonché in un'ampia serie di disposizioni, illustrative dei contenuti ulteriori che devono avere i progetti quando la gara comporti l'affidamento della progettazione e dell'esecuzione dell'appalto. In relazione all'affidamento degli appalti, nella predisposizione dei bandi le amministrazioni devono tener conto dell'innovato quadro delle categorie generali e specialistiche, delle precisazioni in ordine alle lavorazioni prevalenti, scorporabili e subappaltabili (articolo 109), nonché dell'inserimento di due classifiche intermedie. Particolare attenzione dovrà essere posta al regime transitorio (regolato dall'articolo 357 del regolamento attuativo), in base al quale le vecchie attestazioni Soa scadono per molte categorie al loro termine naturale, mentre per altre l'adeguamento è sviluppato entro un periodo ulteriore di un anno dall'entrata in vigore del Dpr 207/2010 (scadenza allungata dal Dl 70/2010).
Rispetto al passato, le stazioni appaltanti potranno utilizzare per l'affidamento dei lavori di manutenzione (oltre alle procedure ordinarie) gli accordi quadro e partire da progetti definitivi (articolo 105), mentre non potranno più ricorrere ai contratti aperti.
Tra le principali novità è rilevabile la precisazione delle disposizioni sulla polizza di assicurazione per danni di esecuzione (la cosiddetta "car"), per le quali ora il bando di gara deve prevedere che l'importo della somma assicurata corrisponda a quello del contratto oppure, dandone specifica motivazione, che lo superi.
Norme più chiare sono rilevabili anche in relazione alle varianti (articoli 161-163) e alle sospensioni (articoli 158-160), per le quali risulta chiaro che, quando siano legittime (determinate dal direttore lavori per cause di forza maggiore o dal Rup per motivi di interesse pubblico), non comportano il versamento di alcun indennizzo all'appaltatore (situazione che si verifica, invece, quando la sospensione non sia giustificata e, pertanto, illegittima).
Molte disposizioni replicano quelle del Dpr 554/1999 e del Dm 145/2000, ma è comunque necessario che le stazioni appaltanti adeguino bandi, capitolati e schemi di contratto in uso (articolo Il Sole 24 Ore del 06.
06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Il bando di gara non può imporre al concorrente che la polizza fideiussoria da esso prodotta riporti espressamente l’impegno di versare l’importo della cauzione ad un soggetto individuato della stazione appaltante.
Le disposizioni di riferimento non prevedono che possa essere inserita, nel bando e/o nel disciplinare di gara, una clausola che preveda, in caso di escussione della polizza a prima richiesta, l’importo del fideiussore a versare l’importo della cauzione nei confronti di un soggetto ben individuato.
Una corretta interpretazione di tali norme induce a ritenere, anche alla stregua dei principi comunitari di trasparenza e massima partecipazione alle procedure volte all’affidamento di commesse pubbliche, che l’esclusione dalla selezione possa essere legittimamente prevista dall’Amministrazione appaltante nella lex specialis soltanto quando ricorrano motivi specifici e ben esplicitati (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 09.06.2011 n. 1446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa violazione dell'art. 7, l. n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento terminale, dovendo la disposizione essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento, e quindi di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
Il privato, pertanto, non può limitarsi a dolersi della mera circostanza della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.

La giurisprudenza ha sempre affermato che la violazione dell'art. 7, l. n. 241 del 1990 non produce ex se l'illegittimità del provvedimento terminale, dovendo la disposizione essere interpretata alla luce del successivo art. 21-octies, comma 2, che impone al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento, e quindi di non annullare l'atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo.
Il privato, pertanto, non può limitarsi a dolersi della mera circostanza della mancata comunicazione di avvio, ma deve anche indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione.
Ne consegue che, ove il privato si limiti a contestare la mancata comunicazione di avvio, senza nemmeno allegare le circostanze che intendeva sottoporre all'amministrazione, il motivo con cui si lamenta la mancata comunicazione deve intendersi inammissibile per assoluta genericità (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 29.07.2008, n. 3786; idem sez. V, 19.03.2007, n. 1307)
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio del permesso di costruire avviene nell'ambito del rapporto pubblicistico, e non si estende ai rapporti tra privati, in quanto la lesione di diritti dei terzi non discende direttamente dal rilascio del titolo, ma solo dalla fisica realizzazione dell’opera contro la quale può chiedersi tutela davanti al giudice civile.
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Deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire. Tuttavia, secondo le regole generali, l'Amministrazione comunale, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire deve verificare “…le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …” per l’adozione del provvedimento finale.
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Nel caso di lotto intercluso, il difetto del possesso dei titoli reali relativi ai diritti di passaggio veicolare attraverso il cortile altrui costituisce un elemento procedimentalmente ostativo, per il quale legittimamente si nega il rilascio del permesso di costruire.
In linea teorica è esatto il richiamo della sentenza appellata all’orientamento giurisprudenziale per cui il rilascio del permesso di costruire avviene nell'ambito del rapporto pubblicistico, e non si estende ai rapporti tra privati, in quanto la lesione di diritti dei terzi non discende direttamente dal rilascio del titolo, ma solo dalla fisica realizzazione dell’opera contro la quale può chiedersi tutela davanti al giudice civile (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6332).
In quanto atto amministrativo che legittima l'attività edilizia nell'ordinamento pubblicistico, il permesso non attribuisce però alcun diritto soggettivo alla stregua del diritto comune a favore di tale soggetto. La rilevanza giuridica della licenza edilizia va circoscritta, infatti, ai rapporti tra p.a. e costruttore ed ai possibili riflessi sulle correlate posizioni di interesse legittimo dei terzi, ma comunque presuppone pur sempre il necessario ed ineludibile possesso dei titoli proprietari da parte del richiedente .
Il primo comma dell’art. 11, d.P.R. 06.06.2001 n. 380, infatti, prevede espressamente che il permesso di costruire è “rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”. La legge specificamente impone, tra i requisiti di legittimazione, il possesso dei titoli reali per poter intervenire sull'immobile per il quale è chiesta la concessione edilizia (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 07.09.2009, n. 5223; Consiglio Stato, sez. IV, 07.09.2007 n.4703; idem 07.07.2005 n. 3730).
Certamente deve escludersi un obbligo del Comune di effettuare complessi accertamenti diretti a ricostruire tutte le vicende riguardanti la titolarità dell'immobile, ovvero a ricercare le limitazioni negoziali al diritto di costruire (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 10.12.2007, n. 6332).
Tuttavia, secondo le regole generali, l'Amministrazione comunale, nel corso dell'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, ai sensi dell’art. 6, I° co. lett. a) della L. n. 241/1990 e s.m.i. deve verificare “…le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti rilevanti …” per l’adozione del provvedimento finale.
La proprietà, o comunque il possesso dei titoli civilisticamente idonei a legittimare la situazione giuridica del richiedente, per tutte le aree direttamente interessate dall’intervento, costituisce dunque un requisito di legittimazione dell’istanza che deve essere procedimentalmente dimostrato ai fini dell’ammissibilità stessa della domanda.
I titoli per l'esercizio dello "ius aedificandi" costituiscono un presupposto legale la cui mancanza impedisce infatti all'amministrazione di procedere oltre nell'esame del progetto (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 12.05.2003, n. 2506).
Nel caso, quindi, l’interclusione del fondo oggetto della richiesta di intervento non attiene ai generici rapporti civilistici del richiedente con i terzi alle quali l’amministrazione è del tutto estranea -come erroneamente affermato dal TAR- ma invece concerne propriamente un presupposto necessario di legittimazione della società richiedente, ai sensi del cit. art. 11, primo co., del d.lgs. n. 380, la quale avrebbe quindi dovuto allegare all’istanza tutti i titoli di servitù di transito veicolare sulla proprietà altrui.
Il difetto del possesso dei titoli reali relativi ai diritti di passaggio veicolare attraverso il cortile altrui costituisce un elemento procedimentalmente ostativo, per il quale legittimamente si nega il rilascio del permesso di costruire
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se nel procedimento di rilascio del permesso di costruire l’amministrazione ha il potere-dovere di verificare l’esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento dell’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, è pur vero che l’attività istruttoria condotta a tal fine deve ritenersi adeguata allorquando siano stati acquisiti tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione.
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E' illegittimo il permesso di costruire rilasciato ove, in fase istruttoria, non si abbia in concreto riscontrato l’esistenza di un rischio per la staticità dell’immobile esistente.
Le attribuzioni del Comune in tema di autorizzazione degli interventi edilizi comprendono espressamente gli obblighi di valutare i profili di sicurezza delle costruzioni, come si evince dalla lettura degli artt. 2, comma 4, e 4 del testo unico sull’edilizia. Tali obblighi istruttori, appartenendo alle attribuzioni istituzionali dell’ente pubblico, non sono condizionati dalle valutazioni delle parti coinvolte, ma devono essere esperiti in ogni caso e, si noti, anche qualora vi fosse stato accordo delle parti private coinvolte.
Se è certamente vero che l’azione amministrativa non può addentrarsi oltre i limiti indicati in sentenza nella valutazione degli assetti proprietari dell’immobile, è del pari vero che le questioni attinenti alla statica ed alla sicurezza dell’immobile non rientrano in questo ambito, dovendo essere invece oggetto di ponderazione autonoma ed ineludibile.

Come correttamente afferma il TAR, “se infatti nel procedimento di rilascio del permesso di costruire l’amministrazione ha il potere-dovere di verificare l’esistenza in capo al richiedente di un idoneo titolo di godimento dell’immobile interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, è pur vero che l’attività istruttoria condotta a tal fine deve ritenersi adeguata allorquando siano stati acquisiti tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza ed il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione”. E ciò nella considerazione che nel nostro ordinamento l’unico soggetto deputato ad accertare i rapporti proprietari è il giudice civile, per cui all’amministrazione va riconosciuto unicamente un ruolo minore, esattamente nei termini indicati dal giudice di prime cure.
Tuttavia, dalla lettura degli atti e dalle difese delle parti, emerge che, in disparte la questione proprietaria, i rilievi e le censure maggiori si accentrano sulla circostanza che il Comune avrebbe autorizzato interventi attinenti la staticità dell’immobile e tendenzialmente idonei a pregiudicarla, in assenza di una corretta valutazione del progetto presentato ed anzi in assenza di un effettivo riscontro sulla correttezza tra la documentazione ricevuta e lo stato di fatto.
Questo aspetto, che è apparso alla Sezione prioritario, tanto da fondare l’accoglimento della domanda cautelare proposta ed accolta con ordinanza n. 1108/2010 proprio in ragione dei profili di rischio per la staticità dell’immobile, è stata messo in ombra nella sentenza.
Occorre invece sottolineare che le attribuzioni del Comune in tema di autorizzazione degli interventi edilizi comprendono espressamente gli obblighi di valutare i profili di sicurezza delle costruzioni, come si evince dalla lettura degli artt. 2, comma 4, e 4 del testo unico sull’edilizia. Tali obblighi istruttori, appartenendo alle attribuzioni istituzionali dell’ente pubblico, non sono condizionati dalle valutazioni delle parti coinvolte, ma devono essere esperiti in ogni caso e, si noti, anche qualora vi fosse stato accordo delle parti private coinvolte. Infatti, gli interessi tutelati dalla normativa, coinvolgendo profili di sicurezza privata e pubblica, non sono disponibili dalle parti ed ineriscono ai compiti tipici dell’amministrazione.
È, quindi, compito proprio del Comune, e come tale non soggetto ad alcun impulso di parte, procedere autonomamente alla valutazione del progetto edilizio presentato dal punto di vista del rispetto dei regolamenti edilizi, non vertendosi in questo caso in nessuna situazione soggetta a disponibilità della parte privata.
Pertanto, se è certamente vero che l’azione amministrativa non può addentrarsi oltre i limiti indicati in sentenza nella valutazione degli assetti proprietari dell’immobile, è del pari vero che le questioni attinenti alla statica ed alla sicurezza dell’immobile non rientrano in questo ambito, dovendo essere invece oggetto di ponderazione autonoma ed ineludibile.
Sulla scorta di tale presupposto, fondato prima ancora che sulla lettura della legge dalle considerazioni in tema di completezza ed esaustività dell’istruttoria amministrativa, non può non notarsi come nel caso in specie tale azione sia mancata e il Comune di Termoli abbia rilasciato i titoli abilitativi impugnati non avendo in concreto riscontrato l’esistenza di un rischio per la staticità dell’immobile.
Infatti, dalla completa ricostruzione in fatto operata nel corso del giudizio di primo grado, anche tramite una verificazione ed una consulenza tecnica d’ufficio, ed in special modo dalla relazione del Provveditorato interregionale per le opere pubbliche Campania–Molise, è emerso come effettivamente gli interventi autorizzati abbiano influito sulla rigidezza strutturale e sulla stabilità dell’intero complesso, e ciò in assenza di una completa valutazione di tali profili da parte del Comune di Termoli.
Si tratta quindi di un complesso di violazioni, di carattere non formale o procedurale, e quindi superabili con la successiva produzione documentale, ma riguardanti il contenuto stesso dell’intervento edilizio, che ben avrebbero dovuto condurre il Comune ad esaminare nel dettaglio i progetti presentati, senza arrestare la propria valutazione al solo dato proprietario (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.06.2011 n. 3505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa commissione di gara presieduta dal Dirigente responsabile del settore Urbanistica del Comune e composta dal Vice-dirigente dell’Ufficio tecnico e da una impiegata amministrativa dello stesso Ufficio risulta avere le professionalità adeguate alle valutazioni tecniche che sono state chiamate ad effettuare, svolgendo i suddetti componenti della Commissione attività proprie dello specifico settore cui si riferiva l'oggetto del contratto, dal momento che l’avviso pubblico riguardava un avviso di selezione per l’affidamento dell’incarico professionale per la redazione del Piano degli interventi relativo al Piano di assetto del Territorio.
Osserva al riguardo il Collegio che l’art. 84, comma 2, 3, 4, 5 e 6, del d.lgs. n. 163/2006 stabilisce che “2. La commissione, nominata dall'organo della stazione appaltante competente ad effettuare la scelta del soggetto affidatario del contratto, è composta da un numero dispari di componenti, in numero massimo di cinque, esperti nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto.
3. La commissione è presieduta da un dirigente della stazione appaltante, nominato dall'organo competente.
4. I commissari diversi dal Presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta.
5. Coloro che nel biennio precedente hanno rivestito cariche di pubblico amministratore non possono essere nominati commissari relativamente a contratti affidati dalle amministrazioni presso le quali hanno prestato servizio.
6. Sono esclusi da successivi incarichi di commissario coloro che, in qualità di membri delle commissioni giudicatrici, abbiano concorso, con dolo o colpa grave accertati in sede giurisdizionale con sentenza non sospesa, all'approvazione di atti dichiarati illegittimi
.”
Il seguente comma 8 stabilisce che i commissari diversi dal presidente sono selezionati tra i funzionari delle stazioni appaltanti e che solo in caso di accertata carenza in organico di adeguate professionalità, nonché negli altri casi previsti dal regolamento essi sono scelti con un criterio di rotazione tra professionisti e professori universitari di ruolo.
Il TAR ha accolto il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio nell’assunto che la composizione della Commissione giudicatrice, con specifico riguardo alle competenze tecniche dei componenti, non risultava conforme alle sopra citate disposizioni, tenuto conto della peculiarità delle valutazioni tecniche da effettuare per la scelta della migliore offerta.
La Commissione di cui trattasi era presieduta dal Dirigente responsabile del settore Urbanistica del Comune e composta dal Vice-dirigente dell’Ufficio tecnico e da una impiegata amministrativa dello stesso Ufficio.
Dette professionalità appaiono al Collegio adeguate alle valutazioni tecniche che sono state chiamate ad effettuare, svolgendo i suddetti componenti della Commissione attività proprie dello specifico settore cui si riferiva l'oggetto del contratto, dal momento che l’avviso pubblico riguardava un avviso di selezione per l’affidamento dell’incarico professionale per la redazione del Piano degli interventi relativo al Piano di assetto del Territorio adottato dal Comune di Cerea (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 08.06.2011 n. 3479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' illegittima la concessione edilizia per la costruzione di una autorimessa posta a 5,00 mt. dalla parete finestrata del fabbricato dei ricorrenti.
L'art. 15.2.7 delle N.T.A. del Comune, essendo in contrasto con la previsione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, deve ritenersi sostituito ope legis dal precetto contenuto in questa norma di diretta applicazione secondo il principio di gerarchia delle fonti che si applica nel caso di contrasto apparente tra le norme.

La difesa dei ricorrenti ha prodotto la sentenza del Tribunale di Como che aveva deciso la controversia tra i ricorrenti medesimi e i controinteressati e nella quale, per quanto di interesse nel presente giudizio, era stata negata la diretta applicabilità nei rapporti tra privati dell’art. 9 D.M. 1444/1968 anche superando la normativa urbanistica comunale vigente.
L’interpretazione offerta dal Tribunale di Como è in linea con l’orientamento espresso dalla Suprema Corte in alcune sentenze pure richiamate dalla decisione del giudice lariano (Cass. 3771/2001, 5889/1997), che però ha sempre sostenuto come la norma contenuta nell’art. 9 D.M. 1444/1968 dovesse ritenersi cogente per l’amministrazione locale superando anche la previsione di norme urbanistiche locali difformi.
In merito all’unico motivo di ricorso non può che ribadirsi un recente orientamento espresso da questa stessa sezione nella sentenza 1282/2011 che in merito ha affermato: “L’art. 9 del D.M. 1444/1968 misura le distanze con riferimento alle pareti finestrate con riferimento a: 2) Nuovi edifici ricadenti zone diverse dalla zona A: è prescritta in tutti i casi la distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; Zone C): è altresì prescritta, tra pareti finestrate di edifici antistanti, la distanza minima pari all'altezza del fabbricato più alto.
La giurisprudenza ha costantemente affermato che il d.m. 02.04.1968 n. 1444 -emanato in virtù dell'art. 41-quinquies l. n. 1150 del 1942 introdotto a sua volta dall'art. 17 l. 06.08.1967 n. 765 (c.d. L. Ponte)- ripete dal rango di fonte primaria della norma delegante la forza di legge, suscettibile di integrare con efficacia precettiva il regime delle distanze dalle costruzioni di cui all'art. 872 c.c.: la regola della distanza di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti vincola anche i comuni in sede di formazione e di revisione degli strumenti urbanistici, con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va disapplicata, essendo consentita alle amministrazioni locali solo la fissazione di distanze superiori (TAR Lombardia Brescia, sez. I, 30.08.2007, n. 832).
Con riferimento alla nozione di pareti finestrate la giurisprudenza afferma che "per "pareti finestrate", ai sensi dell'art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 e di tutti quei regolamenti edilizi locali che ad esso si richiamano, devono intendersi, non (soltanto) le pareti munite di "vedute", ma più in generale tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno, quali porte, balconi, finestre di ogni tipo (di veduta o di luce)" (Corte d’Appello Catania, 22.11.2003) e considerato altresì che basta che sia finestrata anche una sola delle due pareti (TAR Toscana, Sez. III, 04.12.2001, n. 1734; TAR Piemonte, 10/10/2008 n. 2565).
”.
Orbene nel caso di specie non vi è dubbio che l’autorimessa di cui alla concessione impugnata sia posta a cinque metri dalla parete finestrata del fabbricato dei ricorrenti.
Ciò comporta l’illegittimità della concessione impugnata in quanto l’art. 15.2.7 delle N.T.A. del Comune, essendo in contrasto con la previsione dell’art. 9 D.M. 1444/1968, deve ritenersi sostituita ope legis dal precetto contenuto in questa norma di diretta applicazione secondo il principio di gerarchia delle fonti che si applica nel caso di contrasto apparente tra le norme (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’ordine di smaltimento presuppone l’accertamento di una responsabilità a titolo quantomeno di colpa in capo all’autore dell’abbandono dei rifiuti, e lo stesso vale per il proprietario o titolare di altro diritto reale o personale sull’area interessata, che venga chiamato a rispondere in solido dell’illecito.
Secondo l’art. 192 del D.Lgs. 152/2006 l’ordine di smaltimento presuppone l’accertamento di una responsabilità a titolo quantomeno di colpa in capo all’autore dell’abbandono dei rifiuti, e lo stesso vale per il proprietario o titolare di altro diritto reale o personale sull’area interessata, che venga chiamato a rispondere in solido dell’illecito (TAR Toscana Sez. II sent. 1447 del 17.09.2009) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIIl provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell’Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata.
Nell’ordinamento vige “la regola secondo la quale il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce manifestazione della discrezionalità dell’Amministrazione, nel senso che essa non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni in quanto tali, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione diverso dal semplice ristabilimento della legalità violata.
Siffatto interesse pubblico non viene esplicitato a priori dalla norma, ma deve essere ricavato dalla stessa Amministrazione, caso per caso, attraverso un’attività di “comparazione tra l’interesse pubblico al ripristino della legalità e gli interessi dei destinatari del provvedimento e dei controinteressati”; il tutto, tenendo nella debita considerazione anche la circostanza che il provvedimento da annullare possa avere prodotto effetti favorevoli, valutandone la rilevanza, e che sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo (fattore di stabilizzazione) dal momento della sua emissione. (…) Tali elementi, infatti, integrano la nozione di “stabilità della situazione venutasi a creare per effetto del provvedimento favorevole” e rappresentano, in quanto tali, un limite all’esercizio del potere di autoannullamento.
Pertanto, nella comparazione tra le esigenze sottese a un intempestivo e pregiudizievole annullamento in autotutela dell’atto e quelle sottese alla conservazione di quest’ultimo, l’Amministrazione, in forza del citato art. 21-nonies [della legge n. 241 del 1990], è tenuta a optare per la soluzione che meglio contemperi la necessità del ripristino della legittimità e la salvezza degli altri interessi concorrenti
” (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1407 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl trascorrere del tempo (30 gg.) previsto prima dell’inizio dei lavori della DIA presentata pur non facendo venir meno i poteri di autotutela in capo all’Amministrazione, né con riferimento ai poteri di vigilanza e sanzionatori, né con riferimento ai poteri espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado estrinsecantesi nell’annullamento d’ufficio e nella revoca, postula comunque il rispetto del principio di reciproca lealtà e certezza dei rapporti giuridici.
In data 20.10.2000 il ricorrente Condominio ha presentato presso gli uffici comunali una denuncia di inizio attività per la realizzazione di un muretto in calcestruzzo per dividere la proprietà privata dalla strada pubblica, per l’installazione di un cancello automatico per accedere ai box interrati e per la predisposizione di una piazzola per collocarvi un cassonetto porta rifiuti.
Trascorsi i 20 giorni –secondo il disposto dell’allora vigente art. 4, comma 11, del decreto legge n. 398 del 1993, convertito in legge n. 493 del 1993– le opere sono state iniziate e soltanto in data 04.01.2001 il Comune ha emanato un provvedimento con cui è stato negato quanto previsto in sede di denuncia di inizio attività, con la conseguente inibizione dei relativi lavori (peraltro quasi già terminati).
Tuttavia, il trascorrere del tempo previsto prima dell’inizio dei lavori –nel caso di specie, 20 giorni– pur non facendo venir meno i poteri di autotutela in capo all’Amministrazione, né con riferimento ai poteri di vigilanza e sanzionatori, né con riferimento ai poteri espressione dell’esercizio di una attività di secondo grado estrinsecantesi nell’annullamento d’ufficio e nella revoca, postula comunque il rispetto del principio di reciproca lealtà e certezza dei rapporti giuridici (Consiglio di Stato, IV, 12.03.2009, n. 1474) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' carente di motivazione il diniego di concessione edilizia fondato su un generico contrasto dell’opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell’opera, dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato.
La giurisprudenza è consolidata nell’affermare che “è carente di motivazione il diniego di concessione (…) fondato su un generico contrasto dell’opera con leggi o regolamenti in materia edilizia, dovendo invece il diniego stesso soffermarsi sulle disposizioni che si assumano ostative al rilascio del titolo e sulle previsioni di riferimento contenute negli strumenti urbanistici, in modo da consentire all’interessato da un lato di rendersi conto degli impedimenti che si frappongono alla regolarizzazione ed al mantenimento dell’opera (…), dall’altro di confutare in giudizio, in maniera pienamente consapevole ed esaustiva, la legittimità del provvedimento impugnato” (TAR Toscana, Firenze, III, 09.04.2009, n. 605) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 07.06.2011 n. 1405 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: L'affidamento del servizio di tesoreria si sostanzia in una concessione di servizi che, in linea di principio, resta assoggettato alla disciplina del Codice degli Appalti (D.Lgs. n. 163/2006) solo nei limiti specificati dall'art. 30 del medesimo decreto.
Si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest'ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi in questione, mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l'operazione rappresenta un appalto di servizi.
Nel caso di specie, dunque, la gara rientra tra quelle in cui "la controprestazione a favore del concessionario consiste unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente il servizio", e, per ciò solo, tra le concessioni di servizi, ai sensi dell'art. 30, 2° c., del D.Lgs 163/2006. Infatti, la richiamata normativa "non significa che il concessionario non può trarre alcuna utilità economicamente apprezzabile dallo svolgimento del servizio (se così fosse, ben difficilmente si troverebbero concorrenti per le gare di tesoreria) ma solo che la gara non deve prevedere un prezzo che remuneri il servizio, a carico della Stazione Appaltante; in altre parole, la concessione di servizi prevede il trasferimento in capo al concessionario della responsabilità della gestione, da intendersi come assunzione del rischio, che dipende direttamente dai proventi che il concessionario può trarre dalla utilizzazione economica del servizio".
Pertanto, l'affidamento del servizio di tesoreria si sostanzia in una concessione di servizi che, in linea di principio, resta assoggettato alla disciplina del Codice degli Appalti (D.Lgs. n. 163/2006) solo nei limiti specificati dall'art. 30 che, per quanto qui interessa, non pone di certo l'obbligo di prestare la cauzione definitiva di cui all'art. 75 del citato D. Lgs n. 163/2006 (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 06.06.2011 n. 3377 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'annotazione nel casellario informatico tenuto dall'Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici.
Nel nostro ordinamento, l'aver reso false dichiarazioni alla stazione appaltante su circostanze rilevanti ai fini della assegnazione dell'appalto assurge a causa autonoma di non ammissione alle gare per l'affidamento dei contratti pubblici (art. 38, c. 1, lett. h, del D.Lgs. 163/2006), a prescindere da ogni accertamento sul profilo psicologico del dichiarante.
La disposizione richiamata pone l'accento, come d'altra parte l'art. 27 del d.P.R. n. 34 del 2000 ai fini della iscrizione nel casellario informatico (analoga scelta si rinviene nell'art. 8 del nuovo regolamento esecutivo del Codice dei contratti pubblici, approvato con d.P.R. n.207 del 2010), sul carattere rilevante, per la partecipazione alle gare, dei requisiti o delle condizioni oggetto della falsa dichiarazione.
Pertanto, la valutazione cui è tenuta l'AVCP ai fini della iscrizione della notizia nel casellario informatico è quella della pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti con condizioni o requisiti rilevanti ai fini partecipativi, ad evitare che possa formare oggetto di iscrizione anche il cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa dichiarazione su fatti e circostanze irrilevanti ai fini della assegnazione della gara (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3361 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTINel nostro ordinamento, l’aver reso false dichiarazioni alla stazione appaltante su circostanze rilevanti ai fini della assegnazione dell’appalto assurge a causa autonoma di non ammissione alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici (art. 38, comma 1, lett. h), a prescindere da ogni accertamento sul profilo psicologico del dichiarante.
La disposizione richiamata pone l’accento, come d’altra parte l’art. 27 del d.P.R. n. 34 del 2000 ai fini della iscrizione nel casellario informatico (analoga scelta si rinviene nell’art. 8 del nuovo regolamento esecutivo del Codice dei contratti pubblici, approvato con d.P.R. n. 207 del 2010), sul carattere rilevante, per la partecipazione alle gare, dei requisiti o delle condizioni oggetto della falsa dichiarazione.
Pertanto la valutazione cui è tenuta l’AVCP ai fini della iscrizione della notizia nel casellario informatico è quella della pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti con condizioni o requisiti rilevanti ai fini partecipativi, ad evitare che possa formare oggetto di iscrizione anche il cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa dichiarazione su fatti e circostanze irrilevanti ai fini della assegnazione della gara.

Nel nostro ordinamento, l’aver reso false dichiarazioni alla stazione appaltante su circostanze rilevanti ai fini della assegnazione dell’appalto assurge a causa autonoma di non ammissione alle gare per l’affidamento dei contratti pubblici (art. 38, comma 1, lett. h), a prescindere da ogni accertamento sul profilo psicologico del dichiarante.
La disposizione richiamata pone l’accento, come d’altra parte l’art. 27 del d.P.R. n. 34 del 2000 ai fini della iscrizione nel casellario informatico (analoga scelta si rinviene nell’art. 8 del nuovo regolamento esecutivo del Codice dei contratti pubblici, approvato con d.P.R. n. 207 del 2010), sul carattere rilevante, per la partecipazione alle gare, dei requisiti o delle condizioni oggetto della falsa dichiarazione.
Pertanto la valutazione cui è tenuta l’AVCP ai fini della iscrizione della notizia nel casellario informatico è quella della pertinenza della notizia segnalata dalle stazioni appaltanti con condizioni o requisiti rilevanti ai fini partecipativi, ad evitare che possa formare oggetto di iscrizione anche il cosiddetto falso innocuo, cioè la falsa dichiarazione su fatti e circostanze irrilevanti ai fini della assegnazione della gara.
Nel caso di specie tuttavia non può dubitarsi della rilevanza della notizia oggetto di segnalazione da parte della stazione appaltante (Multiservizi spa) alla odierna Autorità appellante e, per conseguenza, della doverosa annotazione nel casellario informatico ad opera di quest’ultima; la falsa dichiarazione negativa resa dall’odierno appellato riguardava infatti una circostanza (l’aver riportato una condanna penale) di per sé rilevante (ai sensi del citato art. 27 d.P.R. n. 34 del 2000, oggi art. 8 del d.P.R. n. 207 del 2010) ai fini della annotazione nel casellario, a prescindere dalla natura non ostativa della condanna in concreto riportata dall’odierno appellato (desumibile dalla mancata ricomprensione del titolo di reato oggetto della sentenza di condanna nelle categorie individuate dall’art. 38, comma 1°, lett. c)).
Ed invero, la falsa dichiarazione afferiva ad una condanna penale subita dal concorrente proprio nell’esercizio dell’attività professionale, di tal che la falsa dichiarazione ha impedito alla stazione appaltante di apprezzare il medesimo fatto di reato accertato nella sede penale alla stregua di fatto incidente, oltre che sulla moralità professionale del candidato, anche sulla sua stessa professionalità: atteso che, ai sensi del medesimo art. 38, comma 1, lett. f), l’aver commesso un grave errore professionale costituisce causa autonoma di non ammissione alle gare pubbliche.
Non par dubbio pertanto che si trattava di un fatto (potenzialmente) incidente sulla professionalità del candidato, come tale destinato a rientrare nella valutazione relativa al possesso dei requisiti generali, da parte del concorrente. Ora, riconosciuta la sicura rilevanza della notizia ai fini della partecipazione alle gare, correttamente la AVCP, destinataria della segnalazione della falsità nella dichiarazione e della conseguente revoca della aggiudicazione in danno dell’odierno appellato, ha fatto luogo alla annotazione della notizia nel casellario informatico.
Né appare pertinente, nel caso di specie, il richiamo operato dal Tar alla delibera della Autorità n.1 del 2008 laddove, nel tracciare le modalità operative delle annotazioni nel casellario informatico, viene precisato che l’AVCP procede alla puntuale e completa annotazione dei relativi contenuti nel casellario informatico, “salvo il caso che consti l’inesistenza in punto di fatto dei presupposti o comunque l’inconferenza della notizia comunicata dalla stazione appaltante”.
Si è già detto, infatti, che nella fattispecie in esame è conclamata sia la falsità della dichiarazione resa dal concorrente sia l’oggettività della condanna penale, di tal che non è certo questo il caso in cui potrebbe parlarsi di “inconferenza della notizia” ovvero di “inesistenza in punto di fatto dei suoi presupposti”. Quanto poi alla previsione, contenuta nella nuova delibera AVCP n. 1 del 2010, riguardo alla necessità di un autonomo apprezzamento da parte della Autorità circa la rilevanza della notizia segnalata, il Collegio ritiene che nessun elemento acquisito agli atti del giudizio possa condurre a ritenere che l’Autorità nella specie non abbia compiuto tale autonoma valutazione del fatto prima di addivenire alla condivisibile determinazione di annotare la notizia nel casellario informatico.
Da ultimo non rileva, come sostiene il Tar, che sia probabilmente mancato il dolo o la colpa nel dichiarante, ovvero che la falsa dichiarazione sia da attribuire a dimenticanza o a disguido; a parte la dubbia sostenibilità nella specie di una tale ricostruzione ( la dimenticanza si collega generalmente a fattispecie omissive pure, essendo al contrario di più difficile configurazione in quelle omissive mediante commissione), si è già detto che nel nostro ordinamento le false dichiarazioni in sede di gara, purché afferenti a requisiti o condizioni rilevanti, producono ex se l’effetto decadenziale sulla intervenuta aggiudicazione, nonché la obbligatoria segnalazione da parte della stazione appaltante alla AVCP per la annotazione della notizia nel casellario informatico.
Né potrebbe dubitarsi della compatibilità comunitaria di una tale opzione normativa nazionale, focalizzata sulla rilevanza oggettiva della dichiarazione falsa (e quindi con esclusione del solo falso innocuo), e non piuttosto sullo stato psicologico del dichiarante (cfr., sul punto, la ordinanza cautelare di questa Sezione del 15.09.2010 n. 4261), in rapporto alla diversa scelta del legislatore comunitario (art. 45, secondo comma, lett. g) della direttiva CE 2004/18), ove la possibilità che un operatore economico sia escluso dalla partecipazione all’appalto è correlata al fatto che egli si sia reso gravemente colpevole di false dichiarazioni nel fornire le informazioni che possono essere richieste a norma della stessa direttiva.
Vero è che, sembra di poter concludere, nella prospettiva comunitaria, le false dichiarazioni del concorrente producono un effetto espulsivo alla ricorrenza di un duplice presupposto: a) che ricadano su circostanze rilevanti ai fini della partecipazione alla gara; b) che sia predicabile un rimprovero al dichiarante, nel senso che la dichiarazione falsa deve essergli ascritta quantomeno a titolo di colpa grave.
Osserva tuttavia il Collegio che la scelta del legislatore nazionale di richiedere soltanto, quale requisito per la (non) ammissione alle gare pubbliche e per la iscrizione nel casellario di chi vi sia incorso, la rilevanza oggettiva della dichiarazione falsa, non appare incompatibile con il diritto comunitario, trattandosi in sostanza della legittima adozione di una frontiera più avanzata di tutela dell’Amministrazione contro i possibili abusi dei partecipanti alle gare pubbliche.
Inoltre, si tratta di scelta giustificata dall’esigenza di assicurare la speditezza dei procedimenti selettivi finalizzati ad individuare i contraenti pubblici, che sarebbe seriamente compromessa ove dovessero svolgersi non facili indagini in ordine all’elemento psicologico del soggetto che abbia dichiarato il falso in ordine a circostanze rilevanti ai fini di gara; oltre che di evitare che possa alimentarsi un contenzioso indotto dalle incertezze e dai dubbi interpretativi che potrebbero insorgere in ordine a tale questione.
Di qui la ragionevolezza della scelta legislativa nazionale di ancorare alla sola rilevanza oggettiva del falso gli effetti espulsivi e interdittivi dei partecipanti alle gare pubbliche, coerente con un sistema in cui il principio della leale collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione non deve spingersi fino al punto di onerare le stazioni appaltanti di defatiganti indagini sul profilo soggettivo di chi abbia dichiarato il falso al fine di stabilirne, caso per caso, il regime sanzionatorio,con ricadute negative anche sulla par condicio competitorum.
Da ultimo va osservato che a conclusioni non diverse, in ordine alla piena legittimità della annotazione, conduce l’esame dei motivi di primo grado (rimasti assorbiti nella impugnata decisione) riguardanti la pretesa violazione del principio di partecipazione procedimentale oltre che della completezza della istruttoria. Ed invero, a fronte della conclamata sussistenza di una condanna penale per un fatto incidente sulla professionalità del concorrente, per un verso non può dirsi sussistere l’ipotizzato difetto di istruttoria e, per altro verso, deve altresì ritenersi (nell’ottica della proficuità della partecipazione procedimentale desumibile dall’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990) che il coinvolgimento dell’appellato nel procedimento teso alla annotazione della notizia nel casellario informatico non avrebbe potuto sortire risultati diversi da quelli in concreto raggiunti – i.e., la iscrizione della notizia-, vieppiù in considerazione della già rilevata ininfluenza dello stato psicologico del dichiarante ( e ciò anche ad ammettere, a tutto concedere, che possa ritenersi esente da grave colpa il professionista che, in una gara funzionale al conferimento di un incarico di progettazione, dichiara falsamente di non essere incorso in condanne penali, laddove la condanna penale invece sussisteva ed afferiva proprio all’esercizio della professione) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3361 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Imposizione del vincolo indiretto e continuità dell’area.
Ai fini dell'imposizione del vincolo indiretto la continuità dell'area non deve essere intesa in senso solo fisico, né richiedere necessariamente una continuità stilistica o estetica fra le aree, ma può essere invocata anche a tutela della continuità storica fra i monumenti e gli insediamenti circostanti; pertanto, nel caso di una vasta porzione di territorio, di interesse paesistico, archeologico o culturale, riconducibile alla più ampia accezione di parco archeologico, non rileva il mero rapporto di continuità fisica dei terreni ai fini della loro inclusione nell'area vincolata e il potere discrezionale di cui l'Amministrazione dispone nel fissare l'ampiezza del vincolo indiretto finalizzato a costituire una fascia di rispetto attorno al bene archeologico oggetto di tutela diretta è sindacabile in sede di legittimità solo per macroscopica incongruenza ed illogicità.

Il Collegio ribadisce la propria convinta adesione al tradizionale orientamento della pacifica giurisprudenza e della dottrina (ben tenuto presente dal primo giudice) secondo cui la determinazione vincolistica “indiretta” costituisce espressione della discrezionalità tecnica della p.a., sindacabile in sede giurisdizionale quando l'istruttoria si riveli insufficiente o errata o la motivazione risulti inadeguata o presenti manifeste incongruenze o illogicità, e si basa sull'esigenza che il bene sottoposto al vincolo diretto sia valorizzato nella sua complessiva e prospettica cornice ambientale.
Deve in proposito rammentarsi che l’appellata amministrazione ha applicato l’art. 45 del d.lgs. 22.01.2004 n. 42 che così dispone: “Il Ministero ha facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo l'integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro. Le prescrizioni di cui al comma 1, adottate e notificate ai sensi degli articoli 46 e 47, sono immediatamente precettive. Gli enti pubblici territoriali interessati recepiscono le prescrizioni medesime nei regolamenti edilizi e negli strumenti urbanistici.”.
Non è superfluo rammentare che tale forma di determinazione vincolistica, che coinvolge l'ambito costituente la "fascia di rispetto" (che non coincide con l'ambito materiale dei confini perimetrali dei singoli immobili, ma va stabilita in rapporto alla consistenza della c.d. "cornice ambientale") è sempre stata valutata in termini restrittivi dalla giurisprudenza che, preoccupata di un possibile ampliamento eccessivo del perimetro applicativo di tale strumento di tutela ha escluso che esso possa essere utilizzato per proteggere interessi paesaggistici ed ha preteso che esso si rapporti, secondo un criterio felicemente definito di “contiguità spaziale” con il bene protetto (ex multis Cons. St., sez. VI, 29.04.2008, n. 1939): ciò comporta che il vincolo indiretto può essere imposto sull'area che si trova in vista od in prossimità del bene culturale e che comunque debba trattarsi di un’area circoscritta.
Già sotto tale profilo, deve evidenziarsi che le appellanti –che pure hanno stigmatizzato l’estensione del vincolo predetto- non si sono spinte sino a censurare con decisione che sia carente la caratteristica della “prossimità” (considerando questo concetto il relazione alla dichiarata esigenza di proteggere la visuale).
Sotto altro profilo, va rammentato che la condivisibile recente giurisprudenza della Sezione (in fattispecie relativa a vincolo archeologico, ma traslabile agevolmente alla presente vicenda processuale) ha ritenuto che “ai fini dell'imposizione del vincolo indiretto la continuità dell'area non deve essere intesa in senso solo fisico, né richiedere necessariamente una continuità stilistica o estetica fra le aree, ma può essere invocata anche a tutela della continuità storica fra i monumenti e gli insediamenti circostanti; pertanto, nel caso di una vasta porzione di territorio, di interesse paesistico, archeologico o culturale, riconducibile alla più ampia accezione di parco archeologico, non rileva il mero rapporto di continuità fisica dei terreni ai fini della loro inclusione nell'area vincolata e il potere discrezionale di cui l'Amministrazione dispone nel fissare l'ampiezza del vincolo indiretto finalizzato a costituire una fascia di rispetto attorno al bene archeologico oggetto di tutela diretta è sindacabile in sede di legittimità solo per macroscopica incongruenza ed illogicità.” (Cons. St., sez. VI, 01.07.2009 n. 4270).
Si è peraltro affermato, nella predetta decisione, il principio di diritto per cui “anche esigenze ambientali possono essere perseguite con il provvedimento impositivo del vincolo indiretto, purché tali esigenze siano finalizzate comunque ad una migliore fruizione collettiva del bene e non siano esclusive (sicché il provvedimento impositivo di tale vincolo è da ritenere illegittimo solo ove persegua in via esclusiva finalità di tutela paesaggistica)" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesistica. Solo la data del protocollo rileva ai fini della decorrenza dei termini.
In via generale l’assunzione di una pratica al protocollo dell’amministrazione ha la funzione di certificare la certezza legale dell’avvenuta ricezione, ai fini sia di costituire un termine iniziale incontestabile per l’esplicazione dei poteri che a tale ricezione si connettono, sia di garantire la conoscenza effettiva da parte dell’organo procedente.
Di conseguenza, solo la data attestata dal protocollo va assunta a prova dell’avvenuta conoscenza e considerata quale termine iniziale per la decorrenza del termine, irrilevanti essendo i diversi, eventuali elementi dai quali possa desumersi la ricezione da parte dell’amministrazione, la cui considerazione renderebbe invece incerta ed eventuale l’individuazione di un momento che, viceversa, per la rilevanza che l’ordinamento gli connette, deve emergere come formalmente incontestabile (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3341 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Accertamento corresponsione trattamento economico per mansioni superiori.
In linea di diritto osserva il Collegio, in adesione a consolidato orientamento di questo Consiglio da cui non v’è motivo di discostarsi, che il diritto al trattamento economico relativo alla qualifica superiore, nel caso di svolgimento di mansioni superiori da parte dei pubblici dipendenti, va riconosciuto con carattere di generalità solo a decorrere dalla data di entrata in vigore del d.lgs. 29.10.1998 n. 387 (22.11.1998), per effetto della modifica apportata agli artt. 56 e 57 del d.lgs. n. 29/1993 dall’art. 15 d.lgs. n. 387/1998, mentre prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 387/1998, nel settore del pubblico impiego, lo svolgimento di mansioni superiori rispetto a quelle proprie della qualifica di inquadramento, pur se protratte nel tempo e assegnate con atto formale, era del tutto irrilevante agli effetti del trattamento economico, salvo che tali effetti derivassero da un’espressa previsione normativa, e salvo il diritto alle differenze retributive per il periodo successivo all’entrata in vigore della richiamata disposizione modificativa dell’art. 56 d.lgs. 03.02.1993, n. 29 (v. C.d.S., Ad. Plen. 23.03.2006, n. 3; C.d.S., Sez. VI, 20.10.2010, n. 7584; C.d.S., Sez. VI, 24.01.2011, n. 468).
Ciò, in quanto il citato art. 15 del d.lgs. n. 387/1998 –che ha riconosciuto per la prima volta con carattere di generalità il diritto dei pubblici dipendenti di ottenere le differenze retributive nel caso di svolgimento di mansioni superiori a seguito di formale incarico–, non avendo carattere interpretativo, non può che disporre per il futuro.
Il carattere di norma d’interpretazione autentica va, infatti, riconosciuto soltanto alle disposizioni a sostanziale valenza ermeneutica, dirette a chiarire il significato di quelle preesistenti, ovvero a escludere o a enucleare uno dei significati tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle fonti interpretate; mentre, nel caso della disposizione di cui trattasi, la scelta assunta dalla disposizione in questione non rientra in nessuna delle varianti semantiche compatibili con il tenore letterale del combinato disposto dei pregressi artt. 56 e 57 del d.lgs. n. 29/1993.
In particolare, un’eventuale deroga al principio di corrispondenza fra qualifica rivestita e retribuibilità delle mansioni in concreto svolte può essere ravvisata solo a fronte di espresse disposizioni di carattere primario, e non anche come conseguenza indiretta di eventuali disposizioni organizzative poste da norme a carattere sub-primario, espressive della capacità di autoorganizzazione, quand’anche speciale, di enti pubblici autonomi, poiché la materia, attingendo a principi fondamentali del lavoro con pubbliche amministrazioni, è da considerare di competenza della sola fonte primaria in virtù della riserva di legge stabilita dall’art. 97, comma 1, Cost., secondo cui i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, alle quali è rimessa la disciplina normativa di competenze, attribuzioni e responsabilità dei funzionari (v. sul punto, in modo specifico, C.d.S., Sez. VI, 24.01.2011, n. 468).
La soluzione qui propugnata s’impone, non da ultimo, per esigenze primarie di controllo e contenimento della spesa pubblica e di prevenzione di eventuali abusi e disparità di trattamento conseguenti a provvedimenti di assegnazione a mansioni superiori accompagnati da aumenti retributivi non sorretti da una specifica previsione normativa (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3337 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: La revisione prezzi si applica anche all’appalto di manutenzione di immobili.
La questione della applicabilità alla fattispecie in oggetto, riguardante un appalto di manutenzione di immobili, dell’istituto della revisione dei prezzi è stata di recente affrontata (e risolta in senso affermativo) dalla Sezione in una vicenda del tutto analoga a quella qui oggetto di esame (cfr. Cons. St., VI, 21.09.2010 n. 7001) in cui era parte proprio l’odierno istituto appellante.
Il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi dalla decisione assunta in tale vicenda, in cui ha condivisibilmente concluso per l’applicabilità, anche al tipo di appalto per cui è giudizio (avente, in fatto, durata ultrannuale) dell’istituto revisionale, nei limiti previsti dall’art. 33 della l. 28.02.1986, n. 41 (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.06.2011 n. 3336 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAGli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile in maniera tale da ampliarne la superficie o la funzionalità pratico-economica oltre alla superficie e alla funzionalità, assumono il carattere di costruzione anche sotto il profilo delle distanze tra edifici che devono essere calcolate non dall'edificio principale bensì dal nuovo complesso edilizio unitario.
Ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dagli artt. 873 e seguenti c.c. e delle disposizioni legislative e regolamentari aventi carattere integrativo, gli accessori e le pertinenze che abbiano dimensioni consistenti e siano stabilmente incorporati al resto dell'immobile, in guisa da ampliarne la superficie o la funzionalità pratico-economica, costituiscono con l'immobile principale una costruzione unitaria, che va considerata nel suo insieme indipendentemente dallo sviluppo orizzontale o verticale dei singoli corpi di fabbrica di cui si compone, e senza distinguere tra immobile principale e accessori o pertinenze aventi le ridette caratteristiche, di guisa che le distanze devono essere calcolate non dalla parete dell'edificio maggiore, ma da quella che risulti più prossima alla proprietà antagonista (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza n. 4277/2011 - link a www.pausania.it).

APPALTI SERVIZI: La gestione del servizio di parcheggio su un'area pubblica costituisce attività di pubblico servizio e sull'obbligo di attivare una procedura competitiva per la scelta del concessionario.
La gestione del servizio di parcheggio su un'area pubblica riguardando l'utilizzo di un bene pubblico, anche qualora non comporti il trasferimento di poteri autoritativi, costituisce attività di pubblico servizio assunto dalla P.A., e svolta direttamente dalla stessa o da altro soggetto ad essa collegato, in favore della collettività indistinta. Anche volendo accedere alla tesi secondo cui il rapporto, nel caso di specie, consista in una concessione di beni pubblici, l'ente locale è tenuto a dare corso ad una procedura competitiva per la scelta del concessionario.
La mancanza di una procedura competitiva circa l'assegnazione di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico, introduce una barriera all'ingresso al mercato, determinando una lesione alla parità di trattamento, al principio di non discriminazione ed alla trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei principi comunitari di concorrenza e libertà di stabilimento (Corte costituzionale sent. n. 180/2010).
Peraltro, anche a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l'indifferenza comunitaria alla qualificazione nominale delle fattispecie, consente di sottoporre ai principi sull'evidenza pubblica l'affidamento di concessioni su beni pubblici, senza che a ciò osti la deduzione relativa all'occasionale partecipazione del privato all'esercizio dei pubblici poteri.
Una volta assodato l'obbligo all'attivazione di una procedura competitiva, indifferentemente rivolta all'affidamento di un appalto ovvero di una concessione di servizio o di bene pubblico, l'impresa di settore riveste una posizione soggettiva qualificata, rispetto al quivis de populo, tale da consentirle di insorgere avverso il provvedimento di affidamento diretto onde contestarne la validità (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.05.2011 n. 3250 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla sopravvenuta scadenza del termine di validità dell'offerta a seguito dell'eccessivo prolungamento delle operazioni di gara: conseguenze.
La sopravvenuta scadenza del termine di validità dell'offerta a seguito dell'eccessivo prolungamento delle operazioni di gara determina, in capo all'aggiudicatario, la scelta di disimpegnarsi da ogni vincolo negoziale, senza incorrere in alcuna sanzione, ovvero di "confermare" -anche tacitamente- l'offerta stessa, accettando la stipula contrattuale.
Non sussiste invece alcun obbligo, per la stazione appaltante, di rivalutare l'offerta scaduta mediante rinegoziazioni, in contesti caratterizzati dal formalismo dell'evidenza pubblica e dalla conseguente cristallizzazione degli esiti della gara ultimata. In altre parole, l'aggiudicatario che non intenda confermare la propria offerta, ormai scaduta, ha facoltà di esercitare il diritto di "recesso" dalla fase di stipula, senza tuttavia che la stazione appaltante sia tenuta ad aprire un procedimento di rinegoziazione o di adeguamento. Né l'aggiudicatario uscente può vantare interessi qualificati sulle modalità con cui l'amministrazione fa fronte al reperimento di un nuovo contraente, trattandosi di profili deliberativi attinenti ad una procedura volontariamente abbandonata.
Va quindi confutato l'assunto secondo cui, la mancata stipula contrattuale, assurgerebbe ad una illegittima misura sanzionatoria ad opera della stazione appaltante. Pertanto, nel caso di specie, la revoca dell'aggiudicazione provvisoria si atteggia a passaggio necessario, da una parte per formalizzare l'uscita dalla gara del soggetto recedente, e dall'altra per predisporre procedure alternative, in vista di un altro contraente disposto a mantenere l'offerta a suo tempo formulata (TAR Abruzzo-L'Aquila, Sez. I, sentenza 31.05.2011 n. 299 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTINelle procedure indette per l'aggiudicazione di appalti pubblici i reati commessi in passato dal partecipante e dichiarati estinti dalla competente Autorità giudiziaria sono ininfluenti in sede di valutazione della sua moralità professionale e non devono essere dichiarati.
Analogo principio va affermato in relazione ai reati oggetto di depenalizzazione, essendo assorbente la circostanza che si tratta di vicende la cui rilevanza penale è stata esclusa ora per allora (in base al principio del favor rei) da altrettanti provvedimenti legislativi: il che, appunto, esclude in radice che tali vicende possano essere validamente considerate ai fini di un'esclusione, la quale, viceversa, postula l'attuale ascrivibilità al concorrente di condotte tuttora penalmente rilevanti.

La presente controversia attiene all’obbligo o meno del concorrente ad una gara d’appalto -ove la lex specialis richiedeva di attestare le condanne penali riportate, ivi comprese quelle oggetto di non menzione- di dichiarare anche le condanne subite per reati formalmente estinti e per reati depenalizzati.
Nel caso di specie, in esito alle verifiche effettuate dalla stazione appaltante, era emersa la mancata dichiarazione, da parte del legale rappresentante della società ricorrente, di due sentenze di condanna riguardanti, rispettivamente, il legale rappresentante stesso (...) e un direttore tecnico (...) cessato nel triennio precedente, di cui la prima per un reato (falsità ideologica in atto pubblico) dichiarato estinto ai sensi dell’art. 445, II comma cpp con ordinanza 06.06.2008 del GIP di Padova, ed il secondo (violazione al TU delle norme sulla circolazione stradale) oggetto di depenalizzazione.
Come risulta dal costante orientamento giurisprudenziale, nelle procedure indette per l'aggiudicazione di appalti pubblici i reati commessi in passato dal partecipante e dichiarati estinti dalla competente Autorità giudiziaria sono ininfluenti in sede di valutazione della sua moralità professionale e non devono essere dichiarati (cfr., per tutte, CdS, V, 19.11.2009 n. 7257).
Analogo principio va affermato in relazione ai reati oggetto di depenalizzazione, essendo assorbente la circostanza che si tratta di vicende la cui rilevanza penale è stata esclusa ora per allora (in base al principio del favor rei) da altrettanti provvedimenti legislativi: il che, appunto, esclude in radice che tali vicende possano essere validamente considerate ai fini di un'esclusione, la quale, viceversa, postula l'attuale ascrivibilità al concorrente di condotte tuttora penalmente rilevanti (cfr. per tutte, CdS, V, 23.07.2009 n. 4594; TAR Veneto, I, 18.09.2009 n. 2415);
Peraltro, la lex specialis di gara imponeva di dichiarare soltanto le sentenze di condanna all’epoca efficaci, comprese quelle per le quali il soggetto aveva beneficiato della non menzione: non, dunque, anche quelle –in disparte, comunque, l’irragionevolezza di una siffatta prescrizione- divenute prive di effetti in quanto il sotteso reato era stato oggetto di riabilitazione, di estinzione o di depenalizzazione (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 30.05.2011 n. 917 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Nel caso in cui una Regione non abbia adottato una normativa regionale in materia di appalti che preveda una diversa composizione della commissione di gara, si applicano le previsioni contenute nell'art. 84 del D.lgs. n. 163/2006.
L'art. 84, c. 8, del d.lgs. n. 163/2006, prevede che nel caso in cui la stazione appaltante ricorra a professionisti esterni, la scelta debba essere effettuata nell'ambito di un elenco formato sulla base di rose di candidati fornite agli ordini professionali.
Nel caso di specie, tale precetto non è stato osservato, risultando in atti che la scelta, come professionista esterno, dell'avvocato, nella qualità di esperto in appalti, è stata effettuata senza la preventiva richiesta all'Ordine degli avvocati di una rosa di candidati e la conseguente formazione di un apposito elenco al quale attingere.
Peraltro, tale modalità di selezione non risulta smentita dal contenuto della sentenza della Corte costituzionale, 23.11.2007, n. 401, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi i commi 2, 3, 8 e 9, dell'art. 84 del d.lgs. n. 163/2006, "nella parte in cui, per i contratti inerenti a settori di competenza regionale, non prevedono che dette disposizioni abbiano carattere suppletivo e cedevole".
Non risulta, nel caso di specie, che la Regione abbia adottato una normativa regionale in materia di appalti pubblici e, pertanto, fino all'adozione di una legge regionale che preveda una diversa composizione della commissione di gara, devono continuare ad osservarsi le previsioni contenute nell'art. 84 del D.lgs. n. 163 del 2006, come sancito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 401 del 2007 (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 27.05.2011 n. 4810 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sulla legittimità dell'esclusione di un concorrente da una procedura d'appalto, per mancato adempimento dell'onere di comprovare il possesso dei requisiti richiesti ai fini della partecipazione alla gara secondo le modalità previste dal bando.
Il rimedio dell'integrazione documentale non può sopperire alla mancata produzione di documentazione richiesta a pena di esclusione dalla gara.

E' legittimo il provvedimento di esclusione da una gara d'appalto, adottato da un'amministrazione nei confronti di un concorrente che non abbia adempiuto all'onere di comprovare il possesso dei requisiti richiesti ai fini della partecipazione alla procedura, secondo le modalità previste dal bando.
L'art. 48 del d.lgs. n. 163/2006, prevede, infatti, che le stazioni appaltanti prima di procedere all'apertura delle buste contenenti le offerte richiedono alle imprese partecipanti, di comprovare il possesso dei requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa previsti dal bando di gara, presentando la documentazione all'uopo indicata.
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Nei rapporti con la P.A., è necessario distinguere due fasi: quella iniziale, che legittima l'uso della dichiarazione sostitutiva di atto notorio contestualmente alla presentazione della domanda di partecipazione alla gara, e quella, successiva, in cui l'attestazione relativa al possesso dei suddetti requisiti deve essere compiuta per mezzo della documentazione pubblica certificativa di qualità, e non si ammette una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà. Diversamente, verrebbe vanificata la ratio che giustifica il ricorso alla verifica a campione, divenendo essa un inutile duplicato della fase iniziale di presentazione dell'offerta.
Pertanto, in fase di controllo, la stazione appaltante ha facoltà di pretendere un onere aggiuntivo di documentazione. In altri termini, la regola della mancanza di validità delle dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà tende ad evitare che l'impresa possa depositare, in sede di verifica a campione, la medesima documentazione resa in sede di presentazione dell'offerta. Pertanto, è legittima la richiesta di deposito dei documenti, in originale od in copie conformi.
Né potrebbe invocarsi, la violazione del cd. dovere di soccorso da parte della stazione appaltante, e ciò perché, ai sensi dell'art. 46 D.L.vo n. 163/2006 e a tutela della par condicio nelle gare pubbliche, il rimedio dell'integrazione documentale non può essere utilizzato per supplire all'inosservanza di adempimenti procedimentali o all'omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 497 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Se un provvedimento è fondato su più motivazioni, la validità anche di una sola delle argomentazioni poste autonomamente a base del provvedimento stesso è sufficiente, di per sé, a sorreggerne il contenuto.
Se un provvedimento è fondato su più motivazioni, la validità anche di una sola delle argomentazioni poste autonomamente a base del provvedimento stesso è sufficiente, di per sé, a sorreggerne il contenuto (si veda, in questo denso, da ultimo e per tutti: C.S. n. 828/2010; TAR Basilicata n. 111/2011 e TAR Toscana 336/2011)
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONDOMINIO: Quando un condòmino ha realizzato un abuso su aree comuni “l’Amministrazione comunale deve chiedere all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
L’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in danno del medesimo”.

Sulla questione della necessità o meno di acquisire l’assenso del Condominio, nel caso in cui un condòmino chieda un titolo edilizio per realizzare opere sulle parti comuni di un edificio, sono state espresse in giurisprudenza opinioni diverse.
In generale si è infatti sostenuto che nessun assenso deve essere richiesto dal Comune, posto che il condomino possiede una propria legittimazione a richiedere il titolo, e che lo stesso viene, in ogni caso, rilasciato “con salvezza dei diritti dei terzi”. Si è altresì affermato che i problemi dell’uso delle parti comuni di un edificio costituiscono questione squisitamente civilistica, di cui il Comune non ha ragione di interessarsi.
Tale (peraltro, in linea general, condivisibile) giurisprudenza ha comunque evidenziato che la regola soffre talora di eccezioni, dovute alle peculiarità con cui le singole fattispecie si presentano.
In particolare, C.S. n. 437/2009 ha stabilito che, quando un condòmino abbia realizzato (come nel presente caso) un abuso su aree comuni “l’Amministrazione debba chiedere all’istante, in applicazione delle norme generali in tema di rilascio della concessione edilizia, di provare di avere la disponibilità piena dell’area interessata all’abuso e, quindi, di provare, quanto meno per fatti concludenti ma comunque in modo positivo, l’assenso degli altri comproprietari”.
Allo stesso modo, Tar Liguria n. 192/2010 (che richiama anche C.S. n. 1654/2007) ha ritenuto che “ciò che rileva è che i lavori edilizi de quibus debbono eseguirsi (anche) su parti comuni del fabbricato e non riguardino opere connesse all’uso normale della cosa comune”; in tal caso, l’Amministrazione comunale è tenuta, “ai fini del rilascio della relativa concessione, a richiedere il consenso di tutti i proprietari”.
In fattispecie molto simile si è espresso anche TAR Calabria-Reggio, con la recente decisione n. 343/2011, aderendo all’orientamento interpretativo secondo cui nel procedimento di rilascio dei titoli edilizi, “l’Amministrazione ha il potere ed il dovere di verificare l’esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull’immobile interessato dal progetto … per cui, in caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari (quali le opere edilizie interessanti porzioni condominiali comuni), è legittimo esigere il consenso degli stessi o pretendere la produzione della dichiarazione di assenso dell’amministrazione condominiale anche nelle ipotesi di autorizzazioni in sanatoria, in quanto il contitolare del bene può essere estraneo all’abuso ed avere un interesse contrario alla sanatoria di opere che potrebbero risolversi in danno del medesimo”.
Le suesposte argomentazioni, che il Collegio condivide, hanno ancora maggior rilievo nel caso di specie, considerato che alcuni condòmini dapprima e, in seguito, il Condominio stesso si sono inseriti nel procedimento di rilascio dell’autorizzazione a sanatoria di cui trattasi, manifestando il proprio dissenso alle opere che, secondo la loro prospettazione, incidevano negativamente sul diritto di uso delle parti comuni che spetta a ciascun condomino, ponendo in luce in particolare come -segnatamente le canne fumarie- inducessero limiti all’uso individuale.
Secondo TAR Campania-Napoli n. 26817/2010, sussiste un vero e proprio obbligo per l’Amministrazione di verificare “la legittimazione ad effettuare l'intervento, soprattutto quando vi sia stata in sede procedimentale un’espressa opposizione da parte di terzi condomini”. Nello stesso senso è anche C.S. n. 1537/2010, che esplicitamente dichiara che, in caso contrario, “l'Amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere, al contrario, interessati all’eliminazione dell’abuso
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 26.05.2011 n. 258 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'onere della prova nel processo amministrativo.
Nel processo amministrativo l’applicazione del principio sancito dall’articolo 2697 (onere della prova) del codice civile incontra particolari temperamenti in virtù dell’assetto non paritetico dei rapporti fattuali e giuridici intercorrenti tra l’amministrazione e il privato ricorrente. Questo temperamento tuttavia non implica che il ricorrente possa fondare le proprie pretese limitandosi a esporre mere asserzioni o congetture che affidino all’attività istruttoria giudiziale l’accertamento della loro eventuale fondatezza.

Con questa decisione (sentenza 25.05.2011 n. 3135) il Consiglio di Stato Sez. IV ha accolto l’appello promosso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso la sentenza del TAR Lazio che lo aveva condannato al pagamento delle indennità sostitutive per ferie non godute in favore di ex dipendenti della soppressa AGENSUD (Agenzia per la promozione e lo sviluppo del mezzogiorno).
I ricorrenti avevano promosso il ricorso al fine di ottenere il pagamento delle indennità in quanto l’agenzia, oggi soppressa, nel 1993 avrebbe goduto delle loro prestazioni lavorative senza corrispondere alcun indennizzo per i periodi feriali durante i quali le prestazioni si erano svolte.
Il Ministero si era difeso sostenendo che i ricorrenti non avevano allegato alcuna prova dal quale si potesse evincere il mancato godimento delle ferie spettanti per motivi di servizio.
Il Consiglio di Stato, ribaltando la decisione del primo grado, ha da subito chiarito come anche nel processo amministrativo, tanto più quando si controverte su diritti soggettivi, vige il principio dell’onere della prova sancito dagli articoli 2697 c.c. e 115 del c.p.c..
Secondariamente ha precisato come la circostanza che in materia di allegazioni documentali l’amministrazione spesso si trovi in una posizione di supremazia, non può ridurre l’onere della prova del ricorrente ad una mera esposizione di asserzioni o congetture.
Sul punto la IV sezione ha precisato “Pertanto può affermarsi che, soprattutto quando i mezzi di prova risultino nella disponibilità esclusiva dell'amministrazione intimata in giudizio, il sistema probatorio nel processo amministrativo è retto, più che dallo stretto principio dispositivo, dal principio dispositivo con metodo acquisitivo degli elementi di prova da parte del giudice (tra molte, di recente C. Stato, V, 07.10.2009, n. 6118; in precedenza, IV, 22.06.2000, n. 3493; V, 24.04.2000, n. 2429; 03.11.1999, n. 1702).
Va peraltro, immediatamente chiarito che detto temperamento non si traduce nella possibilità, per il ricorrente, di limitarsi a esporre mere asserzioni o congetture, che affidino interamente all’attività istruttoria giudiziale l’accertamento della loro eventuale fondatezza. E’ palese, infatti, che una siffatta opzione si tradurrebbe nella inversione del principio dell'onere della prova come regolato dagli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c , dove, invece, il principio con metodo acquisitivo non può mai tradursi in una assoluta e generale inversione di tale onere (Tar Lazio, Roma, sez. II, 21.05.2008, n.4792): tra altro, la dilatazione dell'oggetto dell'istruttoria giudiziale renderebbe il rimedio (del metodo acquisitivo) in concreto non utilmente esercitabile.
Ne consegue che, nel processo amministrativo, in mancanza di una prova compiuta a fondamento delle proprie pretese, il ricorrente deve avanzare almeno un principio di prova, perché il giudice possa esercitare i propri poteri istruttori (da ultimo, C. Stato, V, 07.10.2009 , n. 6118; in precedenza, tra tante, 27.03.2001, n. 1730; 15.06.2000, n. 3317; 13.07.1992, n. 637; 23.04.1991, n. 636; 25.06.1990, n. 581; Tar Lazio, I, 10.04.1987, n. 791)
”.
Alla luce di tali principi la IV sezione ha sottolineato come nel ricorso i ricorrenti non hanno fornito alcun prova sostanziale dell’esistenza del credito vantato, poiché i tabulati forniti erano privi di sottoscrizione, non era indicato l’ente o il soggetto dal quale provenivano, né erano indicati i corrispondenti periodi in cui non erano state godute le ferie. Le medesime considerazioni sono state svolte anche verso un documento proveniente dalla C.E.D. della Ragioneria Generale dello Stato.
In conclusione i giudici del Consiglio di Stato hanno chiarito come nel processo amministrativo, anche se l’amministrazione si trova in una situazione di supremazia nella produzione documentale, il ricorrente deve fornire almeno un principio di prova per poter mettere il giudice nelle condizioni di esercitare i propri poteri istruttori (commento tratto da www.professioni-imprese24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Varianti edilizie revocate, chi ne trae vantaggio dev'essere informato.
Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento, conferma l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è illegittima la revoca della approvazione di una variante ad oggetto specifico, adottata senza la previa comunicazione dell'avvio del procedimento al soggetto che aveva presentato il progetto medesimo e che dall'atto revocato aveva ottenuto effetti favorevoli. Se la variante speciale o ad oggetto specifico richiede per la sua approvazione la comunicazione di avvio del procedimento ai diretti interessati, in quanto è atto di natura provvedimentale, a maggior ragione occorre tale comunicazione nel caso di revoca della variante.
La controversia in esame ha per oggetto due deliberazioni con la quale il Consiglio comunale ha revocato una variante urbanistica relativa alla divisione in due comparti del terreno edificabile in zona C1.
Il Consiglio di Stato, con la pronuncia in commento conferma l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale è illegittima la revoca della approvazione di una variante ad oggetto specifico, adottata senza la previa comunicazione dell'avvio del procedimento al soggetto che aveva presentato il progetto medesimo e che dall'atto revocato aveva ottenuto effetti favorevoli.
Per comprendere bene la portata della pronuncia occorre specificare che la variante in questione si caratterizzava, come specificato nella sentenza di primo grado (TAR Toscana, n. 1431 del 2003), perché "l'area oggetto di variante era particolarmente ristretta".
In presenza di queste caratteristiche la giurisprudenza ha individuato specifiche deroghe alle regole generali in materia di atti urbanistici generali.
Occorre infatti ricordare che di regola le scelte urbanistiche generali dell'amministrazione non debbono essere motivate in modo specifico.
La ragione di questa communis opinio giurisprudenziale (Cons. di Stato, Sez. IV, 25.02.1988, n. 99) era individuata, prima della L. n. 241 del 1990, in un duplice ordine di considerazioni. Da un lato l'attività di pianificazione urbanistica ha carattere altamente discrezionale (Cons. di Stato, Sez. IV, 05.09.1986, n. 582); dall'altro si afferma che "la motivazione non occorre per gli atti a contenuto generale almeno con altrettanto rigore che per quelli a contenuto determinato" (Cons. di Stato, Ad. plen., 21.10.1980, n. 37). Il piano regolatore generale trova quindi sufficiente motivazione nei criteri posti a base del piano stesso e che sono indicati nella relazione allegata ad esso. La L. n. 241 del 1990 ha portato nuova linfa a questo orientamento.
L'art. 3, comma 2, stabilisce, infatti, che la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale. Ad analoghe conseguenze la giurisprudenza perviene per quanto riguarda l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento.
L'art. 13, L. n. 241 del 1990, infatti, stabilisce che "le disposizioni contenute nel presente capo non si applicano nei confronti dell'attività della pubblica amministrazione diretta alla emanazione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, per i quali restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione".
Il limite esterno di applicazione della legge sul procedimento amministrativo è quindi chiaramente individuata nel fatto che essa si dirige nei confronti dell'attività amministrativa diretta ad emanare provvedimenti che hanno destinatari determinati o determinabili a priori.
Poiché, di regola, questi caratteri non sono propri degli atti generali ed in particolare degli atti urbanistici, la giurisprudenza (Cons. Stato, Ad. Gen., parere 29.03.2001, n. 4; idem Sez. IV, 20.03.2001, n. 1797) afferma che l'approvazione dei piani regolatori e delle loro varianti rientra nei casi di esclusione della partecipazione prevista dall'art. 13 della L. n. 241.
Secondo il parere formulato dall'Ad. plenaria del Cons. Stato in data 17.08.1987, n. 7187, inoltre, la ratio di tali eccezioni è da rintracciare nella volontà legislativa di sottrarre, per ragioni pratiche, ad una penetrante ingerenza atti di applicazione generalizzata destinati ad incidere nella sfera giuridica di un numero indeterminato o, comunque, assai cospicuo di soggetti.
L'esclusione della partecipazione nei procedimenti volti alla produzione di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione chiaramente non significa l'esclusione di qualsiasi forma di partecipazione in questo tipo di procedimenti, ma solo l'applicazione delle forme di partecipazione già previste dall'ordinamento, che, però, si caratterizzano perché non sono precedute da comunicazione individuale ma solo collettiva e spesso sono solo successive all'adozione (quest'ultimo elemento è stato però corretto almeno parzialmente dalla legislazione regionale più moderna).
I limiti della partecipazione procedimentale prevista dalla legislazione urbanistica ha però spinto la giurisprudenza a riconoscere che non vi è ragione di escludere l'applicazione delle regole di partecipazione del procedimento previste dalla L. n. 241 del 1990 quanto gli atti urbanistici abbiano destinatari determinati e ben individuati.
E' il caso delle varianti limitate ed a oggetto specifico, che interessano solo parti limitate del territorio comunale ed hanno destinatari determinati. In questi casi, come conferma la sentenza in commento, l'esclusione dell'art. 13, L. n. 241 del 1990, non opera. Infatti "Con l'art. 13, L. 07.08.1990, n. 241, che esclude dall'applicabilità del capo III della stessa legge i procedimenti tesi all'adozione di atti di pianificazione, il legislatore ha inteso escludere la duplicazione delle forme di partecipazione procedimentale, ma non eliminarle; pertanto, qualora uno specifico procedimento di variante interferisca con gli interessi di determinati soggetti, non vi sono ragioni per non dare applicazione all'art. 7, L. n. 241 cit. in tema di obbligo di comunicazione" (v. anche Cons. di Stato, Sez. IV, 24.10.2000, n. 5720, in Cons. di Stato, 2000, Sez. I, n. 2331; Cons. di Stato, Sez. IV, 17.04.2003, n. 2004).
Anche il legislatore ha limitato la portata del principio sancito dall'art. 13, L. n. 241 del 1990 stabilendo, all'art. 11, lett. a), D.P.R. 08.06.2001, n. 327 (T.U. espropriazioni per pubblica utilità) che al proprietario del bene sul quale si intende apporre il vincolo preordinato all'esproprio, che risulti dai registri catastali, va inviato l'avviso dell'avvio del procedimento nel caso di adozione di una variante al piano regolatore per la realizzazione di una singola opera pubblica, almeno venti giorni prima della delibera del Consiglio comunale. Alla variante al piano regolatore, che è di regola un atto di pianificazione, viene riconosciuta natura provvedimentale in conseguenza del fatto che ha un oggetto e dei destinatari specifici ed in ragione di ciò vengono ad essa estese le garanzie di partecipazione al procedimento sulla falsariga di quanto previsto dalla L. n. 241 del 1990.
In sostanza la giurisprudenza applica una nozione sostanziale di atto programmatorio, che indipendentemente dalla denominazione di variante generale o di piano regolatore generale datagli dall'amministrazione, analizza il contenuto e la portata dell'atto, riconoscendogli il carattere generale solo se è caratterizzato dalla generalità dei destinatari.
La sentenza in commento applica poi questi principi anche agli atti di autotutela adottati dall'amministrazione.
Se la variante speciale o ad oggetto specifico richiede per la sua approvazione la comunicazione di avvio del procedimento ai diretti interessati, in quanto è atto di natura provvedimentale, a maggior ragione occorre tale comunicazione nel caso di revoca della variante. Infatti la preventiva comunicazione di avvio del procedimento prevista dall'art. 7, L. n. 241 del 1990 rappresenta un principio generale dell'agere amministrativo, soprattutto quando si tratta di casi di autotutela a mezzo di revoca o annullamento di precedenti atti amministrativi favorevoli (TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 03.03.2010, n. 532).
Il riconoscimento della natura provvedimentale delle varianti ad oggetto specifico comporta conseguenze importanti anche con riferimento alla motivazione.
La giurisprudenza infatti applica in questi casi l'art. 3, comma 1, L. n. 241 del 1990 secondo il quale "ogni provvedimento amministrativo, ... deve essere motivato" senza che trovi più applicazione l'eccezione prevista dal comma 2 e relativa agli atti normativi ed a quelli a contenuto generale".
Si afferma così che se, in linea generale, non è ravvisabile un onere di motivazione nel caso di adozione, per la prima volta, di una nuova disciplina di una data area, deve invece ritenersi sussistente un dovere di motivazione allorché con una variante al piano regolatore generale il Comune muti radicalmente la destinazione di una data area già oggetto delle scelte pianificatore del Comune, e ciò faccia con una previsione che ha carattere singolare e specifico anziché di portata generale ed estesa a tutte le aree comprese in una determinata zona (Cons. di Stato Sez. IV, 07.04.1997, n. 343)  (commento tratto da www.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.05.2011 n. 3120 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Comunicazione di avvio del procedimento in materia di autorizzazione paesaggistica.
Vale al proposito effettuare un rapido excursus della disciplina inerente la comunicazione di avvio del procedimento in materia di autorizzazione paesaggistica (con particolare riferimento al sub-procedimento destinato all’eventuale esercizio del potere ministeriale di annullamento).
In un primo tempo, in assenza di apposita disciplina, la giurisprudenza si era in prevalenza orientata nel senso di ritenere sussistente l’obbligo della comunicazione di avvio del procedimento al privato, in considerazione delle nuove modalità dialettiche di esercizio della funzione amministrativa (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 03.02.2004, n. 342, 25.03.2004, n. 1626, 14.01.2003, n. 119, 02.09.2003, n. 4866).
Solo a decorrere dal 2002 tale orientamento è stato superato per espressa abrogazione dell'obbligo stesso di comunicazione dell’avvio del procedimento.
Infatti, la norma introdotta dall'art. 2 del D.M. n. 165 del 2002 (trasfusa nel comma 1-bis dell’art. 4 del D.M. n. 495 del 1994, recante il regolamento attuativo degli articoli 2 e 4 della legge n. 241 del 1990), disponeva –con previsione evidentemente efficace dalla sua entrata in vigore- che la comunicazione di avvio del procedimento non fosse dovuta, da parte del relativo funzionario responsabile, "per i procedimenti avviati ad istanza di parte e, in particolare, per quelli disciplinati dagli articoli 21, 22, 23, 24, 25, 26, 35, 41, 43, 50, 51, 53, 55, 56, 59, 66, 68, 69, 72, 86, 102, 107, 108, 109, 113, 114, 151, 154 e 147 del decreto legislativo 29.10.1999, n. 490", ovvero del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, che appunto nell'art. 151 disciplinava l'invio delle autorizzazioni paesaggistiche alla competente Soprintendenza, con facoltà di annullamento delle medesime autorizzazioni, da parte del Ministero, entro 60 giorni.
A decorrere dall'entrata in vigore del Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 del 22.01.2004), veniva invece previsto, nell'ambito del regime transitorio in materia di autorizzazione paesaggistica, contenuto nell'art. 159 del medesimo d.lgs. n. 42 del 2004, che l'Amministrazione competente al rilascio dell'autorizzazione stessa desse immediata comunicazione alla Soprintendenza delle autorizzazioni rilasciate, con contestuale invio di tale comunicazione agli interessati, quale "avviso di inizio del procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241" (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.05.2011 n. 3000 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La commissione giudicatrice di una gara di appalto si esaurisce solo con l’aggiudicazione.
La specifica funzione di cui è investita la commissione giudicatrice di una gara di appalto si esaurisce solo allorquando il competente organo della stazione appaltante fa proprio, approvandolo, il lavoro della commissione stessa, procedendo quindi all’aggiudicazione della gara o comunque alla conclusione del procedimento.
Di conseguenza, fino alla trasmissione degli atti all’organo competente alla loro approvazione la commissione può, ed anzi deve, correggere gli eventuali errori nei quali sia incorsa, così dando attuazione al principio di legalità (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.05.2011 n. 2999 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: La revoca dell'incarico di assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco o del presidente della provincia e che l'obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo assessore (o di più assessori) va valutato nel descritto quadro normativo ed esso può senz'altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico amministrative, rimessi in via esclusiva al sindaco o al presidente della provincia, tenendo conto sia di esigenze di carattere generale, quali ad esempio rapporti con l'opposizione o rapporti interni alla maggioranza consiliare, sia di particolari esigenze di maggiore operosità e di efficienza di specifici settori dell'amministrazione locale o per l'affievolirsi del rapporto fiduciario tra il capo dell'amministrazione ed il singolo assessore; tenendo presente che trattasi non di un tipico procedimento sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non sotto i profili formali e l'aspetto dell'evidente arbitrarietà, in relazione all'ampia discrezionalità spettante al capo dell'amministrazione locale.
Il Consiglio di Stato ha ribadito la propria interpretazione dell'articolo 46, ultimo comma, del decreto legislativo 18.08.2000 n. 267, confermando che “la revoca dell'incarico di assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco o del presidente della provincia e che l'obbligo di motivazione del provvedimento di revoca dell'incarico di un singolo assessore (o di più assessori) va valutato nel descritto quadro normativo ed esso può senz'altro basarsi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico amministrative, rimessi in via esclusiva al sindaco o al presidente della provincia, tenendo conto sia di esigenze di carattere generale, quali ad esempio rapporti con l'opposizione o rapporti interni alla maggioranza consiliare, sia di particolari esigenze di maggiore operosità e di efficienza di specifici settori dell'amministrazione locale o per l'affievolirsi del rapporto fiduciario tra il capo dell'amministrazione ed il singolo assessore; tenendo presente che trattasi non di un tipico procedimento sanzionatorio ma di una revoca di un incarico fiduciario difficilmente sindacabile in sede di legittimità se non sotto i profili formali e l'aspetto dell'evidente arbitrarietà, in relazione all'ampia discrezionalità spettante al capo dell'amministrazione locale" (nello stesso senso anche TAR Puglia, Bari, Sez. I, 10.06.2002 n. 2772) (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 20.05.2011 n. 751 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Anche i dipendenti pubblici nelle Commissioni paesaggio.
E’ illegittimo il regolamento adottato da un Comune per la nomina dei componenti della Commissione locale per il paesaggio prevista dall’art. 148 del D.lgs. n. 42/2004, nella parte in cui, in modo ingiustificato e quindi irragionevole, ha limitato la candidatura degli aspiranti componenti ai soli liberi professionisti proposti dai rispettivi Ordini.

Ha premesso il TAR di Lecce che il ricorrente lamenta che le modalità di nomina prescelte dal Comune pregiudicherebbero irragionevolmente la possibilità di accesso alla Commissione per chi -come questi- ha acquisito un’esperienza curriculare in qualità di pubblico dipendente e non di libero professionista.
Il motivo è stato condiviso dal Collegio. Ha premesso in proposito come, con deliberazione del 27.09.2010, il Consiglio comunale ha istituito la Commissione locale per il paesaggio e ne ha approvato il relativo Regolamento. La detta Commissione è prevista espressamente dall’art. 148 D.Lgs n. 42/2004, spettandole funzioni consultive nel corso dei procedimenti di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Quanto alla composizione, l’art. 148 si limita a stabilire che la Commissione dev’essere composta "da soggetti con particolare, pluriennale e qualificata esperienza nella tutela del paesaggio", senza esprimere alcuna limitazione o preferenza tra distinte categorie professionali.
La L.R. Puglia n. 20/2009 ha poi precisato che le Commissioni per il paesaggio sono composte da "esperti in possesso di diploma di laurea attinente alla tutela paesaggistica, alla storia dell’arte e dell’architettura, al restauro, al recupero e al riuso dei beni architettonici e culturali, alla progettazione urbanistica e ambientale, alla pianificazione territoriale, alle scienze agrarie o forestali e alla gestione del patrimonio naturale".
La Commissione per il paesaggio, ha ricordato il G.A., deve essere costituita nell’ambito dei Comuni, in quanto soggetti delegati al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, fermo comunque un potere di vigilanza in capo all’ente regionale, stabilito dalla legge statale (cfr. art. 148, D.Lgs. n. 42/2004: "le Regioni promuovono l'istituzione e disciplinano il funzionamento delle commissioni per il paesaggio di supporto ai soggetti ai quali sono delegate le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica") e confermato implicitamente dalla legge regionale (cfr. art. 8, L.R. n. 20/2009: "I Comuni trasmettono alla Regione copia del provvedimento istitutivo della commissione locale per il paesaggio, delle nomine dei singoli componenti e dei rispettivi curricula").
In siffatto contesto, la Regione Puglia, con Delibera G.R. n. 2273/2009 ha stabilito i requisiti minimi obbligatori dei componenti della Commissione, anche al fine di rendere omogenea la competenza tecnico-scientifica dei soggetti chiamati a esprimersi sulle proposte edilizie, nell’ambito delle prerogative delegate; in quest’occasione si è considerata parificata l’esperienza acquisita come libero professionista a quella di dipendente pubblico.
Tanto assodato, ha rilevato il Tribunale amministrativo salentino come il Comune, con l’adozione del Regolamento per il funzionamento della Commissione ha invece previsto che:
- i componenti della commissione, stabiliti in numero di tre, devono aver maturato un’esperienza almeno quinquennale esclusivamente nell’ambito della libera professione (art. 2);
- la nomina dei tre esperti spetta al Consiglio Comunale sulla base di un rendiconto del Dirigente competente, che valuta tre terne di candidature proposte rispettivamente dagli Ordini professionali degli Architetti, degli Ingegneri, dei Geologi ed Agronomi (art. 3).
In questa prospettiva, visto il quadro normativo, ad avviso del TAR, è risultata ingiustificata e quindi irragionevole, la scelta discrezionale del Comune resistente di limitare la candidatura ai soli liberi professionisti proposti dai rispettivi Ordini, posto che una tale limitazione restringe aprioristicamente il campo delle scelte possibili e quindi delle competenze e delle esperienze impiegabili nell’attività della Commissione.
L’ordinamento legislativo vigente, sopra richiamato, non prevede infatti una simile discriminazione, stabilendo solo il requisito della "qualificata esperienza" funzionale a costituire una struttura specialistica come la Commissione per il paesaggio che, a livello comunale, consenta di raggiungere una soglia sufficiente di competenze tecnico-scientifiche integrate idonee a garantire una valutazione separata degli aspetti paesaggistici da quelli urbanistico-edilizi: apparendo evidentemente, tale requisito, a giudizio dell’adito G.A., garantito anche da un curriculum svolto nel settore pubblico.
Inutilmente discriminatoria e immotivata è così risultata la distinzione tra liberi professionisti e pubblici dipendenti, anche alla luce delle richiamate indicazioni regionali, atteso che, ha soggiunto il Collegio, l’esperienza acquisita in impieghi pubblici, anche di elevata responsabilità, nel campo -ad esempio- dell’urbanistica, della protezione ambientale o della salvaguardia dei beni culturali può avere sicuramente un valore qualificante pari a quello del libero professionista, atteso che la possibilità di nominare anche componenti, provvisti di curriculum prevalentemente costituito da pubblici incarichi, consente di acquisire quelle esperienze e competenze interdisciplinari necessarie ad arricchire il livello tecnico-specialistico richiesto ai componenti della Commissione.
Conseguentemente, nel rispetto del primario interesse di garantire la pluralità della rappresentanza nell’organo consultivo nei termini indicati e al fine di assicurare una composizione della commissione in cui convergano molteplici e variegate esperienze professionali, il Dirigente incaricato di formulare la proposta al Consiglio comunale, ha concluso il TAR di Lecce, non dovrà ritenersi vincolato dalla proposta formulata dagli Ordini professionali (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 19.05.2011 n. 878 -  link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: P.A. e silenzio di rito, come si arriva al risarcimento?
La tutela prevista in caso di inerzia della pubblica amministrazione è diretta ad accertare se il silenzio serbato a fronte dell'istanza del privato violi o meno l'obbligo di concludere il procedimento avviato ad iniziativa di parte attraverso l'adozione di un provvedimento esplicito.
Con sentenza 18.05.2011 n. 4310 il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, ha affermato che il meccanismo del silenzio -nel rito speciale introdotto dall'art. 21-bis L. 06.12.1971 n. 1034, ora disciplinato dall'art. 117 Cod. proc. amm.- è diretto ad accertare se l'inerzia serbata dalla Pubblica amministrazione in ordine all'istanza del privato violi o meno l'obbligo di concludere il procedimento avviato ad iniziativa di parte attraverso l'adozione di un provvedimento esplicito.
La nuova disciplina ha peraltro accolto il principio della convertibilità del rito camerale in ordinario, con contestuale fissazione dell'udienza pubblica per la discussione del ricorso (comma 5), consentendo, quindi, che il successivo provvedimento espresso o un atto connesso con l'oggetto della controversia -emanati dall’amministrazione nelle more del giudizio sul silenzio- possano essere impugnati anche con motivi aggiunti, "nei termini e con il rito previsto per il provvedimento espresso".
Con la precisazione che in tal caso l'intero giudizio prosegue con il rito ordinario (comma 6), venendo altresì regolata anche la proposizione -contestuale a quella contro il silenzio- dell'azione di risarcimento del danno per inosservanza dolosa o colposa del termine per provvedere.
In tal caso, il giudice può definire con il rito camerale l'azione avverso il silenzio e fissare l'udienza pubblica per la trattazione della domanda risarcitoria (comma 7) (commento tratto da www.ipsoa.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il potere inibitorio dell’amministrazione in materia di D.I.A. è "estinguibile” in quanto sottoposto al termine di esercizio perentorio di giorni 30 dalla presentazione della denuncia, al pari dell’attività di verifica cui è funzionalmente collegato.
Ne consegue che, spirato detto termine, l’attività edilizia potrà essere liberamente iniziata non potendo l’amministrazione intervenire sulla stessa tramite l’esercizio di un potere inibitorio ormai esauritosi e salvo restando il potere di autotutela, ma soggetto a ben diversi presupposti.

Il potere inibitorio dell’amministrazione in materia di D.I.A. è –per orientamento costante della giurisprudenza- “estinguibile”, in quanto sottoposto al termine di esercizio perentorio di giorni 30 dalla presentazione della denuncia, al pari dell’attività di verifica cui è funzionalmente collegato.
Ne consegue che, spirato detto termine, l’attività edilizia potrà essere liberamente iniziata non potendo l’amministrazione intervenire sulla stessa tramite l’esercizio di un potere inibitorio ormai esauritosi e salvo restando il potere di autotutela, ma soggetto a ben diversi presupposti (cfr. TAR Campania Napoli, sez. VIII, 08.10.2009, n. 5200; TAR Veneto, Venezia, sez. II, 09.07.2009, n. 2137; TAR Lombardia Milano, sez. II, 17.06.2009, n. 4066; TAR Liguria, 22.01.2003, n. 113)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.05.2011 n. 1278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIIl provvedimento di revoca dell'aggiudicazione –e a maggior ragione quello di revoca dell’intera gara- richiede l'avviso di avvio del procedimento, ogni qualvolta le risultanze della procedura siano state approvate e la relazione fra le parti sia entrata già nella fase paritetica dell'esecuzione delle prestazioni, senza che, in tal caso, sia neppure applicabile il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990.
La revoca della gara costituisce un'eccezione alla regola, in ragione di superiori e sopravvenute esigenze di interesse pubblico, e non può considerarsi legittima se il mutamento di avviso ha luogo a causa di una non meditata previa definizione dell'oggetto del contratto. In ogni caso, la revoca della gara –specialmente dopo la stipula del contratto– abbisogna di puntuale ed accurata motivazione sulla sopravvenuta diversa valutazione dell’interesse pubblico che ne aveva consigliato l’indizione.

Il provvedimento di revoca dell'aggiudicazione –e a maggior ragione quello di revoca dell’intera gara- richiede l'avviso di avvio del procedimento, ogni qualvolta, come si è verificato nell’ipotesi in esame, le risultanze della procedura siano state approvate e la relazione fra le parti sia entrata già nella fase paritetica dell'esecuzione delle prestazioni, senza che, in tal caso, sia neppure applicabile il disposto dell’art. 21-octies della legge n. 241/1990 (C.S., V, 23.10.2007, n. 5591; TAR Veneto, I, 15.10.2007, n. 3260; C.G.A., 31.03.2006, n. 129; TAR Lazio, III, 01.09.2004, n. 8180).
La previa definizione dell'oggetto della gara è un preciso dovere delle stazioni appaltanti, volto a garantire anche la posizione dei partecipanti. La revoca costituisce un'eccezione alla regola, in ragione di superiori e sopravvenute esigenze di interesse pubblico, e non può considerarsi legittima se il mutamento di avviso ha luogo a causa di una non meditata previa definizione dell'oggetto del contratto (C.S., V, 11.05.2009, n. 2882). In ogni caso, la revoca della gara –specialmente dopo la stipula del contratto– abbisogna di puntuale ed accurata motivazione sulla sopravvenuta diversa valutazione dell’interesse pubblico che ne aveva consigliato l’indizione (TAR Campania, Napoli, I, 04.11.2010, n. 22688) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 18.05.2011 n. 435 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl beneficio dell'esonero dal contributo di costruzione concerne solo i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale, e non le opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica.
La giurisprudenza ha chiarito che (Consiglio Stato, sez. IV, 25.06.2010 , n. 4109) ai sensi dell'art. 10, l. 28.01.1977 n. 10, trasfuso nell'art. 19, t.u. sull'edilizia approvato con d.P.R. 06.06.2001 n. 380, il beneficio dell'esonero dal contributo di costruzione concerne solo i fabbricati complementari ed asserviti alle esigenze proprie di un impianto industriale, e non le opere edilizie comunque suscettibili di essere utilizzate al servizio di qualsiasi attività economica.
In merito, sebbene la ricorrente non abbia dato prova certa della connessione tra gli edifici per unità artigianali e le abitazioni dei custodi, un indice di tale nesso risulta dal contenuto degli atti dedotti in giudizio ed in particolare dalla richiesta unitaria delle somme da pagare.
D’altro canto neppure il Comune ha dato prova della presunta mancanza di un rapporto pertinenziale tra le opere, che richiede l’analisi della cartografia allegata alla richiesta di permesso oppure l’esame dello stato di fatto delle opere realizzate, se non sono state successivamente modificate.
Ne consegue che il provvedimento impugnato dev’essere annullato con riferimento all’applicazione del costo di costruzione con obbligo del Comune di provvedere al riesame dell’applicazione del costo di costruzione alla luce del principio giurisprudenziale sopra indicato (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.05.2011 n. 1265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa, ossia quando l’area è assoggettata a una trasformazione tale da recidere il rapporto di continuità con la sagoma e i volumi preesistenti, sono applicabili le regole sulle distanze previste per le nuove costruzioni.
Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa che fronteggi un edificio con pareti finestrate viene in rilievo, accanto all’interesse urbanistico, anche l’interesse igienico-sanitario essendo necessario garantire l’aerazione degli spazi interni ed evitare la formazione di intercapedini malsane. Questo secondo interesse non è nella disponibilità dei privati e neppure delle amministrazioni locali, ed è protetto su tutto il territorio nazionale dalla disposizione sulla distanza minima assoluta di 10 metri di cui all’art. 9 del DM 1444/1968.
Il vincolo della distanza minima deve però essere applicato secondo il canone di proporzionalità, ossia nei limiti necessari a prevenire il degrado igienico-sanitario dei luoghi. Si può infatti ritenere che anche all’esterno dei piani attuativi la deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate risulti in concreto ammissibile quando non vi siano pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in fattispecie particolari, ad esempio quando non vi sia esatta contrapposizione tra il nuovo muro e la parete finestrata preesistente oppure quando attorno a quest’ultima rimanga comunque spazio sufficiente per conservare inalterate l’aerazione e l’illuminazione

Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa, ossia quando l’area (come nella vicenda in esame) è assoggettata a una trasformazione tale da recidere il rapporto di continuità con la sagoma e i volumi preesistenti, sono applicabili le regole sulle distanze previste per le nuove costruzioni.
Se l’aspetto di un’area viene significativamente alterato, la demolizione e ricostruzione svincola i proprietari dai condizionamenti connessi ai vecchi edifici ma allo stesso tempo fa perdere il diritto di prevenzione fondato sugli stessi.
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Nel caso di demolizione e ricostruzione innovativa che fronteggi un edificio con pareti finestrate viene in rilievo, accanto all’interesse urbanistico, anche l’interesse igienico-sanitario essendo necessario garantire l’aerazione degli spazi interni ed evitare la formazione di intercapedini malsane.
Questo secondo interesse non è nella disponibilità dei privati e neppure delle amministrazioni locali, ed è protetto su tutto il territorio nazionale dalla disposizione sulla distanza minima assoluta di 10 metri di cui all’art. 9 del DM 1444/1968 (v. C.Cost. 16.06.2005 n. 232). È vero che proprio l’art. 9, comma 3, del DM 1444/1968 contiene l’originaria deroga poi ripresa anche dalla disciplina comunale in esame, ossia la facoltà di costruire a distanze inferiori nel caso di gruppi di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o di lottizzazioni convenzionate con previsioni planivolumetriche.
Tale norma è però fondata sul presupposto che la realizzazione ex novo e così pure la sistemazione integrale di un insieme di edifici consentano di adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri. Di conseguenza la deroga è logicamente riferibile soltanto all’ambito territoriale ricompreso nei suddetti piani e considerato nella progettazione unitaria;
In concreto il vincolo della distanza minima deve però essere applicato secondo il canone di proporzionalità, ossia nei limiti necessari a prevenire il degrado igienico-sanitario dei luoghi. Si può infatti ritenere che anche all’esterno dei piani attuativi la deroga alla distanza minima dalle pareti finestrate risulti in concreto ammissibile quando non vi siano pericoli di peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie nelle abitazioni servite dalle finestre.
Questa situazione può verificarsi in fattispecie particolari, ad esempio quando non vi sia esatta contrapposizione tra il nuovo muro e la parete finestrata preesistente oppure quando attorno a quest’ultima rimanga comunque spazio sufficiente per conservare inalterate l’aerazione e l’illuminazione (v. TAR Brescia Sez. I 27.08.2010 n. 3240; TAR Brescia Sez. I 03.07.2008 n. 788)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 17.05.2011 n. 730 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl diritto di ricostruzione di un edificio, anche se risulta demolito all’atto del rilascio della concessione edilizia, permane fin quando un procedimento amministrativo per il rilascio della concessione edilizia non è concluso ed ha avuto completa esecuzione.
Condizione determinante è che lo stato di consistenza sia certo e sia stato verificato dall’Amministrazione preposta al rilascio della concessione.

È giurisprudenza consolidata, e questo Collegio non ha ragione di discostarsene, che il diritto di ricostruzione di un edificio, anche se risulta demolito all’atto del rilascio della concessione edilizia, permane fin quando un procedimento amministrativo per il rilascio della concessione edilizia non è concluso ed ha avuto completa esecuzione.
Condizione determinante è che lo stato di consistenza sia certo e sia stato verificato dall’Amministrazione preposta al rilascio della concessione, fatto che nel caso di specie non risulta contestato (Consiglio di Stato n. 5162 del 21.10.2008, n. 1108 del 06.03.2006, TAR Bolzano 374 del 05.08.2004) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 16.05.2011 n. 203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO - Obbligo di bonifica - Responsabile dell’inquinamento - Nesso di causalità tra la condotta del responsabile e la contaminazione - Regola probatoria del “più probabile che non” - Elementi indiziari - Artt. 242 e 244 d.lgs. n. 152/2006.
Ai sensi degli art. 242 e 244 d.lg. 03.04.2006 n. 152, l'obbligo di bonifica è posto in capo al responsabile dell'inquinamento, che le Autorità amministrative hanno l'onere di ricercare ed individuare, mentre il proprietario non responsabile dell'inquinamento o altri soggetti interessati hanno una mera "facoltà" di effettuare interventi di bonifica (Consiglio Stato, sez. V, 16.06.2009, n. 3885).
Il nesso di causalità tra la condotta del responsabile e la contaminazione riscontrata deve essere accertato applicando la regola probatoria del "più probabile che non": pertanto, il suo positivo riscontro può basarsi anche su elementi indiziari, quali la tipica riconducibilità dell'inquinamento rilevato all'attività industriale condotta sul fondo (TAR Piemonte Torino, sez. I, 24.03.2010, n. 1575).
INQUINAMENTO - Mancata esecuzione degli interventi ambientali da parte del responsabile - Esecuzione d’ufficio da parte della P.A. competente - Rivalsa - Garanzie sul terreno - Artt. 244, 250 e 253 d.lgs. n. 152/2006.
Dal combinato disposto degli art. 244, 250 e 253 del codice ambiente si ricava che, nell'ipotesi di mancata esecuzione degli interventi ambientali in esame da parte del responsabile dell'inquinamento, ovvero di mancata individuazione dello stesso, e sempreché non provvedano né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati, le opere di recupero ambientale sono eseguite dalla p.a. competente, che potrà rivalersi sul soggetto responsabile nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (TAR Toscana Firenze, sez. II, 03.03.2010, n. 594).
INQUINAMENTO - Bonifica e messa in sicurezza - Potere di diffida - Presidente della Provincia - Artt. 242 e ss. d.lgs. n. 152/2006 - Normativa speciale prevalente sulla disciplina generale in materia di decretazione d’urgenza.
In tema di bonifica e messa in sicurezza, la normativa di cui agli artt. 242 e ss. del d.lgs. n. 152/2006 affida il potere di diffida al Presidente della Provincia.
Tale disciplina normativa va considerata speciale, e quindi prevalente sulla normativa che affida al Sindaco la decretazione d’urgenza a tutela della salute pubblica; inoltre le ordinanze contingibili e urgenti sono utilizzabili solo ove l’ordinamento non preveda altri mezzi ordinari, e nel caso è il Codice dell’ambiente a prevedere i sistemi per la bonifica dei siti inquinati, anche in via di urgenza (sulla questione si veda in termini anche Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.04.2011 n. 2249) (TAR Abruzzo-Pescara, Sez. I, sentenza 13.05.2011 n. 318 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTILa lex specialis della gara è quella che regolamenta il procedimento di scelta del contraente e il giudice, quando la stessa non assume aspetti di illogicità, non può sostituirsi all’amministrazione nel sua etero integrazione. D’altro canto anche la pubblica amministrazione è rigidamente vincolata dalla lex specialis non potendo di regola disporre l'esclusione dalla gara per cause diverse da quelle ivi espressamente previste.
Qualora le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 presentino delle irregolarità o delle omissioni rilevabili di ufficio, non costituenti falsità, il funzionario competente a ricevere la documentazione dà notizia all'interessato di tale irregolarità. Questi è tenuto alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione; in mancanza il procedimento non ha seguito.

La lex specialis della gara è quella che regolamenta il procedimento di scelta del contraente e il giudice, quando la stessa, come nel caso che occupa, non assume aspetti di illogicità, non può sostituirsi all’amministrazione nel sua etero integrazione. D’altro canto anche la pubblica amministrazione è rigidamente vincolata dalla lex specialis non potendo di regola disporre l'esclusione dalla gara per cause diverse da quelle ivi espressamente previste, in virtù del principio dell'autovincolo e dell'affidamento, corollari dell'art. 97 cost. (Cons. Stato , sez. V, 10.11.2010, n. 8003; V, 22.03.2010 n. 1652).
Ritiene tuttavia la Sezione di aderire all’orientamento giurisprudenziale che consente la sanabilità delle irregolarità diverse dalla falsità in ragione della funzione che la dichiarazione di cui trattasi esplica, e cioè di assicurare la paternità della dichiarazione (Cons. Stato, sez. V, 11.11.2004, n. 7339). In questi casi viene in rilievo l'art. 71, terzo co., dello stesso D.P.R. n. 445 del 2000 che prevede che «qualora le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 presentino delle irregolarità o delle omissioni rilevabili di ufficio, non costituenti falsità, il funzionario competente a ricevere la documentazione dà notizia all'interessato di tale irregolarità. Questi è tenuto alla regolarizzazione o al completamento della dichiarazione; in mancanza il procedimento non ha seguito» (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 12.05.2011 n. 2841 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Appalto invalido ma eseguito: no alla nuova gara, sì al risarcimento.
Quando è stata proposta un'azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. Quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori.

L'Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale e di Alta Specializzazione (A.O.R.N.) S. Anna e San Sebastiano di Caserta indiceva una procedura aperta per l'aggiudicazione dell'appalto del servizio di manutenzione, conduzione e gestione degli impianti elettrici.
L'impresa S. spa, classificatasi al sesto posto in graduatoria, impugna l'intervenuta aggiudicazione, lamentando la violazione delle elementari regole in materia di custodia dei plichi di gara. Il Tar Campania, Napoli, Sez. I, con la Sent. n. 16615 del 2010, respinge il ricorso, affermando che, in aderenza al prevalente orientamento giurisprudenziale, la mancata indicazione nei verbali di gara delle modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non assurge, di per sé, a motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione.
Occorre verificare e dar rilievo, secondo i giudici di primo grado, ad un'eventuale e concreta manomissione e/o alterazione della documentazione di gara.
Nella precisa vicenda, il Tar ritiene che le contestate alterazioni non possono essere considerate come rettamente denunciate in sede di ricorso, in quanto inammissibilmente introdotte attraverso una memoria difensiva non notificata alle controparti.
L'impresa S. spa impugna la sentenza di primo grado, evidenziando che le doglianze, afferenti le denunciate alterazioni, sono state correttamente introdotte in giudizio, attraverso la proposizione di motivi aggiunti, ritualmente notificati e depositati.
Il Consiglio di Stato, nella pronuncia in esame, accoglie la tesi dell'impresa appellante e rileva la presenza delle denunciate alterazioni.
Precisamente, il CdS accerta, anche sulla base di quanto risulta dai verbali, la sussistenza del seguente grave episodio, non smentito dal presidente di commissione: in data 5 maggio, un commissario ha chiesto e prelevato direttamente, senza alcuna preventiva autorizzazione, alcuni plichi contenenti le offerte tecniche. In presenza di tale episodio, il Consiglio di Stato ritiene che le censure avanzate sono pienamente fondate, per cui appare inequivocamente acclarata l'assoluta carenza di idonee misure di custodia dei plichi contenenti le offerte.
A fronte di tale chiara constatazione dei fatti, implicante l'annullamento degli atti impugnati e della disposta aggiudicazione, il CdS procede ad accertare se sussiste un reale interesse, giustificante la pronuncia di efficacia del contratto di appalto già stipulato.
Il CdS prende atto che, nella concreta vicenda, non sono presenti quelle "gravi violazioni", che, ai sensi dell'art. 121 del Codice del processo amministrativo, possono giustificare la declaratoria di inefficacia del contratto e cioè:
- a) aggiudicazione definitiva avvenuta senza previa pubblicazione del bando o avviso;
- b) aggiudicazione definitiva avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti;
- c) contratto stipulato senza rispettare il termine dilatorio di 35 giorni, previsto dal comma 10, dell'art. 11, del Codice dei contratti pubblici, qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi ai vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento;
- d) contratto stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione, derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l'aggiudicazione definitiva (art. 11, comma 10-ter, Codice), qualora tale violazione, aggiungendosi ai vizi propri dell'aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l'affidamento.
Inoltre, i giudici prendono atto che non sussiste la possibilità di dichiarare l'inefficacia del contratto ai sensi dell'art. 122 del Codice processuale.
Tale importante disposizione normativa stabilisce che, oltre i casi, espressamente ora indicati, è possibile, annullando l'aggiudicazione, dichiarare inefficace il contratto, "tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell'effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l'aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell'aggiudicazione non comporti l'obbligo di rinnovare la gara".
Ora, analizzando la concreta fattispecie, i giudici di appello riscontrano i seguenti e puntuali elementi fattuali:
- L'impresa appellante, classificatasi sesta nella graduatoria definitiva, non ha alcuna effettiva possibilità di conseguire, in via diretta, l'aggiudicazione, alla luce dei vizi riconosciuti, di natura esclusivamente strumentale, e tanto meno ha la possibilità di subentrare nel contratto.
- Il contratto di appalto è in stato di avanzata esecuzione, per cui non è possibile la rinnovazione della gara.
In presenza di siffatta situazione processuale, occorre procedere ad una duplice considerazione: non sussistono i presupposti per dichiarare inefficace il contratto e l'eventuale annullamento degli atti impugnati, pur sussistendo chiari vizi di legittimità, non recherebbe alcuna utilità all'impresa appellante, non potendo avere l'annullamento medesimo alcun contenuto conformativo idoneo a soddisfare l'interesse del ricorrente.
Allora, sulla scorta di tali ragioni, i giudici amministrativi di appello ritengono che occorre tener conto del comma 3, dell'art. 34 del codice processuale, il quale stabilisce che "quando, nel corso del giudizio, l'annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l'illegittimità dell'atto se sussiste l'interesse ai fini risarcitori".
Si tratta di un'importante ed innovativa disposizione processuale, diretta ad evitare l'inutile annullamento di provvedimenti (nel caso di specie: l'aggiudicazione definitiva), che abbiano ormai esaurito i loro effetti nel corso del giudizio.
Invero, la disposizione presenta anche un altro fine: accertare, comunque, le illegittimità, laddove possa essere ipotizzata la sussistenza di un interesse al risarcimento, distinto da quello all'annullamento, privo di risvolti pratici.
In questa ipotesi, l'azione costitutiva smarrisce il suo naturale effetto "modificativo" (la modificazione di una situazione giuridica) e si riduce ad un mero accertamento di illegittimità per puri fini risarcitori, cioè per realizzare l'interesse al risarcimento.
Al riguardo, il CdS ricorda che l'art. 30 del codice processuale prevede termini precisi: quando è stata proposta un'azione di annullamento, la domanda risarcitoria può essere formulata sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.
A questo punto, i giudici amministrativi di appello, chiarito il principio che è possibile comunque accertare una illegittimità utile ai soli fini risarcitori (ma, inutile ai fini modificativi della situazione giuridica consolidatasi), affrontano due precise questioni.
In primo luogo, la questione se l'applicazione del predetto comma 3, dell'art. 34 presupponga una specifica istanza da parte del soggetto interessato.
A tale domanda, deve essere data una risposta negativa, sia per ragioni di carattere testuale, in quanto nella norma non si rinviene alcun riferimento ad un'istanza, sia perché l'accertamento dell'illegittimità dell'atto impugnato è contenuto nel petitum di annullamento come un presupposto necessario.
In secondo luogo, il CdS affronta il problema della possibile sussistenza, nella concreta fattispecie, di un reale "interesse ai fini risarcitori", come prescritto dalla disposizione normativa.
Al riguardo, i giudici ricordano che il danno ipoteticamente risarcibile si sostanzia essenzialmente nelle seguenti voci:
a) danno emergente, costituito dalle spese e dai costi sostenuti per la preparazione dell'offerta e per la partecipazione alla procedura;
b) lucro cessante, generalmente determinato nel 10% del valore dell'appalto;
c) un'ulteriore percentuale del valore dell'appalto a titolo di perdita di chance, legata all'impossibilità di far valere, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell'appalto non eseguito.
Al riguardo, sempre il Consiglio di Stato (Sez. IV), in una recente pronuncia (16.05.2011, n. 2955), ha evidenziato che "la partecipazione ad un appalto pubblico, nonché la fase di esecuzione dello stesso, rappresentano per l'impresa concorrente un vantaggio economicamente valutabile, in quanto accresce la capacità di competere sul mercato e, dunque, la chance di ottenere l'affidamento di futuri appalti.
Pertanto, deve ritenersi risarcibile il danno c.d. "curriculare", il quale consiste nel pregiudizio subito dall'impresa in dipendenza del mancato arricchimento del proprio "curriculum" professionale, ossia per la circostanza di non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione di un appalto, dal quale si sia stati esclusi a causa del comportamento illegittimo dell'amministrazione
".
Ora, nella concreta fattispecie, il CdS ritiene che sono sicuramente rinvenibili due tipologie di danno risarcibile: le spese di partecipazione alla gara e l'eventuale perdita di chance, che l'impresa potrebbe dimostrare.
Proprio in ragione di tali danni, i giudici ritengono sussistente uno specifico interesse al risarcimento, con connessa applicazione del già illustrato comma 3, dell'art. 34 del codice processuale (commento tratto da ww.ipsoa.it - Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.05.2011 n. 2817 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIResta sottratta al giudice ogni verifica, in concreto, della compatibilità ideologica tra due liste diverse tra le quali sia transitato un esponente politico dopo le elezioni, per quanto concerne la permanenza del suo rapporto fiduciario con un'assemblea elettiva.
La mozione di sfiducia rientra tra i provvedimenti caratterizzati da una elevatissima discrezionalità, sindacabile solo in caso di manifesta illogicità o evidente travisamento dei fatti, che nella fattispecie non appaiono esistenti né vengono evidenziati.
La mozione di sfiducia al sindaco, adottata dal consiglio comunale, rientra fra i provvedimenti caratterizzati da un'elevatissima discrezionalità, la cui motivazione può essere anche incentrata su una diversità di orientamenti politici fra sindaco e maggioranza consiliare, per cui non deve essere motivata con riferimento a precise inadempienze del sindaco rispetto al programma in base al quale è stato eletto.

Il Collegio ritiene il ricorso infondato, dovendosi condividere l’orientamento espresso dalla Sezione in sede cautelare, allorquando si è affermato che “resta sottratta al giudice ogni verifica, in concreto, della compatibilità ideologica tra due liste diverse tra le quali sia transitato un esponente politico dopo le elezioni, per quanto concerne la permanenza del suo rapporto fiduciario con un'assemblea elettiva”.
Infatti, la mozione di sfiducia rientra tra i provvedimenti caratterizzati da una elevatissima discrezionalità, sindacabile solo in caso di manifesta illogicità o evidente travisamento dei fatti, che nella fattispecie non appaiono esistenti né vengono evidenziati (cfr. Cons. giust. amm. Sicilia , sez. giurisd., 28.09.2007, n. 886).
Il Collegio ritiene di adeguarsi, sulla questione di diritto, all’orientamento espresso dal Giudice dell’appello (peraltro in riforma di una precedente decisione di questo Tribunale di segno opposto, nella quale si era sposato la diversa interpretazione della disposizione regionale, riproposta dal ricorrente), secondo il quale, sebbene la ricordata previsione di legge regionale sancisca, come condizione di legittimità della mozione di sfiducia, che essa sia motivata, è giurisprudenzialmente incontroverso che possa anche trattarsi di una motivazione “politica” e non necessariamente di tipo giuridico-amministrativo.
In altri termini, la mozione di sfiducia al sindaco, adottata dal consiglio comunale, rientra fra i provvedimenti caratterizzati da un'elevatissima discrezionalità, la cui motivazione può essere anche incentrata su una diversità di orientamenti politici fra sindaco e maggioranza consiliare, per cui non deve essere motivata con riferimento a precise inadempienze del sindaco rispetto al programma in base al quale è stato eletto (cfr. anche TAR Sicilia Palermo, sez. I, 20.08.2007, n. 1955, nonché, con riferimento alla normativa nazionale, TAR Lombardia Milano, sez. I, 05.02.2009, n. 1145) (TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 12.05.2011 n. 1170 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della L. 28.02.1985, n. 47, poi confluito nell'art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (c.d. doppia conformità).
Osserva, anzitutto, il Collegio che, sulla scorta del prevalente indirizzo giurisprudenziale: “l'accertamento di conformità previsto dall'art. 13 della L. 28.02.1985, n. 47, poi confluito nell'art. 36, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (c.d. doppia conformità)” (TAR Campania Napoli, sez. VI, 06.09.2010, n. 17306).
Il provvedimento di accertamento di conformità assume, pertanto, una connotazione eminentemente oggettiva e vincolata, priva di apprezzamenti discrezionali, dovendo l'autorità procedente valutare l'assentibilità dell'opera eseguita senza titolo, sulla base della normativa urbanistica ed edilizia vigente in relazione ad entrambi i momenti considerati dalla norma.
Si tratta invero, come sopra detto, di accertamento concernente una valutazione doverosa e vincolata, priva di contenuti discrezionali, avente per oggetto la realizzazione di un assetto di interessi già prefigurato dalla disciplina urbanistica applicabile … (cfr. TAR Lazio–Latina, sez. I, sent. 7952/2003) (TAR Valle d'Aosta, sentenza 11.05.2011 n. 34 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La tutela dell'affidamento e la correttezza dell'azione amministrativa impediscono che le conseguenze di una condotta colposa della stazione appaltante possano essere traslate a carico del soggetto concorrente.
La tutela dell'affidamento e la correttezza dell'azione amministrativa impediscono che le conseguenze di una condotta colposa della stazione appaltante (quale, nel caso di specie, finisce per essere l'imprecisa dizione letterale di un articolo del disciplinare) possano essere traslate a carico del soggetto concorrente, comminandogli la sanzione dell'esclusione dalla gara. Pertanto, è illegittimo il provvedimento di esclusione da una gara, adottato nei confronti di un RTI, che abbia omesso di presentare un documento, a causa di un'imprecisa formulazione della lex specialis.
La stazione appaltante, infatti, a tutela della par condicio e del principio di massima partecipazione, avrebbe dovuto esercitare il potere di invitare il concorrente a completare e chiarire la documentazione presentata, senza che, in un caso come quello di specie, in cui la mancanza di un documento è da addebitarsi innanzitutto alla formulazione della lex specialis, piuttosto che alla colpa del privato, possa assumere rilievo la distinzione, in altri casi dirimente, tra mancanza della dichiarazione ed incompletezza della stessa, che finirebbe per violare la ratio stessa dell'art. 46 del d.lgs. 163/2006 (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 09.05.2011 n. 2587 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTIL'esplicitazione, da parte del concorrente, degli oneri di sicurezza risponde alla finalità di consentire alla stazione appaltante di verificarne la congruità e l'attendibilità, tenuto conto dell'interesse pubblico a garantire la sicurezza dell'esecuzione dell'appalto. Conseguentemente, la quantificazione degli oneri in questione deve essere chiara e non può esser né incerta né indeterminata, né può tradursi nell'inclusione dei relativi costi in una voce ampia e generica come quella delle spese generali, senza alcuna ulteriore specificazione. Diversamente la ratio legis verrebbe vanificata atteso che, mancando l'indicazione dei costi, la stazione appaltante non avrebbe la possibilità di verificarne l'attendibilità e la serietà.
Dalla disposizione contenuta nell’art. 87, comma 4 del codice dei contratti discendono due corollari: il primo è che i concorrenti che intendano partecipare alle procedure di gara devono indicare espressamente, nell'offerta economica, quali siano gli oneri economici che ritengono di dover sopportare al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza sul lavoro; il secondo è che l'amministrazione appaltante è tenuta a valutare la congruità dell'importo destinato ai costi per la sicurezza.
Nonostante la mancanza di una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara, l'inosservanza della prescrizione primaria che impone l'indicazione preventiva dei costi di sicurezza implica la sanzione dell'esclusione, in quanto rende l'offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull'affidabilità dell'offerta stessa.

Come già affermato dalla Sezione (TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 24.11.2009, n. 5136), con argomentazioni che il Collegio condivide in toto, l'esplicitazione, da parte del concorrente, degli oneri di sicurezza risponde alla finalità di consentire alla stazione appaltante di verificarne la congruità e l'attendibilità, tenuto conto dell'interesse pubblico a garantire la sicurezza dell'esecuzione dell'appalto.
Conseguentemente, la quantificazione degli oneri in questione deve essere chiara e non può esser né incerta né indeterminata, né può tradursi nell'inclusione dei relativi costi in una voce ampia e generica come quella delle spese generali, senza alcuna ulteriore specificazione.
Diversamente la ratio legis verrebbe vanificata atteso che, mancando l'indicazione dei costi, la stazione appaltante non avrebbe la possibilità di verificarne l'attendibilità e la serietà.
Questa è la ragione per la quale il comma 4 dell'art. 87 del D.Lgs. n. 163 ha imposto ai concorrenti una specifica indicazione degli oneri in questione: la norma ha voluto chiaramente separare l'indicazione del corrispettivo per l'esecuzione della prestazione dai costi per garantirne la sicurezza.
A questo primario interesse pubblico vanno, invero, ricondotte le regole dettate dapprima dalla legge n. 327/2000 e poi dal D.Lgs. n. 163/2006, che hanno sostanzialmente equiparato gli appalti di servizi e di forniture a quelli di lavori pubblici ai fini della tutela della sicurezza dei lavoratori (sul punto cfr. TAR Liguria, Sez. II, 13.11.2008, n. 1974).
In proposito è stato affermato (TAR Sardegna, Cagliari, sez. I, 26.06.2009, n. 1047), che dalla disposizione contenuta nell’art. 87, comma 4 del codice dei contratti discendono due corollari: il primo è che i concorrenti che intendano partecipare alle procedure di gara devono indicare espressamente, nell'offerta economica, quali siano gli oneri economici che ritengono di dover sopportare al fine di adempiere esattamente agli obblighi di sicurezza sul lavoro; il secondo è che l'amministrazione appaltante è tenuta a valutare la congruità dell'importo destinato ai costi per la sicurezza.
E’ stato anche rilevato che, sebbene si possa dubitare dell'automaticità dell'esclusione di offerte così formulate, in assenza di una espressa sanzione in tal senso nel bando di gara, tuttavia debba essere considerata la peculiare natura delle norme in materia di sicurezza del lavoro, finalizzate a garantire l'intangibilità dei diritti fondamentali della persona del lavoratore, quali quelli alla vita e alla salute, come emerge dalla ampia produzione legislativa degli ultimi anni.
Il conseguimento di tali fini rappresenta, quindi, un obiettivo essenziale del sistema normativo in materia, che è altresì avvalorato da sicuri riferimenti costituzionali (artt. 2, 3, 32 e 38 della Costituzione).
In particolare, la disciplina della previsione e della valutazione degli oneri di sicurezza nella fase di affidamento dei contratti pubblici esprime l'esigenza che il rispetto della normativa sulla sicurezza del lavoro sia assicurato anche quando la promozione di tale valore essenziale si ponga in contrasto con alcuni dei principi che governano il procedimento di affidamento dei contratti pubblici.
Sotto questo profilo si giustifica, quindi, l’integrazione automatica delle norme del bando di gara (secondo il meccanismo previsto dagli articoli 1374 e 1339 del cod. civ., come ha precisato, per altra ipotesi, Cons. Stato Sez. V, 18.11.2004, n. 7555), se queste non prevedano espressamente quanto obbligatoriamente disposto dalle norme dell'ordinamento.
Tale ricostruzione ermeneutica è stata, altresì, recentemente confermata dal Consiglio di Stato (Sez. V, 23.07.2010, n. 4849) il quale ha affermato che la circostanza che solo nei bandi di gara relativi agli appalti di lavori, ai sensi dell'art. 131 del codice dei contratti pubblici, debbano essere evidenziati gli oneri di sicurezza non soggetti a ribasso, fa sì che nelle altre procedure di gara, in assenza della preventiva fissazione del costo per la sicurezza da parte dell'amministrazione aggiudicatrice quale specifica componente del costo del lavoro, sia necessario che il relativo importo venga scorporato dalle offerte dei singoli concorrenti e sottoposto a verifica per valutare se sia congruo rispetto alle esigenze di tutela dei lavoratori.
La mancanza di una specifica previsione sugli oneri per la sicurezza in seno alla lex specialis non toglie, quindi, che la norma primaria, immediatamente precettiva ed idonea ad eterointegrare le regole procedurali, imponga agli offerenti di indicare separatamente i costi per la sicurezza per le esposte ragioni.
Secondo la richiamata decisione, nonostante la mancanza di una comminatoria espressa nella disciplina speciale di gara, l'inosservanza della prescrizione primaria che impone l'indicazione preventiva dei costi di sicurezza implica la sanzione dell'esclusione, in quanto rende l'offerta incompleta sotto un profilo particolarmente rilevante alla luce della natura costituzionalmente sensibile degli interessi protetti ed impedisce alla stazione appaltante un adeguato controllo sull'affidabilità dell'offerta stessa (cfr. da ultimo: Cons. Stato, Sez. V, 21.01.2011, n. 17; TAR Lombardia, Brescia, Sez. II, 12.01.2011, n. 26; TAR Campania Napoli, Sez. I, 18.03.2011, n. 1497) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 09.05.2011 n. 1217 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Revoca del part-time, Collegato lavoro in contrasto con la direttiva UE. Prima sentenza a favore del dipendente nel pubblico impiego.
Il Collegato lavoro nel consentire al datore di lavoro pubblico di trasformare unilateralmente il rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, anche contro la volontà del lavoratore, si pone in contrasto con la direttiva europea (dir. 15.12.1997, n. 97/81/CE), in quanto discrimina il lavoratore a part-time che, a differenza del lavoratore a tempo pieno, rimane soggetto al potere del datore di lavoro pubblico di modificare unilateralmente la durata della prestazione di lavoro.
In tema di modifica del part-time nella pubblica amministrazione, dopo le novità introdotte dalla legge n. 183 del 04.11.2010, riveste particolare importanza la recentissima ordinanza del Tribunale di Trento, sezione lavoro, che di fatto ha accolto il ricorso di una dipendente pubblica che era ricorsa avverso due provvedimenti , uno ministeriale , e uno del proprio dirigente del Tribunale dove lavorava, che le avevano revocato l’istituto del part-time.
Si ricorda brevemente che la citata legge n. 183 del 04.11.2010 , dopo un lungo dibattito parlamentare, ha previsto tra le altre disposizioni in materia di lavoro, all’articolo 16, che “In sede di prima applicazione delle disposizioni introdotte dall’articolo 73 del decreto-legge 25.06.2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 06.08.2008, n. 133, le amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, e successive modificazioni, entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede, possono sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati prima della data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008″.
L'articolo 73 del decreto legge aveva dettato nuove e più stringenti disposizioni in materia di part-time nel pubblico impiego, prevedendo, in particolare, il rigetto delle istanze in tutti i casi in cui la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale possa determinare, in relazione alle mansioni ed alla posizione organizzativa ricoperta dai singoli dipendenti, un pregiudizio alla funzionalità dell'Amministrazione. Si è trattato di una profonda innovazione in quanto la normativa precedente non consentiva il rifiuto della richiesta del part-time ma solo il differimento del suo inizio fino a sei mesi e ciò nei casi in cui la trasformazione del rapporto di lavoro avesse determinato un grave pregiudizio all'attività dell'ufficio.
L'articolo 16 della legge, di conversione consente ora alle pubbliche amministrazioni di riesaminare, alla luce dei più stringenti criteri previsti dal citato articolo 73, tutti i rapporti di lavoro trasformati in epoche precedenti all'entrata in vigore del decreto-legge 112/2008. Si tratta degli atti adottati prima del 25.06.2008. Tale facoltà deve essere esercitata entro centottanta giorni dall'entrata in vigore (24.11.2010) della citata legge 183/2010.
Il caso.
La vicenda presa in esame dal giudice di prime cure riguarda una funzionaria di un Tribunale di Trento, del Ministero della Giustizia, che era a part-time dal 2000; tale funzionaria aveva subito due provvedimenti, uno del Ministero del febbraio 2011 e uno del dirigente amministrativo del Tribunale di Trento del marzo 2011, con i quali era disposto la trasformazione del suo rapporto lavorativo a part-time con un nuovo orario a tempo pieno.
L’analisi del giudice.
Il giudice del Lavoro evidenzia, nella sentenza in commento, che dopo oltre 10 anni di prestazione lavorativa a tempo parziale, l’improvvisa trasformazione in lavoro a tempo pieno, avrebbe modificato irreparabilmente la vita privata della lavoratrice “arrecandole danni non riparabili per equivalente”; ecco perché ha ritenuto sussistente il primo requisito del ricorso presentato dalla dipendente pubblica.
Per quanto riguarda il fumus boni iuris, invero, il Tribunale non ha del tutto condiviso le doglianze della funzionaria sulla mancanza della “buona fede e correttezza” (principi previsti dall’art. 16 della legge 04.11.2010, n. 183) per non aver ricevuto preavviso della trasformazione e per non aver tenuto conto delle esigenze di vita, poiché agli atti risultava emessa una nota del 22.11.2011, del Dirigente amministrativo del Tribunale, in cui si chiedeva “a tutti i lavoratori part-time di esporre le situazioni personali che potessero giustificare il mantenimento di tale ridotto orario di lavoro”.
Sotto questo profilo, secondo il giudice di primo grado, dunque la “correttezza” non era stata lesa. Tuttavia l’aspetto molto importante della sentenza del giudice del Lavoro è quella dove viene precisato che l’articolo 16 della legge 04.11.2010, n. 183, nel consentire al datore di lavoro pubblico di trasformare unilateralmente il rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto a tempo pieno, anche contro la volontà del lavoratore, si ponga in insanabile contrasto con la direttiva europea (dir. 15.12.1997, n. 97/81/CE), in quanto una norma nazionale “sifatta discrimina il lavoratore a part-time, il quale, a differenza del lavoratore a tempo pieno, rimane soggetto al potere del datore di lavoro pubblico di modificare unilateralmente la durata della prestazione di lavoro; non contribuisce certo allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale su basi accettabili sia ai datori di lavoro che ai lavoratori, atteso che il lavoratore part-time sarebbe soggetto al rischio di vedersi trasformare il rapporto in lavoro a tempo pieno, anche contro la propria volontà, con evidente grave pregiudizio alle proprie esigenze personali e familiari.
La norma nazionale, infine, contrasta con quella parte della direttiva che impone la presenza del consenso del lavoratore in caso di trasformazione del rapporto
”.
Per il giudice del Lavoro, quindi, l’articolo 16 della legge 04.11.2010, n. 183, confliggendo con la direttiva 15.12.1997, n. 97/81/CE, deve essere disapplicato. Per tale motivo il giudice del Lavoro accoglie il ricorso della dipendente pubblica e annulla il provvedimento ministeriale e quello del dirigente amministrativo di revoca del part-time dove la stessa dipendente lavora.
Riflessi della sentenza.
Per il profilo che assume si tratta di una sentenza dirompente, che si pone come battistrada nella battaglia che molti lavoratori del pubblico impiego hanno intrapreso o stanno intraprendendo in difesa dei propri diritti. Nello specifico, dalla lettura della sentenza, si coglie come la norma “incriminata” si ponga in evidente contrasto con i contenuti della direttiva comunitaria n. 97/81 del 15.12.1997 concernente il lavoro a tempo parziale, rappresentando una rilevante condanna per il legislatore che l’ha approvato, probabilmente, con molta superficialità (commento tratto da www.ipsoa.it - TRIBUNALE di Trento, ordinanza 04.05.2011).

EDILIZIA PRIVATA: L'art. 13 L. 47/1985 deve essere interpretato nel senso che ai fini dell'accoglimento della sanatoria c.d. di conformità di opere edilizie abusive è sufficiente che esse risultino conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento in cui il Comune si pronuncia sulla istanza di sanatoria, non dovendosi richiedere, invece, la conformità rispetto alle norme vigenti al momento della realizzazione delle stesse: la contraria opzione, infatti, comporterebbe per l'interessato l'onere di procedere alla demolizione di opere che egli potrebbe ricostruire identicamente in un momento successivo, e che in tal modo provocherebbero anche una lesione all'interesse pubblico tutelato, compromesso dalla doppia attività edilizia di demolizione e ricostruzione.
Da tempo il Consiglio di Stato ha chiarito che l'art. 13 L. 47/1985 deve essere interpretato nel senso che ai fini dell'accoglimento della sanatoria c.d. di conformità di opere edilizie abusive è sufficiente che esse risultino conformi alla normativa urbanistica ed edilizia vigente al momento in cui il Comune si pronuncia sulla istanza di sanatoria, non dovendosi richiedere, invece, la conformità rispetto alle norme vigenti al momento della realizzazione delle stesse: la contraria opzione, infatti, comporterebbe per l'interessato l'onere di procedere alla demolizione di opere che egli potrebbe ricostruire identicamente in un momento successivo, e che in tal modo provocherebbero anche una lesione all'interesse pubblico tutelato, compromesso dalla doppia attività edilizia di demolizione e ricostruzione (tra le più recenti si veda la pronuncia del Consiglio di Stato, sez. VI n. 2835 del 07.05.2009).
Il Collegio non ritiene di doversi discostare da tale orientamento anche per la ragione che, laddove un'opera inizialmente abusiva diventi poi lecita in ragione della sopravvenuta approvazione di differenti norme urbanistiche ed edilizie, la sanzione della demolizione non assolve più al compito di ripristinare le condizioni necessarie per il corretto sviluppo urbanistico ed edilizio della città, ma assume un connotato meramente punitivo, che in realtà non le è proprio e che invece si deve ritenere assorbito dalla sanzione pecuniaria che l'interessato deve corrispondere prima di ottenere il rilascio della sanatoria.
Il diniego di sanatoria opposto dal Comune di Sammichele va dunque annullato per il dianzi esposto motivo, avente natura assorbente; ugualmente va annullata l'ordinanza di demolizione delle opere abusive, affetta da illegittimità derivata (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 28.04.2011 n. 647 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl ricorrente venuto a conoscenza, attraverso il sopralluogo cui era presente, dell’esistenza di un procedimento amministrativo nei suoi riguardi, non può lamentare la violazione delle garanzie di cui all’art. 7 l. 241/1990, avendo avuto in ogni modo notizia del procedimento stesso.
I provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituiscono atti vincolati, per i quali non è necessaria la comunicazione ex art. 7 legge 241/1990, soprattutto nel caso in cui l’Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso.
Risulta dagli atti del giudizio che sul terreno di proprietà del sig. ... fu eseguito, in presenza di quest’ultimo, un sopralluogo da parte della Polizia Locale in data 15.06.2008, durante il quale fu accertata la presenza di strutture abusive, senza che l’esponente fosse in grado di esibire titoli abilitativi (cfr. doc. 5 del resistente, copia del verbale di constatazione con annesse fotografie, sottoscritto dal sig. ...).
A fronte di tale sopralluogo, era trasmessa, a cura della medesima Polizia Locale, comunicazione di notizia di reato alla Procura della Repubblica di Monza (cfr. ancora il citato doc. 5).
Il ricorrente era pertanto venuto a conoscenza, attraverso il citato sopralluogo, dell’esistenza di un procedimento amministrativo nei suoi riguardi, sicché non può ora lamentare la violazione delle garanzie di cui all’art. 7 citato, avendo avuto in ogni modo notizia del procedimento stesso (sull’irrilevanza dell’omissione della comunicazione ex art. 7, qualora l’interessato sia venuto comunque a conoscenza del procedimento, con conseguente possibilità di interloquire con la Pubblica Amministrazione, si vedano: TAR Lombardia, Milano, sez. II, 26.01.2010, n. 175; TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 14.12.2010, n. 2908; TAR Umbria, sez. I, 05.07.2010, n. 400; TAR Basilicata, sez. I, 29.04.2010, n. 216).
Fermo restando quanto sopra esposto, deve altresì richiamarsi –ad abundantiam- il diffuso e dominante indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia costituiscono atti vincolati, per i quali non è necessaria la comunicazione ex art. 7 legge 241/1990, soprattutto nel caso in cui, come meglio sarà evidenziato in seguito, l’Amministrazione dimostri che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso (cfr. l’art. 21-ocites della legge 241/1990 e, in giurisprudenza: TAR Campania, Napoli, sez. III, 02.07.2010, n. 16548 e sez. IV, 10.12.2007, n. 15871; TAR Puglia, Lecce, sez. III, 09.12.2010, n. 2809; TAR Lazio, sez. II-quater, 06.12.2010, n. 35404)
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASono ravvisabili due tipi di lottizzazione abusiva (che peraltro possono coesistere): una materiale, configurabile allorché sono iniziate sul terreno opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia del medesimo in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici o comunque senza le prescritte autorizzazioni ed una cartolare o formale, quando la trasformazione è predisposta attraverso il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche particolari, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
Nel secondo ed articolato mezzo di gravame, è denunciata la violazione dell’art. 30, comma 1°, del DPR 380/2001 (Testo Unico dell’edilizia), ritenendo l’esponente l’insussistenza, nella presente fattispecie, dei presupposti della lottizzazione abusiva.
La trattazione della censura implica una serie di considerazioni –seppure per sommi capi– in ordine alla figura della lottizzazione abusiva di cui al citato art. 30.
Quest’ultima norma -che ricalca la pregressa previsione dell’art. 18 della legge 47/1985, oggi abrogato– è interpretata nel senso che sono ravvisabili due tipi di lottizzazione abusiva (che peraltro possono coesistere): una materiale, configurabile allorché sono iniziate sul terreno opere che comportino trasformazione urbanistica o edilizia del medesimo in violazione delle prescrizioni degli strumenti urbanistici o comunque senza le prescritte autorizzazioni ed una cartolare o formale, quando la trasformazione è predisposta attraverso il frazionamento e la vendita del terreno in lotti che, per le loro caratteristiche particolari, denuncino in modo non equivoco la destinazione a scopo edificatorio.
La finalità della norma menzionata è individuata, dalla giurisprudenza amministrativa, nella necessità di impedire e reprimere quelle condotte materiali o giuridiche volte ad incrementare l’edificazione sul territorio, senza che tale incremento sia accompagnato dalla doverosa pianificazione urbanistica, che tenga conto delle conseguenze dell’edificazione in termini di nuovi servizi o nuove opere di urbanizzazione.
Di conseguenza, aggiunge la citata giurisprudenza, la lottizzazione abusiva può essere realizzata da qualsiasi tipo di opere in grado di stravolgere l’assetto territoriale e tale conseguenza deve essere valutata tenendo conto delle opere complessivamente considerate e non del singolo e specifico intervento edilizio.
Da questo punto di vista, può esservi lottizzazione vietata dall’art. 30 del Testo Unico, anche qualora talune delle singole strutture siano state assentite da idoneo titolo edilizio (cfr., fra le più recenti, la condivisibile pronuncia di TAR Liguria, sez. I, 07.02.2011, n. 243, con la giurisprudenza ivi richiamata ed anche Consiglio di Stato, sez. IV, 03.08.2010, n. 5170 e 01.06.2010, n. 3475; TAR Campania, Salerno, sez. II, 16.04.2010, n. 3932, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 02.03.2010, n. 264; TAR Campania, Napoli, sez. II, 20.12.2010, n. 27691)
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’elemento della precarietà deve essere qualificato in senso funzionale, sicché non può reputarsi precaria l’opera, anche se amovibile, destinata ad un uso costante e prolungato nel tempo.
L’elemento della precarietà deve essere qualificato in senso funzionale, sicché non può reputarsi precaria l’opera, anche se amovibile, destinata ad un uso costante e prolungato nel tempo (cfr., fra le tante, TAR Puglia, Lecce, sez. III, 8.3.2010, n. 688 e TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 30.3.2009, n. 720)
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAOstano alla riconduzione all’attività agricola vari elementi, fra cui la oggettiva limitatezza delle superfici dei lotti, la mancata prova in capo a molti dei proprietari della qualifica di imprenditore agricolo, oltre le caratteristiche delle opere realizzate (in genere: recinzioni, baracche, casette, tettoie, piccoli box per ricovero animali), le quali dimostrano, semmai, che la effettiva destinazione dei lotti fosse o quella della custodia dei beni più disparati, fra cui anche gli animali, oppure quella dello svago o dello svolgimento di analoghe attività di tipo “hobby” o similari.
Ostano alla riconduzione all’attività agricola vari elementi, fra cui la oggettiva limitatezza delle superfici dei lotti, la mancata prova in capo a molti dei proprietari della qualifica di imprenditore agricolo, oltre le caratteristiche delle opere realizzate (in genere: recinzioni, baracche, casette, tettoie, piccoli box per ricovero animali), le quali dimostrano, semmai, che la effettiva destinazione dei lotti fosse o quella della custodia dei beni più disparati, fra cui anche gli animali, oppure quella dello svago o dello svolgimento di analoghe attività di tipo “hobby” o similari
(TAR Lombardia-MIlano, Sez. II, sentenza 27.04.2011 n. 1066 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' legittimo il diniego a sanare l'abuso edilizio ove le dimensioni non contenute delle tettoie e la copertura realizzata in eternit, e comunque da eliminare, ledono gli interessi paesaggistico-ambientali, concretando quel “disordine edilizio, sottolineato dalla casualità dell'intervento” operato su un'area che “dovrebbe rimanere libera da costruzioni”.
Con il secondo motivo, concernente le due tettoie realizzate senza titolo sulle pp.ff. 2287 e 2286/5, il ricorrente lamenta che la Commissione comprensoriale si è espressa negativamente con motivazione consistente nella riproposizione della formula di stile del contrasto “con rilevanti interessi paesaggistico-ambientali”, violati dal “disordine edilizio”.
In realtà, si tratterebbe di due tettoie adibite, una a totale ed esclusivo deposito di legna da ardere e l’altra a parziale ricovero del materiale costruttivo residuo e a deposito legname. Inoltre, le tettoie in esame sarebbero posizionate su un terreno retrostante la casa di abitazione e quindi prive di alcun impatto visivo.
Agli esposti rilievi può replicarsi che il ricorrente, in realtà, pretende di sostituire le proprie valutazioni a quelle operate dal competente organo comprensoriale, che ha ritenuto come l'opera realizzata pregiudichi senz’altro gli interessi tutelati dalla normativa provinciale.
Nella specie, la Commissione tutela del paesaggio ha preso in considerazione tutti gli aspetti, che concorrono a determinare una valutazione esaustiva in materia paesaggistico-ambientale, come si evince dalla puntuale motivazione.
Nella stessa è stato precisato che le dimensioni non contenute delle tettoie e la copertura realizzata in eternit e comunque da eliminare, ledono gli interessi paesaggistico-ambientali, concretando quel “disordine edilizio, sottolineato dalla casualità dell'intervento” operato su un'area che “dovrebbe rimanere libera da costruzioni”.
Invero, si tratta di una valutazione che trova base e ragione nelle indicate circostanze di fatto, rispetto alle quali alcuna contraddizione traspare: il che consente di affermare che si tratta di valutazione che appare ragionevole e congrua, ispirata palesemente all’esigenza di salvaguardare la fisionomia della zona in questione.
Del resto, pure i prospettati vizi di travisamento dei fatti risultano del pari inesistenti, non solo per quanto valutato dalla Commissione nel sopra riportato parere, ma anche alla luce della documentazione fotografica in atti, da cui si evidenzia che il precario assetto dei manufatti in parola appare prevalentemente frutto del riutilizzo di materiali di recupero non consoni alla tradizione costruttiva locale (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 21.04.2011 n. 121 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAPuò integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards.
La verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire.
Secondo quanto già più volte affermato in ambito giurisprudenziale (cfr. TAR Lazio, I, 09.10.2009, nn. 9859 e 9860; TAR Puglia-Bari, III, 24.04.2008, n. 1017), la stessa formulazione dell'art. 30 del D.P.R. n. 380/01 consente di affermare che può integrare un'ipotesi di lottizzazione abusiva qualsiasi tipo di opere in concreto idonee a stravolgere l'assetto del territorio preesistente, a realizzare un nuovo insediamento abitativo e, quindi, in ultima analisi, a determinare sia un concreto ostacolo alla futura attività di programmazione (che viene posta di fronte al fatto compiuto), sia un carico urbanistico che necessita di adeguamento degli standards.
Il concetto di "opere che comportino trasformazione urbanistica od edilizia" dei terreni deve essere dunque interpretato in maniera "funzionale" alla ratio della norma, il cui bene giuridico tutelato è costituito dalla necessità di preservare la potestà pianificatoria attribuita all'amministrazione nonché l'effettivo controllo del territorio da parte del soggetto titolare della stessa funzione di pianificazione (cioè il Comune), al fine di garantire una ordinata pianificazione urbanistica, un corretto uso del territorio ed uno sviluppo degli insediamenti abitativi e dei correlativi standards compatibili con le esigenze di finanza pubblica.
Da quanto detto consegue che la verifica circa la conformità della trasformazione realizzata e la sua rispondenza o meno alle previsioni delle norme urbanistiche vigenti deve essere effettuata con riferimento non già alle singole opere in cui si è compendiata la lottizzazione, eventualmente anche regolarmente assentite (giacché tale difformità è specificamente sanzionata dagli artt. 31 e ss. D.P.R. n. 380/2001), bensì alla complessiva trasformazione edilizia che di quelle opere costituisce il frutto, sicché essa ben può mancare anche nei casi in cui per le singole opere facenti parte della lottizzazione sia stato rilasciato il permesso di costruire (così TAR Bari, III, n. 1017/2008 cit.) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 19.04.2011 n. 619 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione di opere edilizie abusive.
In materia di abusi edilizi, l’ordine di demolizione deve essere rivolto nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che l’abbia concretamente realizzata, cosa che potrebbe rilevare sotto il profilo della responsabilità penale, ma non ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione.
La demolizione degli abusi edilizi non richiede alcuna specifica motivazione, che è necessaria invece in casi di contrarie determinazioni. L'ordine di demolizione di una opera edilizia abusiva è quindi sufficientemente motivato con l’affermazione della accertata abusività dell'opera stessa.
Secondo un orientamento giurisprudenziale, solo nel caso in cui, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso e per il protrarsi della inerzia dell'Amministrazione preposta alla vigilanza, si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, si ravvisa un onere di congrua motivazione dell’ordine di demolizione dell’opera abusiva che, avuto riguardo anche alla entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello al ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato (1).
Dall'art. 14 della legge n. 47 del 1985 (il quale prevede, per le opere abusive eseguite su suoli del demanio o del patrimonio dello Stato o di enti pubblici, che il Sindaco ordini la demolizione, dandone comunicazione all'ente proprietario del suolo) risulta con chiarezza che la comunicazione all'ente proprietario del suolo abbia una mera funzione conoscitiva, per rendere edotto l'ente delle vicende relative al bene di cui esso ente è proprietario. In alcun modo si può ritenere che tale comunicazione sia un requisito di legittimità dell'ordine di demolizione.
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(1) V. tra le tante Cons. Stato, sez. IV, 06.06.2008, n. 2705; id., Sez. V, 29.05.2006 (sull’illegittimità dell’ordinanza di demolizione senza motivazione sull’interesse pubblico nel caso di opere abusive realizzate da molto tempo e senza accertamento della fattibilità della demolizione senza pregiudizio della parte conforme dell’immobile); TAR Lazio-Roma Sez. I-quater, sentenza 26.01.2005 (sulla necessità di motivazione sul pubblico interesse nel caso di ordinanza di demolizione adottata a distanza di molto tempo dalla realizzazione dell’abuso edilizio); TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 20.04.2005 (sui casi in cui è necessaria una motivazione sull’interesse pubblico per i provvedimenti repressivi di abusi edilizi).
V. tuttavia in senso contrario TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2007 (sulla legittimità di un ordine di demolizione di un manufatto abusivo emesso a distanza di un lunghissimo lasso di tempo dalla realizzazione, senza una motivazione in ordine all’interesse pubblico alla rimozione)
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.04.2011 n. 2266 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI: Illegittimità di un’ordinanza contingibile ed urgente, con la quale si ingiunge ad una ditta di provvedere per un anno alla prosecuzione del servizio di igiene urbana, nella parte in cui impone le condizioni economiche del contratto di appalto scaduto.
E’ illegittima una ordinanza sindacale contingibile e urgente con la quale è stato ingiunto ad una ditta di provvedere, per circa un anno, alla prosecuzione della gestione del servizio di igiene urbana, nella parte in cui impone alla ditta stessa di proseguire il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti alle stesse condizioni economiche previste dal contratto di appalto scaduto; tale ordinanza, infatti, incide negativamente, al fuori da ogni criterio di sinallagmaticità e senza adeguati apprezzamenti istruttori, sulla sfera economica della ditta interessata (V. in arg. da ult., in senso analogo, Cons. Stato, Sez. V, sentenza 31.03.2011 n. 1969 (Nella motivazione della sentenza in rassegna si richiamano a conforto TAR Lazio-Roma, sez. II, sent. 06.10.2001, n. 8173, confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza n. 6624/2002, nonché TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza n. 4316/2010) (massima tratta da www.regione.piemonte.it - TAR Sicilia-Catania, Sez. III, sentenza 07.04.2011 n. 859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Risarcimento dei danni richiesto da un pedone che ha subito una caduta al suolo per la presenza di una rampa per il superamento di barriere architettoniche posta al termine di un marciapiede.
Non può essere accolta la domanda di risarcimento proposta da un pedone nei confronti della P.A. per i danni subiti in occasione di un caduta al suolo causata da una rampa per il superamento di barriere architettoniche poste al termine di un marciapiede, nel caso in cui:
a) difetti una situazione di pericolo occulto;
b) la pendenza della rampa, ancorché superiore all’8%, non sia tale da determinare una situazione di pericolo;
c) sussistano concrete condizioni di visibilità;
d) il materiale di rivestimento della rampa non sia scivoloso e sia caratterizzato da bocciardatura (per tale intendendosi il tipo di lavorazione superficiale degli elementi lapidei che crea una superficie corrugata, usata notoriamente per pavimentazioni esterne grazie anche alle caratteristiche antiscivolo di tale tipo di finitura); in tal caso, infatti, deve ritenersi che l’irregolarità della superficie calpestabile non sia idonea ad assumere le caratteristiche dell’imprevedibilità e invisibilità (1) proprie dell’insidia stradale.
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(1) Cass. n. 11592/2010, Cass. n. 15884/2010.
Con la sentenza in rassegna, il Tribunale di Brindisi, Sezione Distaccata di Fasano, ha dato lealmente atto del fatto che, con riguardo al referente normativo di cui all’art. 2043 c.c., si fronteggiano due orientamenti:
I) l’orientamento tradizionale in materia di danni derivanti dall’utente di opere pubbliche, tra cui, per quel che interessa il caso in esame, le strade, è nel senso che la responsabilità della PA sorga solo in caso in cui il danno sia derivato da una situazione di pericolo che presenta il carattere dell’insidiosità, intesa come situazione di pericolo imprevedibile, invisibile ed inevitabile. L’onere di provare l’insidia è stato tradizionalmente posto a carico del danneggiato (cfr. Cass. 9915/1998, Cass. 9599/1998, Cass. 6807/2002, Cass. 15224/2005 e Cass. 25140/2006);
II) nel senso che invece l’insidia sia fuori dallo schema dell’illecito aquiliano e che non debba essere provata dal danneggiato si pone invece un orientamento minoritario difforme espresso in Cass. n. 5445/2006, peraltro contraddetto dalla successiva pronuncia n. 25140/2006.
Il Tribunale ha finito con l’aderire all’orientamento tradizionale secondo cui in caso di danni derivanti dall’uso di beni del demanio stradale la responsabilità della P.A. vada affermata nel caso in cui gli stessi si siano prodotti in conseguenza di una situazione di pericolo occulto, e cioè a seguito di insidia, che il danneggiato dovrà provare, non superabile con l’ordinaria diligenza e prudenza esigibili in capo ad un utente medio
(massima tratta da www.regione.piemonte.it - TRIBUNALE di Brindisi, Sez. distaccata di Fasano, sentenza 07.04.2011 n. 38).

EDILIZIA PRIVATAOve un titolo edilizio sia stato ottenuto sulla base di una non fedele rappresentazione della realtà dei luoghi negli elaborati progettuali prodotti a corredo dell'istanza di rilascio del titolo e tale circostanza sia puntualmente e correttamente evidenziata, l'amministrazione può procedere all'annullamento d'ufficio senza esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse e senza tenere conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato, non potendo quest'ultimo fondare alcun legittimo affidamento in ordine alla persistenza di un titolo ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'ente pubblico.
Per una consolidata giurisprudenza, ove un titolo edilizio sia stato ottenuto sulla base di una non fedele rappresentazione della realtà dei luoghi negli elaborati progettuali prodotti a corredo dell'istanza di rilascio del titolo e tale circostanza sia puntualmente e correttamente evidenziata, l'amministrazione può procedere all'annullamento d'ufficio senza esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse e senza tenere conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato, non potendo quest'ultimo fondare alcun legittimo affidamento in ordine alla persistenza di un titolo ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'ente pubblico (Cons. di St., V, 29.09.1999, n. 1213; TAR Calabria, II, 05.02.2008, n. 140; TAR Lombardia-Brescia, 20.11.2002, n. 1881; TAR Abruzzo, 09.06.2001, n. 397) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 02.04.2011 n. 534 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATALa nozione di “area boscata” va riferita non soltanto ai terreni completamente coperti da boschi o foreste, ma, per identità di ratio, anche a tutte le aree che siano concretamente inserite in un contesto forestale.
Secondo la costante giurisprudenza amministrativa, la nozione di “area boscata” va riferita non soltanto ai terreni completamente coperti da boschi o foreste, ma, per identità di ratio, anche a tutte le aree che siano concretamente inserite in un contesto forestale (TAR Piemonte Torino, sez. I, 30.10.2008, n. 2723; TAR Piemonte Torino, sez. I, 10.03.2007, n. 1174) (TAR Umbria, sentenza 31.03.2011 n. 99 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl potere di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche attribuito al Mi.B.A.C. dall’art. 159 del codice dei beni culturali si estrinseca in un controllo di legittimità sull’operato dell’Amministrazione delegata (o subdelegata) autorizzante, che si estende a tutti i vizi di legittimità, incluso l’eccesso di potere.
Il potere di annullamento in sede statale dell’autorizzazione paesaggistica non comporta il riesame delle valutazioni discrezionali compiute dall’Amministrazione comunale, ma si esprime in un controllo di mera legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere per difetto di motivazione o di istruttoria.
Nell’emettere l’autorizzazione paesaggistica l’Amministrazione locale deve motivare adeguatamente in ordine alla compatibilità dell’opera assentita con il vincolo paesaggistico, sussistendo altrimenti l’illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria.
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La relazione paesaggistica di cui al d.P.C.M. 12.12.2005 costituisce documento necessario per la verifica della compatibilità paesaggistica dell’intervento proposto, o, per meglio dire, «la base di riferimento essenziale per le valutazioni previste dall’art. 146, comma 5, del codice» dei beni culturali (così art. 2 del d.P.C.M. da ultimo indicato).
La sua assenza risulta preclusiva al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche del controllo ministeriale di legittimità, con la conseguenza della imprescindibilità della sua acquisizione, senza che ciò determini elusione del termine perentorio.

Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, il potere di annullamento delle autorizzazioni paesaggistiche attribuito al Mi.B.A.C. dall’art. 159 del codice dei beni culturali si estrinseca in un controllo di legittimità sull’operato dell’Amministrazione delegata (o subdelegata) autorizzante, che si estende a tutti i vizi di legittimità, incluso l’eccesso di potere (per tutte Cons. Stato, Ad. Plen., 14.12.2001, n. 9).
Costituisce dato ormai consolidato quello per cui il potere di annullamento in sede statale dell’autorizzazione paesaggistica non comporta il riesame delle valutazioni discrezionali compiute dall’Amministrazione comunale, ma si esprime in un controllo di mera legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all’eccesso di potere per difetto di motivazione o di istruttoria (in termini Cons. Stato, Sez. VI, 09.06.2009, n. 3557).
Occorre peraltro considerare che nell’emettere l’autorizzazione paesaggistica l’Amministrazione locale deve motivare adeguatamente in ordine alla compatibilità dell’opera assentita con il vincolo paesaggistico, sussistendo altrimenti l’illegittimità, come nel caso in esame, per carenza di motivazione o di istruttoria; conseguentemente, l’Autorità statale, ove ravvisi un tale vizio nell’atto oggetto del suo controllo, nel proprio provvedimento, onde evitare di incorrere, a sua volta, in un vizio di legittimità, è tenuta a motivare sulla non compatibilità dell’intervento edilizio programmato rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo (così Cons. Stato, Sez. VI, 13.02.2009, n. 772; Sez. VI, 09.03.2011, n. 1483).
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La relazione paesaggistica di cui al d.P.C.M. 12.12.2005 costituisce documento necessario per la verifica della compatibilità paesaggistica dell’intervento proposto, o, per meglio dire, «la base di riferimento essenziale per le valutazioni previste dall’art. 146, comma 5, del codice» dei beni culturali (così art. 2 del d.P.C.M. da ultimo indicato).
La sua assenza risultava dunque preclusiva al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, ma anche del controllo ministeriale di legittimità, con la conseguenza della imprescindibilità della sua acquisizione, senza che ciò determini elusione del termine perentorio.
D’altronde, la stessa società ricorrente riconosce che l’autorizzazione, in assenza di tale documentazione, impropriamente definita integrativa, avrebbe potuto/dovuto essere annullata (per difetto di istruttoria); si intende peraltro che la Soprintendenza solamente a posteriori, e cioè a seguito della mancata ottemperanza alla propria richiesta istruttoria, ha avuto contezza dell’assenza di un documento necessario (e non, dunque, ulteriore rispetto a quelli posti alla base dell’autorizzazione), sì che l’annullamento, anche sotto questo profilo, non può considerarsi illegittimo.
Il provvedimento annulla l’autorizzazione paesaggistica ritenendola illegittima per violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in quanto, in mancanza delle necessarie valutazioni tecnico-giuridiche giustificative dell’emanazione del parere favorevole dell’intervento (ed in particolare in assenza della relazione paesaggistica), ha affermato, in modo apodittico, che l’esecuzione del lavoro progettato è inidonea ad alterare la zona protetta.
Si desume, ancora, dal corredo motivazionale del provvedimento di annullamento che il suindicato profilo di illegittimità non è stato superato neppure dalla presentazione ex post della relazione paesaggistica, che «non permette di valutare compiutamente l’interazione dei manufatti con l’intorno tutelato e il rapporto che intercorre tra gli elementi progettati ed il contesto paesaggistico anche con riferimento alla intervisibilità dell’impianto e delle zone tutelate».
In altri termini, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica è stato disposto in quanto il difetto di motivazione e di istruttoria rilevati non sono stati superati neppure dall’acquisizione postuma della relazione paesaggistica del novembre 2008.
Il descritto impianto motivazionale del provvedimento di annullamento non risulta dunque affetto da un’intrinseca contraddittorietà, che si ha solamente in presenza di manifestazioni di volontà che si pongono in contrasto tra loro (Cons. Stato, Sez. V, 31.12.2007, n. 6800; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 04.02.2010, n. 566)
(TAR Umbria, sentenza 28.03.2011 n. 93 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Antisindacali le clausole di stile nell’atto di nomina di posizioni organizzative.
Il Giudice del Lavoro di Verbania torna a pronunciarsi in materia di condotta antisindacale e lo fa con un Decreto che fornisce ulteriori spunti di riflessione.
Dopo avere premesso che l’art. 28 della L. 300/1970 non vincola al rispetto di particolari forme e, conseguentemente, una notifica seppure tardiva rispetto al termine indicato dal Giudice ma che salvaguardi il diritto di difesa della parte convenuta non inficia la legittimazione del ricorrente in udienza, taccia di condotta antisindacale il mancato rispetto di criteri individuati in sede di concertazione.
Pur avendo premesso che, nel corso degli incontri, non di vera concertazione si sia trattato atteso essere rimasti inespressi i criteri generali relativi alla specifica materia in cui si sostanzia l’istituto, la vera forza innovativa del Decreto sta nel fatto di considerare antisindacale non solo la mancata fase concertativa, ma anche l’assoluta assenza di motivazione negli atti di conferimento.
Il Giudicante ha infatti ritenuto che le clausole apposte quali motivazioni per l’affidamento di ogni singolo incarico fossero del tutto prive di significato concreto, palesandosi in mere clausole di stile senza una preventiva e attenta valutazione che invece avrebbe dovuto seguire ogni singolo conferimento.
A ben vedere, essendo la norma di cui all’art. 28 lasciata volutamente indeterminata dal Legislatore onde ricomprendervi non solo i casi di violazione di norme sulle relazioni sindacali, ma anche ogni comportamento atto a screditare l’immagine del sindacato, la pronunzia del Giudice deve essere accolta con particolare favore: diversamente, infatti, se esaurita la fase della concertazione quando concordemente determinato fosse del tutto disatteso, sarebbe immotivatamente colpita proprio l’immagine del sindacato.
Ipotesi che la norma ha voluto invece evitare
(TRIBUNALE di Verbania, decreto 18.02.2011 - commento tratto e link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAIl contributo di costruzione è il corrispettivo del diritto di costruire e quando il diritto di costruire non è esercitato viene meno il titolo in forza del quale il Comune ha incassato il contributo di costruzione. Questo principio vale anche quando il titolo edilizio è stato utilizzato soltanto in parte, nel qual caso esso viene meno pro quota.
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Nel caso di restituzione del contributo di concessione, quando il diritto a costruire non è esercitato (in tutto o in parte), gli interessi legali devono essere riconosciuti, con decorrenza dal momento in cui il credito è liquido ed esigibile.
Il contributo di costruzione è il corrispettivo del diritto di costruire e quando il diritto di costruire non è esercitato viene meno il titolo in forza del quale il Comune ha incassato il contributo di costruzione.
Questo principio vale anche quando il titolo edilizio è stato utilizzato soltanto in parte, nel qual caso esso viene meno pro quota (Tar Lombardia, Milano, sez. II, sentenza n. 728 del 24/03/2010: il diritto alla restituzione sorge non solamente nel caso in cui la mancata realizzazione delle opere sia totale, ma anche ove il permesso di costruire sia stato utilizzato soltanto parzialmente, tenuto conto che sia la quota degli oneri di urbanizzazione che la quota relativa al costo di costruzione sono correlati, sia pure sotto profili differenti, all'oggetto della costruzione. L'avvalimento solo parziale delle facoltà edificatorie consentite da un permesso di costruire comporta dunque il sorgere, in capo al titolare, del diritto alla rideterminazione del contributo ed alla restituzione della quota di esso che è stata calcolata con riferimento alla porzione non realizzata).
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Gli interessi legali devono essere riconosciuti. Si versa, infatti, in presenza di interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.), che sono fondati sulla naturale fecondità del denaro, e che prescindono pertanto da profili di colpa, che rileverebbero in presenza di interessi con funzione risarcitoria quali quelli moratori (art. 1224 c.c.).
Quanto alla loro decorrenza, la norma generale dell’art. 1282 c.c. prevede che gli interessi decorrano dal momento in cui il credito è liquido ed esigibile. In base alla teoria generale, credito esigibile è quello che non è sottoposto a condizione sospensiva o termine in favore del debitore; credito liquido è quello il cui ammontare è certo o accertabile mediante operazioni di mero conteggio aritmetico.
Nel caso in esame, posto che non vi possono essere questioni sulla esigibilità del credito, non ve ne sono neanche sulla liquidità dello stesso, in quanto la determinazione del credito degli oneri di urbanizzazione è frutto di un mero calcolo aritmetico fondato sull’applicazione dei criteri predeterminati previsti dalla legge. Ne consegue che il credito in esame era liquido fin dalla data in cui è sorto.
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E’ vero che il credito di restituzione del contributo di costruzione pagato in misura maggiorata non è un credito di valore, ma un credito di valuta in cui la rivalutazione è possibile soltanto se si prova il maggior danno ex art. 1224 co. 2 c.c., qui del tutto pretermesso dall’esposizione dei ricorrenti.
Ma è anche vero che Cass. civ., sezioni unite, sentenza 18.07.2008 n. 19499, ha sostenuto che nelle obbligazioni pecuniarie, in difetto di discipline particolari dettate da norme speciali, il maggior danno di cui all'art. 1224 c.c., comma 2, rispetto a quello già coperto dagli interessi moratori è, in via generale, riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell'art. 1284 c.c., comma 1, salva la possibilità per il debitore di provare che il creditore non ha subito un maggior danno o che lo ha subito in misura inferiore e per il creditore di provare il maggior danno effettivamente subito.
Nel caso in esame, in cui nessuna delle parti in causa si è preoccupata di provare alcunché sulla esistenza o meno di un maggior danno va applicato pertanto il criterio presuntivo appena citato.
Per escludere la rivalutazione automatica non è sufficiente affermare (come aveva fatto in passato Tar Marche 296/2004) che si tratterebbe di indebito oggettivo, ai sensi dell'art. 2033 c.c., in quanto anche l’indebito oggettivo non è altro che “una obbligazione pecuniaria di fonte legale (art. 2033 c.c.) assoggettata alla disciplina propria di tali obbligazioni, in particolare alla disposizione dell'art. 1224 c.c. in tema di interessi moratori e risarcimento del maggior danno per il ritardo nell'adempimento” (Cass. civ, sez. lav., 4833/2009).
Dalle somme dovute a titolo di rivalutazione monetaria va defalcata la somma percepita a titolo di interessi legali, in quanto –non trattandosi di credito di lavoro– non è consentito il cumulo tra interessi e rivalutazione
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 31.01.2011 n. 188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Giustizia amministrativa - Ricorso giurisdizionale - Interesse a ricorrere - Progettista - interesse legittimo differenziato - Non sussiste - Intervento ad adiuvandum - Possibilità.
E' esclusa in capo al progettista la titolarità di un interesse legittimo differenziato che gli consenta l'impugnazione di provvedimenti relativi ad interventi edilizi, potendo semmai il progettista stesso proporre intervento "ad adiuvandum" nel giudizio promosso dal committente proprietario (cfr. TAR Toscana, sent. n. 986/2009; TAR Liguria, sent. n. 251/2006; TAR Piemonte, sent. n. 924/2003 e Cons. di Stato, sent. n. 1250/2001) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2011 n. 265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione in sanatoria - Silenzio-assenso - Perfezionamento - Presupposti.
Ai sensi del combinato disposto dell'art. 32, comma 37, D.L. 269/2003 e dell'art. 4, comma 4, L.R. 31/2004, per la formazione del silenzio assenso ai fini del condono del 2003 risultano necessari sia la presentazione della relativa documentazione completa sia il versamento integrale -e non solo in acconto- degli oneri di urbanizzazione (cfr. TAR Milano, sent. n. 1550/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2011 n. 263 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Giudizio di compatibilità paesaggistica - Natura - E' espressione di potere tecnico-discrezionale - Sindacabilità in sede di legittimità - Limiti.
La valutazione di compatibilità paesaggistica di un progetto rappresenta manifestazione della discrezionalità della P.A., la quale è censurabile solo in caso di valutazioni manifestamente illogiche o irrazionali (cfr. TAR Milano, sent. n. 3265/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2011 n. 262 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Opere abusive - Lieve entità dell'abuso - In caso di interventi di manutenzione straordinaria e lungo trascorso del tempo - Ordinanza di demolizione - Illegittimità.
2. Opere abusive - In caso di annullamento di ordinanza di demolizione illegittima - Possibilità di irrogazione di altre sanzioni - Sussiste.

1. A fronte di un lungo tempo trascorso dall'effettuazione di un abusivo intervento di manutenzione straordinaria, è illegittimo il relativo ordine di demolizione qualora la P.A. non abbia adeguatamente provato le ragioni di interesse pubblico che impongono, a distanza di tempo, la rimozione di un abuso considerabile di lieve entità -nel caso di specie, realizzazione di vano con servizi igienici- (cfr. TAR Toscana, sent. n. 6644/2010).
2. L'annullamento del provvedimento di demolizione non preclude al Comune l'irrogazione di altre e meno afflittive sanzioni né la valutazione sull'eventuale corresponsione del contributo di costruzione o degli oneri di urbanizzazione a fronte dell'intervento effettuato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2011 n. 261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia e ristrutturazione con ampliamento - Differenze - Art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E. e art. 10, comma 1, lett. c), T.U.E.
Nel caso di abusi edilizi realizzati con ampliamento della costruzione originaria non è esclusa ipso facto la ricorrenza di una ristrutturazione: infatti, il concetto di ristrutturazione edilizia postula la conservazione di sagoma e volumi dell'edificio originario solo nella fattispecie della demolizione e ricostruzione ex art. 3, comma 1, lett. d), T.U.E.; mentre la ristrutturazione con ampliamento (senza previa demolizione) è espressamente prevista dall'art. 10, primo comma, lett. c), T.U.E., il quale subordina a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche di volume, sagoma, prospetti o superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 28.01.2011 n. 260 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano di lottizzazione in variante - Pluralità di pubblicazioni imposte dalla legge - Impugnazione - Termine - Decorre dalla scadenza del termine dell'ultima pubblicazione.
Dal momento che per la deliberazione di approvazione di un Piano di lottizzazione in variante al PRG sono previste dalla legge una pluralità di forme di pubblicazione -non solo all'albo pretorio del Comune, ma anche sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia, stante il combinato disposto della legge regionale 23/1997 e degli articoli 25, 14 comma 5 e 13, comma 11, L.R. 12/2005- il termine di sessanta giorni per l'impugnazione decorre dalla scadenza dell'ultima pubblicazione, vale a dire quella sul BURL, come desumibile dall'art. 41, comma 2, D.Lgs. 104/2010, codice del processo amministrativo (cfr. TAR Milano, sent. n. 187/2010 e n. 2660/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.01.2011 n. 230 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Piano attuativo prescritto dallo strumento urbanistico generale - Principio di indefettibilità del piano attuativo - Possibilità di equipollenti del piano ai fini del rilascio della concessione edilizia - Non sussiste.
2. Piano attuativo prescritto dallo strumento urbanistico generale - Principio di indefettibilità del piano attuativo - Eccezione - Lotto intercluso.
3. Piano attuativo prescritto dallo strumento urbanistico generale - Principio di indefettibilità del piano attuativo - Portata.

1. Ai sensi dell'art. 9, comma 2, D.P.R. n. 380/2001, il principio dell'indefettibilità del piano attuativo, quando esso sia prescritto dallo strumento urbanistico generale, non ammette equipollenti ai fini del rilascio della concessione edilizia, nel senso che né in sede amministrativa né in sede giurisdizionale possono essere effettuate indagini volte a verificare se sia tecnicamente possibile realizzare costruzioni vanificando la funzione del piano attuativo, la cui approvazione può essere stimolata dall'interessato con gli strumenti consentiti dal sistema (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6625/2008).
2. Al principio di indefettibilità del piano attuativo, che vale sia per le zone non urbanizzate sia per quelle parzialmente urbanizzate, fa eccezione il solo caso limite del c.d. lotto intercluso, per il quale il piano attuativo non occorre laddove la zona sia già compiutamente urbanizzata, fattispecie che si verifica qualora siano presenti sia le urbanizzazioni primarie, sia le secondarie e non nelle sole aree di contorno dell'edificio in progetto, ma in tutto l'ambito territoriale di riferimento, che coincide col perimetro del comprensorio che deve essere pianificato dagli strumenti attuativi (cfr. Cons. Stato sent. n. 6625/2008, sent. n. 7799/2003).
3. Al di fuori dell'ipotesi di lotto intercluso -in cui, più che superfluo, sarebbe addirittura privo di oggetto- il piano attuativo conserva integra la propria utilità funzionale, sia in casi di edificazione disomogenea in zone già compromesse da fenomeni di urbanizzazione spontanea e incontrollata che richiedano un riordino generale, sia, a maggior ragione, in zona ancora "vergine", che richieda un disegno urbanistico efficiente e razionale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5721/2001; sent. n. 2874/2000) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.01.2011 n. 228 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D.I.A. - Sindacato giurisdizionale - Sindacato per l'accertamento dell'illegittimità della D.I.A. - E' legittimo - Sindacato per l'annullamento del titolo abilitativo formatosi sulla D.I.A. - E' legittimo.
E' legittimo un sindacato giurisdizionale diretto sulla D.I.A., sia qualora esso risulti finalizzato ad accertarne l'illegittimità (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2139/2010) sia qualora esso risulti volto ad annullare il titolo abilitativo tacito o implicito formatosi su di essa (Cons. Stato, sent. n. 72/2010, sent. n. 1409/2007) - il Collegio ha peraltro evidenziato che nella fattispecie de qua tale problematica non avesse comunque ragione di porsi avendo il ricorrente contestualmente impugnato l'atto amministrativo che attestava la legittimità della DIA (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 26.01.2011 n. 227 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIProcedimento amministrativo - Istanza di accesso agli atti - Caratteri - Oggetto determinato o determinabile - Specifica indicazione di atti o documenti - Necessità - Sussiste.
Atteso che l'istituto dell'accesso agli atti e documenti amministrativi non può tradursi in un surrettizio strumento di controllo generalizzato dell'operato dell'Amministrazione, né assumere il carattere di un'indagine o di un controllo ispettivo (riservato esclusivamente ai preposti organi pubblici), l'istanza di accesso presentata dal privato deve avere un oggetto determinato o quanto meno determinabile e, pertanto, deve riferirsi a specifici documenti, senza che si renda necessaria un'attività di elaborazione dei dati da parte del soggetto destinatario della richiesta (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.01.2011 n. 226 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIGiunta comunale - Revoca di un Assessore comunale - Valutazioni di opportunità politica - Legittimità - Obbligo di specificare i comportamenti addebitati - Non Sussiste.
L'atto di revoca dell'incarico di Assessore comunale può sorreggersi sulle più ampie valutazioni di opportunità politico-amministrativa rimesse in via esclusiva al Sindaco (ad esempio la salvaguardia del proficuo rapporto tra la Giunta e il Consiglio comunale), il quale può valorizzare sia esigenze di carattere generale, sia l'affievolirsi del rapporto fiduciario con l'Assessore, senza che occorra specificare i singoli comportamenti addebitati all'interessato (cfr. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 20.12.2010, n. 7599, TAR Lombardia, Brescia, sez. II, 28.10.2010, n. 4466, Cons. Stato, sez. V, 27.04.2010, n. 2357) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.01.2011 n. 224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Convenzione di lottizzazione - Natura - Accordo sostitutivo del provvedimento - Possibilità della P.A. di sciogliersi dall'accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse e di regolare unilateralmente rapporti ed attività oggetto della convenzione - Sussiste.
Dal momento che la convenzione di lottizzazione ha natura di accordo sostitutivo del provvedimento, ciò autorizza la P.A., nell'esercizio della facoltà accordatale dall'art. 11, comma 4, Legge 241/1990, a sciogliersi dall'accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse e di regolare unilateralmente ed autoritativamente i rapporti e le attività oggetto della convenzione (cfr. TAR Milano, sent. n. 6519/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.01.2011 n. 104 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  Procedura di verifica dell'offerta anomala - Richiesta di giustificazioni e convocazione dell'offerente - Necessità del preavviso di tre giorni prima della convocazione - Principio di effettività del contraddittorio - Necessità del coinvolgimento del concorrente alla verifica delle dinamiche procedimentali.
Il procedimento di verifica dell'anomalia trova compiuta disciplina nell'art. 88 del D.Lgs. n. 163/2006 che, al comma 1, prescrive che la Stazione appaltante, in relazione agli aspetti criticamente rilevati, procede con richiesta di giustificazioni scritte, reiterando la richiesta, ai sensi del successivo comma 1-bis "ove non le ritenga sufficienti ad escludere l'incongruità dell'offerta".
In ogni caso, ai sensi del comma 4 della medesima norma, "prima di escludere l'offerta ritenuta eccessivamente bassa, la stazione appaltante convoca l'offerente con anticipo non inferiore a tre giorni lavorativi e lo invita a indicare ogni elemento che ritenga utile". Nella fattispecie concreta la descritta scansione procedimentale non trova riscontro nell'operato della stazione appaltante, che ha assunto a presupposto del provvedimento di revoca profili del tutto estranei al contraddittorio scritto, omettendo quello orale con grave lesione del diritto alla difesa della ricorrente.
Come ripetutamente affermato in giurisprudenza, il principio di effettività del contraddittorio impone all'opposto un pieno coinvolgimento dell'impresa assoggettata a verifica nelle dinamiche procedimentali caratterizzanti tale delicata fase affinché, in vista della difesa delle proprie posizioni, abbia piena consapevolezza di tutti gli elementi critici rilevati e dei parametri di raffronto che l'organo preposto intende utilizzare nell'esercizio del proprio sindacato (ex multis, TAR Piemonte, Sez. I, 19.04.2010, n. 1951) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.01.2011 n. 100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Condono edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di determinazione degli oneri con esclusivo riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria - Non sussiste - Ratio.
2. Oblazione e oneri concessori - Controversie in tema di corretta quantificazione - Attengono a diritti soggettivi delle parti - Configurabilità del vizio di difetto di motivazione - Non sussiste - Configurabilità del vizio di violazione di legge - Sussiste - Ratio.

1. In materia di condono edilizio ed oneri concessori, relativamente alle relative normative succedutesi nel tempo -art. 32, D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art. 37, L. 47/1985- non è ravvisabile un orientamento interpretativo consolidato da cui possa ricavarsi un unico principio fondamentale della legislazione statale, secondo cui gli oneri di concessione debbano essere determinati esclusivamente con riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria: infatti, gli oneri di concessione potrebbero essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria.
2. Le controversie relative all'an ed al quantum delle somme dovute a titolo di oblazione e di oneri concessori, riservate dalla legge alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, riguardano diritti soggettivi delle parti, rispetto alle quali non è configurabile il vizio di difetto di motivazione: ciò, dal momento che le operazioni di corretta quantificazione dell'oblazione e degli atti concessori si esauriscono in una mera operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero dalla P.A. con norme di natura regolamentare e, quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti criteri generali, contestare l'erroneità della quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di fatto o di diritto (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4217/2000) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 - Necessità del presupposto della c.d. doppia conformità - Motivazione in merito alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico - Non necessita.
2. Misure repressive - Vetustà dell'opera - Esclusione del potere di controllo e sanzionatorio della P.A. - Inconfigurabilità.
3. Ordinanza di demolizione di opere abusive - Natura - E' atto vincolato che non richiede una motivazione diversa dall'accertamento dell'abuso.

1. Nell'esercizio del potere di accertare la conformità o meno di un'opera abusiva, ai sensi dell'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, la P.A. è unicamente chiamata a verificare il requisito della doppia conformità -e cioè che l'opera abusiva sia conforme non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera- e non deve affatto motivare in merito alla sussistenza di ragioni di interesse pubblico.
2. La vetustà dell'opera non esclude il potere di controllo e il potere sanzionatorio del Comune in materia urbanistico-edilizia, dal momento che l'esercizio di tale potere non è soggetto a prescrizione o decadenza: ne consegue che l'accertamento dell'illecito amministrativo e l'applicazione della relativa sanzione può intervenire anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso, senza che il ritardo nell'adozione della sanzione comporti sanatoria o il sorgere di affidamenti o situazioni consolidate (cfr. TAR Milano, sent. n. 2045/2008).
3. I provvedimenti di repressione degli abusi edilizi, in quanto atti vincolati, sono sufficientemente motivati con l'affermazione dell'accertata irregolarità dell'intervento, essendo in re ipsa l'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso -anche se risalente nel tempo- senza necessità di una motivazione su puntuali ragioni di interesse pubblico e di una specifica comparazione con gli interessi privati coinvolti (T.A.R. Milano, sez. II, 19.02.2009, n. 1318, sent. n. 702/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 96 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Abuso edilizio - Onere della prova - A carico dell'autore - Sussiste - Ratio.
2. Abuso edilizio - Potere di repressione degli abusi edilizi - In presenza di procedimento volto ad attestare l'agibilità - E' esercitabile - Ratio.

1. Spetta al privato l'onere della prova della data di realizzazione dell'abuso -in quanto la P.A. non può, in genere, materialmente accertare quale fosse la situazione dell'intero suo territorio alla data prevista dalla legge, mentre il privato è normalmente in grado di esibire idonea documentazione comprovante l'ultimazione dell'abuso- anche al di fuori delle ipotesi in cui tale elemento fattuale rilevi ai fini del condono (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 8298/2010; TAR Milano, sent. n. 4986/2009, sent. n. 980/2005).
2. Il procedimento volto ad attestare l'agibilità di un immobile non interferisce con l'esercizio del potere di repressione degli abusi edilizi; né il rilascio del certificato di agibilità è sintomo di contraddittorietà della sanzione irrogata: infatti, i due procedimenti hanno un differente oggetto e, se, da un lato, il secondo è volto a sanzionare l'attività urbanistico-edilizia laddove non sia stata realizzata in rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi, il primo è, invece, finalizzato unicamente ad attestare la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 94 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Varianti al P.R.G. - Procedimenti di varianti ex art. 2, comma 2, lett. c), L.R. n. 23/1997 - Finalità - Adeguamento delle previsioni urbanistiche all'effettivo stato dei luoghi - Limiti.
2. Varianti al P.R.G. - Procedimenti di varianti ex art. 2, comma 2, lett. f), L.R. n. 23/1997 - Finalità - Assicurazione di un migliore assetto urbanistico nell'ambito dell'intervento o modificazione della tipologia dello strumento urbanistico attuativo - Interpretazione estensiva - Inammissibilità.
1.
L'art. 2, comma 2, lett. c), L.R. 23/1997, che contempla la fattispecie delle varianti atte ad apportare agli strumenti urbanistici generali -sulla scorta di rilevazioni cartografiche aggiornate, dell'effettiva situazione fisica e morfologica dei luoghi, delle risultanze catastali e delle confinanze- le modificazioni necessarie a conseguire la realizzabilità delle previsioni urbanistiche anche mediante rettifiche delle delimitazioni tra zone omogenee diverse, si riferisce esclusivamente a varianti che apportino modifiche e correzioni al P.R.G. al fine di adeguare le previsioni urbanistiche all'effettivo stato dei luoghi: tale non è la variante che miri ad introdurre una differente disciplina giuridica nella edificazione in una determinata area -prevedendo l'obbligo della previa adozione dello strumento urbanistico attuativo- e non certo a modificare il P.R.G. a seguito della corretta rappresentazione dello stato di fatto.
2. La previsione di cui all'art. 2, comma 2, lett. f), L.R. n. 23/1997, avente ad oggetto varianti che comportino modificazioni dei perimetri degli ambiti territoriali subordinati a piani attuativi, finalizzate ad assicurare un migliore assetto urbanistico nell'ambito dell'intervento ovvero a modificare la tipologia dello strumento urbanistico attuativo, non è interpretabile estensivamente - riconducendovi anche varianti che subordinano ex novo l'edificazione in una determinata area all'obbligo della previa adozione di uno strumento urbanistico attuativo - poiché lo scopo di tale norma è l'ammettere il ricorso alla procedura semplificata solo in via eccezionale, come dimostra la specifica elencazione dei casi ammessi contenente, altresì, la puntuale indicazione in ordine al contenuto delle singole previsioni (cfr. TAR Milano, sent. n. 768/2004, n. 5515/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 92 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Art. 10-bis, Legge 241/1990 - Rigetto dell'istanza del privato - Puntuale ed analitica confutazione delle osservazioni presentate dal privato a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi - Necessità - Non sussiste.
2. Provvedimento amministrativo - Impugnazione - Pluralità di motivi del provvedimento - Legittimità di uno solo dei motivi - Annullabilità del provvedimento - Non sussiste.

1. Ai sensi dell'art. 10-bis, Legge 241/1990 non si impone alla P.A. una puntuale ed analitica confutazione delle osservazioni presentate dalla parte privata a seguito della ricezione della comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza, essendo sufficiente ai fini della giustificazione del provvedimento adottato la motivazione complessivamente resa a sostegno dell'atto stesso (cfr. TAR Napoli, sent. n. 3072/2010; TAR Roma, sent. n. 13300/2009; TAR Genova, sent. n. 543/2008).
2. In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l'atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR Milano, sent. n. 2210/2010, n. 22/2010, n. 13/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 92 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Piani regolatori generali - Mancata impugnazione della delibera di approvazione - Inammissibilità o improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera di adozione - Non sussiste.
2. Elaborazione preparatoria del piano urbanistico - Idoneità a radicare uno specifico affidamento riguardo alla destinazione finale delle aree considerate - Non sussiste - Ratio.

1. L'omessa impugnazione della deliberazione approvativa della variante di piano regolatore generale non determina preclusione all'ammissibilità o all'improcedibilità del ricorso proposto contro la delibera comunale di adozione, in quanto l'eventuale annullamento di quest'ultima esplica effetti automaticamente caducanti, e non meramente vizianti, sul successivo provvedimento di approvazione nella parte in cui lo stesso conferma le previsioni già contenute nel piano adottato e fatto oggetto di impugnativa (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1361/2010).
2. L'elaborazione preparatoria del piano urbanistico è inidonea a radicare uno specifico affidamento riguardo alla destinazione finale delle aree considerate, essendo rimesso unicamente al competente organo comunale di compiere in una prospettiva generale le valutazioni conclusive di merito sulle soluzioni tecniche prospettate, in vista del perseguimento di finalità generali di pubblico interesse (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5881/2008, TAR Milano, sent. n. 1338/2004) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 91 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ricorso amministrativo - Legittimazione e interesse a ricorrere - Vicinitas - Insufficienza - Pregiudizio specifico - Necessità.
Il mero criterio della vicinitas di un fondo o di una abitazione all'area oggetto dell'intervento urbanistico-edilizio non è sufficiente per radicare la legittimazione al ricorso, dovendo sempre il ricorrente fornire la prova concreta del vulnus specifico inferto dagli atti impugnati alla propria sfera giuridica, in termini, ad esempio, di deprezzamento del valore del bene o di concreta compromissione del diritto alla salute ed all'ambiente (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 8364/2010; TAR Milano, sent. n. 1949/2008, n. 170/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: 1. Conflitto di interessi degli amministratori locali - Dovere di astensione - Quando è configurabile.
2. Conflitto di interessi degli amministratori locali - Obbligo di astensione - E' principio generale e inderogabile.
3. Conflitto di interessi degli amministratori locali - Annullamento previsioni dello strumento urbanistico - Solo per le previsioni circa le quali si configuri il conflitto d'interesse.
4. Conflitto di interessi degli amministratori locali - Annullamento previsioni dello strumento urbanistico - In caso di amministratore parente che abbia redatto il piano - Portata dell'interesse - Concerne tutto il Piano.

1. Il dovere di astensione degli amministratori locali sussiste in tutti i casi in cui questi ultimi versino in situazioni che, avuto riguardo al particolare oggetto della decisione da assumere, appaiano anche potenzialmente idonee a porre in pericolo l'assoluta imparzialità e la serenità di giudizio dei titolari dell'ente stesso, ed opera indipendentemente dall'applicazione della c.d. prova di resistenza: ciò, in quanto la semplice partecipazione alla seduta e alla discussione in posizione di non assoluta imparzialità può in astratto contribuire ad influenzare il voto degli altri componenti del consesso (cfr. TAR Milano, sent. n. 336/2005).
2. L'obbligo di astensione degli amministratori locali costituisce principio di carattere generale, che non ammette deroghe ed eccezioni e ricorre ogni qualvolta sussista una correlazione diretta fra la posizione dell'amministratore e l'oggetto della deliberazione, anche se la votazione non potrebbe aver altro apprezzabile esito -quindi a prescindere dall'applicazione della c.d. prova di resistenza- e quand'anche la scelta sia in concreto la più utile ed opportuna per lo stesso interesse pubblico (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 7151/2009).
3. La circostanza che alla seduta consiliare di approvazione di uno strumento urbanistico abbiano partecipato consiglieri comunali in conflitto di interessi può comportare soltanto l'annullamento delle previsioni dello strumento urbanistico in relazione alle quali si configura il conflitto d'interesse; di conseguenza la relativa censura è inammissibile per carenza d'interesse, se il ricorrente non dimostri che tale annullamento comporterebbe per lui un vantaggio.
4. Qualora l'incompatibilità dell'amministratore in conflitto di interessi derivi dal fatto che il piano è stato redatto da un amministratore parente, l'interesse personale del consigliere comunale, che lo rende appunto incompatibile, attiene a tutto il Piano e non ad una parte di esso, come potrebbe essere nel caso in cui il consigliere comunale o un suo parente fosse proprietario di un immobile incluso nel PII (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 90 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abusi edilizi - Concessione edilizia quale esito di illeciti penali - Coincidenza dell'interesse pubblico alla rimozione dell'atto con l'esigenza di ripristino della legalità violata - Possibilità.
Qualora il giudizio penale abbia appurato che una concessione edilizia è il frutto di comportamenti illeciti, sia pure prescritti, a fronte di un tale accertamento, l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto ben può coincidere con l'esigenza di ripristino della legalità violata (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 890/2008) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 89 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: 1. Atto amministrativo - Motivazione - Integrazione successiva - In sede giurisdizionale - Ammissibilità.
2. Ricorso giurisdizionale - Impugnazione di nuovo provvedimento al fine di rimettere in discussione provvedimento definitivo presupposto non impugnato - Inammissibilità - Ratio.
3. Provvedimento amministrativo - Impugnazione - Pluralità di motivi del provvedimento - Legittimità di uno solo dei motivi - Annullabilità del provvedimento - Non sussiste.

1. Deve ritenersi ormai superato l'orientamento giurisprudenziale che escludeva la possibilità per la P.A. di integrare la motivazione di un provvedimento in un momento successivo al ricorso: ciò quantomeno con riferimento all'ipotesi in cui la motivazione sia integrata in corso di giudizio con un apposito atto - e dunque non unicamente con gli atti difensivi predisposti dall'amministrazione resistente -.
2. E' inammissibile l'impugnazione giurisdizionale di un provvedimento amministrativo che rimetta in discussione la legittimità del provvedimento definitivo presupposto, divenuto inoppugnabile: infatti, presupposto per l'esercizio del potere di annullamento in autotutela è l'illegittimità dell'atto (cfr. TAR Milano, sent. n. 1024/2010).
3. In presenza di un provvedimento sostenuto da più motivi, ciascuno autonomamente idoneo a darne giustificazione, è sufficiente che sia verificata la legittimità di uno di essi, per escludere che l'atto possa essere annullato in sede giurisdizionale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 3259/2006; TAR Milano, sent. n. 2210/2010, n. 22/2010, n. 13/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 89 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D.M. n. 1444/1968 - Prescrizioni su altezze e distanze - Natura - Tutela dell'interesse pubblico - Legittimazione a ricorrere - Qualsiasi soggetto in situazione di stabile collegamento con l'area interessata.
L'art. 8 del D.M. 1444/1968 in materia di altezze degli edifici è posto a tutela non dell'interesse privatistico dei confinanti, bensì dell'interesse pubblico affinché si realizzi un determinato assetto urbanistico: pertanto, tale interesse può essere fatto valere da tutti coloro che si trovino in una situazione di stabile collegamento con l'area interessata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Difetto di sottoscrizione - In caso di evincibilità di autore e struttura di provenienza - Irrilevanza della mancata sottoscrizione.
La mancanza di sottoscrizione di un atto non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti ogniqualvolta detta omissione non metta in dubbio la riferibilità dell'atto stesso all'organo competente (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2325/2007, n. 981/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 88 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Provvedimento amministrativo - Impugnazione - Piena conoscenza - Conoscenza elementi essenziali e lesività - Sufficiente - Possibilità di proporre motivi aggiunti post conoscenza integrale del provvedimento - Sussiste.
In materia di decorso del termine di impugnazione, la piena conoscenza di un provvedimento amministrativo non postula necessariamente la conoscenza di tutti i suoi elementi, essendo sufficiente quella degli elementi essenziali quali l'autorità emanante, la data, il contenuto dispositivo e il suo effetto lesivo, salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove dalla conoscenza integrale del provvedimento e degli atti presupposti emergano ulteriori profili di illegittimità (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4482/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Scelte della P.A. in sede di PRG e sue varianti generali - Ampia discrezionalità - Sindacato del giudice amministrativo - Solo nei limiti di errori di fatto o di abnormi illogicità - Destinazione data a singole aree - Motivazione - Non necessita.
Le scelte effettuate dalla P.A. nell'adozione degli strumenti urbanistici costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, sicché anche la destinazione data alle singole aree non necessita di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell'impostazione del piano stesso, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 7492/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 87 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano di lottizzazione - Successiva assimilazione del procedimento ad un PIP - Illegittimità.
Qualora il Comune abbia fin dall'inizio avviato un procedimento di lottizzazione, mentre con successiva delibera abbia voluto dare una veste diversa a tutto il procedimento, assimilandolo ad un PIP, stante l'evidente differenza dei due procedimenti, tale equiparazione è illegittima, in quanto si pone in evidente violazione dei principi di legalità e di tipicità degli atti amministrativi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 86 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Recupero edilizio e funzionale di edifici esistenti - Superficie edilizia - Piano casa - Presupposti - Preesistenza di muri perimetrali - Necessità.
2. Recupero edilizio e funzionale di edifici esistenti - Superficie edilizia - Piano casa - Pensilina priva di pareti perimetrali - Ammissibilità nel novero delle superfici edilizie - Non sussiste.

1. Non può considerarsi come superficie edilizia l'area solo sormontata da una pensilina, definita solo dalla proiezione della pensilina stessa: infatti, affinché una superficie rientri nella definizione di superficie edilizia di cui all'art. 2 L.R. 13/2009, che disciplina il recupero dell'esistente, essa deve avere confini definiti e quindi deve essere perimetrata -in tutti i lati o in parte- da pareti, in modo che possa identificare un vano (si pensi a portici con due pareti chiuse e due lati aperti, che non costituiscono né volume né concorrono a determinare s.l.p.).
2. Nella definizione di superficie edilizia non può essere inclusa qualsiasi superficie calpestabile, bensì solo quelle superfici già delimitate e per tale delimitazione non può ritenersi sufficiente una pensilina, poiché necessitano almeno due pareti: pertanto, nel caso di pensilina -successivamente chiusa da pareti- non si può parlare di semplice recupero, bensì di ampliamento, dal momento che viene creato un nuovo vano, prima inesistente, in corrispondenza della pensilina stessa (nel caso di specie, la pensilina posta su lastrico solare è stata chiusa da pareti finestrate, dando luogo ad un appartamento bilocale) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 85 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio - Sanatoria - Diritti ed oneri - Incremento percentuale ex art. 32, comma 40, D.L. 269/2003 - Ambito di applicazione - Incremento degli oneri di urbanizzazione - Inammissibilità.
L'incremento percentuale fino al 10%, previsto dall'art. 32, comma 40, D.L. 269/2003, che i Comuni possono richiedere per progetti relativi alle attività istruttorie connesse al rilascio delle concessioni in sanatoria, è applicabile solo ai diritti ed oneri correlati all'istruttoria delle domande finalizzate al rilascio del titolo abilitativo e non agli oneri concessori relativi all'intervento edilizio: ciò, in considerazione del maggior impiego di risorse (personale e mezzi) che qualsiasi sanatoria -implicante un afflusso eccezionale di istanze da istruire ed evadere in aggiunta all'attività ordinaria- notoriamente richiede.
E' quindi errato applicare un ulteriore incremento -non dei diritti ed oneri di istruttoria ma- degli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, in quanto gli incrementi dell'art. 32, comma, 40 si riferisce ai soli diritti di segreteria (cfr. TAR Milano, sent. n. 6922/2010, n. 6958/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 84 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ordine di demolizione - Istanza di sanatoria - Pregiudizialità -Sussiste - Ordine di demolizione - Domanda per ottenere un titolo edilizio - Realizzazione opere prima rilascio titolo - Pregiudizialità - Non sussiste.
Se, da una lato, la P.A. ha l'obbligo di determinarsi su una domanda di sanatoria prima di disporre la demolizione -ed in questo senso esiste pregiudizialità tra le due fattispecie- dall'altro, non vi è alcuna pregiudizialità tra l'istanza per ottenere un titolo edilizio e l'ordine di demolizione di opere che siano state realizzate prima che l'Amministrazione abbia avuto la possibilità di esaminare la domanda stessa (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 83 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: PGT - Piano delle Regole - Edifici che abbiano mantenuto i caratteri storici originari - Previsione di soli interventi di restauro e risanamento conservativo - Legittimità - Ratio.
La previsione di un Piano delle Regole che, per gli edifici che abbiano mantenuto i caratteri storici originari, statuisca la possibilità del solo intervento di restauro e risanamento conservativo, con esclusione di altre tipologie edilizie maggiormente invasive -quale la ristrutturazione mediante demolizione- non è illogica o irrazionale, in quanto volta alla salvaguardia del patrimonio edilizio esistente di interesse storico, che ricorda e riflette l'originario tessuto urbanistico: pertanto, non possono essere ritenute ammissibili operazioni edilizie che finirebbero per snaturare completamente l'ambito interessato, facendogli perdere ogni traccia dei caratteri originari (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 82 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Manutenzione ordinaria, straordinaria, consolidamento statico e restauro conservativo - Autorizzazione paesaggistica - Necessità - Non sussiste.
Ai sensi dell'art. 149, comma 1, lett. a), del D.Lgs. 42/2004 non è necessaria l'autorizzazione paesaggistica per "gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo, che non alterino lo stato dei luoghi ..." (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 81 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: D.I.A. - Recupero abitativo sottotetto - L.R. 12/2005 nella formulazione anteriore alla L.R. 20/2005 - Recupero abitativo in deroga agli indici o parametri urbanistici - Impossibilità.
La L.R. 12/2005, nella sua originaria formulazione anteriore alle modifiche introdotte con L.R. 20/2005, non consente il recupero abitativo dei sottotetti in deroga agli indici o parametri urbanistici (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 7770/2006, n. 1410/2007) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 79 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Nuovo piano urbanistico attuativo - In presenza di convenzione di lottizzazione in esecuzione dello strumento urbanistico generale - Possibilità - Limiti - Manifesta illogicità o irrazionalità.
La scelta di procedere ad un nuovo piano urbanistico attuativo, allorché sia già stata stipulata una convenzione di lottizzazione in esecuzione dello strumento urbanistico generale, rientra nella più ampia discrezionalità della P.A. non suscettibile di censura se non in caso di manifesta illogicità o irrazionalità (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1986/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 78 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di determinazione degli oneri con esclusivo riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria - Non sussiste - Ratio.
In materia di condono edilizio ed oneri concessori, relativamente alle relative normative succedutesi nel tempo -art. 32, D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art. 37, L. 47/1985- non è ravvisabile un orientamento interpretativo consolidato da cui possa ricavarsi un unico principio fondamentale della legislazione statale, secondo cui gli oneri di concessione debbano essere determinati esclusivamente con riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria: infatti, gli oneri di concessione potrebbero essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 76 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI Attività vincolata della P.A. - Motivazione - Obbligo - Non sussiste - Conseguenze.
Nei casi di attività vincolate, e non discrezionali, della P.A., ovvero di rapporti paritetici, l'Amministrazione è tenuta a giustificare più che a motivare i propri atti ed eventuali vizi di carattere formale recedono a fronte della verifica, possibile anche nel corso del processo, dei fatti che rendono ragione del provvedimento o della pretesa (cfr. TAR Milano, sent. n. 6958/2010, n. 225/2008, n. 1871/2005; Cons. di Stato, sent. n. 7324/2004, n. 1088/2003; Cons. Giust. Amm., sent. n. 323/1997) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.01.2011 n. 75 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDichiarazione ai sensi dell'art. 38 del D.lgs. 163/2006 - Società per azioni - Necessità che i soggetti tenuti alla dichiarazione siano dotati di poteri di rappresentanza della società - Sussistenza di poteri sostanziali - Rilevanza - Limiti.
L'art. 38, comma 1, lett. b), del D. L.vo n. 163/2006, con riferimento alla società per azioni, individua i soggetti tenuti a rilasciare la prescritta dichiarazione negli amministratori muniti di poteri di rappresentanza o nel direttore tecnico.
Nonostante la specifica previsione normativa, parte della giurisprudenza, ispirata dalla ratio sottesa alla norma di verificare la affidabilità complessivamente considerata dell'operatore economico che andrà a stipulare il contratto di appalto con la stazione appaltante individuando coloro che effettivamente "sono in grado di manifestare all'esterno al volontà dell'azienda" (Cons. Stato, Sez. V, n. 375/2009), ha ricercato, in via interpretativa, di ampliare l'ambito di applicazione della disposizione includendo nel novero dei necessari dichiaranti anche soggetti che, pur non ricoprendo le specifiche cariche indicate, siano, tuttavia, titolari di ampi poteri decisionali tali da consentire di determinare gli indirizzi di gestione dell'impresa.
Secondo il richiamato orientamento occorrerebbe "avere riguardo alle funzioni sostanziali del soggetto, più che alle qualifiche formali, altrimenti la ratio legis potrebbe venire agevolmente elusa e dunque vanificata" (detto indirizzo, peraltro tuttora non consolidato, non torna in ogni caso applicabile al caso di specie alla luce dell'espressa dichiarazione che i soggetti in questione erano privi di ogni potere di rappresentanza, essendo soltanto titolari del potere di sottoscrizione dei documenti di gara, che è competenza obiettivamente diversa da quella di colui che sia, in sede di gara, titolare del potere di agire e di disporre) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.01.2011 n. 73 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVerifica sulla congruità dell'offerta anomala - Necessità del contraddittorio con l'offerente - Limiti delle giustificazioni - Divieto di trasformare l'offerta originaria in un quid diverso attraverso le giustificazioni - Divieto di rimodulazione delle voci di costo al solo scopo di armonizzare la struttura dell'offerta al ribasso formulato.
In sede di verifica della congruità dell'offerta presentata in una gara d'appalto di lavori pubblici, il principio del contraddittorio successivo (come imposto dalle regole comunitarie interpretate dalla Corte di giustizia con la sentenza 27.11.2001 n. 285) mira a consentire un fisiologico arricchimento degli elementi dedotti in origine e quindi incontra un limite nel divieto -immanente al sistema- di trasformazione dell'offerta originaria in un quid sostanzialmente nuovo o diverso per mezzo delle ulteriori giustificazioni (Cons. Stato, Sez. V, 11.04.2006, n. 2021).
E' noto al Collegio quell'indirizzo della giurisprudenza che ritiene, entro certi limiti, possibile l'aggiustamento delle varie componenti dell'offerta (Cons. St., sez. VI, 21.05.2009, n. 3146), restando in ogni caso fermo che: a) o una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo (rispetto alle giustificazioni già fornite), lascia le voci di costo invariate; b) oppure un aggiustamento di singole voci di costo trova il suo fondamento o in sopravvenienze di fatto o normative che comportino una riduzione dei costi, o in originari e comprovati errori di calcolo, o in altre ragioni plausibili.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che il subprocedimento di giustificazione dell'offerta anomala non è volto a consentire aggiustamenti dell'offerta per così dire in itinere ma mira, al contrario, a verificare la serietà di una offerta consapevolmente già formulata ed immutabile (Cons. St., sez. V, 12.03.2009, n. 1451). E' dunque incontestato che non si può consentire che, in sede di giustificazioni, vengano rimodulate le voci di costo al solo scopo di armonizzare la struttura dell'offerta con l'importo derivante dal ribasso formulato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 14.01.2011 n. 65 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIVerifica dei requisiti di partecipazione ex art. 48 del d.lgs. n. 163/2006 - Mancata dimostrazione da parte dell'impresa concorrente - Effetto - Esclusione automatica - Legittima.
La fase di verifica dei requisiti di partecipazione anteriore all'apertura delle buste contenenti le offerte, disciplinata dall'art. 48 del d.lgs. n. 163/2006, reca in sé un automatismo in virtù del quale, se non è comprovato da parte dell'impresa il possesso dei requisiti previsti dalla lex specialis, attraverso la produzione della pertinente documentazione, l'Amministrazione è tenuta a disporre l'esclusione della stessa e il relativo provvedimento assume la natura di atto vincolato, specie qualora l'Amministrazione abbia consentito all'impresa di fornire chiarimenti e integrazioni documentali (Nella fattispecie, l'impresa è stata esclusa per non avere dimostrato il possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria richiesti dal disciplinare di gara) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.01.2011 n. 33 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Aggiudicazione provvisoria - Atto preparatorio all'aggiudicazione definitiva - Non sussiste l'onere di impugnazione immediata - Revoca dell'aggiudicazione provvisoria - Insussistenza dell'onere di impugnazione immediata.
2. Aggiudicazione definitiva - Necessità di comunicazione individuale - Decorrenza del termine per l'impugnazione dalla comunicazione individuale.

1. Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, l'aggiudicazione provvisoria non è l'atto conclusivo del procedimento, bensì quello preparatorio, che produce solo effetti prodromici e, di conseguenza, non vi è un onere di immediata impugnazione della stessa (C.S. Sez. VI 20.02.2008 n. 588). Parimenti non vi può essere alcun onere di immediata impugnazione dell'atto amministrativo che rimuova la predetta aggiudicazione provvisoria, contestualmente rimettendo gli atti alla Commissione di gara per effettuare una nuova valutazione delle offerte, all'esito della quale potrebbe peraltro, in astratto, confermarsi la posizione del precedente aggiudicatario, addirittura con un punteggio maggiore.
Da quanto precede consegue l'insussistenza di un onere di immediata impugnazione della revoca dell'aggiudicazione provvisoria, atteso che la lesività di tale provvedimento si è consolidata solo in occasione dell'adozione della successiva delibera di aggiudicazione definitiva a favore della controinteressata.
2. Costituisce principio giurisprudenziale pacifico quello secondo cui la conoscenza del provvedimento di aggiudicazione definitiva non può essere ricondotta alla data di pubblicazione dello stesso, sussistendo un onere per le stazioni appaltanti di portare gli esiti delle procedure di gara a conoscenza dei concorrenti per mezzo di apposite comunicazioni. Essendo richiesta la comunicazione individuale dell'atto di aggiudicazione, il termine per l'impugnazione non può farsi decorrere dal giorno in cui sia scaduto il termine della pubblicazione (C.S. Sez. VI 25.01.2008 n. 213).
L'eccezione di tardività del ricorso principale deve essere pertanto scrutinata alla luce della comunicazione effettuata dalla stazione appaltante, e ricevuta dalla ricorrente e dei contatti successivamente intercorsi tra la ricorrente principale e la stazione appaltante (fattispecie precedente all'art. 79, comma 5, lett. a, del Codice dei Contratti così come modificato dal D.lgs. 53/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.01.2011 n. 28 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZIAffidamento diretto di servizi pubblici locali - Sono soggetti legittimati all'impugnazione coloro che sono lesi dall'atto - Decorrenza del termine per l'impugnazione dalla conoscenza piena dell'atto - Insufficienza della pubblicazione sull'albo pretorio per la decorrenza del termine.
Ai fini della decorrenza del termine per l'impugnazione, ai sensi dell'art. 21 della L. 06.12.1971, n. 1034 e degli artt. 1 e 2 del R.D. 17.08.1907, n. 642, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che debbono considerarsi soggetti interessati non soltanto quelli che risultano nominativamente contemplati nell'atto, ma anche coloro che possano essere individuati come soggetti sulle cui posizioni l'atto specificamente incida in modo svantaggioso (cfr. Consiglio di Stato, IV Sezione, 20.05.1996, n. 625).
Tanto premesso, ritiene il Collegio che nella materia in esame, concernente le scelte organizzatorie dell'Amministrazione comunale per la gestione dei servizi pubblici, il termine per l'impugnativa da parte dei soggetti che si ritengano lesi dall'affidamento diretto degli stessi inizi a decorrere, in difetto di comunicazione individuale, dalla data della loro piena cognizione e non dalla loro pubblicazione.
Diversamente opinando, l'azione giurisdizionale dei potenziali aspiranti alla procedura di evidenza pubblica per la scelta del gestore dei servizi pubblici verrebbe di fatto frustrata attraverso oneri di attivazione del tutto inesigibili, presupponendo una penetrante osservazione di tutta l'attività politico amministrativa dell'Ente locale, attraverso il sistematico esame di tutte le delibere affisse all'albo (TAR Napoli Campania sez. IV 07.11.2003 n. 13382) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.01.2011 n. 27 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATADiffida a vigilare su possibili abusi edilizi - Silenzio rifiuto - Omissioni o silenzio - Non sussistono.
Non sussistendo alcuna inerzia da parte dell'Amministrazione nella sua attività di controllo sull'operato edilizio, ma al contrario un'attività repressiva degli abusi, il ricorso va dichiarato in parte infondato e, quanto alla possibilità di essersi configurato un silenzio sulla diffida del ricorrente si deve rilevare che, anche nel denegato caso che la risposta dell'Amministrazione (spedita in forma semplice) non fosse stata ricevuta dal destinatario, la stessa è stata conosciuta nel momento della costituzione in giudizio dell'Amministrazione, risultando conseguentemente il ricorso, in parte qua, improcedibile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.01.2011 n. 26 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Strumenti urbanistici generali - Discrezionalità - Aspettativa qualificata - Obbligo di specifica motivazione - Sussiste - Affidamento generico alla reformatio in melius o alla non reformatio in peius - Obbligo di generica motivazione - Sussiste.
2. Strumenti urbanistici generali - Discrezionalità - Aree omogenee per caratteristiche tipologiche - Attribuzione a un'area di destinazione di zona difforme - Obbligo di motivazione - Sussiste.
1.
È pur vero che le scelte operate dall'Amministrazione in sede di pianificazione del territorio appartengono ad un ambito di discrezionalità non sindacabile nel merito e che soltanto un'aspettativa qualificata ad una determinata destinazione (come quella che nasce da una lottizzazione già approvata, da un giudicato di annullamento di un diniego di concessione edilizia, dal carattere di un'area interclusa tra fondi edificati, dalla reiterazione di un vincolo espropriativo, ecc.) richiede una motivazione specifica a sostegno di opposte o diverse scelte pianificatorie.
Tuttavia, anche un affidamento generico alla reformatio in melius -o alla non reformatio in pejus- della precedente destinazione richiede quanto meno che una sia pur generica motivazione possa agevolmente evincersi dai criteri di ordine tecnico-urbanistico seguiti per la redazione dello strumento, in modo che siano chiari le finalità e gli obiettivi che hanno indotto il pianificatore comunale a disattendere scelte precedenti (Nel caso di specie, a fronte di censure specifiche, che facevano leva sulla natura delle aree, sulla loro collocazione, sulla già avvenuta urbanizzazione ed edificazione del contesto, il Comune, al di là del richiamo alla discrezionalità insindacabile della potestà pianificatoria, non aveva fornito alcuna indicazione -supportata dagli auspicabili richiami a passaggi significativi delle relazioni illustrative del P.G.T., neppure prodotte in giudizio- utile a identificare il criterio in base al quale aree già destinate alla espansione residenziale, sia pure governata da un piano attuativo, fossero state per la maggior parte destinate a verde privato, e uno solo dei terreni in questione fosse stato connotato da una edificabilità del tutto marginale, e ridottissima al confronto con la volumetria realizzabile in precedenza).
2. La scelta di un'area con una destinazione di zona diversa da quella attribuita ad aree contigue con eguali caratteristiche tipologiche deve essere motivata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.01.2011 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Annullamento di un atto della P.A. - Riesercizio del potere discrezionale - Risarcimento dei danni - Danno da ritardo -Ammissibile solo dopo il riesercizio comportante riconoscimento del bene della vita.
Nel caso in cui, a seguito di annullamento di un atto della P.A., persistono, in capo all'Amministrazione, spazi di riesercizio del potere discrezionale, va esclusa ogni indagine sulla spettanza del "bene della vita" e resta conseguentemente priva di fondamento la domanda risarcitoria, potendosi ammettere un risarcimento solo dopo (e a condizione) che, riesercitato il proprio potere come le compete, la P.A. abbia riconosciuto al richiedente il bene della vita, nel qual caso il danno ristorabile non potrà che ridursi al pregiudizio derivante dal ritardo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.01.2011 n. 18 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDecisioni della Commissione giudicatrice - Discrezionalità tecnica - Cognizione piena del G.A. - Estensione non solo ai fatti ma anche ai giudizi della Commissione giudicatrice.
Una volta distinta l'area della discrezionalità tecnica da quella del merito amministrativo (sull'esempio di Cons. St., sez. IV, n. 601/1999), e riconosciuto nel primo caso al giudice amministrativo l'accesso diretto ai fatti in contestazione (anche attraverso i mezzi di prova e l'ausilio di un consulente tecnico, ove necessario), non vi sono ragioni valide per escludere una cognizione piena non solo sulle modalità (di formazione), ma anche sull'attendibilità dei giudizi e degli apprezzamenti espressi dalla commissione giudicatrice nell'ambito di una gara di appalto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.01.2011 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Approvazione degli atti di P.G.T. - Destinazione, in parte, a standard - Obbligo motivazione - Affidamento qualificato - Non sussiste.
2. Approvazione degli atti di P.G.T. - Perequazione compensativa - Art. 11, c. 3, L.R. n. 12/2005 - Legittimità.

1. L'amministrazione possiede un'ampia facoltà discrezionale relativamente alla programmazione degli assetti del territorio, in sede di elaborazione del P.G.T., e pertanto non ha l'onere di motivare la scelta sulla destinazione delle singole aree, essendo sufficiente quella evincibile dai criteri generali nell'impostazione della pianificazione.
In assenza di alcun titolo edilizio, non ricorre, alcuna delle ipotesi eccezionali di affidamento qualificato per le quali la giurisprudenza pone a carico dell'Amministrazione un particolare obbligo motivazionale.
2. Non sussiste la illegittimità del P.G.T. nella parte in cui esclude dal meccanismo della perequazione le aree dei ricorrenti, le quali sono suscettibili di intervento mediante piano attuativo, in quanto la perequazione compensativa di cui all'art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 può essere prevista solo con riferimento ad aree esterne ai piani attuativi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.01.2011 n. 4 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Revoca adozione variante al P.R.G. - Mancato esame delle osservazioni - Ius poenitendi - Discrezionalità - Legittimità.
Pare conforme al principio di economicità e coerenza dell'azione amministrativa non proseguire l'iter procedimentale (nel caso di specie, di adozione di variante al P.R.G., esaminare le osservazioni) quando era già definita la volontà dell'Amministrazione di non portare a termine il procedimento di variante generale.
La revoca dell'adozione della variante al P.R.G., esercizio del ius poenitendi, rientra nei normali ed ampi poteri discrezionali della P.A., cui è demandata la valutazione dell'interesse pubblico a fronte del mutamento delle condizioni di fatto e di diritto (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 04.01.2011 n. 2 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIRevoca atti di gara - Necessità di ragioni di interesse pubblico e di vizi nella procedura di gara - Circostanze sopravvenute - Valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione - Revoca dell'aggiudicazione provvisoria: attiene alla fase di scelta del concorrente - Possibilità di revoca implicita o senza particolare motivazione.
Il potere di ritirare gli atti di gara attraverso gli strumenti della revoca e dell'annullamento, riconosciuto alle stazioni appaltanti va riconosciuto, peraltro, in presenza di adeguate ragioni di pubblico interesse o di vizi di merito e di legittimità, tali da rendere inopportuna o comunque da sconsigliare la prosecuzione della gara stessa, come ad esempio nel caso in cui la revoca dell'aggiudicazione provvisoria sia giustificata da un nuovo apprezzamento della fattispecie in base a circostanze sopravvenute, essendo collegata ad una facoltà latamente discrezionale dell'Amministrazione che non inerisce ad alcun rapporto contrattuale, ma attiene ancora alla fase della scelta del contraente, quando, cioè, l'Amministrazione ha la possibilità di valutare la persistenza dell'interesse pubblico all'esecuzione delle opere appaltate.
L'Amministrazione può, dunque, provvedere alla revoca dell'aggiudicazione provvisoria, anche in via implicita e senza obbligo di particolare motivazione, anche se l'intervento in autotutela sia basato su una valutazione di convenienza economica, la cui sussistenza deve essere, però, idoneamente e inequivocamente accertata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 29.12.2010 n. 7734 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIArt. 38 del D.lgs. 163/2006 - Valutazione sulla gravità del reato - Necessità di riferimento alla connessione del reato commesso con l'oggetto dell'appalto e al tempo intercorso dalla condanna - Sussiste - Criteri.
La "gravità" del reato, nell'accezione voluta dal legislatore del codice dei contratti con l'art. 38, è un concetto giuridico a contenuto indeterminato, da valutarsi necessariamente non soltanto in sé e per sé, ma di volta in volta con riferimento ad una serie di parametri quali la maggiore o minore connessione con l'oggetto dell'appalto, il lasso di tempo intercorso dalla condanna, l'eventuale mancanza di recidiva, le ragioni in base alle quali il giudice penale ha commisurato in modo più o meno lieve la pena (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.12.2010 n. 7715 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIPotere della p.a. di stabilire rigorosi requisiti selettivi di partecipazione - Sussiste - Limiti - Oggetto dell'appalto e rispetto del principio di proporzionalità.
Sebbene la stazione appaltante abbia il potere discrezionale di fissare requisiti di partecipazione ad una gara ad evidenza pubblica ristretti e selettivi, tale potere è correttamente esercitato soltanto quando detti criteri rispondano ad esigenze oggettive dell'Amministrazione e non appaiano sproporzionati rispetto all'oggetto dell'appalto e all'esigenza di non ridurre, oltre lo stretto indispensabile, la platea dei potenziali concorrenti e di non precostituire situazioni di privilegio (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 29.11.2010, n. 7404; adde Cons. Stato, sez. V, 04.08.2010, n. 5201) (Nella fattispecie il TAR - considerato che l'oggetto dell'appalto era costituito dai "servizi di vigilanza armata"- ha ritenuto censurabile la previsione, contenuta nel bando di gara, che richiedeva, tra i requisiti di partecipazione previsti a pena di esclusione, la dichiarazione «di essere in possesso dei certificati di conformità del sistema di qualità alle norme europee UNI EN ISO 9001:2004 e della certificazione ambientale ISO 14001:2004 rilasciate da soggetti accreditati ai sensi delle norme europee») (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.12.2010 n. 7710 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Recupero abitativo dei sottotetti esistenti - Derogabilità degli indici o parametri urbanistici - Art. 3, comma 3, L.R. Lombardia n. 15/1996 - Mancata allegazione di documentazione interente agli indici - Invalidità della d.i.a. - Non sussiste - Irregolarità della d.i.a. - Sussiste.
2. Recupero abitativo dei sottotetti esistenti - Incremento volumetrico - Art. 3, comma 3, L.R. Lombardia n. 15/1996 - Contrasto con l'art. 14 D.P.R. n. 380/2001 - Non sussiste - Lesione della potestà comunale in materia di governo del territorio - Non sussiste.

1. Poiché l'art. 3, terzo comma, L.R. n. 15/ 1996 consente il recupero abitativo dei sottotetti anche "in deroga agli indici o parametri urbanistici ed edilizi previsti dagli strumenti urbanistici generali vigenti ed adottati", ne consegue che degrada a mera irregolarità, insuscettibile di infirmare la validità della d.i.a, la mancata allegazione di un documento (nella specie, scheda sinottica di calcolo e di confronto) volto a verificare il rispetto di indici che la legge regionale consente di superare.
2. L'incremento volumetrico, nei limiti strettamente necessari al recupero abitativo dei sottotetti negli edifici adibiti in tutto o in parte a residenza, per le finalità e gli obiettivi esplicitati dall'art. 1, L.R. n. 15/1996 (contenere il consumo di nuovo territorio e favorire la messa in opera di interventi tecnologici per il contenimento dei consumi energetici), è ammesso dalla stessa legge regionale, con una norma di carattere generale (art. 3, comma 3), la quale non interferisce con il principio fissato dalla legislazione statale (art. 14 D.P.R. n. 380/2001) che vieta, nei casi particolari, il rilascio di concessioni in deroga se non per la costruzione di edifici pubblici o di interesse pubblico.
Né è ravvisabile una lesione della potestà comunale in materia di governo del territorio, sia perché le relative funzioni sono esercitate dai Comuni nell'ambito delle leggi regolatrici della materia (che la Regione è abilitata a dettare in quanto titolare di potestà legislativa concorrente), sia perché le prerogative comunali restano salvaguardate dall'art. 1, comma 7, L.R. n. 15/1996, che consente ai Comuni stessi di escludere, con motivata deliberazione, l'applicazione della normativa sui sottotetti in determinate zone del proprio territorio (principio rifluito nell'ora vigente art. 65, L.R. n. 12/2005 sul governo del territorio) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 27.12.2010 n. 7709 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diniego di permesso di costruire in sanatoria - Art. 32 D.L. n. 269/2003 - Ultimazione dell'opera abusiva - Termine - Destinazione del manufatto - Legittimità.
L'ultimazione al rustico ed il completamento della copertura devono ritenersi requisiti di base per qualsiasi opera, a prescindere dalla destinazione funzionale della stessa, che aspiri al condono edilizio, ed, in mancanza, risulta legittimo il diniego di premesso di costruire impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.12.2010 n. 7677 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Disciplina urbanistica del territorio - Obbligo di puntuale motivazione - Non sussiste.
1. Art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Perequazione compensativa - Può essere prevista unicamente con riferimento ad aree esterne ai piani attuativi.

1. Non sussiste la necessità di una puntuale motivazione delle scelte urbanistiche che l'amministrazione compie per la disciplina del territorio, oltre quella che si può evincere dai criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nell'impostazione del piano, essendo sufficiente l'espresso riferimento alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione del piano regolatore.
2. La perequazione compensativa di cui all'art. 11, c. 3, L.R. Lombardia n. 12/2005 può essere prevista unicamente con riferimento ad aree esterne ai piani attuative, mentre per quelle disciplinate da piani attuativi o atti di programmazione negoziata con valenza territoriale, il Comune può prevedere il meccanismo perequativo disciplinato al comma 1 del medesimo articolo.
Si tratta, comunque, di una facoltà, rimessa alla scelta discrezionale dell'amministrazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.12.2010 n. 7674 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Variante P.R.G. - Piano Integrato d'Intervento - Legittimazione attiva - Carenza interesse concreto - Inammissibilità.
Non sussiste in relazione ad una variante al P.R.G. che prevede, a mezzo di P.I.I., una riconversione di un comparto industriale, un interesse concreto ed attuale delle società ricorrenti la cui attività si svolge in capannoni siti al di fuori del perimetro della variante e del P.I.I. (e non può subire compressioni dalla scelta urbanistica pianificata), ed in mancanza di una lesione concreta ed immediata dei loro interessi a seguito dei provvedimenti impugnati il ricorso risulta inammissibile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.12.2010 n. 7672 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Espropriazione per pubblica utilità - Reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio - Indennizzo - Spettanza del pagamento - Non rileva ai fini della legittimità del procedimento.
Il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all'esproprio non rileva per la verifica della legittimità dei provvedimenti che hanno disposto l'approvazione dello strumento urbanistico con la conseguente reiterazione o proroga del vincolo, atteso che i profili attinenti alla spettanza o meno dell'indennizzo e al suo pagamento non attengono alla legittimità del procedimento, ma riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione e sono devolute alla cognizione della giurisdizione ordinaria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7661 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Diniego di inizio attività di D.I.A. - Art. 23 D.P.R. n. 380/2001 - Volontà dell'Amministrazione - Principio di economicità del procedimento - Illegittimità.
Sebbene l'art. 23 D.P.R. n. 380/2001 non preveda parentesi procedimentali produttive di sospensione del termine di trenta giorni entro cui l'Amministrazione deve esercitare il potere inibitorio, nel caso in cui l'Amministrazione abbia espressamente rinviato l'esame della D.I.A. al momento della presentazione dell'autorizzazione per l'attività industriale, non può la stessa richiedere, in contrasto con il principio di economicità del procedimento, la presentazione della medesima D.I.A. integrata dall'autorizzazione, risultando conseguentemente illegittimo il diniego impugnato motivato sulla base di tale mancata ripresentazione della domanda (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sanatoria edilizia - Art. 36, D.P.R. n. 380/2001 - Istanza di sanatoria - Inefficacia dell'ordine di demolizione originario - Sussiste - Rigetto dell'istanza - Rappresenta l'unico atto censurabile.
La presentazione di istanza di sanatoria edilizia, ai sensi dell'art. 36, D.P.R. n. 380/2001, determina l'inefficacia dell'ordine di demolizione originario, con obbligo per il Comune di valutare ex novo la domanda di sanatoria adottando un esplicito provvedimento, che tenga luogo -in caso di reiezione della sanatoria stessa- della pregressa ingiunzione di demolizione divenuta ormai priva di effetti. Di conseguenza, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, le censure e le contestazioni dell'autore dell'abuso edilizio si devono necessariamente indirizzare contro tale ultimo atto di diniego, avendo perso efficacia il primo provvedimento di demolizione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7615 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Piano Integrato d'Intervento - Artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005 - Finalità - Discrezionalità - Legittimità.
2. P.I.I. - Approvazione oltre il termine - Art. 14 L.R. n. 12/2005 - Inefficacia degli atti - Interpretazione - Artt. 2 e 2-bis L. n. 241/1990 - Non sussiste.
3. P.I.I. - Parere di compatibilità con il P.T.C.P. - Incompetenza della Giunta Provinciale - Art. 42 d.lgs. n. 267/2000 - Valutazione tecnica - Non sussiste.

1. Nel caso in cui il P.I.I. impugnato persegua delle chiare finalità di riorganizzazione dell'ambito urbano al fine di una riqualificazione urbana ed ambientale di aree produttive dismesse od obsolete sussistono i presupposti normativi di cui agli artt. 87 e 88 L.R. n. 12/2005, e visto che la scelta di approvare un P.I.I. risulta essere, nel rispetto degli ampi margini di legge, rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione, in mancanza di manifesta illogicità ed irrazionalità dell'azione amministrativa si deve ritenere che lo stessa sia legittima.
2. L'art. 14 L.R. n. 12/2005, secondo cui il P.I.I. deve essere approvato entro il termine di sessanta giorni dalla scadenza del termine delle osservazioni a pena dell'inefficacia degli atti assunti, deve essere interpretato in maniera da armonizzarlo con la legislazione statale concorrente e vincolante (per il legislatore regionale) in materia di governo del territorio ed in particolare con gli artt. 2 e 2-bis L. n. 241/1990 norme vincolanti per il legislatore regionale e per le Amministrazioni che impongono la conclusione del procedimento con un provvedimento espresso nonostante la scadenza del termine di sessanta giorni previsto dalla legge regionale (risultando peraltro aberrante che oltre tale termine l'Amministrazione non abbia altra scelta se non quella di abbandonare il procedimento o di rinnovarlo ex novo), salva l'eventuale responsabilità dell'Amministrazione o del dirigente incaricato del procedimento per il ritardo.
Conseguentemente l'inefficacia degli atti deve essere ricondotta, tenuta anche in considerazione la ratio della norma, alle sole ipotesi in cui l'Amministrazione comunale rimanga totalmente e colpevolmente inattiva per sessanta giorni dalla scadenza del termine per presentare le osservazioni oppure qualora il piano sia approvato senza alcuna decisione sulle osservazioni medesime.
3. Il parere provinciale di compatibilità del P.C.T.P. con il P.G.T. comunale o i suoi piani attuativi, anche in variante, non costituisce una manifestazione della generale potestà di pianificazione riconosciuta nel Testo Unico degli Enti Locali all'organo consigliare, quanto piuttosto una valutazione di ordine tecnico, non riservata al Consiglio, risultando conseguentemente competente la Giunta Provinciale ad adottare il parere di compatibilità del P.I.I. con il P.T.C.P. impugnato (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7614 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Recupero abitativo dei sottotetti esistenti - Art. 64, L.R. Lombardia n. 12/2005 - Piano regolatore successivo all'edificazione dello stabile - Altezza massima degli edifici - Ulteriore innalzamento da recupero del sottotetto - Non è ammissibile.
La ratio dell'art. 64 della L.R. 12/2005, laddove vieta il superamento dei limiti di altezza previsti dagli strumenti urbanistici, è senza dubbio quella di evitare che attraverso il recupero abitativo dei sottotetti esistenti vengano nei fatti eluse o violate le prescrizioni urbanistiche vincolanti in tema di altezza massima di edifici, giacché tale superamento finirebbe per aggravare carichi urbanistici spesso assai consistenti, ponendo così in discussione equilibri urbanistici talora fragili, soprattutto nell'agglomerato urbano milanese. Di conseguenza, laddove uno stabile già supera l'altezza massima prevista da disposizioni di piano successive alla sua edificazione, non può consentirsi un ulteriore innalzamento, derivante dal recupero del sottotetto, in quanto ciò sarebbe eccessivamente lesivo dell'interesse della collettività al rispetto dei carichi urbanistici della zona (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 20.12.2010 n. 7612 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della p.a. - Gara - Determinazione della soglia di anomalia - Taglio delle ali - Esclusione delle offerte che presentano ribassi identici - illegittimità.
Ai fini della determinazione della soglia di anomalia delle offerte nelle gare aggiudicate con il criterio del prezzo più basso, ove nel corso delle operazioni relative al c.d. taglio delle ali (ossia all'esclusione del 10% delle offerte di maggior ribasso e del 10% delle offerte di minor ribasso, arrotondato all'unità superiore) si verifichi il caso che, per effetto di ribassi identici, rientrino, nell'una o nell'altra ala, offerte in numero superiore al predetto limite del 10%, non si procede all'esclusione di quelle che presentano la stessa percentuale di ribasso, perché, diversamente operando, si violerebbe il dettato letterale della norma che limita l'esclusione automatica a detta percentuale (10%), si falserebbe il successivo calcolo della media aritmetica e di quella ponderale (Nella sentenza il TAR dà correttamente atto che vi è un diverso filone giurisprudenziale secondo il quale, ai fini del taglio delle ali e del calcolo della media dei ribassi, ove siano presentate due (o più) offerte di pari ribasso, si procede all'esclusione delle 2 (o più) offerte identiche in quanto le stesse devono essere considerate "unitariamente", vale a dire come se si trattasse di una sola offerta. Cfr. Cons. Stato, sez. V, 03.06.2002, n. 3068) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.12.2010 n. 7610 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della p.a. - Appalto - Interventi di ristrutturazione edilizia, recupero di sottotetti e riqualificazione di spazi - Gara - Art. 86, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Offerte - Verifica di anomalia delle offerte - Valutazione discrezionale della p.a. - Esclusione - Legittima.
Secondo quanto disposto dall'art. 86, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 le stazioni appaltanti possono sottoporre alla verifica di congruità l'offerta dell'aggiudicataria che, in base a particolari elementi, sia sospettata di essere particolarmente bassa, posto che è rimessa alla valutazione spiccatamente discrezionale della p.a. la scelta in merito all'opportunità di sottoporre o meno l'offerta dell'aggiudicataria alla verifica di anomalia (Nella fattispecie l'offerta è stata ritenuta anomala in ragione dell'elevata percentuale di sconto offerto dalla ricorrente rispetto alla base d'asta, pari al 31,771 %, anche in considerazione della notevole complessità dell'intervento consistente in lavori di ristrutturazione edilizia, recupero di sottotetti a uso abitativo e riqualificazione di spazi per servizi e attività) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.12.2010 n. 7609 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della p.a. - Art. 51 D.Lgs. 163/2005 - Affitto di ramo d'azienda - Intervenuto prima dell'aggiudicazione - Verifica immediata dei requisiti in capo all'impresa subentrante - Obbligo in capo alla stazione appaltante - Sussiste - Ratio.
L'art. 51 D.Lgs. 163/2005 (nel prevedere la possibilità di una modifica soggettiva dei partecipanti alla gara, a seguito di cessioni o affitti di azienda (o di rami di azienda), trasformazione, fusione o scissione di società, superando così il tradizionale principio della immodificabilità delle imprese concorrenti) impone alle stazioni appaltanti, nelle ipotesi di modificazioni soggettive ivi previste, l'immediata verifica dei requisiti generali e speciali in capo al nuovo soggetto, senza alcuna dilazione.
Ciò risulta coerente con la stessa ratio della disposizione, ispirata ad un giusto contemperamento tra principio della massima partecipazione alla gara, cui è preordinata la modificazione soggettiva, e par condicio fra i concorrenti, da garantirsi mediante l'immediata verifica dei requisiti anche del nuovo soggetto subentrante (Fattispecie nella quale la modificazione soggettiva realizzatasi a seguito di affitto di ramo d'azienda da parte di un'impresa concorrente era sopravvenuta mentre era ancora in corso la fase di valutazione delle offerte, con la conseguenza che la verifica in merito all'esistenza dei requisiti generali e speciali in capo all'impresa affittuaria avrebbe dovuto precedere -e non seguire- l'aggiudicazione) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 20.12.2010 n. 7600 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI1. Atto amministrativo - Annullamento - Effetti - Conservazione degli atti giuridici - Necessità - Rinnovazione del procedimento - Limite - Fasi procedimentali effettivamente viziate - Validità ed efficacia degli atti precedenti a quello viziato - Sussiste.
2. Giustizia amministrativa - Risarcimento dei danni - Per lesione di interessi legittimi - Presupposto della colpa della P.A. - Accertamento - Modalità - Onere probatorio - Individuazione - Illegittimità del provvedimento - Costituisce indice presuntivo - Possibilità per la p.a. di dimostrare l'esistenza di un errore scusabile - Sussiste - Presupposti.

1. In virtù del generale principio della conservazione degli atti giuridici, nonché di quello di economicità dell'azione amministrativa e del divieto di aggravio del procedimento, la concreta portata dell'annullamento degli atti amministrativi deve essere limitata esclusivamente a quelli effettivamente incisi dall'accertata illegittimità; pertanto, la rinnovazione del procedimento risulta circoscritta soltanto alle fasi viziate e a quelle successive, conservando i precedenti atti legittimi dello stesso procedimento piena efficacia e validità.
2. Il privato danneggiato può invocare l'illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa della p.a. o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all'Amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione di una norma, di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, di rilevante complessità del fatto, di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicabile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.12.2010 n. 7591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della p.a. - Danno da illegittima mancata aggiudicazione - Quantificazione - Utile non conseguito - È indice presuntivo - Conseguenze - Possibile riduzione in via equitativa del danno risarcibile - Sussiste - In caso di mancata dimostrazione di un danno effettivo.
L'imprenditore, in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative dalla cui esecuzione trae utili.
Ciò implica che il danno derivante ad una impresa dall'illegittimo mancato affidamento di un appalto è quantificabile nella misura dell'utile non conseguito, soltanto se l'impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l'espletamento di altri servizi, mentre qualora tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l'impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.12.2010 n. 7591 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILex specialis di gara - Impugnazione immediata - In presenza di clausole discriminatorie immediatamente lesive - Interesse a ricorrere - Sussiste indipendentemente dalla presentazione della domanda di partecipazione.
Qualora la lex specialis di gara contenga clausole discriminatorie e comunque ostative alla partecipazione, per cui la presentazione della domanda di partecipazione da parte di un'impresa si risolverebbe in un adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di esclusione, sussiste l'onere di impugnazione immediata delle clausole della lex specialis preclusive della partecipazione.
In tale contesto, pertanto, l'interesse ad impugnare il bando sussiste a prescindere dalla mancata presentazione della domanda (cfr. sul punto, Cons. Stato, Sez. V, 09.04.2010, n. 1999; id. Sez. V, 19.03.2009, n. 1624; id. Sez. IV, 30.05.2005, n. 2804. In senso opposto v. Cons. Stato, Sez. V, 03.01.2002, n. 6) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 18.12.2010 n. 7590 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Calcolo oneri di urbanizzazione - Art. 40 D.L. n. 269/2003 - Delibera di Giunta n. 2493/2004 - Incremento dei diritti e degli oneri di segreteria - Errata applicazione - Illegittimità.
Considerato il tenore letterale dell'art. 32, comma 40, D.L. n. 269/2003, e della connessa delibera di Giunta 2493/2004, attuativa della previsione di legge, l'incremento percentuale (del 10% sui diritti ed oneri previsti per il rilascio dei titoli abilitativi) è applicabile non agli oneri concessori relativi all'intervento edilizio, ma ai diritti ed oneri correlati all'istruttoria delle domande finalizzate al rilascio del titolo abilitativo, risultando conseguentemente illegittima la quantificazione degli oneri urbanistici impugnata; diritti ed oneri che il Comune ha facoltà di incrementare in relazione al maggior impiego di risorse (personale e mezzi) che qualsiasi sanatoria -implicante un afflusso eccezionale di istanze da istruire ed evadere in aggiunta all'attività ordinaria- notoriamente richiede (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 17.12.2010 n. 7589 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Valutazione ambientale strategica - Scelta dell'autorità competente - Principio di separazione dell'autorità competente rispetto a quella procedente - Necessità - Ratio.
Nell'ambito del procedimento amministrativo di VAS devono risultare separate l'autorità che approva il piano -autorità procedente- e quella che esprime invece la valutazione ambientale strategica sul medesimo -autorità competente- (cfr. TAR Milano, sent. n. 1526/2010) (nel caso di specie il TAR ha sospeso il giudizio, in attesa del deposito della sentenza del Consiglio di Stato sull'appello proposto avvero la sentenza 1526/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7512 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Permesso di costruire - Termine di impugnazione - Decorrenza dalla percezione della lesività dell'opera.
2. DIA - Duplice e contestuale intervento di demolizione/ricostruzione di immobile e recupero di sottotetto - Legittimità - Presupposti.
1.
In tema di tempestività dell'impugnazione della DIA -o del permesso di costruire- il termine di impugnazione decorre dall'effettiva percezione della lesività delle opere edilizie assentite (cfr. TAR Milano, sent. nn. 1147/2010, 1149/2010 e 1150/2010).
2. L'intervento conseguente ad una DIA che, in realtà, debba qualificarsi come una sorta di doppio intervento edilizio, seppure oggetto di un solo titolo abilitativo - da una parte una ristrutturazione edilizia, mediante demolizione e ricostruzione dell'immobile, ex art. 27, comma 1, lettera d) L.R. 12/2005, e dall'altra un contestuale recupero ai fini abitativi del sottotetto esistente, ex art. 63 della medesima legge regionale - è legittimo, purché sussistano i presupposti di legge per entrambi gli interventi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanza minima tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 - Sopraelevazioni e recupero sottotetti - Rispetto delle distanze - Necessità - Ratio.
2. Distanza minima tra edifici - Art. 9 D.M. 1444/1968 - Sopraelevazioni e recupero sottotetti - Rispetto delle distanze - In caso di demolizione e ricostruzione a medesima distanza - Inapplicabilità.

1. In tema di distanze fra edifici, ed in particolare la distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate, ex art. 9 D.M. 1444/1968, le porzioni di edificio risultanti dal recupero ai fini abitativi dei sottotetti esistenti devono considerarsi, ai fini del rispetto dell'art. 9, quali nuove costruzioni, con la conseguenza che dovranno necessariamente essere collocate ad almeno 10 metri dalla parete dell'edificio antistante: ciò, in quanto l'art. 9 è norma di ordine pubblico, insuscettibile di deroga negli strumenti urbanistici e nei regolamenti locali, volta ad impedire la realizzazione di intercapedini nocive sotto il profilo igienico, cosicché deve essere rispettata anche in caso di sopraelevazioni o di recupero di sottotetti (cfr. TAR Milano, sent n. 3262/2010, n. 1991/2007; Cons. di Stato, sent. n. 7731/2010).
2. L'art. 9 D.M. 1444/1968 è applicabile ai nuovi edifici e tale non può essere considerato lo stabile demolito e poi ricostruito alla stessa distanza del precedente (cfr. TAR Milano, sent. n. 1220/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7511 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Rilascio del permesso di costruire - Termini del procedimento ex art. 38 L.R. 12/2005 - Natura ordinatoria - Conseguenze.
In materia di limiti temporali per il rilascio del permesso di costruire, i termini del procedimento di cui all'art. 38 della L.R. 12/2005 (al pari del resto di quelli di cui alla normativa statale, art. 20 del DPR 380/2001), non hanno carattere perentorio, bensì ordinatorio e la loro inosservanza non implica di per sé l'illegittimità del provvedimento adottato tardivamente, ma semplicemente la scadenza del termine consente all'interessato di attivare la procedura sostitutiva per il rilascio del titolo edilizio di cui all'ultimo comma del citato art. 38 (cfr. TAR, Milano, sent. n. 7220/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7510 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA1. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 - Interpretazione letterale - Inammissibilità.
2. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 - Inefficacia degli atti assunti fuori termine - Presupposti - Solo in caso di adozione atti non preceduta dalla decisione sulle osservazioni presentate dagli interessati.
3. PGT - Osservazioni dei privati - Termine ultimo per la decisione del Comune sulle osservazioni - Art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 - Natura ordinatoria.
4. Scelte della P.A. in sede di PRG e sue varianti generali - Ampia discrezionalità - Sindacato del giudice amministrativo - Solo nei limiti di errori di fatto o di abnormi illogicità.
5. PGT - Destinazione a zona agricola - Utilizzo per coltivazione - Non necessita - Finalità di tutela ambientale - Legittimità.

1. Non è ammissibile un'interpretazione letterale della previsione di cui all'art. 13, comma 7, L.R. 12/2005, poiché individuando la ratio dell'art. 13 nell'esigenza di dettare una rigida tempistica procedimentale a fini acceleratori, correlando alla mera violazione del termine previsto dal comma 7 l'inefficacia degli atti del p.g.t., si otterrebbero esiti contrastanti con il principio di buon andamento dell'azione amministrativa, posto dall'art. 97 Cost.; in particolare, qualora si ritenesse che all'inutile scadenza del termine entro il quale il Consiglio Comunale deve decidere sulle osservazioni consegua la perdita di efficacia del provvedimento di adozione del p.g.t., allora l'attività amministrativa precedentemente esercitata verrebbe posta nel nulla, con conseguente obbligo per l'amministrazione di rinnovare l'intero procedimento, il tutto in contrasto con il principio di economicità oltre che con la stessa ratio acceleratoria sottesa alla norma.
2. L'inefficacia prevista ex art. 13, comma 7, L.R. 12/2005 integra una sanzione dettata non a tutela di adempimenti formali, come il mero rispetto della tempistica procedimentale, bensì di esigenze sostanziali, emergenti nell'ipotesi in cui il piano di governo del territorio sia approvato in assenza di una decisione sulle osservazioni o non recepisca le osservazioni accolte, con la conseguenza che l'inefficacia degli atti assunti dal Comune si verifica solo quando la loro adozione non sia stata preceduta dalla decisione delle osservazioni presentate dagli interessati.
3. In materia di PGT, la mera violazione del termine di novanta giorni previsto dall'art. 13, comma 7, L.R. 12/2005, in caso di adozione di atti di pianificazione del territorio preceduta dalla decisione del Comune sulle osservazioni presentate dagli interessati, non comporta conseguenza alcuna, dovendo detto termine ritenersi meramente ordinatorio.
4. Le scelte effettuate dalla P.A. in sede di adozione-approvazione degli atti di pianificazione del territorio costituiscono apprezzamento di merito o, comunque, espressione di ampia potestà discrezionale, sottratto al sindacato di legittimità salvo che tali scelte non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2571/2007; TAR Milano, sent. n. 1093/2010, n. 1277/2006).
5. La destinazione di un'area a zona agricola a ragione può essere disposta a salvaguardia del paesaggio o dell'ambiente e non presuppone necessariamente che l'area stessa venga utilizzata ad uso agricolo (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 5478/2008; TAR Trento, sent. n. 41/2010; TAR Pescara, sent. n. 33/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7508 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Distanze legali tra fabbricati - In caso di ristrutturazione con ampliamento di edifici all'esterno della sagoma esistente - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Inderogabilità.
2. Distanze legali tra fabbricati - In caso di modifica del tetto incidente sulla sagoma esterna dell'edificio con aumento di volumetria dei piani sottostanti - Applicabilità normativa sulle distanze legali - Necessità.

1. Sono soggetti alla disciplina delle distanze tutti gli interventi edilizi, ancorché definiti come "ristrutturazione" (recupero del sottotetto) che comportino l'ampliamento di edifici all'esterno della sagoma esistente (cfr. TAR Milano, n. 1991/2007).
In particolare, l'art. 9, D.M. 02.04.1968 n. 1444, mirando ad evitare la creazione di intercapedini in grado di impedire la libera circolazione dell'aria, come tali produttive di insalubrità oltreché riduttive di luminosità e dunque non autorizzabili per motivi igienico-sanitari, risponde ad esigenze pubblicistiche che sovrastano gli interessi dei singoli, per soddisfare interessi generali, e non è pertanto suscettibile di deroghe pattizie (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1565/1999; TAR Catania, sent. n. 2373/1994).
2. Ogni modifica del tetto incidente sulla sagoma esterna dell'edificio che produca aumento della volumetria dei piani sottostanti è soggetta all'osservanza delle distanze legali (cfr. Cass. Civ., sent. n. 20786/2006) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7505 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oneri di urbanizzazione - Pattuizione negoziale tra P.A. e privato - Ritardato pagamento rate - Sanzione legale - Inapplicabilità.
A fronte di una pattuizione negoziale tra P.A. e privato in materia di oneri di urbanizzazione, pattuizione che ha introdotto una disciplina diversa rispetto a quella legale, non può applicarsi la norma che introduce il regime sanzionatorio per violazione di scadenze previste dalla legge, in quanto la sanzione è legata al termine legale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7504 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di determinazione degli oneri con esclusivo riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria - Non sussiste - Ratio.
In materia di condono edilizio ed oneri concessori, relativamente alle relative normative succedutesi nel tempo -art. 32, D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art. 37, L. 47/1985- non è ravvisabile un orientamento interpretativo consolidato da cui possa ricavarsi un unico principio fondamentale della legislazione statale, secondo cui gli oneri di concessione debbano essere determinati esclusivamente con riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria: infatti, gli oneri di concessione potrebbero essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria (cfr. TAR Milano, sent. n. 6955/2010, n. 6957/2010, n. 833/2010 e sent. nn. 7385 - 7386 - 7388 - 7389 - 7390 - 7391 - 7392 del 2011) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 10.12.2010 n. 7503 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIGara - Clausole del bando di gara di dubbia interpretazione - Ammissione di tutte le offerte - Legittima -Applicazione del principio del "Favor partecipationis".
In presenza di clausole del bando di dubbia interpretazione e, come tali, idonee ad indurre in errore i concorrenti, è legittimo il comportamento dell'Amministrazione che ammette alla procedura selettiva tutte le imprese che hanno presentato l'offerta, in applicazione del principio di matrice comunitaria del favor partecipationis (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 09.12.2010 n. 7479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Piano Regolatore Generale - Misure di salvaguardia - Decorrenza.
Le misure di salvaguardia decorrono dalla data della deliberazione comunale di adozione dei piani anche prima che la delibera divenga esecutiva per effetto della pubblicazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.12.2010 n. 7475 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. D.I.A. - Potere della P.A. di inibire l'esecuzione dei lavori - Grado di motivazione dell'atto in autotutela - Principio di diretta proporzionalità tra la motivazione ed il trascorrere del tempo.
2. D.I.A. - Potere sanzionatorio della P.A. - Presupposti.

1. In materia di D.I.A. e di relativo annullamento in autotutela, tanto maggiore è il lasso di tempo trascorso tra l'avvio dell'attività e l'esercizio del potere di autotutela, maggiore deve, dunque, essere il grado di motivazione sulle ragioni di pubblico interesse, diverse da quelle al mero ripristino della legalità, che deve connotare il relativo provvedimento amministrativo (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6465/2006, n. 5622/2006, n. 846/2006).
2. In materia di DIA, una volta decorso il termine perentorio di 30 giorni previsto dall'art. 23, D.P.R. 380/2001, la P.A., per potere esercitare il potere sanzionatorio, deve, in primis, incidere sul titolo edilizio, intervenendo su di esso in autotutela, sempre che ne ricorrano i presupposti (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.12.2010 n. 7474 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Denuncia di inizio attività - Produzione effetti dal trentesimo giorno dalla presentazione - Presupposti.
2. Denuncia di inizio attività - Modifiche normative successive alla presentazione della DIA - Principio della sensibilità della DIA - Ratio.
3. Denuncia di inizio attività - Modifiche normative successive alla presentazione della DIA - Principio della sensibilità della DIA - Applicabilità alle disposizioni regolamentari.

1. La DIA, indipendentemente dalla qualifica giuridica assegnata -punto su cui si contrappongono due differenti orientamenti che sostengono rispettivamente la natura di autorizzazione implicita e di atto privato- produce effetti al trentesimo giorno dalla sua presentazione, purché, sia completa di tutti gli elementi richiesti dalla legge (cfr. TAR Milano, sent. n. 5737/2008).
2. Nello spatium deliberandi dei 30 giorni dalla presentazione della DIA, periodo durante il quale la P.A. ha un compito di controllo, a conclusione del quale può esercitare poteri inibitori dei lavori non ancora avviati, le eventuali modifiche normative devono trovare applicazione, in quanto il procedimento non è ancora perfezionato e la DIA non può produrre effetti: vige allora il principio del tempus regit actum, per cui la P.A. è tenuta ad applicare la normativa in vigore al momento dell'adozione del provvedimento definitivo, quand'anche sopravvenuta, e non già, salvo che espresse norme statuiscano diversamente, quella in vigore al momento dell'avvio del procedimento.
3. Il principio della "sensibilità" della DIA alle modifiche legislative nei trenta giorni tra la presentazione e l'inizio dell'efficacia, deve trovare applicazione anche rispetto ad eventuali variazioni delle disposizioni regolamentari, tra cui la disciplina pianificatoria e le tariffe degli oneri (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2010 n. 7467 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Acquiescenza - Presupposti - Sussistenza dell'acquiescenza per mera presunzione - Inconfigurabilità.
Sussiste acquiescenza ad un provvedimento amministrativo solo in presenza di atti, comportamenti o dichiarazioni univoci, posti liberamente in essere dal destinatario dell'atto, che dimostrino la chiara ed incondizionata volontà dello stesso di accettarne gli effetti e l'operatività; pertanto, deve escludersi la possibilità di affermare la sussistenza dell'acquiescenza per mera presunzione, non potendosi in tal caso trovare univoco riscontro della volontà dell'interessato di accettare tutte le conseguenze derivanti dall'atto amministrativo (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 7031/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2010 n. 7465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Condono edilizio - E' disciplina speciale ed eccezionale - Ambito di applicazione - Estensione della disciplina ad ipotesi non previste dalla legge - Inconfigurabilità.
Il carattere speciale ed eccezionale della disciplina del condono, derogatoria degli ordinari istituti in materia di rilascio dei titoli edilizi, è di strettissima applicazione: in particolare, l'art. 32, comma 25, L. 269/1993 contempla in modo tassativo le classi di opere abusive condonabili, specificando per le nuove costruzioni la natura residenziale ed escludendo l'estensione ad altre ipotesi (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2010 n. 7465 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Condono edilizio - Dovere di provvedere del Comune ex art. 32, comma 37, D.L. 269/2003 - Decorrenza del biennio - Dies a quo - Presentazione di istanza debitamente documentata.
2. Condono edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di determinazione degli oneri con esclusivo riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria - Non sussiste - Ratio.

1. In materia di giusto procedimento e di principi di economicità ed efficienza dell'azione amministrativa, il biennio assegnato al Comune per provvedere, decorso il quale si forma il silenzio-assenso, -in forza dell'art. 32, comma 37, D.L. 269/2003 e del relativo richiamo alle disposizioni di cui alla L. 47/1985- decorre dalla presentazione di un'istanza debitamente documentata (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 4174/2010, n. 4671/2009, n. 1797/2007, n. 4946/2005).
2. In materia di condono edilizio ed oneri concessori, relativamente alle relative normative succedutesi nel tempo -art. 32, D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art. 37, L. 47/1985- non è ravvisabile un orientamento interpretativo consolidato da cui possa ricavarsi un unico principio fondamentale della legislazione statale, secondo cui gli oneri di concessione debbano essere determinati esclusivamente con riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria: infatti, gli oneri di concessione potrebbero essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria (cfr. TAR Milano, sent. n. 6955/2010, n. 6957/2010, n. 833/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 02.12.2010 nn. 7464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Chiusura di un portico con edificazione di locale ristorante - Aumento di volumetria - Sussiste - Nuova costruzione - Permesso costruire - Necessità.
L'edificazione di un locale ristorante attuata mediante la chiusura di un porticato preesistente non può qualificarsi quale intervento manutentivo e conservativo e neppure quale ristrutturazione edilizia, avendo determinato la creazione di un manufatto del tutto nuovo, diverso anche quanto a utilizzazione, comportante nuova volumetria e superficie: pertanto, esso deve essere qualificato come nuova costruzione, soggetta al previo rilascio del permesso di costruire (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2010 n. 7462 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: 1. Convenzione per l'attuazione di un piano integrato di intervento - Oneri di urbanizzazione - Determinazione dell'importo condizionata ai valori vigenti al momento del rilascio dei titoli abilitativi edilizi - Successivi mutamenti legislativi - Irrilevanza.
2. Oneri di urbanizzazione - Determinazione dell'importo - Art. 38, comma 7, L.R. 12/2005 e determinazione oneri al momento dell'approvazione di piani attuativi - Efficacia - Solo per il futuro - Meccanismo di inserzione automatica delle clausole ex art. 1339 c.c. - Inapplicabilità.

1. In caso di convenzione stipulata tra il comune ed il privato per l'attuazione di un programma integrato di intervento in cui sia stabilito che l'importo degli oneri di urbanizzazione sarà quantificato in base ai valori vigenti al momento del rilascio dei titoli abilitativi edilizi, tale previsione ha forza di legge tra le parti, ai sensi dell'art. 1372 c.c., ed è insensibile ai mutamenti legislativi intervenuti successivamente (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1032/1998).
2. L'art. 38, comma 7-bis, L.R. n. 12/2005 -nel prevedere che "nel caso di piani attuativi o di atti di programmazione negoziata con valenza territoriale, l'ammontare degli oneri è determinato al momento della loro approvazione, a condizione che la richiesta del permesso di costruire, ovvero la denuncia di inizio attività siano presentate entro e non oltre trentasei mesi dalla data della approvazione medesima"- dispone solo per il futuro: pertanto, esso non può trovare applicazione laddove prima della sua entrata in vigore sia già stato approvato il programma integrato di intervento e sia già stata stipulata la relativa convenzione, nella quale sia stato previsto il criterio per la determinazione degli oneri in conformità alle disposizioni a quell'epoca vigenti.
Né può operare il meccanismo di inserzione automatica delle clausole previsto dall'art. 1339 c.c. poiché si verte in tema di diritti disponibili (cfr. Cons. Stato, sent. n. 1209/1999 e n. 4015/2005; TAR Milano, sent. n. 196/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 02.12.2010 n. 7461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio - Ingiunzione di demolizione - Soggetti passivi - Esclusione del proprietario - Presupposti.
Qualora l'attuale proprietario di un immobile abusivo non sia responsabile dell'abuso, non abbia mai ricevuto l'ordine di demolizione e, una volta venuto a conoscenza di quest'ultimo atto, abbia provveduto a demolire le opere, ne consegue che è illegittimo il provvedimento di acquisizione dell'area, che contenga una sanzione prevista per l'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione stessa: infatti, quest'ultima può essere disposta esclusivamente in danno del responsabile dell'abuso edilizio e non può costituire titolo per l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene abusivo qualora risulti in modo inequivocabile la completa estraneità del proprietario al compimento dell'opera abusiva o che, essendo egli venuto a conoscenza, si sia adoperato per impedirlo con gli strumenti offerti dall'ordinamento (cfr. TAR Napoli, sent. n. 17176/2010; TAR Cagliari, sent. n. 1352/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 29.11.2010 n. 7393 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Condono edilizio - Oneri di concessione - Obbligo di determinazione degli oneri con esclusivo riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria - Non sussiste - Ratio.
2. Permesso di costruire in sanatoria ex D.Lgs. n. 269/2003 - Contributo di urbanizzazione e costo di costruzione - Tariffe vigenti - Art. 6 L.R. n. 31/2004 - Legittimità costituzionale.
1. In materia di condono edilizio ed oneri concessori, relativamente alle relative normative succedutesi nel tempo -art. 32, D.L. 269/2003; art. 39, L. 724/1994, art. 37, L. 47/1985- non è ravvisabile un orientamento interpretativo consolidato da cui possa ricavarsi un unico principio fondamentale della legislazione statale, secondo cui gli oneri di concessione debbano essere determinati esclusivamente con riferimento alle tariffe vigenti alla data di entrata in vigore della legge di sanatoria: infatti, gli oneri di concessione potrebbero essere ancorati alle tariffe vigenti, alternativamente, al momento in cui l'abuso è iniziato, al momento in cui l'immobile abusivo è completato, al momento dell'entrata in vigore della normativa statale sul condono, al momento dell'entrata in vigore della normativa regionale sul condono, al momento in cui è stata effettuata la richiesta di condono o, infine, al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria (cfr. TAR Milano, sent. n. 6955/2010, n. 6957/2010, n. 833/2010).
2. In relazione al fatto se gli oneri di urbanizzazione ed il costo di costruzione dovuti ai fini della sanatoria debbano essere commisurati alle tariffe vigenti al momento del deposito dell'istanza di sanatoria o a quelle vigenti al tempo del rilascio del titolo edilizio, dispone l'art. 4, c. 6, L.R. 3.11.2004 n. 31 nel senso che la determinazione deve effettuarsi tenendo conto del regime tariffario in vigore al momento di adozione del permesso di sanatoria, essendo stata tale soluzione interpretativa ritenuta costituzionalmente legittima (cfr. Corte Cost., ordinanza n. 105/2010) in quanto la scelta normativa della Regione Lombardia rappresenta "un bilanciamento di interessi che può solo essere effettuato dal legislatore" (cfr. TAR Milano, sent. n. 833/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 29.11.2010 nn. 7385, 7386, 7388, 7389, 7390, 7391, 7392 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Denuncia di inizio attività - Autotutela - Decorso del termine di legale per interdire i lavori - Esercitabilità del potere di autotutela - Sussiste - Limiti.
In materia di D.I.A., una volta decorso il termine legale per interdire i lavori, decorrente dalla presentazione della stessa, il Comune può agire -entro un ragionevole lasso di tempo- solo nell'esercizio del potere di autotutela, valutando gli interessi in conflitto, ovverossia raffrontando l'interesse pubblico alla demolizione all'interesse del privato alla conservazione dell'opera, ultimata senza tempestiva opposizione del Comune stesso (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 717/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 24.11.2010 n. 7356 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI:  1. Contratti della p.a. - Omessa presentazione della dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. 163/2005 - Conseguenze - Esclusione - Limiti.
2. Contratti della p.a. - Gara - Offerte - Tutela della segretezza - Tenuta dei plichi - Obbligo per la stazione appaltante di predisporre adeguate cautele - Sussiste - Omissione - Effetti - Invalidità della gara.
3. Contratti della p.a. - Tenuta della documentazione di gara - Inosservanza di norme precauzionali da parte della p.a. - Rischio di manomissione - Effetti - Invalidità delle operazioni di gara - Sussiste.

1. Deve condividersi l'orientamento maggioritario secondo il quale l'omessa presentazione della dichiarazione ex art. 38 D.Lgs. 163/2005 da parte di un'impresa concorrente non comporta la sua esclusione, a condizione che non ricorrano in concreto situazioni ostative alla partecipazione e salvo che la stazione appaltante, nell'esercizio del proprio potere discrezionale, non ritenga di ricollegare l'adozione del provvedimento di esclusione alla mera omissione della dichiarazione (conf. v. Cons. Stato, Sez. VI, 22.02.2010, n. 1017).
2. Sulla Commissione giudicatrice grava un preciso dovere di predisporre idonee cautele nella conservazione dei plichi a tutela della loro integrità che devono, altresì, risultare da apposita verbalizzazione, la cui omissione comporta l'invalidità della gara, senza che assumano rilevanza eventuali tardive dichiarazioni circa le concrete modalità di custodia dei plichi (conf. v. Cons. Stato, Sez. V, 12.12.2009, n. 7804).
3. Qualora dalle risultanze processuali emerga che, per inosservanza di norme precauzionali, la documentazione di gara sia rimasta esposta al rischio di manomissione, devono ritenersi invalide le operazioni di gara, senza che a carico dell'interessato possa configurarsi un onere - del resto impossibile da adempiere - di provare un concreto evento di danno (conf. v. Cons. di stato, Sez. V, 21.05.2010, n. 3203) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 24.11.2010 n. 7353 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Contratti della p.a. - Appalto - Gara - Commissione - Composizione - Art. 84, comma 2, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Esperienza dei componenti - Interpretazione - Va valutata in capo alla Commissione nel suo complesso.
2. Contratti della p.a. - Appalto - Gara - Offerte - Valutazione - Espressa mediante voto numerico - Sufficienza - Obbligo di giustificazione del punteggio attribuito - Non sussiste.
3. Contratti della p.a. - Appalto - Gara - Principio di concentrazione e di continuità - Ratio - Indipendenza della Commissione da influenze esterne - Violazione - Effetti - Invalidità della procedura - Sussiste - Limiti.

1. Il requisito generale dell'esperienza «nello specifico settore cui si riferisce l'oggetto del contratto» previsto, dall'art. 84, comma 2, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, per i componenti della Commissione giudicatrice di una gara per l'affidamento di un appalto pubblico, deve essere inteso gradatamente e in modo coerente con la poliedricità delle competenze di volta in volta richieste in relazione alla complessiva prestazione da affidare; non è necessario, pertanto, che l'esperienza professionale di ciascun componente copra tutti i possibili ambiti oggetto di gara, in quanto è la Commissione, unitariamente considerata, che deve garantire quel grado di conoscenze tecniche richiesto nel caso specifico, in ossequio al principio di buon andamento della pubblica amministrazione (conf. v. TAR Sardegna Cagliari, sez. I, 04.06.2008, n. 1126).
2. Ai fini della legittima valutazione delle offerte presentate in occasione di una gara di appalto è sufficiente l'attribuzione di un punteggio numerico sulla base di criteri predeterminati e sufficientemente specifici, non sussistendo in capo alla Commissione giudicatrice l'obbligo di giustificare con espressa motivazione i punti attribuiti per differenziare le diverse proposte, dovendosi ritenere l'obbligo della motivazione soddisfatto dal solo voto numerico (conf. v. TAR Lombardia Milano, sez. III, 25.02.2008, n. 424).
3. Il principio della continuità e della concentrazione della gara, espressione della più generale regola della imparzialità e della par condicio fra i concorrenti, mira ad assicurare l'indipendenza di giudizio di chi presiede la gara ed a sottrarlo a possibili influenze esterne e la sua violazione può comportare l'invalidità della procedura soltanto nell'ipotesi in cui il lasso di tempo che intercorre tra una seduta e l'altra sia irragionevole e assolutamente non giustificabile (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 23.11.2010 n. 7320 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Inquinamento acustico - Controlli e sopralluoghi della P.A. - Partecipazione di tutti i soggetti interessati - Necessità - Esclusione - Presupposti.
In materia di inquinamento acustico e relativi sopralluoghi delle P.A., non è configurabile un obbligo per l'amministrazione, nell'effettuazione dei debiti controlli, accertamenti od ispezioni, per cui essa debba operare con la necessaria partecipazione di tutti i soggetti interessati, laddove tale coinvolgimento possa compromettere la genuinità dell'attività istruttoria compiuta (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 1224/2003, sent. n. 3190/2004; TAR Bologna, sent. n. 1530/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7312 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Concessione edilizia in sanatoria - Accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 - Necessità del presupposto della c.d. doppia conformità - Sussiste - Realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti - Illegittimità.
2. Concessione edilizia in sanatoria - Accertamento di conformità ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 - Estensione discrezionale della P.A. oltre i limiti di legge - Possibilità - Non sussiste.

1. Ai sensi dell'art. 36, D.P.R. n. 380/2001 il rilascio del permesso di costruire in sanatoria è subordinato al presupposto della c.d. "doppia conformità": l'opera abusiva, per poter essere sanata, deve, cioè, essere conforme non solo allo strumento urbanistico esistente al momento della domanda di sanatoria, ma anche a quello vigente al momento della realizzazione dell'opera.
Pertanto, laddove un'istanza di sanatoria preveda la realizzazione di ulteriori interventi per rendere l'opera conforme alle norme vigenti, è palese l'insussistenza del requisito della conformità al momento della richiesta di rilascio del titolo in sanatoria e per tale ragione sarebbe illegittimo un provvedimento di sanatoria che, al fine di rendere l'esistente conforme alle prescrizioni urbanistiche vigenti, preveda l'esecuzione di ulteriori lavori.
2. L'art. 36, D.P.R. n. 380/2001 non consente spazi interpretativi, nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale da parte della P.A. (cfr. C.G.A. Regione Sicilia, sent. n. 941/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7311 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Contributi concessori - Omesso o ritardato pagamento - Procedimento sanzionatorio - Comunicazione di avvio del procedimento - Necessità - Non sussiste - Ratio.
2. Contributi concessori - Omesso o ritardato pagamento - Escussione fideiussione - Obbligo - Non sussiste.
3. Abusi edilizi - Sanzioni pecuniarie - Produzione di interessi legali - Legittimità - Ratio.

1. Nei procedimenti sanzionatori per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori, non è dovuta comunicazione di avvio del procedimento, attesa la natura vincolata dei provvedimenti afflittivi e l'automatica messa in mora del debitore per effetto del mancato pagamento alla scadenza, per cui nessun avviso di avvio del procedimento è dovuto al debitore stesso (cfr. TAR Sardegna, sent. n. 70/2008 e Cons. di Stato, sent. n. 4419/2007).
2. Nei procedimenti sanzionatori per omesso o ritardato pagamento dei contributi concessori, la garanzia fideiussoria, se da un lato vale certamente a rafforzare la posizione della P.A. quale creditore pecuniario, dall'altro non impone però a quest'ultima la preventiva escussione del fideiussore né esclude un'attenuazione dell'obbligo del debitore principale e neppure vale a trasformare l'obbligazione di quest'ultimo in una sorta di obbligazione sussidiaria rispetto a quella del fideiussore (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 2581/2009 e n. 4419/2007; TAR Brescia, sent. 519/2010; TAR Milano, sent. n. 4405/2009 e n. 4306/2009).
3. E' legittima la produzione di interessi legali sulle sanzioni, considerato che il credito per queste ultime è comunque un credito liquido ed esigibile, produttivo come tale di interessi legali secondo la generale previsione dell'art. 1282 c.c., senza contare che, in mancanza del pagamento degli interessi, il ritardo nel versamento delle sanzioni andrebbe soltanto a danno della P.A. (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 8345/2003) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7308 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire - Apposizione di condizioni - Legittimità - Limiti.
È legittima l'apposizione di condizioni agli atti amministrativi ed anche ai titoli edilizi, purché, in quest'ultimo caso, la condizione trovi fondamento anche indirettamente in una norma di legge o di regolamento ed attenga alle modalità dell'intervento e non a profili totalmente estranei all'attività edificatoria assentita (cfr. TAR Milano, sent. n. 5655/2010 e Cons. di Stato, sent. n. 7344/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Asfaltatura di superfici di ampia estensione - Titolo edilizio Necessità - Ratio.
2. Asfaltatura di superfici di ampia estensione - In presenza di recinzione regolarmente assentita - Titolo edilizio - Necessità.

1. Sussiste la necessità del titolo edilizio per la copertura con asfalto di superfici aventi un'ampia estensione, trattandosi di opera permanente avente un significativo impatto urbanistico (cfr. TAR Milano, sent. n. 4514/2002; Cass. Pen., sent. n. 33002/2003).
2. La circostanza che il terreno abusivamente asfaltato sia circondato da una recinzione regolarmente assentita non fa venir meno la necessità del titolo edilizio per l'asfaltatura: infatti, la presenza della recinzione non attribuisce all'asfaltatura carattere di pertinenza ai fini urbanistico-edilizi, dovendo la nozione di "pertinenza" a tali fini essere limitata ad interventi di modeste dimensioni, tali da non incidere sul carico urbanistico (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 7549/2010; TAR Milano, sent. n. 28/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7306 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Zona agricola - Possibilità per Comune e Provincia di dettare disciplina differenziata - Sussiste.
2. Zona agricola - Indici edificatori - Possibilità di fissazione di limiti inferiori - Sussiste.

1. In materia di edificazione nelle zone agricole, la vigente L.R. 12/2005 sul governo del territorio consente al Comune di dettare una disciplina differenziata per le zone agricole, dal momento che essa demanda agli strumenti urbanistici comunali ed in particolare al piano delle regole, la definizione, per le aree destinate all'agricoltura, della relativa disciplina "d'uso, di valorizzazione e di salvaguardia" (cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009); analogo potere conformativo sulle aree agricole è attribuito alla Provincia, attraverso il piano territoriale di coordinamento provinciale (PTCP), dall'art. 15, comma 4, della L.R. 12/2005.
2. In ordine agli indici edificatori, ex art. 59, comma 3, L.R. 12/2005, è previsto soltanto un limite massimo di densità fondiaria, con conseguente possibilità di fissazione di limiti inferiori, nell'ambito della potestà di pianificazione urbanistica (cfr. TAR Brescia, sent. n. 1/2009) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 22.11.2010 n. 7305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Concessione edilizia - Rilascio - Presupposti - Idoneo titolo di godimento sull'immobile da parte del richiedente - Necessità - Consenso unanime dei comproprietari - Necessità.
Nel procedimento di rilascio della concessione edilizia la P.A. ha il potere ed il dovere di verificare l'esistenza, in capo al richiedente, di un idoneo titolo di godimento sull'immobile, interessato dal progetto di trasformazione urbanistica, trattandosi di una attività istruttoria che non è diretta, in via principale, a risolvere i conflitti di interesse tra le parti private in ordine all'assetto proprietario degli immobili interessati, ma che risulta finalizzata, più semplicemente, ad accertare il requisito della legittimazione del richiedente.
In caso di opere che vadano ad incidere sul diritto di altri comproprietari, è, pertanto, necessario il consenso degli stessi (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6529/2003; sent. n. 4972/2001; TAR Toscana, n. 1651/2001; TAR Parma, sent. n. 183/2002) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 19.11.2010 n. 7292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: P.G.T. - Osservazioni dei privati - Natura collaborativa - Rigetto delle osservazioni - Motivazione particolare - Necessità - Non sussiste.
Le osservazioni dei privati, quali apporto collaborativo alla formazione degli strumenti urbanistici che non creano peculiari aspettative, non richiedono, in caso di reiezione, una dettagliata motivazione, poiché è sufficiente che esse siano state esaminate e ragionevolmente ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano regolatore o della sua variante (cfr. Cons. di Stato, sent. n. 6911/2010, TAR Milano, sent. n. 1742/2010 e n. 268/2010) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.11.2010 n. 7289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della p.a. - Appalto - Gara - Perdita del rapporto di fiducia - Esclusione - In caso di indizione di una nuova gara - Legittima.
In forza del principio ricavabile dall'art. 38, comma 1, lett. f), D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 la stazione appaltante, in caso di indizione di nuova gara, ha la facoltà di non invitare il soggetto che in precedenza abbia svolto un servizio, qualora ritenga compromesso il rapporto fiduciario tra le parti (conf. v. Cons. Stato, Sez. V, 29.12.2009, n. 8913) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.11.2010 n. 7248 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI1. Contratti della p.a. - Appalto - Gara - Verifica di anomalia dell'offerta - Modalità - Obbligo di verificare l'inesattezza delle singole voci - Non sussiste - Valutazione complessiva dell'offerta - Legittima.
2. Contratti della p.a. - Appalto - Gara - Offerte - Art. 88, comma 7, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163 - Verifica di anomalia - Finalità - Massima collaborazione - Modificabilità delle giustificazioni - È ammessa - Limiti - Affidabilità complessiva dell'offerta.

1. Il giudizio di anomalia non ha per oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica mirando, invece, ad accertare se l'offerta, nel suo complesso, sia attendibile o inattendibile e, dunque, se dia o meno serio affidamento circa la corretta esecuzione dell'appalto (conf. v. Cons. Stato, sez. VI, 21.05.2009, n. 3146).
2. In base al tenore letterale dell'art. 88, comma 7, D.Lgs. 12.04.2006, n. 163, che esprime la finalità della verifica di anomalia, possono trarsi i seguenti princìpi: il procedimento di verifica è avulso da ogni formalismo inutile ed è invece improntato alla massima collaborazione tra stazione appaltante e offerente; il contraddittorio deve essere effettivo; non vi sono preclusioni alla presentazione di giustificazioni, ancorate al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte; mentre l'offerta è immodificabile, modificabili sono le giustificazioni e sono ammesse giustificazioni sopravvenute e compensazioni tra sottostime e sovrastime, purché l'offerta risulti nel suo complesso affidabile al momento dell'aggiudicazione (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.11.2010 n. 7246 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Procedura di ampliamento e concentrazione delle attività aziendali - Art. 5 D.P.R. 20.10.1998 n. 447 - Delibera consiliare - Indirizzi - Ambito applicativo - Illegittimità.
2. Procedura di ampliamento e concentrazione delle attività aziendali - Art. 5 D.P.R. 20.10.1998 n. 447 - Diniego di variante urbanistica - Esito favorevole conferenza di servizi - Non vincolante - Accessibilità sostenibile - Edilizia di espansione - Legittimità.

1. E' illegittima la deliberazione consiliare che, nel formulare indirizzi in ordine all'applicazione dell'art. 5 del D.P.R. n. 447/98, circoscriva l'ambito applicativo della norma ai progetti di ampliamento di attività produttive preesistenti, escludendo nuovi insediamenti (nuove iniziative).
2. Premesso che l'esito favorevole della conferenza di servizi e la proposta di variazione dello strumento urbanistico assunta dalla conferenza non è vincolante per il Consiglio comunale, che deve autonomamente valutare se aderire o meno alla stessa, si deve ritenere legittimo il diniego di variante urbanistica impugnato, motivato dalla volontà di non alterare i connotati del paesaggio agricolo, in quanto la c.d. accessibilità sostenibile (emersa in conferenza di servizi) è condizione necessaria ma non sufficiente, per l'edilizia di espansione, e non vale a rendere automaticamente edificabile un'area agricola, ovvero a determinare in capo al Comune l'obbligo di assentire la modifica di destinazione di un'area da agricola in industriale (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.11.2010 n. 7244 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Oneri concessori - Art. 4, c. 6, L.R. n. 31/2004 - Tariffa base - Deve necessariamente tenere conto degli adeguamenti periodici degli oneri di urbanizzazione - Termine ex art. 4, comma 1, L.R.n. 31/2004, per l'adozione della delibera relativa a termini e modalità di versamento - Non rileva rispetto al predetto adeguamento.
Il criterio della determinazione degli oneri concessori sulla base delle tariffe vigenti al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria è dettato dall'art. 4, c. 6, della L.R. n. 31/2004, sicché la tariffa-base deve necessariamente tenere conto degli adeguamenti periodici degli oneri di urbanizzazione, decisi dai Comuni in virtù delle generali previsioni dell'art. 16, comma 6, del DPR 380/2001 e della L.R. 12/2005.
Tale adeguamento è, dunque, espressamente previsto dalla legge regionale ed è svincolato dal rispetto del termine perentorio di trenta giorni dall'entrata in vigore della legge stessa, previsto al comma 1, per l'adozione della delibera che definisca i termini e le modalità di versamento di oneri di urbanizzazione e contributo sul costo di costruzione e preveda un incremento percentuale degli oneri relativi alla realizzazione di opere abusive riconducibili alle tipologie 1, 2 e 3 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.11.2010 n. 7243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Calcolo oneri di urbanizzazione - Art. 4 L.R. Lombardia n. 31/2004 - Termine perentorio per l'adozione della delibera attuativa - Illegittimità delibera n. 73/2007 - Non sussiste.
L'art. 4, comma 1, L.R. Lombardia n. 31/2004, dispone che la delibera con cui si incrementano gli oneri di urbanizzazione relativi alle pratiche di condono, debba essere assunta entro il termine perentorio di trenta giorni dall'entrata in vigore della legge, ma in seguito all'adozione di tale delibera attuativa (delibera G.M. 03.11.2004 n. 2493) non risulta illegittima l'adozione di nuova delibera C.C. n. 37/2007 di adeguamento periodico degli oneri concessori in quanto a tale adeguamento fa espresso richiamo il comma 6 dello stesso art. 4 che nel prevedere il criterio della determinazione degli oneri sulla base delle tariffe vigenti al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria si riferisce alle tariffe base incrementate dagli adeguamenti periodici degli oneri di urbanizzazione adottati dal Comune (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.11.2010 n. 7242 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA Quantificazione costo di costruzione ed oneri concessori relativi a permesso di costruire in sanatoria - Pagamento ed attestazioni entro il termine - Silenzio assenso - Formazione tacita del titolo in sanatoria - Diversa qualificazione dell'abuso - Richiesta conguaglio - Irrilevanza.
Nel caso in cui la documentazione prescritta dai commi 35 e 37 dell'art. 32 D.L. n. 269/2003 sia stata presentata entro il termine del 31.10.2005 (previsto dal comma 37) il decorso dei successivi ventiquattro mesi, senza provvedimenti negativi del Comune, determina la formazione tacita del titolo in sanatoria, così come previsto dall'art. 32, c. 37, D.L. n. 269/2003, non potendo ritenersi che la formazione del silenzio assenso sia impedita da una successiva richiesta di conguaglio legata ad una diversa qualificazione dell'abuso (o ad un errore in sede di autoliquidazione), in quanto la richiesta di conguaglio -che non autorizza l'amministrazione a rimettere in discussione l'intero rapporto e a riaprire il procedimento di sanatoria, facendo applicazione delle nuove tariffe successivamente entrate in vigore- non esclude la formazione del titolo tacito, salvo il caso di dichiarazione dolosamente infedele, o di carenze documentali che impediscano agli uffici comunali di esaminare tempestivamente la domanda di sanatoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.11.2010 n. 7239 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Oneri concessori - Art. 4, c. 1, L.R. n. 31/2004 - Incremento - Violazione dell'art. 32, c. 34, D.L. n. 269/2003 - Non sussiste.
La circostanza che l'incremento massimo degli oneri concessori dovuti in caso di realizzazione di opere abusive in misura pari al 50%, previsto dall'art. 4, c. 1, L.R. n. 31/2004, operi, in virtù della previsione di cui all'art. 4, c. 6 della medesima legge regionale, sulle tariffe vigenti all'atto del perfezionamento del procedimento di sanatoria, non viola alcun principio della legislazione statale.
L'art. 32, D.L. n. 269/2003, si limita, difatti, a stabilire un limite massimo di incremento degli oneri dovuti in caso di sanatoria rispetto a quanto dovuto a seguito di un rilascio di un regolare titolo edilizio, senza individuare il momento cui debba farsi riferimento per la individuazione delle tariffe da applicare ai fini della determinazione degli oneri.
Per contro, la legge regionale lombarda -con una norma esente da censure di illegittimità costituzionale, in quanto frutto di una scelta discrezionale del legislatore- prende a riferimento le tariffe vigenti al momento del perfezionamento del procedimento di sanatoria operato dall'art. 4, c. 6, l. reg. n. 31/2004. Non sussiste, pertanto, violazione del limite previsto dall'art. 32, c. 34, D.L. n. 269/2003, poiché la norma statale non dispone che gli oneri di urbanizzazione debbano essere determinati facendo applicazione delle tariffe vigenti al momento dell'entrata in vigore della legge di sanatoria (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 11.11.2010 n. 7238 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Permesso di Costruire - Distanze tra i fabbricati - Art. 878 c.c. - Caratteristiche della costruzione - Sopravvenuta carenza di interesse.
2. Permesso di Costruire - D.I.A. in variante - Art. 41 L.R. n. 12/2005 - Interpretazione.
1. Considerato l'art. 878 c.c. secondo cui il muro di cinta con altezza inferiore ai tre metri non è considerato per il computo delle distanze di cui all'art. 873 c.c., e le caratteristiche del manufatto (modificate con D.I.A.) si deve escludere la rilevanza, ai fini delle distanze, di una costruzione (muro di cinta, appunto) avente le caratteristiche di cui alla citata norma del codice civile, risultando conseguente improcedibile il gravame per sopravvenuta carenza di interesse.
2. L'art. 41 L.R. n. 12/2005 deve essere interpretata nel senso che la facoltà di presentare D.I.A. senza interruzione dei lavori per le varianti minori non esclude comunque nel rispetto del principio generale sull'alternatività tra D.I.A. e permesso di costruire di cui all'art. 41, c. 1, L.R. n. 12/2005, la facoltà per il titolare di permesso di costruire di presentare D.I.A. anche per varianti sostanziali, con la precisazione però che, non trattandosi dell'ipotesi di cui al comma 2 dello stesso articolo, per tali D.I.A. non è possibile la presentazione dopo l'ultimazione dei lavori, ma prima degli stessi, secondo il regime per così dire ordinario della denuncia di inizio attività (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2010 n. 7236 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Permesso di costruire in sanatoria - Calcolo oneri di urbanizzazione - L.R. Lombardia n. 31/2004 - Delibere comunali attuative - Tariffe vigenti al momento del rilascio del titolo - Corte Costituzionale - Legittimità.
2. Permesso di costruire in sanatoria - Calcolo oneri di urbanizzazione - Corte Costituzionale - Pronuncia interpretativa di inammissibilità - Valore di precedente - Sussiste.

1. Il conteggio degli oneri di urbanizzazione per permessi di costruire in sanatoria operato dal Comune in base alle tariffe effettivamente vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria, come prescrive il D.L. n. 269/2003 e la L.R. Lombardia n. 31/2004, aumentate in ragione dell'art. 4 L.R. n. 31/2004 e della delibera comunale n. 2644 del 16.11.2004, si deve ritenere legittimo alla luce dell'ordinanza del 17.03.2010 n. 105 della Corte Costituzionale secondo cui in un contesto di pluralità di soluzioni possibili, la scelta del legislatore regionale di privilegiare l'interesse pubblico all'adeguatezza della contribuzione dei costi reali da sostenere rispetto a quello, ad esso antitetico, del cittadino alla sua piena previsione dei costi al momento della formazione del consenso, risulta essere il frutto di una scelta discrezionale implicante un bilanciamento di interessi legittimamente svolto dal legislatore.
2. Le pronunce della Corte Costituzionale, anche se interpretative di rigetto o di inammissibilità, come l'ordinanza del 17.03.2010 n. 105 della Corte Costituzionale sulla eccezione di costituzionalità della L.R. Lombardia n. 31/2004, pur non dando formalmente luogo ad un vincolo erga omnes, previsto dall'art. 136 Costituzione per le sole sentenze di accoglimento, costituiscono però un autorevole precedente, soprattutto per il Giudice che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, come evidenziato ripetutamente dalla Corte di Cassazione che riconosce alle stesse valore di precedente, teso ad orientare, in maniera rafforzata, l'attività interpretativa delle corti di merito (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 09.11.2010 nn. 7217, 7223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Permesso di costruire in sanatoria - Quantificazione degli oneri - Aumento degli oneri - L.R. n. 31/2004 - Delibera Giunta comunale 16.11.2004 n. 2644 - Incompetenza - Art. 42 D.lgs. n. 267/2000 - Sviamento di potere - Non sussiste.
2. Permesso di costruire in sanatoria - Quantificazione degli oneri - Aumento degli oneri - L.R. n. 31/2004 - Delibera consiliare n. 73/2007 - Carenza di motivazione - Censure di merito - Inammissibilità.

1. Posto che la competenza consiliare è limitata, ai sensi dell'art. 42, c. 2, lett. f, d.lgs. n. 267/2000 alla "disciplina generale delle tariffe", e che la delibera di Giunta n. 2644/2004 non detta alcuna disciplina generale ma stabilisce soltanto l'adeguamento alla disciplina regionale degli oneri di urbanizzazione in relazione a taluni abusi edilizi, questione sicuramente riservata alla Giunta in virtù della generale e residuale competenza di tale organo prevista dall'art. 48 T.U. Enti Locali, la delibera impugnata non è affetta da incompetenza.
Peraltro la stessa non è viziata da sviamento di potere nella parte in cui avvalla la scelta del legislatore di incrementare gli oneri per le opere abusive perseguendo finalità sanzionatorie, per evitare che l'autore di un illecito edilizio, beneficiario della sanatoria, sia chiamato a corrispondere, a titolo di oneri, la stessa somma che corrisponderebbe chi chiede un regolare titolo edilizio, senza avere commesso nessun abuso.
2. La delibera consiliare n. 73/2007 con cui il Comune ha adeguato gli oneri di urbanizzazione, costituisce atto a contenuto generale, non soggetto come tale ad un obbligo di specifica motivazione ai sensi dell'art. 3, c. 2, L. n. 241/1990, e la stessa rappresenta esercizio di un'attività amministrativa caratterizzata da elevata discrezionalità non sindacabile nel merito ma suscettibile di censura solo in caso di manifesta illogicità ed irrazionalità, non riscontrabili nel caso di specie (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2010 n. 7221 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Art. 38, comma 10, D.P.R. 380/2001 - Decorrenza dei termini per il rilascio del titolo - Illegittimità del titolo - Non sussiste.
L'art. 38, comma 10, D.P.R. 380/2001, prevede, in caso di infruttuosa decorrenza dei termini fissati per il rilascio del titolo abilitativo, unicamente l'intervento sostitutivo della Regione o della Provincia, per cui sarebbe illogico ritenere che l'eventuale ritardo nel rilascio implichi di per sé l'illegittimità del titolo. Del resto, i termini per la conclusione del procedimento amministrativo sono normalmente ordinatori, salvo i casi di perentorietà espressamente indicati dalla legge, senza contare che il citato art. 38 riguarda il permesso di costruire per così dire "ordinario", sicché potrebbero esservi dubbi sulla sua applicabilità al procedimento per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria, previsto dall'art. 36 del DPR 380/2001 (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2010 n. 7220 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Quantificazione oneri concessori sulla base delle tariffe vigenti al rilascio del titolo - Formazione tacita del titolo in sanatoria - Termine per configurare il silenzio assenso - Completamento istruttoria - Legittimità.
E' legittima la comunicazione comunale di rilascio del permesso di costruire in sanatoria in cui gli oneri concessori vengono quantificati sulla base delle tariffe vigenti al momento del rilascio del titolo in quanto non si può configurare un'ipotesi di formazione di titolo abilitativo tacito in sanatoria, secondo quanto previsto dall'art. 32, c. 37, D.L. n. 269/2003, nel caso in cui il ritardo nella definizione della domanda non sia addebitabile al Comune in quanto risulta essere stato attestato all'Amministrazione, da parte del ricorrente, il completamento dell'istruttoria (segnatamente con la trasmissione dei documenti di denuncia ICI e TARSU) in un momento successivo al termine di legge risultando, conseguentemente, la comunicazione impugnata (adottata entro il termine di due anni -il cui decorso perfezionerebbe il silenzio assenso- dalla integrazione documentale), legittima e di ostacolo alla sussistenza di un tacito titolo abilitativo (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 09.11.2010 n. 7219 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: 1. Permesso di costruire in sanatoria - Art. 4, comma 6, L.R. n. 31/2004 - Oneri di urbanizzazione - Calcolo - Applicabilità delle tariffe vigenti all'atto del rilascio del permesso - Sussiste.
2. Permesso di costruire in sanatoria - Art. 32, comma 37, L. n. 326/2003 - Silenzio-assenso - Termine biennale - Decorre dalla presentazione di un'istanza debitamente documentata.

1. In relazione alla disposizione dell'art. 4, comma 6, L.R. n. 31/2004, secondo cui gli oneri di urbanizzazione e il contributo sul costo di costruzione dovuti ai fini della sanatoria sono determinati applicando le tariffe vigenti "all'atto del perfezionamento del procedimento di sanatoria", appare legittima, anche alla luce della Ordinanza della Corte Costituzionale 17.03.2010 n. 105, la pretesa dell'Amministrazione di determinare gli oneri di urbanizzazione relativi al titolo in sanatoria tenendo conto delle tariffe vigenti all'atto del rilascio del permesso, anziché delle tariffe vigenti al momento di presentazione della domanda di condono o al momento di deposito della documentazione inerente alla domanda stessa.
2. Il biennio assegnato al Comune dal comma 37 dell'art. 32, L. n. 326/2003 per provvedere sulla domanda di condono edilizio, trascorso il quale si forma il silenzio-assenso, decorre dalla presentazione di un'istanza debitamente documentata (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenze 09.11.2010 nn. 7216, 7218, 7222, 7224 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIProject financing - Asta - Proroga del termine di presentazione delle offerte - Condizioni e presupposti - Comunicazione a tutte le imprese partecipanti - Necessità - Violazione del principio di par condicio - Non sussiste.
Nel caso in cui la stazione appaltante disponga la proroga del termine per la presentazione delle offerte, non risulta violato il principio di par condicio tra i concorrenti qualora la proroga medesima sia stata comunicata alle imprese invitate, dando a queste ultime la possibilità di migliorare l'offerta già presentata, essendo rimessa, in tal caso, alla stazione appaltante la valutazione motivata in merito all'opportunità della proroga medesima (Fattispecie relativa ad una procedura di project financing per affidamento in concessione della progettazione, ristrutturazione e successiva gestione funzionale ed economica di un fabbricato) (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 09.11.2010 n. 7214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIContratti della p.a. - Controversie in tema di procedure ad evidenza pubblica - Prova di resistenza - Mancato superamento - Conseguenze - Inammissibilità del gravame - Per carenza di interesse - Sussiste.
È inammissibile per carenza di interesse il ricorso proposto avverso la procedura di selezione per la scelta di un contraente, qualora a priori risulti con certezza che il ricorrente, anche in caso di annullamento degli atti impugnati, non potrebbe risultare vincitore, stante la mancata dimostrazione del superamento della c.d. prova di resistenza (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 09.11.2010 n. 7211 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Impugnazione preavviso di diniego - Atto meramente endoprocedimentale - Conferma diniego - Provvedimento non impugnato - Inammissibilità.
E' inammissibile il ricorso avverso preavviso di diniego ex art. 10-bis L. n. 241/1990, in quanto atto meramente endoprocedimentale di per sé non immediatamente lesivo di posizioni soggettive, anche nel caso in cui il succitato preavviso di diniego fosse stato confermato dal Comune con successivo provvedimento prodotto dal ricorrente ma non formalmente impugnato, in quanto incombe al ricorrente l'onere di indicare espressamente nell'atto introduttivo i provvedimenti che si intendono impugnare, non potendosi in alcun modo ipotizzare forme di implicita estensione del gravame ad atti non oggetto di specifica indicazione in ricorso (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2010 n. 7192 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Art. 2, L.R. Lombardia n. 13/2009 - Applicabilità a unità immobiliari ricavate, a mezzo di ristrutturazione di edifici preesistenti, in data posteriore al 31.03.2005 - Sussiste.
Ai fini dell'art. 2 della L.R. Lombardia n. 13/2009, che consente il recupero edilizio e funzionale "di edifici o porzioni di edifici ultimati alla data del 31.03.2005 e non ubicati in zone destinate dagli strumenti urbanistici vigenti all'agricoltura o ad attività produttive, anche in deroga alle previsioni quantitative degli strumenti urbanistici comunali vigenti o adottati e ai regolamenti edilizi, comportante la utilizzazione delle volumetrie e delle superfici edilizie per destinazioni residenziali", non assume rilievo la circostanza che l'unità immobiliare interessata dall'intervento edilizio, situata all'interno di un edificio, sia stata ricavata a seguito di ristrutturazione in data posteriore al 31.03.2005: con la generica indicazione di "edificio" -da intendersi quale struttura edilizia idonea alla permanenza al suo interno di persone o cose- il legislatore ha, difatti, voluto riferirsi alle sole strutture esterne e ciò in considerazione della dichiarata finalità della norma di consentire "l'utilizzo del patrimonio esistente"; l'esistenza dell'edificio è, dunque, data dalla ultimazione della copertura, delle tamponature esterne e delle strutture orizzontali interne (massima tratta da www.solom.it - TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 08.11.2010 n. 7190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIL’integrazione documentale deve riferirsi alla sola “documentazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione”, per cui non è possibile rettificare o comunque modificare gli elementi costitutivi dell'offerta tecnica.
La possibilità di chiedere la regolarizzazione delle dichiarazioni lacunose e della documentazione incompleta non è un dovere assoluto ed incondizionato, ma incontra i seguenti precisi limiti applicativi: a) l'inderogabile necessità del rispetto della par condicio, in quanto l'art. 6 della L. n. 241 del 1990, non può essere invocato per supplire all'inosservanza di adempimenti procedimentali significativi o all'omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara; b) il c.d. limite degli elementi essenziali, nel senso che la regolarizzazione non può essere riferita agli elementi essenziali della domanda, salvo che gli atti tempestivamente prodotti contribuiscano a fornire ragionevoli indizi circa il possesso del requisito di partecipazione non espressamente documentato; c) l'ammissibilità nei casi di equivoche clausole del bando relative alla dichiarazione od alla documentazione da integrare o chiarire.
I chiarimenti tecnici sull’offerta possono essere “necessari a dirimere alcuni dubbi emersi nel corso dell'esame dei progetti presentati dai raggruppamenti concorrenti, poiché, attraverso tali modalità, la stazione appaltante riesce a contemperare il rispetto del principio di segretezza con le esigenze di partecipazione.

Sul potere-dovere della stazione appaltante di chiedere chiarimenti, la giurisprudenza amministrativa ha spesso affermato che l’integrazione documentale debba riferirsi alla sola “documentazione attestante il possesso dei requisiti di partecipazione”, per cui non è possibile rettificare o comunque modificare gli elementi costitutivi dell'offerta tecnica.
In tal senso, il Consiglio di Stato ha sostenuto che “la possibilità di chiedere la regolarizzazione delle dichiarazioni lacunose e della documentazione incompleta non è un dovere assoluto ed incondizionato, ma incontra i seguenti precisi limiti applicativi: a) l'inderogabile necessità del rispetto della par condicio, in quanto l'art. 6 della L. n. 241 del 1990, non può essere invocato per supplire all'inosservanza di adempimenti procedimentali significativi o all'omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara; b) il c.d. limite degli elementi essenziali, nel senso che la regolarizzazione non può essere riferita agli elementi essenziali della domanda, salvo che gli atti tempestivamente prodotti contribuiscano a fornire ragionevoli indizi circa il possesso del requisito di partecipazione non espressamente documentato; c) l'ammissibilità nei casi di equivoche clausole del bando relative alla dichiarazione od alla documentazione da integrare o chiarire” (cfr, C.d.S., sez. V, 27.03.2009, n. 1840).
La giurisprudenza amministrativa ha tuttavia anche osservato che i chiarimenti tecnici sull’offerta possono essere “necessari a dirimere alcuni dubbi emersi nel corso dell'esame dei progetti presentati dai raggruppamenti concorrenti, poiché, attraverso tali modalità, la stazione appaltante riesce a contemperare il rispetto del principio di segretezza con le esigenze di partecipazione” (cfr., TAR Lombardia, Milano, sez. III, 30.06.2004, n. 2670)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.10.2010 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIIn caso di raggruppamento temporaneo di imprese cosiddetto orizzontale, nel quale tutti gli operatori economici concorrono all'esecuzione della medesima prestazione oggetto di appalto, i requisiti di capacità tecnica ed economica devono essere posseduti da ciascuna impresa in R.T.I., “quantomeno in una misura minima giuridicamente apprezzabile, non essendo sufficiente il possesso di tali requisiti unicamente da parte di una sola delle imprese riunite”.
La valutazione dell'idoneità tecnica, finanziaria ed economica dei raggruppamenti, quando si riferisce ad aspetti di carattere oggettivo, va effettuata, in via di principio, cumulativamente, tenendo conto della sommatoria dei mezzi e delle qualità che fanno capo a tutte le imprese raggruppate.
Il principio di corrispondenza sostanziale, già in fase di offerta, tra quote di qualificazione e quote di partecipazione all'A.T.I. e tra quote di partecipazione e quote di esecuzione, da tempo affermatosi in materia di lavori e sancito nell'art. 37, comma 6, D.Lgs. n. 163 del 2006, non è estensibile agli appalti di servizi (per i quali, come è noto, il nostro ordinamento non contempla un rigido sistema normativo di qualificazione dei soggetti esecutori) in cui è riconosciuta alle Amministrazioni aggiudicatrici una più ampia discrezionalità nell'individuazione dei requisiti di capacità tecnica e nella correlazione di questi con l'istituto del raggruppamento di imprese.

La giurisprudenza amministrativa ha concordemente affermato che in caso di raggruppamento temporaneo di imprese cosiddetto orizzontale, nel quale tutti gli operatori economici concorrono all'esecuzione della medesima prestazione oggetto di appalto, i requisiti di capacità tecnica ed economica devono essere posseduti da ciascuna impresa in R.T.I., “quantomeno in una misura minima giuridicamente apprezzabile, non essendo sufficiente il possesso di tali requisiti unicamente da parte di una sola delle imprese riunite” (cfr., TAR Lombardia, Milano, sez. I, 07.04.2009, n. 3227).
In tal senso, è stata considerata legittima l'esclusione da una gara d'appalto di un’associazione concorrente composta da imprese parzialmente prive dei requisiti di capacità tecnica richiesti dal bando ai fini della partecipazione alla gara, “atteso che, per costante orientamento giurisprudenziale, non è sufficiente la dimostrazione del possesso di detti requisiti da parte dell'associazione nel suo complesso, occorrendo invece la dimostrazione da parte di ciascuna impresa raggruppata” (cfr., TAR Lazio, Roma, sez. III, 01.04.2003, n. 2878).
Sul punto, deve essere ancora osservato che, nel vigente quadro normativo, le forme di aggregazione dei soggetti aspiranti all'affidamento di appalti pubblici hanno essenzialmente lo scopo di aprire la dinamica concorrenziale, consentendo la coalizione di imprese di minori dimensioni per favorire la loro crescita e soprattutto l'ingresso su mercati più estesi.
In questa prospettiva, i raggruppamenti temporanei sono comunque assoggettati ad un trattamento tendenzialmente uguale, o comunque non deteriore, rispetto a quello previsto, in generale, per i soggetti che partecipano alla gara singolarmente. “Pertanto, relativamente ai requisiti per l'accesso alla gara, salvo che non si tratti di condizioni soggettive che, per prescrizione di legge o per espressa disposizione di bando, devono essere necessariamente possedute singolarmente da ciascuna delle imprese riunite, la valutazione dell'idoneità tecnica, finanziaria ed economica dei raggruppamenti, quando si riferisce ad aspetti di carattere oggettivo, va effettuata, in via di principio, cumulativamente, tenendo conto della sommatoria dei mezzi e delle qualità che fanno capo a tutte le imprese raggruppate” (cfr., TAR Campania, Napoli, sez. I, 14.07.2006, n. 7509).
Tuttavia, proprio per impedire che si verifichino situazioni distorsive degli assetti concorrenziali, è imprescindibile l'esigenza di non trasformare la riunione di imprese in uno strumento elusivo delle regole impositive di un livello minimo di capacità per la partecipazione agli appalti. “Tale esigenza si presenta ancora più impellente nel caso di raggruppamento temporaneo orizzontale, nel quale tutti gli operatori economici concorrono all'esecuzione della medesima prestazione oggetto di appalto, con la conseguenza che analogo rigore deve essere osservato sia in presenza di requisiti non frazionabili che di quelli frazionabili, quali la capacità tecnica ed economica. Ne deriva che, nell'ipotesi di requisito frazionabile, esso deve essere posseduto da ciascuna impresa in A.T.I. nella misura prescritta dalla legge o dal bando e, in mancanza, almeno in una misura minima giuridicamente apprezzabile” (cfr., TAR Campania, Napoli, sez. I, 07.10.2008, n. 13437).
Sull’ulteriore questione della corrispondenza, perfetta o imperfetta, tra requisiti per l’accesso alla gara e ripartizione dei servizi futuri, il Collegio fa propria la recente considerazione della giurisprudenza amministrativa volta ad osservare che “il principio di corrispondenza sostanziale, già in fase di offerta, tra quote di qualificazione e quote di partecipazione all'A.T.I. e tra quote di partecipazione e quote di esecuzione, da tempo affermatosi in materia di lavori e sancito nell'art. 37, comma 6, D.Lgs. n. 163 del 2006, non è estensibile agli appalti di servizi (per i quali, come è noto, il nostro ordinamento non contempla un rigido sistema normativo di qualificazione dei soggetti esecutori) in cui è riconosciuta alle Amministrazioni aggiudicatrici una più ampia discrezionalità nell'individuazione dei requisiti di capacità tecnica e nella correlazione di questi con l'istituto del raggruppamento di imprese” (cfr., TAR Sicilia, Catania, sez. III, 27.02.2009, n. 423).
Negli stessi termini è stato altresì osservato che l'art. 37, comma 4, del decreto legislativo n. 163 del 2006 “si limita a stabilire che le associazioni temporanee di imprese devono specificare le parti del servizio che saranno eseguite da ciascun singolo operatore, mentre il successivo art. 42 nulla dispone in merito al rapporto tra requisiti di capacità tecnica e quota di partecipazione all'associazione temporanea”, e che pertanto, “in ipotesi di affidamento di appalti di servizi ovvero di forniture”, le ditte riunite in raggruppamento è sufficiente che dimostrino “ai fini della partecipazione e dell'ammissione delle domande, il possesso dei requisiti indicati nel bando e corrispondenti al tipo di servizio o di fornitura da eseguirsi” (cfr., TAR Lazio, Roma, sez. II, 09.10.2009, n. 9861)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.10.2010 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa legittimazione a rendere la dichiarazione del possesso dei requisiti di cui all'art. 38 D.Lgs. 163/2006 spetta al legale rappresentante dell’impresa ed essa assume come destinatari "tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta, al soggetto rappresentato".
Il requisito della moralità professionale deve essere valutato in capo ai soggetti che svolgono funzioni rappresentative delle ditte concorrenti nella gare pubbliche, avuto riguardo alle funzioni sostanziali di essi più che alle qualifiche formali e, quindi, al concreto esercizio del potere di rappresentanza della persona giuridica.

L’invocato art. 38 stabilisce, in particolare, che devono essere esclusi dalla partecipazione alle procedure pubbliche di affidamento di lavori, forniture e servizi le imprese con amministratori muniti del potere di rappresentanza e direttore tecnico, sia in carica che cessati nel triennio antecedente la data di pubblicazione del bando, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto penale di condanna divenuto irrevocabile, oppure sentenza di applicazione della pena su richiesta, per reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale.
La legittimazione a rendere la dichiarazione del possesso dei requisiti di cui al citato art. 38 spetta dunque al legale rappresentante dell’impresa ed essa assume come destinatari, secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato che il Collegio condivide, “tutti coloro che, in quanto titolari della rappresentanza dell'impresa, siano in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell'ordinamento nei riguardi della loro personale condotta, al soggetto rappresentato” (cfr., C.d.S., sez. V, 09.03.2010, n. 1373).
Non ignora il Tribunale il complesso dibattito sviluppatosi sulla portata del menzionato art. 38, le disposizioni del quale possono essere integrate anche in relazione alle ulteriori disposizioni integrative contenute nei bandi di gara, tema sul quale la giurisprudenza amministrativa non ha ancora trovato soluzioni unanimi. In proposito, questo Tribunale ha già avuto occasione per affermare che sussiste detto obbligo di dichiarazione nei confronti “di chi rivesta (o abbia rivestito) la carica di amministratore, ma anche di colui che, in qualità di vice presidente vicario, o di institore, o di procuratore ad negotia, abbia ottenuto il conferimento di poteri consistenti nella rappresentanza dell'impresa e nel compimento di atti decisionali”.
In definitiva, valorizzando più l’effettività del potere che la mera titolarità, “il requisito della moralità professionale deve essere valutato in capo ai soggetti che svolgono funzioni rappresentative delle ditte concorrenti nella gare pubbliche, avuto riguardo alle funzioni sostanziali di essi più che alle qualifiche formali e, quindi, al concreto esercizio del potere di rappresentanza della persona giuridica” (cfr., T.R.G.A., 24.06.2010, n. 162 e la giurisprudenza ivi richiamata).
Il Tribunale ha precisato, altresì, che presupposto indefettibile per l’esclusione dalla gara, ai sensi del solo art. 38, è, peraltro, la sussistenza di precedenti penali per gravi reati in danno dello Stato o della Comunità che incidano sulla moralità professionale, mentre non assume alcun rilievo, in assenza di una specifica disposizione nella normativa di gara, “il mero dato formale della non veridicità della dichiarazione circa i soggetti che abbiano ricoperto le cariche rilevanti nel periodo di tempo all'uopo preso in considerazione dalla disciplina normativa”.
Nella specie, nemmeno in corso di giudizio alcun principio di prova è stato offerto sull’esistenza o meno di precedenti penali a carico dei nominati amministratori. Deve pertanto concludersi che, in mancanza di prove dirette ad evidenziare che le dichiarazioni sul pregiudizio penale carenti della specificazione di amministratori che abbiano ricoperto cariche rilevanti abbiano attribuito una posizione di vantaggio, anche solo per il profilo morale, al concorrente che le ha prodotte (e che quindi esse, anche potenzialmente, abbiano inciso sul procedimento fuorviando le statuizioni della stazione appaltante - cfr., in termini, C.d.S., sez. VI, 08.07.2010, n. 4436), debba essere fatta applicazione del cosiddetto falso innocuo.
Trattasi, in definitiva, “per mutuare categorie penalistiche, di un falso privo di qualsivoglia offensività rispetto agli interessi presidiati dalle regole che governano la procedura di evidenza pubblica, come tale non stigmatizzabile con la sanzione dell'esclusione” (cfr., C.d.S., sez. V, 13.02.2009, n. 829 e, in termini, T.R.G.A. Trento, 07.10.2009, n. 251) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.10.2010 n. 199 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di autorimesse e parcheggi destinati al servizio di fabbricati esistenti è soggetta ad autorizzazione gratuita esclusivamente se effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale.
Le autorimesse edificate fuori terra non rientrano nell’ambito di operatività dell’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, sicché sono soggette alla disciplina urbanistica come ordinarie nuove costruzioni.
Il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 9 della legge 122/1989, in particolare laddove consente interventi gratuiti ed anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, fa sì che essa debba trovare rigorosa applicazione ai soli casi in essa espressamente previsti. Non si spiegherebbe la deroga anche alla disciplina delle distanze ove i manufatti di cui si discute non fossero interamente interrati né avrebbe giustificazione l’esenzione dagli oneri urbanistici per la realizzazione di volumetrie fuori terra.

Secondo il primo comma dell’art. 9 della legge Tognoli, “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell'uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell'ambiente e per i beni culturali ed ambientali.”
Con riferimento a tale disposizione la Suprema Corte di Cassazione ha osservato che la realizzazione di autorimesse e parcheggi destinati al servizio di fabbricati esistenti è soggetta ad autorizzazione gratuita esclusivamente se effettuata totalmente al di sotto del piano di campagna naturale (Cass. Sez. III n. 26825 del 2003).
Aderisce a tale orientamento la più recente giurisprudenza del Consiglio di Stato, rilevando che le autorimesse edificate fuori terra non rientrano nell’ambito di operatività dell’art. 9 l. 24.03.1989 n. 122, sicché sono soggette alla disciplina urbanistica come ordinarie nuove costruzioni (cfr. CdS Sez. V n.1662 del 2004 e IV 6065/2006).
E’ opinione del Collegio che il carattere eccezionale della norma contenuta nell’art. 9 della legge 122/1989, in particolare laddove consente interventi gratuiti ed anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi, fa sì che essa debba trovare rigorosa applicazione ai soli casi in essa espressamente previsti. Non si spiegherebbe la deroga anche alla disciplina delle distanze ove i manufatti di cui si discute non fossero interamente interrati né avrebbe giustificazione l’esenzione dagli oneri urbanistici per la realizzazione di volumetrie fuori terra (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.06.2010 n. 1056 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPuò attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica.
Può attuarsi un intervento di ristrutturazione edilizia (di demolizione e ricostruzione) in quanto esista un organismo edilizio dotato di mura perimetrali, strutture orizzontali e copertura in stato di conservazione tale da consentire la sua fedele ricostruzione, mentre non è ravvisabile siffatto intervento nei confronti di ruderi o edifici da tempo demoliti, attesa la mancanza di elementi sufficienti a testimoniare le dimensioni e le caratteristiche dell'edificio da recuperare, configurandosi in quest'evenienza, invero, un intervento di nuova costruzione, assoggettato ai limiti stabiliti dalla vigente disciplina urbanistica (Così Tar Veneto Venezia, Sez. II, 1667/2008).
Ritiene, infatti, il Collegio di aderire ad un consolidato indirizzo, recentemente ribadito in giurisprudenza, secondo il quale “Ai sensi degli artt. 10 e 22, comma 3, t.u. 06.06.2001, n. 380, le attività edilizie consistenti nella demolizione e ricostruzione che non avvengano nel rispetto della stessa volumetria e sagoma del manufatto preesistente, sono da qualificare come nuove costruzioni, assoggettate al permesso di costruire” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 16.03.2007, n. 1276 ma v. anche TAR Marche, 07.04.2006, n. 139; Consiglio Stato, sez. V, 01.04.2006, n. 2085).
Ora, poiché rispetto ad una costruzione che sia ridotta allo stato di rudere non è possibile compiere una valutazione in termini di compatibilità delle caratteristiche planovolumetriche tra lo stato dell’edificio prima e dopo l’intervento di riedificazione, appare chiaro come la ricostruzione di un edificio allo stato di rudere debba essere qualificata come nuova costruzione e debba essere assentita mediante permesso a costruire (cfr. TAR Calabria Catanzaro, Sez. II, 14.12.2004, n. 2381 e Tar Catanzaro 1486/2007)
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 09.02.2010 n. 131 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall'edificio, costituendo solo un prolungamento dell'appartamento dal quale protendono, e non svolgono alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura, viceversa è a dirsi per le terrazze a livello incassate nel corpo dell'edificio, con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell'edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell'edificio e contribuiscono quindi alla determinazione del volume.
Il Collegio condivide il prevalente orientamento giurisprudenziale secondo cui, mentre i balconi aggettanti sono quelli che sporgono dalla facciata dall'edificio, costituendo solo un prolungamento dell'appartamento dal quale protendono, e non svolgono alcuna funzione di sostegno né di necessaria copertura, viceversa è a dirsi per le terrazze a livello incassate nel corpo dell'edificio (come nel caso di specie), con la conseguenza che mentre i primi, quelli aggettanti, non determinano volume dell'edificio, nel secondo caso essi costituiscono corpo dell'edificio e contribuiscono quindi alla determinazione del volume (cfr. Consiglio Stato , sez. IV, 07.07.2008, n. 3381) (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 02.02.2010 n. 62 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALIHa rilevanza giuridica l’interesse del progettista ricorrente a contestare non solo i provvedimenti di annullamento dei progetti da questo redatti ma anche le iniziative procedimentali che possano costituire definitivo impedimento alla realizzazione dell’opera da lui progettata.
L’Amministrazione può chiaramente decidere di non dare esecuzione al progetto del ricorrente, così come può decidere di dar corso a una nuova progettazione che sia incompatibile con il primo progetto, ma deve far ciò nel rispetto delle regole che presidiano la sua attività e nel rispetto dei giudicati nel frattempo intervenuti.
Al Comune non è impedito annullare le delibere con cui sono stati approvati i progetti del ricorrente, purché ciò avvenga in modo legittimo e con la partecipazione dell’interessato, così come non gli è impedito affidare ad altri la progettazione dell’intervento da realizzare nell’area, ma a condizione che sia previamente e legittimamente rimossa la procedura che riguarda il progetto redatto dal ricorrente.

Il Collegio, richiamando la copiosa giurisprudenza in materia di interesse morale al ricorso (cfr., fra le più recenti, Cons. St., IV, n. 434/ 2009, Cons. St., V. n. 1328/2008, Cons. St., IV, n. 4251/2007), non può che confermare le valutazioni già espresse in precedenza da questo Tribunale e dal Consiglio di Stato con riferimento alla rilevanza giuridica dell’interesse del ricorrente a contestare, non solo i provvedimenti di annullamento dei progetti da questo redatti, ma anche le iniziative procedimentali che (come quelle di cui agli atti impugnati) possano costituire definitivo impedimento alla realizzazione dell’opera da lui progettata.
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Va, infine, svolta un’ultima considerazione sull’affermazione del Comune secondo cui il progettista non ha, comunque, titolo per richiedere l’esecuzione del progetto, potendo a questi solo riconoscersi un limitato diritto a non veder stravolto il proprio lavoro, con il conseguente diritto dell’Amministrazione di eseguire l’opera secondo modalità differenti rispetto a quelle definite in precedenza, ovvero di non eseguirla affatto.
Il Collegio condivide pienamente tale assunto.
L’Amministrazione può chiaramente decidere di non dare esecuzione al progetto del ricorrente, così come può decidere di dar corso a una nuova progettazione che sia incompatibile con il primo progetto, ma deve far ciò nel rispetto delle regole che presidiano la sua attività e nel rispetto dei giudicati nel frattempo intervenuti.
In conseguenza, al Comune non è impedito annullare le delibere con cui sono stati approvati i progetti del ricorrente, purché ciò avvenga in modo legittimo e con la partecipazione dell’interessato, così come non gli è impedito affidare ad altri la progettazione dell’intervento da realizzare nell’area, ma a condizione che sia previamente e legittimamente rimossa la procedura, tutt’oggi sospesa, che riguarda il progetto redatto dal ricorrente
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 10.12.2009 n. 1432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAUna volta accertato che vi è stata reiterazione di un vincolo espropriativo senza previsione di un’indennità occorre tuttavia precisare che questa mancanza non determina l’illegittimità dello strumento urbanistico. Il diritto a ottenere un ristoro dall’amministrazione si colloca su un piano distinto da quello urbanistico e sorge ex lege con l’approvazione dell’atto di reiterazione del vincolo. Il proprietario ha a disposizione la procedura amministrativa ex art. 39, comma 2, del DPR 327/2001 per provocare la liquidazione dell’indennità qualora lo strumento urbanistico non abbia provveduto.
Il vincolo conformativo viene tenuto distinto da quello espropriativo sulla base di alcune caratteristiche, non necessariamente cumulative:
a) investe una generalità di beni e di soggetti indipendentemente dal successivo instaurarsi di procedure espropriative (v. Cass. civ. Sez. I 27.02.2004 n. 3966);
b) destina parti del territorio comunale ad usi pubblici operando nell'ambito della mera zonizzazione (v. Cass. civ. SU 25.11.2008 n. 28051);
c) consente la realizzazione dell’intervento di interesse pubblico a cura dei privati senza necessità di previa espropriazione (v. C.Cost. 20.05.1999 n. 179; CS Sez. IV 10.07.2007 n. 3880).
Facendo applicazione in concreto di questi criteri si potrebbero qualificare come soltanto conformative tutte le zonizzazioni relative a servizi che costituiscono standard urbanistico quando manchi la contestuale localizzazione di un’opera pubblica specifica o quando sia attribuita ai privati la possibilità di realizzare l’intervento in alternativa all’ente pubblico.
Una simile interpretazione comporta tuttavia il rischio di uno scontro tra il diritto interno e la tutela della proprietà offerta dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, la quale in base all’art. 6(F) par. 2 del Trattato di Maastricht costituisce parte integrante dei principi generali del diritto comunitario. Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo è costante il giudizio negativo verso le forme indirette di espropriazione, con particolare riguardo all’accessione invertita, di cui viene censurato sia lo scopo di ratifica di un comportamento illegale sia l’effetto di riduzione della sicurezza giuridica (v. CEDU Sez. II 18.03.2008 n. 1717/03, Velocci, punto 40).
Considerazioni analoghe sotto il profilo della sicurezza giuridica sono svolte a proposito dei vincoli espropriativi contenuti negli atti di pianificazione urbanistica. La Corte, pur escludendo che in questo caso si verifichi un’espropriazione di fatto, censura la situazione di incertezza in cui sono posti i titolari del diritto di proprietà nonché i disagi derivanti dal divieto di costruire e dalla diminuzione delle opportunità di vendita, in particolare quando non sia dimostrato un possibile uso alternativo del bene (v. CEDU Sez. I 15.07.2004 n. 36815/97, Scordino, punti 71, 94-99). Secondo la Corte, verificandosi queste condizioni, l’equilibrio deve essere ristabilito mediante un indennizzo.
La necessità di un indennizzo è correlata alla natura sostanzialmente espropriativa del vincolo. Un vincolo sostanzialmente espropriativo è equiparato a un vincolo formalmente preordinato all’esproprio (art. 39 comma 1 del DPR 08.06.2001 n. 327). Tenendo conto di quanto riportato sopra al punto 16, si deve poi considerare ininfluente la possibilità per il proprietario di eseguire l’intervento in luogo dell’amministrazione, tranne quando il proprietario abbia delle qualità particolari collegate alle destinazioni urbanistiche ammesse o disponga di un’organizzazione e di mezzi economici che gli consentano di eseguire effettivamente, e in modo vantaggioso, il suddetto intervento.
In sostanza deve trattarsi di un imprenditore interessato ad assumere nei confronti dell’amministrazione la posizione di aggiudicatario o di concessionario di lavori pubblici. Solo chi rientra in questa categoria è in posizione di effettiva parità con l’amministrazione, in quanto riceve dal vincolo non una limitazione nell’uso del bene ma l’opportunità di realizzare un intervento edilizio utile sotto il profilo economico (per conseguire questo fine il soggetto privato potrebbe anche assumere il ruolo di promotore o di beneficiario dell’espropriazione). Chi invece non dispone di caratteristiche o mezzi particolari, o almeno di un interesse particolare, subisce il vincolo e rimane in una situazione di incertezza in attesa dell’espropriazione.
Conseguentemente si ritiene che la mancata localizzazione nel PRG di una specifica opera pubblica e la possibilità di subentro dei privati non escludano la presenza di un vincolo sostanzialmente espropriativo. La tecnica di redazione della variante al PRG, che si sostanzia in una pluralità di microzone e di piani attuativi, individua infatti in modo preciso l’interesse pubblico e determina nella stessa misura la perdita delle facoltà edificatorie dei privati. D’altra parte non è stato dimostrato che la ricorrente possieda le caratteristiche descritte sopra al punto 17 per eseguire direttamente e utilmente le opere che costituiscono standard urbanistico secondo le tipologie ammesse in zona F2, né accordi in questo senso sono stati assunti dalla ricorrente e dal Comune.
Una volta accertato che vi è stata reiterazione di un vincolo espropriativo senza previsione di un’indennità occorre tuttavia precisare che questa mancanza non determina l’illegittimità dello strumento urbanistico (v. CS AP 24.05.2007 n. 7; TAR Brescia 08.05.2006 n. 453; TAR Brescia 11.11.2005 n. 1144). Il diritto a ottenere un ristoro dall’amministrazione si colloca su un piano distinto da quello urbanistico e sorge ex lege con l’approvazione dell’atto di reiterazione del vincolo. Il proprietario ha a disposizione la procedura amministrativa ex art. 39, comma 2, del DPR 327/2001 per provocare la liquidazione dell’indennità qualora lo strumento urbanistico non abbia provveduto. Le questioni relative all’inerzia dell’amministrazione nella quantificazione dell’indennità appartengono al giudice ordinario ex art. 39 comma 4 del DPR 327/2001 (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 08.07.2009 n. 1461 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAUna piscina è, di fatto, una cisterna di acqua: una cisterna-vasca a cielo aperto, che si differenzia dalle cisterne-deposito soltanto per la destinazione al nuoto, per gli abbellimenti, la impermeabilizzazione e le attrezzature idriche connesse, ma che concettualmente null'altro è se non un contenitore di acqua.
L'art. 889 c.c. nel disciplinare la distanza da osservare nella costruzione di determinate opere (pozzi, cisterne, fosse, tubi) presso il confine, tiene conto della loro potenziale attitudine ad arrecare danno alla proprietà contigua stabilendo per esse una presunzione assoluta di pericolosità. Tra dette opere non rientrano i contenitori interrati, prefabbricati o realizzati in loco (nella specie: serbatoio di eternit) a tenuta impermeabile con la funzione di contenere le infiltrazioni e i travasamenti nel fondo finitimo, in quanto per tali contenitori non soccorre la presunzione assoluta di pericolosità, ed è, pertanto, necessario accertare in concreto, sulla base delle loro specifiche caratteristiche (struttura e composizione del materiale, distanza dal confine), se abbiano o meno attitudine a cagionare danno.

L'elencazione di cui all'art. 889 c.civile è tassativa. Sennonché, senza utilizzare in alcun modo l'analogia, una piscina è, di fatto, una cisterna di acqua: una cisterna-vasca a cielo aperto, che si differenzia dalle cisterne-deposito soltanto per la destinazione al nuoto, per gli abbellimenti, la impermeabilizzazione e le attrezzature idriche connesse, ma che concettualmente null'altro è se non un contenitore di acqua.
Le disposizioni di cui agli art. 889 e 891 c.c. si riferiscono a fattispecie del tutto diverse tra loro, in considerazione della specificità sia della natura delle opere in esse rispettivamente previste, sia della "ratio" cui ciascuna è informata. Infatti, la prescrizione di cui all'art. 889 c.c. (distanze per pozzi, cisterne, fossi e tubi) mira ad evitare il pericolo di infiltrazioni a danno del fondo del vicino (nei cui confronti prevede una presunzione assoluta di danno), allorché le opere in essa indicate siano eseguite a distanza inferiore di due metri dal confine, mentre la norma di cui all'art. 891 c.c. (distanze tra i canali, i fossi ed il confine) è ispirata all'esigenza di scongiurare il pericolo di franamento che tali opere possono cagionare nei confronti del fondo del vicino (Cassazione civile, sez. II, 19.06.1995, n. 6928).
Dunque l'art. 889 mira a prevenire le infiltrazioni; ma va ricordato che la giurisprudenza ha escluso la presunzione di pericolo per i contenitori in metallo o cemento prefabbricato, ed anche per quelli costruiti in loco purché in maniera impermeabile.
L'art. 889 c.c. nel disciplinare la distanza da osservare nella costruzione di determinate opere (pozzi, cisterne, fosse, tubi) presso il confine, tiene conto della loro potenziale attitudine ad arrecare danno alla proprietà contigua stabilendo per esse una presunzione assoluta di pericolosità. Tra dette opere non rientrano i contenitori interrati, prefabbricati o realizzati in loco (nella specie: serbatoio di eternit) a tenuta impermeabile con la funzione di contenere le infiltrazioni e i travasamenti nel fondo finitimo, in quanto per tali contenitori non soccorre la presunzione assoluta di pericolosità, ed è, pertanto, necessario accertare in concreto, sulla base delle loro specifiche caratteristiche (struttura e composizione del materiale, distanza dal confine), se abbiano o meno attitudine a cagionare danno (Cassazione civile, sez. II, 08.04.1986, n. 2436).
Nel caso di specie la CTU ha accertato che trattasi di piscina prefabbricata con pareti in pannelli di acciaio, rivestiti con uno strato di poliestere al silicone. L'insieme dei pannelli e contrafforti reggispinta è ancorato ad una soletta perimetrale. L'impermeabilizzazione è assicurata da un rivestimento in telo PVC saldato a caldo. Le esondazioni sono prevenute mediante scarichi di troppo pieno.
Il CTU ha poi chiarito che pericoli di infiltrazioni potrebbero derivare soltanto dall'abbandono prolungato del manufatto, mentre un suo normale utilizzo non dà motivo di temere infiltrazioni.
Quindi, seguendo la convincente giurisprudenza sopra citata, l'ambito di applicazione dell'art. 889 c.civ. va ridotto alle cisterne e vasche non impermeabili, e va escluso in ipotesi come quella di cui si discute, nella quale si è in presenza di una vasca con struttura in metallo impermeabilizzata, e dotata di opportuni scarichi (Corte d'Appello di Firenze, Sez. I civile, sentenza 19.06.2009 n. 814).

COMPETENZE PROGETTUALIE' inibito al geometra occuparsi di strutture in cemento armato, salvo nel caso di piccole costruzioni accessorie di carattere rurale, che per intrinseca destinazione non possano implicare pericolo per l’incolumità delle persone, con la conseguenza che, ove il rapporto professionale abbia invece avuto oggetto costruzioni per civile abitazione con impiego di cemento armato, esso è affetto da nullità e non può fondare la pretesa di alcun compenso.
La competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili riguarda le costruzioni rurali e degli edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone, nonché il progetto, la direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili.
La competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato. Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità. Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri”.
La competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, non richiedenti particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non comportanti pericolo per le persone, restando la suddetta competenza comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione è consolidata nel ritenere che è inibito al geometra occuparsi di strutture in cemento armato, salvo nel caso di piccole costruzioni accessorie di carattere rurale, che per intrinseca destinazione non possano implicare pericolo per l’incolumità delle persone, con la conseguenza che, ove il rapporto professionale abbia invece avuto oggetto costruzioni per civile abitazione con impiego di cemento armato, esso è affetto da nullità e non può fondare la pretesa di alcun compenso, come emerge chiaramente dalle seguenti massime:
- “la competenza professionale dei geometri in materia di progettazione e direzione dei lavori di opere edili, prevista dall'articolo 16 del r.d. 11.02.1929 n. 274, riguarda le costruzioni rurali e degli edifici per uso di industrie agricole, di limitata importanza, di struttura ordinaria, comprese piccole costruzioni accessorie in cemento armato che non richiedono particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non possono comunque implicare pericolo per la incolumità delle persone, nonché il progetto, la direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili. (Nella specie la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso del geometra -avverso la sentenza che gli aveva negato i compensi per la ristrutturazione di un fabbricato con travi e pilastri in cemento armato- secondo cui erroneamente la corte di merito aveva ritenuto che la progettazione in cemento armato è esclusa dalla competenza dei geometri indipendentemente dalla modestia dell'opera)” (Cass. 21.12.2006 n. 27441)
- “a norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274, che non è stato modificato dalla legge n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, essendo riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato.
Pertanto, la progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri o degli architetti sono illegittime, a nulla rilevando in proposito che un progetto redatto da un geometra sia controfirmato o vistato da un ingegnere ovvero che un ingegnere esegua i calcoli in cemento armato, atteso che il professionista competente deve essere altresì titolare della progettazione, trattandosi di competenze inderogabilmente affidate dal committente al professionista abilitato secondo il proprio statuto professionale, sul quale gravano le relative responsabilità.
Ne consegue che, qualora il rapporto professionale abbia avuto ad oggetto una costruzione per civili abitazioni, è affetto da nullità il contratto anche relativamente alla direzione dei lavori affidata a un geometra, quando la progettazione -richiedendo l'adozione anche parziale dei calcoli in cemento armato- sia riservata alla competenza degli ingegneri
” (Cass. 26 luglio 2006 n. 17028);
- “a norma dell'art. 16, lett. m), r.d. 11.02.1929, n. 274 (d'attuazione della legge n. 1395 del 1923), e come si ricava anche dalle leggi n. 1068 del 1971 e n. 64 del 1974 (che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche) nonché dalla legge n. 144 del 1949 (recante la tariffa professionale), la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo art., solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, non richiedenti particolari operazioni di calcolo e per la loro destinazione non comportanti pericolo per le persone, restando la suddetta competenza comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali (In applicazione del suindicato principio la Corte Cass. ha escluso potersi considerare priva di pericolo per la pubblica incolumità e conseguentemente rientrare nella competenza del geometra, la redazione di un piano di lottizzazione comprendente la progettazione di due complessi residenziali, ciascuno di tre piani fuori terra, oltre a cantine e boxes, trattandosi in tal caso di opere comportanti la soluzione di problemi tecnici non solo in ordine ai calcoli del cemento armato, ma anche in relazione alle opere di urbanizzazione primaria da realizzare)” (Cass. 14.04.2005 n. 7778);
- “a norma dell'art. 16, lett. m), del R.D. 11.02.1929 n. 274, la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione anche parziale di strutture in cemento armato, mentre, in via di eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo articolo, solo con riguardo alle piccole strutture accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, restando quindi esclusa la suddetta competenza nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza, è riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali” (Cass. 30.03.2005 n. 6649);
- “a norma dell'art. 16, lett. m), R.D. 11.02.1929, n. 274 (d'attuazione della legge n. 1395 del 1923), e come si ricava anche dalla legge n. 1068 del 1971 dalla legge n. 64 del 1974 (che hanno rispettivamente disciplinato le opere in conglomerato cementizio e le costruzioni in zone sismiche) nonché dalla legge n. 144 del 1949 (recante la tariffa professionale), la competenza dei geometri è limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione -anche parziale- di strutture in cemento armato, mentre, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lett. l) del medesimo art., solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone, restando la suddetta competenza comunque esclusa nel campo delle costruzioni civili ove si adottino strutture in cemento armato, la cui progettazione e direzione, qualunque ne sia l'importanza è pertanto riservata solo agli ingegneri ed architetti iscritti nei relativi albi professionali (Nel fare applicazione del suindicato principio la Corte Cass. ha rigettato l'impugnazione, considerando infondata la tesi del ricorrente secondo cui nel suindicato divieto per i geometri non ricadrebbero i manufatti "isostatici", da realizzare per intero in conglomerato, senza iterazione con corpi di fabbrica in muratura tradizionale, altresì escludendo che le innovazioni introdotte nei programmi scolastici degli istituti tecnici possano ritenersi avere ampliato, mediante l'inclusione tra le materie di studio d'alcuni argomenti attinenti alle strutture in cemento armato, le competenze professionali dei medesimi)” (Cass. 15.02.2005 n. 3021).
Nella specie, l’esame della documentazione prodotta e della relazione del consulente tecnico d’ufficio rivela che le prestazioni professionali si riferiscono ad una villetta per civile abitazione, libera su quattro lati e disposta su un piano scosceso, composta di tre piani fuori terra (compreso il sottotetto) oltre al piano seminterrato, non realizzata in semplice muratura, ma con getti di calcestruzzo in cemento armato, sia per le strutture di sostegno delle terre scoscese, sia per l’ossatura centrale portante dell’edificio, avente una volumetria complessiva stimabile per difetto in almeno 1.500 mc.. La non trascurabile complessità della struttura edilizia e la sua destinazione a civile abitazione fanno categoricamente escludere la competenza professionale del geometra per la progettazione e la direzione lavori. Ne segue che nessun compenso può essere preteso dal ... per prestazioni che non poteva e non doveva svolgere, sicché, in applicazione dei principi giuridici esposti, l’impugnazione va decisamente respinta (Corte d'Appello di Firenze, Sez. I, sentenza 04.06.2009 n. 762).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di distanze nelle costruzioni, nel caso di trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale rispetto all'altrui fondo, il comodo affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con l'azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è possibile porre rimedio con l'esecuzione di opere idonee, secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice di merito in quanto sorretto da coerente motivazione, ad evitare l'affaccio a distanza inferiore a quella legale.
In tema di distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell'ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini; ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria.
In linea di principio, una recente pronuncia della Corte di Cassazione insegna che: “in tema di distanze nelle costruzioni, nel caso di trasformazione del tetto in terrazzo, munito di riparo o ringhiera, che venga a trovarsi a distanza inferiore a quella legale rispetto all'altrui fondo, il comodo affaccio esercitabile su di questo costituisce turbativa del possesso del vicino. Tale possesso è reclamabile con l'azione di manutenzione ed alla predetta turbativa è possibile porre rimedio con l'esecuzione di opere idonee, secondo l'insindacabile apprezzamento del giudice di merito in quanto sorretto da coerente motivazione, ad evitare l'affaccio a distanza inferiore a quella legale” (massima tratta da Cass. 07.05.2008 n. 11201).
I
n ordine all’efficacia civilistica delle norme urbanistiche, la giurisprudenza della Suprema Corte si esprime nel senso che: “in tema di distanze legali, sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all'altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni, mentre le norme che, avendo come scopo principale la tutela d'interessi generali urbanistici, disciplinano solo l'altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi, tutelano, nell'ambito degli interessi privati, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini; ne consegue che, mentre nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria” (massima tratta da Cass. 16.01.2009 n. 1073.  (Corte d'Appello di Firenze, Sez. I civile, sentenza 04.06.2009 n. 758).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce la manifestazione della discrezionalità dell’Amministrazione, che non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione, diverso dal semplice ristabilimento della legalità violate.
L'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio è il risultato di una scelta discrezionale dell'amministrazione operata in assenza di precisi parametri normativi, poiché il legislatore si è astenuto dall'identificare le situazioni che costituiscono un interesse pubblico rilevante ai fini della rimozione dell’atto.
La p.a. che agisce in via di autotutela deve evidenziare la concretezza e l’attualità del pubblico interesse che sostiene la scelta di annullare il provvedimento anche a distanza di tempo dalla sua adozione.
Il potere di esercitare l'autotutela non soffre limiti temporali, ma il decorso del tempo può consolidare situazioni di fatto sorrette dall'apparenza di uno stato di diritto basato sull’atto da ritirare. In sostanza, rileva ai fini della decisione sull’annullamento l’affidamento ingenerato dall’atto nell’interessato in merito alla legittimità del provvedimento.

Con la legge 11.02.2005, n. 15, è stato aggiunto il Capo IV-bis alla legge 07.08.1990, n. 241, all’interno del quale trovano collocazione le disposizioni in tema di autotutela come l’art. 21-nonies, (avente ad oggetto l’annullamento d’ufficio).
In sostanza, il provvedimento di annullamento in autotutela costituisce la manifestazione della discrezionalità dell’Amministrazione, che non è obbligata a ritirare gli atti illegittimi o inopportuni, ma deve valutare, di volta in volta, se esista un interesse pubblico alla loro eliminazione, diverso dal semplice ristabilimento della legalità violate.
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Le ragioni di pubblico interesse, sottese all’esercizio del potere di autotutela, non sono specificate dall'art. 21-nonies della L. 241/1990. Si richiede, quindi, alla p.a. una comparazione tra l'interesse pubblico e gli interessi dei destinatari e dei controinteressati. Ciò significa che l'interesse pubblico all'annullamento d'ufficio è il risultato di una scelta discrezionale dell'amministrazione operata in assenza di precisi parametri normativi, poiché il legislatore si è astenuto dall'identificare le situazioni che costituiscono un interesse pubblico rilevante ai fini della rimozione dell’atto.
Tuttavia, un limite all’esercizio del potere di annullamento consiste nella certezza delle situazioni giuridiche originate dal provvedimento annullabile in via di autotutela. Infatti, se il provvedimento ha prodotto effetti favorevoli ed è trascorso un apprezzabile lasso di tempo, sufficiente ad ingenerare un legittimo affidamento nell’interessato, si deve ritenere che la stabilità della situazione venutasi a creare costituisca un limite all’autoannullamento.
Le svolte considerazioni evidentemente si pongono in contrasto con l’aspirazione alla costante legittimità dell'azione amministrativa, ma le esigenze di certezza del diritto e di affidamento ingenerato dalla stessa p.a. attraverso l’emanazione dell’atto illegittimo ed l’omesso tempestivo ritiro, inducono a preferire una soluzione che contemperi la necessità del ripristino della legittimità e gli altri interessi concorrenti.
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Come costantemente affermato dalla giurisprudenza, la p.a. che agisce in via di autotutela deve evidenziare la concretezza e l’attualità del pubblico interesse che sostiene la scelta di annullare il provvedimento anche a distanza di tempo dalla sua adozione (Cfr. Cons. St., sez. IV, 07.11.2002, n. 6113; TAR Lazio, Latina, 12.01.2001, n. 81).
Circa la valutazione del lasso di tempo intercorrente tra l’emanazione dell’atto da ritirare ed il provvedimento di annullamento assunto in via di autotutela, il potere di esercitare l'autotutela non soffre limiti temporali, ma il decorso del tempo può consolidare situazioni di fatto sorrette dall'apparenza di uno stato di diritto basato sull’atto da ritirare.
In sostanza, rileva ai fini della decisione sull’annullamento l’affidamento ingenerato dall’atto nell’interessato in merito alla legittimità del provvedimento. La ragionevolezza del termine è un concetto vago e indeterminato. Invero, l’art. 21-nonies, parla di ‘termine ragionevole’ senza fornire elementi per definire la ‘ragionevolezza’ del termine entro il quale può essere esercitato il potere di autotutela. Quindi, per un verso, la p.a. è tenuta a motivare specificamente al riguardo e, per l’altro, occorre procedere caso per caso ad eseguire tale valutazione, esaminando gli elementi che caratterizzano la vicenda (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 20.06.2008 n. 6078 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: E' legittimo l'ordine di rimozione rifiuti abbandonati lungo le strade emesso da un comune nei confronti dell'ANAS.
La legittimazione passiva dell’ANAS alla rimozione dei rifiuti abbandonati nelle aree di pertinenza delle strade statali trova riconoscimento nella previsione dell’art. 14 del d.lgs. 285 del 1992 (codice della strada) che recita:
Gli enti proprietari delle strade, allo scopo di garantire la sicurezza e la fluidità della circolazione, provvedono: a) alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo […]
Per le strade in concessione i poteri e i compiti dell'ente proprietario della strada previsti dal presente codice sono esercitati dal concessionario […]
”;
La previsione citata appare caratterizzata da un rapporto di specialità rispetto alle disposizioni del d.lgs. 152/2006 <<poiché, più che il dato relativo alla materia dei “rifiuti”, che costituiscono per così dire, l’oggetto dell’attività cui il destinatario dell’ordine è tenuto, sembra significativo l’ulteriore dato del contesto spaziale rispetto a cui l’attività in parola va svolta: la circostanza che i rifiuti interessino beni quali le strade, difatti, per l’evidente peculiarità che le medesime presentano sul piano strutturale, funzionale e della sicurezza pubblica, giustifica -anche sul piano costituzionale- la configurabilità di speciali doveri di vigilanza, controllo e conservazione in capo al proprietario o concessionario, doveri che, per quanto fin qui scritto, rivestono carattere di oggettività e prescindono dai profili di dolo o colpa>> (TAR Puglia-Lecce, sez. I ord. 24.10.2007 n. 1027);
La rilevazione di una situazione di abbandono incontrollato di rifiuti su aree di pertinenza dell’ANAS impone indubbiamente al concessionario l’obbligo di adottare tutte le misure idonee a porre rimedio alla situazione, così permettendo di ravvisare la colpa della ricorrente nelle ipotesi, come la presente, in cui le misure sopra richiamate non siano state adottate (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, ordinanza 18.06.2008 n. 487 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Le imprese, le quali intendano partecipare alle pubbliche gare d’appalto, hanno l’onere, allorché rendono le autodichiarazioni previste dalla legge o dal bando, di rendersi particolarmente diligenti nel verificare preliminarmente (attraverso la documentazione in loro possesso o anche accedendo ai dati dei competenti uffici) che tali autodichiarazioni siano veritiere. La falsa o incompleta attestazione dei requisiti di partecipazione ha rilevanza oggettiva, sicché il relativo inadempimento non tollera ulteriori indagini da parte dell’Amministrazione in ordine all’elemento psicologico (se cioè la reticenza sia dovuta a dolo o colpa dell’imprenditore) e alla gravità della violazione.
Come ripetutamente rilevato dalla giurisprudenza, in un contesto di positivo rinnovamento della legislazione in tema di rapporti tra cittadino e pubblici poteri, e quindi in tema di certificazioni e di autocertificazione, è indispensabile che il cittadino stesso sia anche responsabile (e responsabilizzato) delle dichiarazioni che rilascia, all’evidente scopo di evitare che un importante strumento di civiltà giuridico-amministrativa, quale l’autocertificazione, possa finire con l’essere comodo mezzo per aggirare ben precisi precetti di legge (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 15.09.2005 n. 1590).
Da ciò si ricava che le imprese, le quali intendano partecipare alle pubbliche gare d’appalto, hanno l’onere, allorché rendono le autodichiarazioni previste dalla legge o dal bando, di rendersi particolarmente diligenti nel verificare preliminarmente (attraverso la documentazione in loro possesso o anche accedendo ai dati dei competenti uffici) che tali autodichiarazioni siano veritiere.
La falsa o incompleta attestazione dei requisiti di partecipazione ha rilevanza oggettiva, sicché il relativo inadempimento non tollera ulteriori indagini da parte dell’Amministrazione in ordine all’elemento psicologico (se cioè la reticenza sia dovuta a dolo o colpa dell’imprenditore) e alla gravità della violazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.04.2003 n. 2081; Id., 09.12.2002 n. 6768).
Con specifico riguardo alla dichiarazione di regolarità nel versamento di imposte e tasse, deve perciò distinguersi. E’ illegittima l’esclusione quando l'impresa abbia tempestivamente impugnato, prima della pubblicazione del bando, la richiesta di pagamento del tributo, ma a diversa conclusione si perviene nel caso in cui l’impresa abbia dichiarato espressamente, nella domanda di partecipazione, di essere in regola con i doveri contributivi e fiscali, nonostante l’effettiva presenza di carichi pendenti: in tal caso infatti la dichiarazione, a pena di esclusione, deve essere completa dell’indicazione del contenzioso pendente (in questo senso Cons. Giust. Amm. Sicilia, 28.07.2006 n. 470)
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 12.06.2008 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La correttezza contributiva e fiscale è richiesta, all'impresa partecipante alla selezione per l’aggiudicazione dell’appalto, come requisito indispensabile non per la stipulazione del contratto, bensì per l’ammissione alla gara, con la conseguenza che, ai fini della valida partecipazione alla selezione, l’impresa deve essere in regola con tali obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare la correttezza del rapporto per tutto lo svolgimento di essa, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo della obbligazione tributaria
Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, che il Collegio condivide, la correttezza contributiva e fiscale è infatti richiesta, alla impresa partecipante alla selezione per l’aggiudicazione dell’appalto, come requisito indispensabile non per la stipulazione del contratto, bensì per l’ammissione alla gara, con la conseguenza che, ai fini della valida partecipazione alla selezione, l’impresa deve essere in regola con tali obblighi fin dalla presentazione della domanda e conservare la correttezza del rapporto per tutto lo svolgimento di essa, restando irrilevante un eventuale adempimento tardivo della obbligazione tributaria (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 27.12.2004 n. 8215; Id., 20.09.2005 n. 4817; Id., 30.01.2006 n. 288).
Può considerarsi in regola solo l’impresa che, incorsa in situazione di irregolarità nel passato, abbia già condonato o in altro modo sanato le sue posizioni al momento della partecipazione. E’ infatti indiscusso che il requisito di regolarità fiscale sia richiesto dalla legge non già ai fini della stipulazione del contratto, ma per la stessa partecipazione alla gara: l’art. 38, comma 1, del Codice dispone che “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento… e non possono stipulare i relativi contratti…” i soggetti ai quali sia imputabile una delle situazioni elencate nella norma.
L’impresa deve pertanto essere in regola con gli obblighi fiscali fin dal momento di presentazione della domanda, sicché deve esservi necessaria coincidenza cronologica tra correttezza fiscale e partecipazione alla gara, con irrilevanza a tali fini di ogni adempimento tardivo della obbligazione, anche se riconducibile al momento della scadenza del termine del pagamento.
La giurisprudenza ha chiarito che i meccanismi di regolarizzazione tardiva, tipici del diritto tributario, possono rilevare nelle reciproche relazioni di debito e credito tra l’impresa e l’Amministrazione finanziaria, nel senso di consentire al contribuente, con l’adempimento successivo, di evitare le conseguenze del ritardo e di conseguire i medesimi benefici che avrebbe ottenuto in caso di esatto adempimento. Tale finzione giuridica non può però valere a costituire nei confronti della stazione appaltante quella correttezza fiscale e contributiva, che la norma prescrive al momento di partecipazione alla gara, come qualificazione soggettiva dell’impresa in termini di rispetto degli obblighi di legge, e quindi come espressione di affidabilità della stessa. La correttezza fiscale deve pertanto storicamente e attualmente esistere al momento della partecipazione alla gara, ed essere verificabile con esclusivo riferimento a tale momento.
D’altronde, a ritenere legittima una regolarizzazione tardiva con efficacia retroattiva, successiva al momento della partecipazione, ne deriverebbe la modifica della natura del requisito di partecipazione, che si trasformerebbe in requisito per la stipulazione del contratto; si consentirebbe una violazione del principio della par condicio tra i concorrenti, in quanto l’aggiudicatario, dapprima non in regola con gli adempimenti di legge, potrebbe sanare ex post la propria situazione di irregolarità, con evidente disparità di trattamento nei confronti delle imprese che, in conformità della legge, avevano adempiuto agli obblighi fiscali prima di produrre domanda per partecipare alla gara.
Inoltre, ha osservato la giurisprudenza che tale ampliamento della nozione di regolarità avrebbe anche l’effetto deleterio di indebolire l’osservanza della normativa fiscale, che al contrario, pur nell’ambito della normativa settoriale sull’espletamento delle gare, si vuol rafforzare. Le imprese sarebbero quasi incentivate alla violazione di legge, considerando di poter poi provvedere comodamente alla regolarizzazione, con l’effetto vantaggioso di poter scegliere se farlo o meno in funzione dell’utile risultato dell’aggiudicazione, senza il rischio di pregiudizio per il conseguimento dell’appalto
(TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 12.06.2008 n. 1479 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'onere d'immediata impugnazione di un bando di gara per un appalto pubblico, da parte delle imprese partecipanti, si pone soltanto per le clausole immediatamente lesive, quali, per esempio, quelle che comportino l'immediata esclusione dell'aspirante dalla partecipazione, mentre per le altre clausole, ivi compresa quella che ponga un'illegittima composizione della commissione giudicatrice, l’incidenza lesiva sorge soltanto a conclusione della gara stessa e per le imprese che non sono risultate vincitrici, all'evidente scopo -connaturato con le esigenze del diritto alla difesa e dell'efficienza dell'agire amministrativo- di evitare la contestazione necessariamente preventiva di tutte le clausole reputate illegittime.
Secondo un consolidato principio giurisprudenziale (Cons. Stato A.P. 1/2003), l'onere d'immediata impugnazione di un bando di gara per un appalto pubblico, da parte delle imprese partecipanti, si pone soltanto per le clausole immediatamente lesive, quali, per esempio, quelle che comportino l'immediata esclusione dell'aspirante dalla partecipazione, mentre per le altre clausole, ivi compresa quella che ponga un'illegittima composizione della commissione giudicatrice, l’incidenza lesiva sorge soltanto a conclusione della gara stessa e per le imprese che non sono risultate vincitrici, all'evidente scopo -connaturato con le esigenze del diritto alla difesa e dell'efficienza dell'agire amministrativo- di evitare la contestazione necessariamente preventiva di tutte le clausole reputate illegittime (sullo specifico punto, TAR Lazio II sez. 607/2008) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 12.06.2008 n. 691 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l'utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente.
Tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, ne fanno uno strumento idoneo a garantire l'effettività della comunicazione.
Posto …che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue che… un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio.

Ai sensi dell’art. 45, comma 1, del d.lgs. 17.03.2005, n. 82, recante il “Codice dell’amministrazione digitale”, “I documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione con qualsiasi mezzo telematico o informatico, ivi compreso il fax, idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale” (l’ora riportata disposizione legislativa è sostanzialmente reiterativa di quella contenuta nell’art. 43, comma 6, del d.p.r. 28.12.2000, n. 445, con il quale è stato emanato il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa”).
Sotto il versante giurisprudenziale, premettendosi che “il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l'utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente”, è stato affermato che “tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, ne fanno uno strumento idoneo a garantire l'effettività della comunicazione” (cfr. CdS, VI, 04.06.2007, n. 2951, cui adde: Tar Lazio, III-quater, 13.02.2008, n. 1254; Tar Sicilia, Palermo, II, 07.02.2008, n. 197; Tar Lazio, III-bis, 04.01.2008, n. 238; Tar Lazio, I-bis, 27.10.2004, n. 17353; Tar Piemonte, 10.06.2002, n. 1190).
E stato poi soggiunto, in ordine alla presunzione che assiste la ricezione del fax e della prova contraria che può essere opposta dal destinarlo (presunzione che ha riflessi sul thema decidendum), quanto segue: “Posto …che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue che… un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo concernere la funzionalità dell'apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio” (cit. sent. CdS n. 2951/2007, che fa riferimento a una precedente decisione della Sez. V, 24.04.2002, n. 2202; nonché Tar Lazio, III, 11.02.2006, n. 1066).
Dunque, nel momento in cui il fax viene trasmesso, e ciò risulti debitamente documentato dal c.d. rapporto di trasmissione, si forma la presunzione della sua ricezione in capo al destinatario, il quale può vincerla solo opponendo la mancata funzionalità dell’apparecchio ricevente. E’ evidente –per incidens– che di tale mancata funzionalità deve essere offerta prova rigorosa non potendo evidentemente darsi campo e giustificazione a circostanze impeditive opposte in modo generico e non seriamente documentate.
In coerente applicazione di quanto precede è altresì evidente che il principio secondo cui la comunicazione mediante telefax rappresenta strumento idoneo –in carenza di espresse previsioni che dispongano altrimenti– a determinare la piena conoscenza di un atto e/o documento (principio che, come si è visto, trae il suo fondamento positivo nel precitato d.lgs. n. 82/2005 e, in tema di documentazione amministrativa, nel precitato T.U. n. 445/2000) non può essere vanificato da semplici dichiarazioni del soggetto destinatario che, come nella situazione all’esame, opponga tout court di non avere ricevuto il fax (cfr., per caso analogo, Tar Friuli, I, 08.11.2007, n. 720) (TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 27.05.2008 n. 5113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'amministrazione che riceve le controdeduzioni ai motivi ostativi rappresentati ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, ma che di esse non ne tiene conto nella redazione del provvedimento finale, vìola detta disposizione nella parte in cui dispone che “dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale”.
La violazione di quella regola “non vizia l’atto solo sotto il profilo formale, ma incide anche sul contenuto sostanziale dello stesso”.

L’Agenzia aveva ricevuto le osservazioni comunicate dalla Società in ordine ai motivi ostativi, rappresentati ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, ma che di esse non ha tenuto conto nella redazione del provvedimento finale, così violando detta disposizione nella parte in cui dispone che “dell’eventuale mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale”.
E’ nota la posizione del giudice amministrativo sulla conseguenza della violazione della regola procedimentale posta dall’anzidetto art. 10-bis, che, valorizzando il momento del contraddittorio fra privato e p.a., incide sul contenuto del provvedimento finale e, in particolare, sulla sua motivazione.
E’ stato infatti affermato (proprio in relazione a controversia nella quale era parte l’attuale convenuta: cfr. CdS, VI, 22.05.2007, n. 2596) che la violazione di quella regola “non vizia l’atto solo sotto il profilo formale, ma incide anche sul contenuto sostanziale dello stesso”.
Tanto premesso, non può dubitarsi del fatto che nella specie, incidendo il diritto partecipativo della Società ricorrente, l’Agenzia abbia dato luogo a un provvedimento carente di motivazione omettendo di valutare, sia pure succintamente, le articolare e analitiche deduzioni che la Società aveva formulato con l’atto trasmesso via fax
(TAR Lazio-Roma, Sez. III-bis, sentenza 27.05.2008 n. 5113 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di localizzazione sul territorio delle stazioni radio-base di telefonia mobile, i Comuni non possono, attraverso atti regolamentari o di pianificazione urbanistica, introdurre divieti di localizzazione di ordine generale per talune porzioni di territorio, considerato che la potestà riconosciuta agli enti locali dall’art. 8 della legge 36/2001 non può tradursi in divieti assoluti di localizzazione di impianti di telefonia mobile su parti del territorio non interessate da obiettivi sensibili.
Ai sensi dell’art. 4, comma 7°, della l.r. Lombardia 11/2001, gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 Watt non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducono in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale.

In ordine al profilo, relativo cioè alla collocazione sul territorio delle stazioni radio base di telefonia cellulare, la giurisprudenza, anche della Sezione (TAR Lombardia, sez. IV, 07.09.2007, n. 5777; 23.11.2006, n. 2833; 12.11.2007, n. 6260 e 17.03.2008 n. 554, costituenti tutti precedenti conformi ai quali si rinvia; oltre a Consiglio di Stato, sez. VI, 05.06.2006, n. 3332 e sez. VI, 15.06.2006, n. 3534; TAR Lazio, sez. II-bis, 17.01.2007, n. 323), è ormai giunta alla conclusione che i Comuni non possono, attraverso atti regolamentari o di pianificazione urbanistica, introdurre divieti di localizzazione di ordine generale per talune porzioni di territorio, considerato che la potestà riconosciuta agli enti locali dall’art. 8 della legge 36/2001 non può tradursi in divieti assoluti di localizzazione di impianti di telefonia mobile su parti del territorio non interessate da obiettivi sensibili.
Nella Regione Lombardia, inoltre, assume rilevanza fondamentale la previsione dell’art. 4, comma 7°, della legge regionale 11/2001, per la quale gli impianti radiobase di telefonia mobile di potenza totale non superiore a 300 Watt (come quello di cui è causa), non richiedono specifica regolamentazione urbanistica, per cui sono illegittime le disposizioni pianificatorie comunali che introducono in termini assoluti divieti di installazione per simili impianti, anche solo su porzioni del territorio comunale (v.si, oltre alle citate sentenze della scrivente Sezione IV, anche TAR Lombardia, Milano, sez. II, 27.05.2005, n. 1106) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 20.05.2008 n. 1815 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE PROGETTUALI: Contratto di progettazione e direzione lavori comprendente opere in cemento armato concluso da un geometra - Progetto controfirmato o vistato da un ingegnere - Illegittimità - Diritto al compenso - Esclusione - Contratto in generale - Nullità.
La progettazione e la direzione di opere da parte di un geometra in materia riservata alla competenza professionale degli ingegneri e degli architetti sono illegittime, e per esse non è dovuto al geometra alcun compenso, non essendo sufficiente a rendere legittimo il progetto che esso sia controfirmato o vistato da un ingegnere o che l’ingegnere rediga i calcoli in cemento armato o che diriga i lavori relativi alla realizzazione delle strutture di cemento armato, in quanto il professionista competente deve essere unico autore e responsabile della progettazione.
Progettazione - Direzione dei lavori - Competenza dei geometri - Strutture in cemento armato.
A norma dell'art. 16 R.D. 11.2.1929 n. 274 la competenza dei geometri é limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione anche parziale di strutture in cemento armato, mentre in via di eccezione si estende anche a queste strutture solo con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone; invece per le costruzioni civili, sia pure modeste, ove si adottino strutture in cemento armato, ogni competenza è riservata ex art. 1 R.D. 16.11.1939 n. 2229 agli ingegneri ed architetti iscritti nell'albo.
Sicché, tale normativa, non modificata dalla l. 05.11.1971 n. 1086, che si limita a rinviare per gli ingegneri, architetti e geometri alla previgente ripartizione di competenza, implica che ai geometri non possa comunque essere affidata la progettazione e la direzione dei lavori di costruzioni civili comportanti l'impiego del cemento armato (vedi "ex multis" Cass. 28.07.1992 n. 9044; Cass. 19.04.1995 n. 4364) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 26.07.2006 n. 17028 - link a www.ambientediritto.it).

AGGIORNAMENTO AL 06.06.2011

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EDILIZIA PRIVATA: "Decreto sviluppo": Regione Lombardia, se ci sei batti un colpo!!
E' dallo scorso 14 maggio che il D.L. 70/2011 è in vigore e da quella data (invero, prima ancora che il decreto -già di dominio pubblico- fosse pubblicato in G.U.) ci siamo posti due elementari domande e cioè:
1) nell'istruire le istanze di permesso di costruire, si applica la procedura del novellato art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 oppure si continua ad applicare la procedura di cui all'art. 38 della L.R. n. 12/2005??
2) la Scia in materia edilizia adesso esiste??

Orbene, martedì scorso 31.05 si è tenuta a Bergamo una mezza giornata di studio (organizzata da PTPL) circa le novità introdotte in materia edilizio-urbanistica dal suddetto "decreto sviluppo" con relatore l'Avv. Mario VIVIANI del foro di Milano.
L'Amico Mario, come sempre brillante ed arguto analizzatore della norma, ha chiarito ai partecipati -seduti in platea- i dubbi di maggior interesse ed ha fornito le condivisibili risposte ai due quesiti sopra elencati ... ma restiamo, comunque, nell'attesa che la Regione Lombardia fornisca chiarimenti ufficiali, possibilmente prima di Natale p.v..
Ma andiamo con ordine ...
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1) L'art. 20 del D.P.R. n. 380/2001 titola "Procedimento per il rilascio del permesso di costruire" ed in Lombardia è stato disapplicato ad opera dell'art. 103, comma 1, della L.R. n. 12/2005 per cui l'iter istruttorio è quello di cui all'art. 38 del medesima legge regionale.
Se è vero che il legislatore nazionale ha riscritto l'iter istruttorio de quo ad opera dell'art. 5, comma 2, lett. a), del D.L. n. 70/2011 è altrettanto vero che si tratta di "materia di legislazione concorrente" di competenza regionale (ex art. 117 della Carta costituzionale) talché la Regione Lombardia dal 2005 si è dotata di una procedura speciale/differenziata da quella nazionale. La novità nazionale, non di poco conto, è l'introduzione del "silenzio-assenso" con alcune eccezioni.
Ma fintantoché la Regione Lombardia non modificherà/integrerà (semmai lo volesse fare ...) la L.R. n. 12/2005 per recepire la novità del "silenzio-assenso" nazionale (e non solo)
si dovrà continuare ad applicare l'art. 38 della medesima legge regionale in relazione alla procedura di istruttoria delle istanze di permesso di costruire.
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2) Da questo sito abbiamo sempre sostenuto come il nuovo istituto della Scia (segnalazione certificata di inizio attività) in materia edilizia non esistesse, e ciò per una serie di motivazioni tecnico-giuridiche troppo lunghe da riportare qui.
Ripercorriamo velocemente i trascorsi ...
Lo scorso 31.07.2010 è entrata in vigore la Scia (L. 122/2010 di conversione del D.L. 78/2010). Il Ministero per la Semplificazione Normativa esordiva "ufficialmente" per primo (e ultimo) con la
nota 16.09.2010 n. 1340 di prot. in risposta ad un quesito formulato dalla Regione Lombardia, circa chiarimenti sulla portata della Scia (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) in materia edilizia.
Successivamente, anche la Regione Lombardia diceva la propria col comunicato 08.10.2010 circa la portata della Scia, in materia edilizia, nell'ordinamento regionale.
Nell'AGGIORNAMENTO AL 29.11.2010 scrivevamo la news di seguito riportata:

Il
Governo, nella settimana del’08.11.2010, ha presentato l’emendamento n. 1.500 al ddl di stabilità per il 2011 (A.C. 3778) e cioè la Finanziaria 2011, il quale all’art. 4 recita “Semplificazioni in materia di urbanistica, edilizia e di segnalazione certificata di inizio attività”.
Invero, l’art. 4 de quo è stato ritenuto “inammissibile” dal Presidente della Camera dei Deputati (si legga la "Sintesi del contenuto ed analisi degli effetti finanziari" a cura della Camera stessa).
E’ interessante, comunque, evidenziare ed approfondire il contenuto del suddetto art. 4 in ordine alla volontà del legislatore di introdurre ancòra novità nel panorama legislativo in materia di edilizia ed urbanistica. E ciò che preme qui evidenziare è l’intenzione di chiarire la portata della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività) anche nell’ambito edilizio di cui al D.P.R. n. 380/2001 in virtù delle numerose prese di posizione, da più parti- in ordine alla non applicabilità della stessa in materia edilizia.
Nella fattispecie, l’art. 4, comma 10, lett. b), così recita:
«b) all’art. 19, comma 1, primo periodo, dopo le parole: “nonché di quelli”, sono aggiunte le seguenti: “previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli” e dopo il comma 6 sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:
“6-bis. Le disposizioni del presente articolo si interpretano nel senso che le stesse si applicano limitatamente alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire, e che non sostituiscano la disciplina prevista dalle leggi regionali che, in attuazione dell’articolo 22, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, abbiano ampliato l’ambito applicativo delle disposizioni di cui all’articolo 22, comma 3, del medesimo decreto.
6-ter. Nei casi di segnalazione certificata di inizio attività in materia edilizia, il termine di cui al periodo del comma 3 è ridotto a trenta giorni. Fatta salva l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 6, restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e delle leggi regionali.”
».

Il Ragioniere Generale dello Stato (Canzio), con nota 11.11.2010 n. 95098 di prot. di accompagnamento della relazione tecnica di finanza pubblica all'emendamento de quo, scrive -tra l'altro- che "Viene altresì specificato meglio l'ambito di applicazione della Scia, introducendo un comma aggiuntivo all'articolo 19 della legge 241 del 1990, al fine di chiarire i dubbi interpretativi emersi in sede di prima applicazione dell'istituto, precisando che esso si estende anche alla materia edilizia, con esclusione dei casi di Superdia, in linea con quanto già osservato nella nota esplicativa del Ministero per la semplificazione normativa. ...".
Ebbene,
che bisogno c'era di integrare ulteriormente il novellato art. 19 della L. n. 241/1990?? La circolare del Cons. Chinè non era sufficiente, come dallo stesso dichiarato pubblicamente, a fugare ogni sorta di dubbio??
Evidentemente NO!!
Comunque, l'emendamento alla Finanziaria 2011 che avrebbe integrato l'art. 19 della L. n. 241/1990 non è stato ammesso e, quindi, siamo al punto di partenza:
ad oggi la SCIA, in materia edilizia, NON ESISTE!!


Ora, il Governo ha emanato il noto D.L. n. 70/2011 ove, nella sostanza, ha riproposto le modifiche/integrazioni alla L. n. 241/1990 siccome avanzate lo scorso fine anno e precisamente:
"c) Le disposizioni di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380,
con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire. Le disposizioni di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano altresì nel senso che non sostituiscono la disciplina prevista dalle leggi regionali che, in attuazione dell’articolo 22, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, abbiano ampliato l’ambito applicativo delle disposizioni di cui all’articolo 22, comma 3, del medesimo decreto e nel senso che, nei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali, la Scia non sostituisce gli atti di autorizzazione o nulla osta, comunque denominati, delle amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale." [cfr. art. 5, comma 2, lett. c), D.L. 70/2011].
Ciò detto, sovvengono le seguenti considerazioni:
1) la norma di cui alla suddetta lett. c) è, di fatto, una interpretazione autentica di quanto dispone la L. 241/1990 siccome modificata/integrata ad opera della L. 122/2010 di conversione del D.L. 78/2010 e, quindi, con effetto retroattivo (cioè dal 31.07.2010).
Ciò avvalora ancor più la tesi secondo cui
la nota 16.09.2010 n. 1340 di prot. del Ministero per la Semplificazione Normativa, non appena di dominio pubblico, non aveva per niente convinto circa l'esistenza (dal 31.07.2010) della Scia in materia edilizia, seppur con alcune limitazioni ... altrimenti, che bisogno c'era -oggi- con il D.L. 70/2011 di interpretare quella norma in maniera autentica e cioè con effetto retroattivo??
E' evidente che il legislatore nazionale si è accorto di aver "toppato" lo scorso anno nel redigere il testo della norma ed ora è corso ai ripari ... tra l'altro, il Cons. Chinè che ha sottoscritto la
nota 16.09.2010 n. 1340 di prot. in risposta ad un quesito formulato dalla Regione Lombardia, circa chiarimenti sulla portata della Scia (Segnalazione Certificata di Inizio Attività) in materia edilizia, parrebbe che sia stato "sollevato" dall'incarico di Capo Ufficio Legislativo (forse, proprio per quell'infelice ed alquanto discutibile e discussa nota??) visto che alla data del 03.05.2011 il Capo Ufficio Legislativo del Ministero della Semplificazione Normativa risulta altra persona (cfr. nota 03.05.2011 n. 810 di prot.).
2) l'odierno legislatore nazionale, col decreto-legge de quo, ha scritto, nero su bianco, che "... Le disposizioni di cui all’articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 si interpretano nel senso che le stesse si applicano alle denunce di inizio attività in materia edilizia disciplinate dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, con esclusione dei casi in cui le denunce stesse, in base alla normativa statale o regionale, siano alternative o sostitutive del permesso di costruire.".
Avete capito bene??
Se è vero, come è vero, che in Lombardia la DIA è alternativa al permesso di costruire senza alcuna limitazione (a parte i nuovi fabbricati in zona agricola ed i mutamenti di destinazione d’uso di cui all’art. 52, comma 3-bis, della L.R. n. 12/2005, assoggettati unicamente al permesso di costruire) e cioè, in altri termini, non esistono interventi edilizi che sono obbligatoriamente soggetti alla DIA, ne deriva una conclusione evidente, chiara, incontrovertibile:
in Lombardia NON si può applicare l'istituto della Scia!!
Paradossalmente, potremmo dire che il Governo ha contribuito non poco ad un clamoroso "autogol" laddove si continuava a sostenere che la Scia, in Lombardia, esistesse così come nel resto del territorio nazionale ... tesi sostenuta anche e soprattutto dal Cons. Chinè (in un convegno pubblico, dello scorso anno, intervenuto quale relatore) che additava la Lombardia come caso esemplare di diffusa applicazione (ma quando mai!!) del nuovo istituto.
E paradossalmente, altresì, la Regione Lombardia se volesse far decollare sul proprio territorio l'istituto della Scia dovrebbe mettere mano alla L.R. n. 12/2005 e prevedere alcuni interventi edilizi come soggetti obbligatoriamente a DIA ... allora sì che per quest'ultimi si applicherebbe la Scia.
06.06.2011 - LA SEGRETERIA PTPL

EDILIZIA PRIVATA: Fotovoltaico: la convenienza inaspettata del quarto Conto Energia. Concetti di base e studio sulla convenienza economica per Nord, Centro e Sud.
La redazione di BibLus-net propone ai propri lettori uno speciale dedicato alle analisi di convenienza del quarto Conto Energia.
Scopo della pubblicazione è quello di evidenziare, dopo aver fornito rapidamente i concetti basilari sugli impianti fotovoltaici e sui meccanismi di incentivazione, le differenze di remunerazione tra i vari “Conti Energia” e le differenze di produttività degli impianti in diverse località rappresentative del territorio italiano.
Ne viene fuori una visione “inaspettata” del quarto Conto Energia che dimostra come l’investimento fotovoltaico sia ancora molto remunerativo (link a www.acca.it).

DIPARTIMENTO FUNZIONE PUBBLICA

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: procedura automatizzata per la comunicazione degli scioperi relativi al pubblico impiego (circolare 26.05.2011 n. 8/2011).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

ENTI LOCALI: P. M. Zerman, Il federalismo demaniale, tra interesse della comunità e risanamento del debito (link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: R. Bertuzzi, RIFIUTI DA INCIDENTE STRADALE (link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G. Amendola, ART. 674 C.P., EMISSIONI MOLESTE E INQUINAMENTI. E’ L’ORA DELLE SEZIONI UNITE? (link a www.lexambiente.it).

SINDACATI

PUBBLICO IMPIEGO: Lavoro pubblico e lavoro privato - Il giano bifronte della politica governativa (CGIL-FP di Bergamo, nota 03.06.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: Modifica del decreto "Brunetta" - L'immediata applicazione delle norme su merito e premi (CGIL-FP di Bergamo, nota 30.05.2011).

PUBBLICO IMPIEGO: CONTINUANO LE REVOCHE INDISCRIMINATE E SENZA MOTIVAZIONE DEI PROVVEDIMENTI PART-TIME.
Continuano a pervenire dai territori e dalle amministrazioni notizie preoccupanti sull'applicazione spesso distorta ed impropria della recente normativa contenuta nel cosiddetto collegato lavoro (art. 16 legge 183/2010) che consente alle amministrazioni di rivedere i provvedimenti di part-time già concessi prima dell'entrata in vigore del DL 112/2008 (25.06.2008).
Ciò sta determinando gravissime ripercussioni sulla vita familiare e sull'organizzazione di moltissimi dipendenti, soprattutto lavoratrici, con revoche immotivate e generalizzate dei part-time in essere.
A questo proposito rammentiamo che sono da considerare illegittimi e, dunque, suscettibili di ricorso al giudice del lavoro i provvedimenti di revoca che si pongono in contrasto con la normativa nazionale:
- disposti dopo il 23.05.2011;
- non supportati da adeguata motivazione che ne abbia valutato nel concreto la permanenza delle condizioni di attribuzione e l'impossibilità di provvedere con altri strumenti, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza;
- revoca generalizzata per tutti i part-time per aggirare il termine di 180 giorni.
Sono inoltre da considerare illegittime le revoche basate su una eccessiva discrezionalità delle amministrazioni che si pongono in contrasto con la normativa Europea, che attribuisce all'istituto del part-time un particolare trattamento di favore per il suo alto valore sociale.
Alleghiamo un articolato parere 23.05.2011 dello studio legale Galleano, convenzionato con la UIL-PA, al quale sarà possibile rivolgersi per ricevere assistenza e consulenza, ai recapiti indicati sul nostro sito (commento tratto da www.uilpa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: conferimento incarichi di collaborazione esterna (CGIL-FP di Bergamo, nota 22.05.2007).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTIP.a., solo accordi tra simili. Collaborazioni legittime se l'oggetto è comune. Risoluzione del Parlamento Ue sui nuovi sviluppi in materia di appalti.
Collaborazioni pubblico-pubblico soltanto per servizi pubblici comuni alle autorità locali coinvolte e senza alcuna presenza di privati. Concessioni di servizi affidabili a terzi anche in presenza di un rischio di gestione limitato. Non è necessaria una disciplina comunitaria delle concessioni di servizi pubblici; nelle società miste obbligo di scelta del socio privato in gara e immutabilità dell'oggetto sociale o del compito affidato alla società.
Sono questi alcuni dei punti sui quali si sofferma la Risoluzione del Parlamento europeo del 18.05.2010 sui nuovi sviluppi in materia di appalti pubblici (2009/2175(INI)) (pubblicata sulla GUUE del 31.05.2011 n. C 161 E).
Per quel che concerne i profili relativi alla cooperazione pubblico-pubblico, il parlamento preliminarmente ricorda che le amministrazioni non hanno l'obbligo di ricorrere ad una determinata forma giuridica per svolgere in comune determinate attività, ma per non essere soggette all'applicazione delle direttive europee queste collaborazioni devono rispondere ad alcuni precisi criteri.
In primo luogo «lo scopo del partenariato deve essere l'esecuzione di un compito di servizio pubblico spettante ad entrambe le autorità locali in questione», in secondo luogo le attività «devono essere svolte esclusivamente dalle autorità pubbliche in questione, cioè senza la partecipazione di privati o imprese private»; infine l'attività deve essere finalizzata a soddisfare esigenze proprie delle autorità coinvolte nell'accordo. Il parlamento precisa anche che questi tre criteri non si applicano soltanto alle autorità locali, ma a tutte le amministrazioni aggiudicatrici pubbliche.
Per quel che concerne le concessioni di servizi il parlamento europeo afferma che lo strumento della concessione appare efficace e legittimo, «anche se il rischio associato alla gestione è limitato ma comunque integralmente trasferito al concessionario». In via generale il Parlamento, rispondendo espressamente alla Commissione europea, boccia l'ipotesi di un atto giuridico ad hoc per le concessioni di servizi (ad esempio una direttiva), «non necessario fintantoché non sia mirato a un chiaro miglioramento del funzionamento del mercato interno».
Sul Ppp (partenariato pubblico privato) il parlamento con la sua risoluzione evidenzia che sia la Commissione (comunicazione del 05.02.2008), che la Corte di giustizia (sent. 15.10.2009, C-196/08), hanno chiarito che per l'aggiudicazione di appalti o per l'affidamento di determinati compiti a partenariati pubblico-privato di nuova costituzione (caso classico quello della spa mista) non è necessaria una duplice procedura di gara concorrenziale. La risoluzione elenca le condizioni che consentono l'affidamento di una concessione senza gara concorrenziale a una società mista pubblico-privato costituita specificamente a tale scopo (cosiddetta, società di scopo).
In primo luogo occorre esperire una gara per la scelta del socio privato che garantisce una selezione trasparente, con la pubblicazione anticipata del contratto previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e amministrativi e delle caratteristiche dell'offerta in considerazione dello specifico servizio da fornire. In secondo luogo è necessario che la società mista mantenga lo stesso oggetto sociale durante l'intera durata della concessione; con la conseguenza che qualsiasi modifica sostanziale dell'oggetto sociale o del compito affidato fa scattare l'obbligo di indire una nuova procedura di gara concorrenziale (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: G.U. 30.05.2011 n. 124 "Proroga del termine di cui all’articolo 12, comma 2, del decreto 17.12.2009, recante l’istituzione del sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 26.05.2011).

CORTE DEI CONTI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale - Rapporto lavoro a tempo parziale - Aumento di ore - Assimilabilità ad assunzione.
La trasformazione di un rapporto di lavoro a tempo parziale, con aumento di ore del part-time, è assimilabile ad una nuova assunzione. Conseguentemente il sindaco, nel valutare la possibilità di trasformazione del contratto, dovrà tenere conto dei limiti posti dalla legge alle assunzioni, oltre che alle spese di personale.
Quanto sopra trova conferma nella nota n. 46078/2010 del Dipartimento della Funzione pubblica, secondo la quale "sono subordinate ad autorizzazione ad assumere anche gli incrementi di part-time"; la circolare richiamata è diretta alle amministrazioni statali, ma contiene indicazioni che possono considerarsi alla stregua di principi generali (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 29.04.2011 n. 226).

CONSIGLIERI COMUNALI: Cumulo indennità, giudici divisi. La Corte conti è per il divieto. Ma i Tar non sono d'accordo. I magistrati contabili della Lombardia mettono in guardia dal rischio di danno erariale.
Non sono cumulabili i gettoni di presenza per mandati elettivi ricoperti dallo stesso soggetto in due enti locali diversi.
La Corte dei Conti, Sez. regionale di controllo per la Lombardia, col parere 31.03.2011 n. 166, risolve in modo molto netto il problema derivante dall'abolizione dell'articolo 82, comma 6, del dlgs 267/2000 ed apre, contestualmente, uno scontro interpretativo molto profondo con la giurisdizione dei Tar.
Infatti, la questione della cumulabilità è stata vista e risolta in maniera diametralmente opposta, in particolare dalle sentenze Tar Puglia, Lecce, Sez. I, 12/02/2009, n. 219, Tar Veneto, sez. I, 19/02/2009, n. 3464 e Tar Piemonte, 03/12/2010, n. 4377.
La tesi dei Tar.
L'articolo 2, comma 25, della legge 244/2007 ha abolito il comma 6 dall'articolo 82 del dlgs 267/2000, il quale permetteva espressamente a un medesimo amministratore di cumulare gettoni di presenza relativi a mandati elettivi presso enti diversi. Secondo i giudici amministrativi, non è sufficiente il mero dato dell'abolizione dell'articolo 82, comma 6.
Infatti, il dlgs 267/2000 pone un principio di remuneratività delle funzioni pubbliche elettive, sicché qualsiasi eccezione alla remunerazione di tali cariche deve essere disposta espressamente ed inequivocabilmente manifestata, non ricavabile indirettamente dalla ratio legis o da un'intenzione del legislatore, che nel caso di specie consiste nell'intento di ridurre i costi della politica.
I Tar, dunque, rilevano che se da un lato è stata abolita la norma che permetteva espressamente il cumulo, dall'altro la legge finanziaria 244/2007 non aveva previsto alcun divieto espresso di corrispondere i gettoni di presenza nel caso una stessa persona svolgesse incarichi elettivi presso due enti locali.
La posizione della Corte dei conti.
La sezione Lombardia muove una serie di efficaci critiche giuridiche alla posizione, effettivamente poco persuasiva, delineata dai Tar, che viene esplicitamente qualificata come non condivisibile dai magistrati contabili, in quanto fondata su presupposti erronei.
In primo luogo, la sezione Lombardia si sofferma sugli effetti delle norme di abrogazione, rilevando lucidamente che se una disposizione, una volta che sia stata abrogata, non è più applicabile, a maggior ragione non può ritenersi applicabile una norma «implicita», ricavata aliunde per via interpretativa, che avesse lo stesso contenuto. In altre parole, se il legislatore manifesta chiaramente di non volere più gli effetti di una disposizione allo scopo abolita, non occorre che, contestualmente vieti espressamente di applicare ciò che ha già abolito. Anche laddove, comunque, fosse ricavabile nell'ordinamento una regola implicita che consenta il cumulo essa, afferma la sezione, non può aver resistito all'abrogazione espressa della disposizione medesima.
In secondo luogo, il principio secondo il quale se il legislatore avesse voluto vietare il cumulo avrebbe dovuto dirlo espressamente non può operare: infatti, esiste una disposizione abrogatrice che esprime pienamente la voluntas legis contraria al cumulo. Ancora, la sezione Lombardia ritiene pienamente fondata l'interpretazione sull'intento del legislatore: la legge 244/2007 ha inteso approvare norme finalizzate a contenere i costi per la rappresentanza nei consigli circoscrizionali, comunali, provinciali e degli assessori comunali e provinciali, così da ridurre il gravame di tali costi sulla finanza pubblica.
Il parere della sezione conclude ricordando che a conferma del divieto del cumulo è recentemente entrato in vigore l'articolo 5, comma 11, del dl 78/2010, convertito in legge 122/2010 ai sensi del quale «chi è eletto o nominato in organi appartenenti a diversi livelli di governo non può comunque ricevere più di un emolumento, comunque denominato, a sua scelta». La norma non può che andare nella conferma della direzione del divieto del cumulo.
Questioni applicative.
L'inusitato scontro tra giurisdizioni pone questioni operative non secondarie. L'indirizzo della magistratura contabile è chiaro: mantenere in piedi il cumulo non risponde a corretti canoni di gestione finanziario-contabile e potrebbe esporre ad azioni di responsabilità. D'altro canto, le amministrazioni nei confronti delle quali si sono pronunciati i Tar debbono dare esecuzione a quelle sentenze.
Appare evidente la maggiore fondatezza della posizione della magistratura contabile, appunto rafforzata di recente dalla manovra 2010. Le amministrazioni coinvolte dalle sentenze pare abbiano un vero e proprio onere di proporre nei loro confronti appello. Le altre è opportuno che si riferiscano alle conclusioni della Corte dei conti, per evitare problemi di responsabilità (articolo ItaliaOggi del 15.04.2011).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Responsabilità amministrativa – Elementi costitutivi – Comportamento illecito – Mancato controllo sui rimborsi spese da parte del responsabile della ragioneria – Visto di regolarità – Natura – Costituisce atto di controllo di legittimità – Responsabilità – Sussistenza – Fattispecie.
Il visto o parere di regolarità contabile del responsabile del servizio ragioneria di un comune deve ritenersi, a tutti gli effetti, un visto di legittimità del relativo provvedimento di spesa, sulla base del principio di contabilità pubblica contenuto nell’art. 20 del T.U. della Corte dei conti, R.D. 12.07.1934, n. 1214 e la stessa, diversa interpretazione offerta in proposito nelle circolari del Ministero dell’interno deve ritenersi non vincolante per gli enti locali; conseguentemente, il funzionario medesimo è responsabile del danno cagionato al comune per il mancato controllo sul rimborso di spese illegittime a favore del sindaco (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Sicilia, sentenza 23.03.2011 n. 1058 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: 1) Danno all’immagine di un ente pubblico, collegato con episodi oggetto di contemporaneo processo penale – Perseguibilità innanzi alla Corte dei conti a seguito della riforma di cui all’art. 17, comma 30-ter, decreto-legge n. 78/2009, conv. con legge 03.08.2009 n. 102 e succ. mod. - Sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale – Portata e limiti.
2) Danno all’immagine di un ente pubblico, a seguito della commissione di reati comuni – Perseguibilità innanzi alla Corte dei conti, anche successivamente all’entrata in vigore dell’art. 17, comma 30-ter decreto-legge n. 78/2009, conv. con legge 03.08.2009 n. 102 e succ.mod. – Ambito operativo delle nuove norme.
3) Azione per danno all’immagine di un ente pubblico, a seguito della commissione di reati comuni – Prescrizione – Decorrenza - Dalla data in cui il procuratore regionale è venuto a conoscenza della sentenza penale passata in giudicato.
4) Danno all’immagine di un ente pubblico – Nozione e caratteristiche – Danno-conseguenza di carattere patrimoniale.
5) Danno all’immagine di ente pubblico – Agenti di P.S. – Dolosa violazione delle norme sul contrasto all’immigrazione clandestina – Sussistenza - Fattispecie.

1) La sentenza della Corte costituzionale n. 355 del 2010 è una sentenza di rigetto e dunque -a differenza di quelle dichiarative di illegittimità costituzionale, che hanno invece efficacia erga omnes- determina un vincolo (nemmeno assoluto) solo per il giudice del procedimento nel quale la relativa questione è stata sollevata; negli altri procedimenti, invece, il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia la norma denunciata (anche in difformità dall’interpretazione fatta propria dalla Corte costituzionale), sempre che il risultato ermeneutico sia adeguato ai principi costituzionali (1).
In conseguenza di ciò, resta possibile per il Giudice contabile scegliere un’interpretazione dell’art. 17, comma 30-ter, diversa da quella fatta propria dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 355 del 2010 (secondo cui l’azione risarcitoria per danni all’immagine dell’ente pubblico, da parte della procura contabile, potrebbe essere attivata soltanto in presenza di un reato ascrivibile alla categoria dei «delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione», cioè i delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale).
2) La Corte dei conti ben può pronunziare condanna al risarcimento di un danno all’immagine, a seguito della novella legislativa di cui all’art. 17, comma 30-ter decreto-legge n. 78/2009, conv. con legge 03.08.2009 n. 102 e succ. mod., anche se il danno deriva non da un reato contro la pubblica amministrazione ma da un reato comune; ed infatti, la norma in esame non indica direttamente i casi in cui può essere esercitata l’azione contabile per danno all’immagine, ma rinvia ai “casi” e “modi” previsti dall’art. 7 della legge 27.03.2001, n. 97 e tale riferimento implica, da un lato, la comunicazione al P.M. contabile della sentenza irrevocabile di condanna pronunciata per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I, titolo II del libro II del codice penale e, dall’altro, l’obbligo per il P.M. penale di comunicare al P.M. contabile, ex art. 129 delle norme di attuazione c.p.p., l’esercizio dell’azione penale per i reati, di qualsiasi natura, che abbiano cagionato un danno per l’erario (2).
3) Poiché nelle ipotesi di danno all’immagine pubblica conseguente alla commissione di reati comuni l’azione contabile può essere esercitata solo in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, il relativo termine quinquennale di prescrizione non decorre dal clamor fori, ma dalla data in cui il procuratore regionale è venuto a conoscenza della sentenza patteggiata passata in giudicato, come del resto confermato dallo stesso art 17, comma 30-ter D.L. n. 78/2009, laddove dispone che il “decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'art. 1 della legge 14.01.1994, n. 20, e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”.
4) Il danno all’immagine perseguibile dinanzi la Corte dei conti va configurato come danno patrimoniale da “perdita di immagine”, di tipo contrattuale, avente natura di danno-conseguenza (tale, comunque, da superare una soglia minima di pregiudizio) e la cui prova può essere fornita anche per presunzioni e mediante il ricorso a nozioni di comune esperienza (3); trattasi, in particolare, di danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell’immagine e della personalità pubblica che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso (4).
5) Sussiste il danno all’immagine dell’ente pubblico –nella specie, Ministero dell’interno, amministrazione della Pubblica sicurezza– a seguito del comportamento di agenti i quali, in violazione delle norme sul contrasto all’immigrazione clandestina [art. 12, c. 3-bis, lett. a) e c) del D. Lgs. n. 286/1998], favorivano la permanenza illegale nel territorio nazionale di numerose giovani straniere, prive di permesso di soggiorno.
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(1) In terminis, cfr. Cassazione penale, Sezioni Unite, n. 23016 del 2004.
(2) Cfr., in terminis, Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lazio, n. 462/2009; Sezione giurisdizionale Lombardia, nn. 640 e 641/2009; nn. 16, 50, 130, 131, 132, 318 e 813/20010.
(3) Cfr., in terminis, Corte dei conti, Sezione III app., n. 143/2009; Sezione giurisdizionale Toscana, n. 481/2010.
(4) Cfr., in terminis, Cassazione civile, Sezioni Unite, n. 5668/1997; id., n. 744/1999; id., n. 17078/2003; id., n. 14990/2005; id., n. 20886/2006; id., n. 8098/2007.

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Il danno all’immagine delle amministrazioni pubbliche dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 355/2010.
L’importante pronunzia della Corte toscana riapre il dibattito sulla sorte del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni, che sembrava irrimediabilmente compromessa all’indomani della sentenza n. 355/2010 della Corte Costituzionale.
Quella decisione –oggetto di ampia disamina su nostro sito (in data 30.12.2010)– ha infatti dichiarato infondate le numerose questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate da varie Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti con riferimento alla norma di cui all’art. 17, comma 30-ter del D.L. n. 78/2009, conv. con L. n. 102/2009 e succ. mod. (c.d. “Lodo Bernardo”, dal nome del parlamentare proponente), ai sensi del quale “Le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27.03.2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14.01.1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”; a sua volta, l’art. 7 richiamato dispone che “La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'articolo 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinché promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilità per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'articolo 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28.07.1989, n. 271”.
Orbene, nella pronunzia ricordata la Corte Costituzionale si preoccupava di precisare che l’art. 17, comma 30-ter, cit., ha lo scopo di “… circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un dipendente di questa”; la norma, cioè, secondo il Giudice delle leggi deve essere interpretata “… nel senso che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all'immagine dell'ente pubblico di appartenenza, non è configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria”.
Dunque, sempre secondo la Consulta, solamente nelle ipotesi in cui ricorrano taluni, specifici reati (peculato, concussione, corruzione, etc.) è in astratto ipotizzabile una concorrente lesione dell’immagine pubblica; in tutti gli altri casi non sarebbe ammissibile, in radice, alcuna tutela dell’immagine pubblica: e tale scelta legislativa di limitare la tipologia dei reati ritenuti rilevanti ai fini del danno all'immagine è stata giudicata, dalla medesima Corte Costituzionale, non contrastante con i principi della Carta fondamentale, ma anzi è possibile “… ricondurre anche la norma ora in esame, limitativa della particolare forma di responsabilità per i danni da lesione dell’immagine della pubblica amministrazione, all’alveo dei meccanismi, previsti con il citato decreto-legge, aventi lo scopo di introdurre nell’ordinamento misure dirette al superamento della attuale crisi in cui versa il Paese”.
I Giudici della Sezione contabile Toscana hanno ritenuto di non seguire –non del tutto, per lo meno– le indicazioni ermeneutiche offerte dal Giudice delle leggi in ordine all’interpretazione da dare alla norme del Lodo Bernardo. E ciò hanno ritenuto di poter fare, in considerazione del fatto che la sentenza della Corte Costituzionale è una sentenza di rigetto e non comporta quindi -a differenza di quelle che dichiarano l’illegittimità costituzionale, che hanno invece efficacia erga omnes- alcun vincolo di carattere assoluto, per i Giudici di merito diversi da quello che ha rimesso la questione di costituzionalità, nell’interpretazione delle norme al suo esame: è dunque possibile proporre, della norma ritenuta costituzionalmente legittima, un’interpretazione diversa e difforme da quella fatta propria dalla Corte Costituzionale, sempre che tale interpretazione risulti costituzionalmente orientata.
A tal fine, è stata richiamata la sentenza n. 23016 del 2004 delle sezioni unite penali della Corte di cassazione, che riguardava la vicenda relativa al computo dei termini di custodia cautelare, su cui la Consulta aveva assunto una posizione interpretativa non condivisa dalla Cassazione. Alla fine, sono intervenute le sezioni unite penali, le quali hanno appunto precisato che, in base all’ordinamento vigente, le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme e, pertanto, determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione; in tutti gli altri casi, il giudice conserva invece il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge, a norma dell’articolo 101, comma 2, della Costituzione, purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata (ancorché differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto).
In definitiva, secondo le SS.UU. non basta che il Giudice delle leggi definisca una certa interpretazione come costituzionalmente obbligata e la sola compatibile con le norme della Costituzione perché questa possa imporsi all’osservanza dei giudici, essendo questi ultimi tenuti autonomamente a verificare, con l’uso di tutti gli strumenti ermeneutici dei quali dispongono, se la norma possa realmente assumere quel significato e quella portata; pertanto, qualora le premesse ermeneutiche della soluzione proclamata dal Giudice delle leggi come costituzionalmente obbligata travalichino i limiti dell’interpretazione letterale-logico-sistematica, i giudici hanno il dovere di non attenersi a quella soluzione, per la decisiva ragione che, in caso contrario, disapplicherebbero una norma vigente e arrecherebbero un vulnus ai principi di legalità e di soggezione alla legge.
Tale posizione appare, a chi scrive, del tutto corretta. In effetti, come anche ricorda la Cassazione nella sentenza appena richiamata, è unanime anche in dottrina l’opinione che esclude il valore vincolante delle decisioni interpretative di rigetto, in quanto sprovviste dell’efficacia erga omnes attribuita dall’articolo 136, comma 1, della Costituzione alle sentenze che dichiarano l’illegittimità costituzionale di una norma di legge: infatti, se a dette decisioni dovessero riconoscersi effetti vincolanti per i giudici, la Corte costituzionale sarebbe investita di un potere di interpretazione autentica che, nel sistema vigente, è riservato in via esclusiva al solo legislatore.
Orbene, nel caso di specie il Collegio della Corte toscana ha ritenuto (a differenza di quanto opinato dalla Consulta) che il Lodo Bernardo, laddove consente la risarcibilità del danno all'immagine “nei soli casi e nei modi previsti dall'articolo 7 della legge 27.03.2001, n. 97”, non abbia affatto inteso limitare l’azionabilità del risarcimento in questione soltanto in presenza di un reato ascrivibile alla categoria dei delitti previsti dal capo I del titolo II del libro II del codice penale – cioè i “casi” indicati nell’art. 7 L. n. 97/2001 - perché il medesimo art. 7 norma lascia espressamente salva l’operatività dell’art. 129 disp. att. c.p.p. con riferimento a reati di qualunque natura (i “modi” richiamati dall’art. 17, comma 30-ter).
Insomma, per i reati compresi nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale è consentita la risarcibilità del danno all’immagine se vi è stata una sentenza irrevocabile di condanna, mentre per tutti gli altri resta salva (come appunto stabilisce l’art. 7 L. n. 97/2001, cit.) l’applicazione dell'art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale: quest’ultima norma, al punto 3, dispone che “quando esercita l'azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l'erario, il pubblico ministero informa il procuratore generale presso la Corte dei conti, dando notizia della imputazione”: dunque, il risarcimento del danno all’immagine deve ritenersi possa essere esercitato, dalle Procure della Corte dei conti, non solo nei casi di delitti contro la P.A., accertati con sentenza irrevocabile, ma in tutte le ipotesi di “reato che ha cagionato un danno per l'erario”, senza limitazioni (in quest’ultimo caso, cioè, la perseguibilità del danno non patrimoniale non è limitata dalla tipologia dei reati, né deve attendere il passaggio in giudicato della sentenza penale).
Nel caso particolare, ha ritenuto il Collegio toscano che sussistesse l’ipotizzato danno all’immagine dell’ente pubblico -amministrazione della Pubblica sicurezza- per una vicenda che aveva avuto notevole risalto mediatico nella zona interessata: si trattava del comportamento di alcuni poliziotti che, in violazione delle norme sul contrasto all’immigrazione clandestina, avevano dolosamente favorito la permanenza illegale di giovani straniere prive del permesso di soggiorno.
L’interpretazione della sezione Toscana riprende quella già fatta propria dalla sezione Lombardia nelle sentenze n. 641/2009, a suo tempo commentata sul nostro sito (in data 03.11.2009) e nella successiva sentenza n. 132/2010 (anch’essa riportata sul sito, il 20.05.2010); sentenze peraltro espressamente richiamate, assieme a numerose altre, nella pronunzia qui in commento. Per giungere a tale soluzione, la sentenza opera un’attenta e minuziosa esegesi di tutte le possibili alternative ermeneutiche, per concludere poi che solo la scelta sopra illustrata risulta coerente ed armonica con il complessivo quadro normativo in materia.
Non possono che condividersi le affermazioni della sentenza in esame. L’interpretazione da essa offerta –come del resto evidenziammo nel commento a Sez. Lombardia, n. 641/2009, cit.- si inserisce coerentemente nel sistema normativo vigente, caratterizzato dall’autonomia tra i giudizi penale e contabile, e deve ritenersi confermata dalla stessa lettera della novella legislativa, laddove ha previsto che il decorso del termine di prescrizione sia sospeso fino alla conclusione del relativo procedimento penale (“… A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'articolo 1 della legge 14.01.1994, n. 20, è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale”): è evidente, infatti, che se l’unica ipotesi in cui la Procura regionale potesse dar corso al procedimento di responsabilità per danno erariale fosse quella prevista dalla prima parte dell’art. 7 della legge n. 97 del 2001, come ipotizzato dalla Consulta, la norma sulla sospensione del termine di prescrizione sarebbe inutile e senza senso, giacché la facoltà per la Procura regionale di promuovere il procedimento di responsabilità amministrativo per danno all’immagine sarebbe già subordinata alla conclusione del processo penale conclusosi con sentenza irrevocabile.
Se questa linea interpretativa dovesse consolidarsi e affermarsi come prevalente, lo scenario complessivo della risarcibilità del danno all’immagine delle pubbliche amministrazioni -che sembrava essere, all’indomani della pubblicazione della pronunzia della Consulta, quello di un nettissimo (e non del tutto giustificato) ridimensionamento- potrebbe mutare e articolarsi ben diversamente, come osservavamo all’inizio: con la speranza che vicende di enorme portata per l'immagine pubblica, come quella trattata nella sentenza della Sezione Lombardia n. 641/2009, prima ricordata, non debbano concludersi con la sostanziale impunità, sotto il profilo risarcitorio, degli autori del danno.
La sentenza in esame, in realtà, offre altri passaggi interessanti, evidenziati nella massima da noi redatta.
In punto di esordio del termine di prescrizione dell’azione contabile per danno all’immagine, la pronunzia in questione provvede a chiarire che, poiché nelle ipotesi di danno all’immagine pubblica conseguente alla commissione di reati comuni l’azione contabile può essere esercitata solo in presenza di una sentenza irrevocabile di condanna, il termine quinquennale di prescrizione non può decorre dal c.d. clamor fori (cioè da quando la vicenda ha avuto rilevo sui mass-media), ma dalla data in cui il procuratore regionale è venuto a conoscenza della sentenza patteggiata passata in giudicato: viene richiamato, in proposito, il testo dello stesso art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78/2009, il quale dispone appunto che il decorso del termine di prescrizione è sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Anche tale affermazione appare corretta, e del tutto in linea con le premesse argomentative dell’intera pronunzia.
I Giudici toscani, da ultimo, non rinunziano a precisare la natura del danno all’immagine perseguibile dinanzi la Corte dei conti, che a loro avviso va configurato come danno patrimoniale da perdita di immagine, di tipo contrattuale, avente natura di danno-conseguenza e che deve superare una soglia minima di pregiudizio; tale danno –è poi precisato- anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di valutazione sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso.
Su tale aspetto (che per la verità meriterebbe ben più ampia trattazione) ci si limita qui ad osservare, brevemente, che si tratta della posizione ultimamente assunta dalla prevalente giurisprudenza contabile (v., ex multis, Sezione III app., n. 143/2009) la quale, sulla scorta delle ultime pronunzie della Cassazione civile in materia, ha rimeditato la propria iniziale posizione, che parlava invece di danno non patrimoniale, sotto il profilo del c.d. danno-evento (che rileva, cioè, di per se stesso e a prescindere dalle eventuali conseguenze negative per il soggetto leso): SS.RR., n. 10/QM/2003.
Anche quest’ultimo profilo, tra gli altri, potrà ricevere dalla future pronunzie della giurisprudenza –se, appunto, verrà confermata l’interpretazione qui proposta circa la perseguibilità del danno all’immagine per la p.a.- ulteriori precisazioni ed essere oggetto degli opportuni approfondimenti (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 18.03.2011 n. 90 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI - SEGRETARI COMUNALI«Punito» l'incarico immotivato e troppo costoso.
IL CASO - Forte compenso aggiuntivo al segretario comunale nominato anche direttore generale: responsabilità del sindaco e del diretto interessato.

La remunerazione in misura eccessiva e non motivata dell'incarico di direttore generale al segretario determina il maturare di responsabilità amministrativa in capo allo stesso e al sindaco, chiamati in misura paritaria al suo risarcimento.
Sono questi i più rilevanti principi dettati dalla sentenza 15.03.2011 n. 146 della Corte dei Conti della Lombardia, resa nota solo nei giorni scorsi.
Nel caso specifico il compenso aggiuntivo erogato come direttore generale a un segretario era, su base annua, di circa 120mila euro e il trattamento economico complessivo ammontava a oltre 200mila euro all'anno. Il primo elemento rilevato dalla sentenza è l'anomalia tra il compenso aggiuntivo erogato al direttore generale negli anni 2007 e 2008 e quelli erogati, tanto in precedenza (aumento di circa il 500%) che successivamente.
Nel merito la sentenza rileva che ci si trova sicuramente nel l'ambito di un'attività discrezionale, sia per il conferimento del l'incarico che per la sua remunerazione. Ma aggiunge che «l'attività discrezionale è attività non libera ma vincolata nel fine», per cui le amministrazioni non sono dotate di poteri da esercitare in modo arbitrario. Viene ricordato che in tali casi «l'eccesso di potere è il tipico vizio della discrezionalità amministrativa, lo strumento che consente al giudice di controllare la corretta applicazione dei canoni di legittimità da parte di chi agisce per conto della Pa, e di valutare la compatibilità e l'adeguatezza delle scelte di merito con i fini pubblici dell'ente». Tale attività di controllo «segue i parametri della razionalità e della ragionevolezza» e si deve fermare sulla soglia della cosiddetta riserva di amministrazione, cioè non può mai entrare nel merito, ma si deve limitare alla sola verifica della legittimità.
E, ancora, «il controllo giurisdizionale delle modalità di esercizio del potere discrezionale, sotto il profilo della palese illogicità e della irragionevolezza, è effettuato ex ante». Per cui non ha senso sostenere che il compenso è stato fissato in misura elevata in relazione ai risparmi conseguiti dall'ente, visto che questi esiti sono successivi e non erano conosciuti al momento del conferimento dell'incarico e della scelta del compenso. Anzi, i benefici raggiunti devono essere considerati come «irrilevanti», visto che l'obbligazione del segretario, come per i dirigenti, è quella di risultato. Siamo in presenza, infine, di una condotta gravemente colposa anche alla luce del principio del contenimento della spesa pubblica.
Da rilevare, infine, l'assenza di una «particolare motivazione della scelta di aumentare l'emolumento e in assenza di problematiche gestionali specifiche, di carenze di organico o di altre ragioni che potessero determinare tale esigenza –a prescindere dalla totale carenza di motivazione nell'atto di nomina– per la remunerazione di attività che erano sostanzialmente sovrapponibili a quelle poste in essere dal segretario/direttore generale precedente» (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2011 - tratto da www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Responsabilità amministrativa – Elementi – Danno erariale – Erogazione di contributi economici a privati sine titulo, per una causale non prevista – Violazione delle norme regolamentari in materia – Sussistenza.
Responsabilità amministrativa – Elementi – Colpa grave – Irregolare erogazione di contributi economici a privati – Violazione delle norme regolamentari in materia – Parere contrario del segretario comunale – Fattispecie - Sussistenza.

La concessione di sussidi e contributi economici da parte di un ente pubblico (nella specie, comune) deve avvenire nel rispetto delle norme regolamentari interne, le quali rivestono carattere inderogabile, essendo preordinate alla corretta e sana amministrazione delle risorse pubbliche e non possono essere interpretate estensivamente, in linea peraltro con il rigore dell’art. 12, L. 07.08.1990, n. 241 (ai sensi del quale “La concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l'attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione ed alla pubblicazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi”); pertanto, l’erogazione di un contributo non rientrante tra le previsioni del regolamento comunale in materia (nella specie, si trattava del pagamento dei debiti di una società sportiva privata) è da ritenere illegittimo e dà luogo alla fattispecie dell’erogazione sine titulo, in quanto tale causativa di danno ingiusto per l’ente.
Sussiste colpa grave nel comportamento dei componenti di una Giunta comunale, che hanno deliberato la concessione di un contributo a ente privato in assenza dei requisiti stabiliti dal regolamento comunale in materia e disattendendo il parere contrario espresso dal segretario comunale, avendo essi agito in modo acritico e senza tenere conto degli interessi pubblici alla corretta e imparziale destinazione delle risorse dell’ente (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 15.03.2011 n. 145 - link a www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Rimborso delle spese di viaggio a favore del sindaco - Interpretazione delle norme relative – Limitazione alle sole presenze che rivestano carattere di necessarietà – Tipologia - Fattispecie.
L’art. 84, comma 3, del D. Lgs. 267/2000, laddove prevede il rimborso delle spese di viaggio a favore del sindaco residente fuori dal comune capoluogo per gli spostamenti finalizzati alla "… presenza necessaria presso la sede degli uffici per lo svolgimento delle funzioni proprie o delegate", va interpretato nel senso che deve trattarsi di oggettive esigenze connesse allo svolgimento del proprio mandato; di conseguenza, il rimborso delle spese di viaggio riguarda la sola presenza "necessaria" del soggetto, che si contrappone alla presenza facoltativa o discrezionale, rimessa all'apprezzamento soggettivo dell'interessato, ed è qualificata dalla preesistenza di un obbligo giuridico, che elimina in detto soggetto qualsiasi facoltà di una scelta diversa per l'esercizio della funzione.
E' da intendersi, quindi, presenza necessaria, la partecipazione del Sindaco, oltre che alle riunioni di Giunta, anche a quelle di Consiglio, così come per gli Assessori, quando siano trattate materie inerenti alla loro carica e alle deleghe ricevute e, comunque, in tutti i casi in cui la loro presenza alle sedute del Consiglio sia espressamente richiesta da norme statutarie o regolamentari dell'Ente di appartenenza (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, parere 17.02.2011 n. 3).

LAVORI PUBBLICI: Giudizio di responsabilità amministrativa – Rapporto con altri giudizi - Rapporto con il giudizio civile attivato per gli stessi fatti - Sospensione del processo di responsabilità in attesa della definizione di quello civile – Non necessità.
Responsabilità amministrativa – Elementi – Colpa grave – Direttore dei lavori e progettista di opera pubblica – Palesi difformità dell’opera eseguita rispetto al progetto appaltato - Sussistenza.

Attesa l'autonomia del giudizio amministrativo-contabile, va esclusa la necessità, da parte della Corte dei conti di sospendere il giudizio, in attesa della definizione di quello instaurato in sede civile da un Comune per la restituzione delle somme indebitamente corrisposte ad una ditta appaltatrice; peraltro, eventuali somme recuperate in sede civile, in caso di esito favorevole del predetto giudizio, potranno eventualmente essere fatte valere in sede esecutiva di quello contabile. (1)
Nel caso di opera pubblica eseguita in difformità rispetto al progetto appaltato, con ingiustificato aumento di costi, non appare idonea ad escludere la colpa grave del funzionario direttore dei lavori e responsabile del procedimento, la scusante della difficoltà dell’opera e la circostanza che la stessa sia stata realizzata in luoghi difficilmente raggiungibili, a fronte di carenze nello svolgimento dell’incarico, rivelatesi macroscopiche (vistosa discordanza fra i lavori effettuati e quelli indicati nel progetto; contabilizzazioni particolarmente approssimative) e che quindi non sarebbero potute sfuggire ad un direttore dei lavori che avesse usato la benché minima diligenza, tanto più che era stato anche il progettista dell’opera.
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(1) Giurisprudenza pacifica: v. nello stesso senso, ex plurimis, Corte dei conti, Sez. II app., 13.05.2008, n. 149; Sez. III app., 10.09.2003, n. 392; Sez. reg. Lombardia, 17.03.2009, n. 156; Sez. reg. Abruzzo, 07.02.2008, n. 49; Sez. reg. Sardegna, 09.08.2007, n. 869. Cfr., inoltre, nello stesso senso, per i rapporti con il giudizio penale, Sez. app. Sicilia, 20.07.2010, n. 189; Sez. I app., 19.03.2010, n. 195; id., 05.05.2006, n. 104 (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. II giurisdiz. d'appello, sentenza 27.01.2011 n. 52 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Responsabilità amministrativo-contabile - Conferimento di incarichi esterni – Collaborazioni coordinate e continuative - Requisiti.
Responsabilità amministrativo-contabile – Conferimento di incarichi esterni – Collaborazioni coordinate e continuative - Difetto dei requisiti di cui all’art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165/2001 - Sussistenza - Fattispecie.
Conformemente alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve ritenersi antigiuridico e produttivo di danno erariale il conferimento di incarichi mediante contratti di co.co.co., aventi ad oggetto attività alle quali si possa far fronte con personale interno dell'ente, o estranee ai fini istituzionali, o troppo onerose in rapporto alle disponibilità di bilancio.
Deve considerarsi conferito in difetto delle condizioni previste dall’art. 7, comma 6, del d.lgs. n. 165/2001, e quindi illecito e produttivo di un danno ingiusto all’erario, l’incarico co.co.co. attribuito ad un professionista esterno, rispetto al quale non sia rinvenibile un ambito d’intervento connotato da un oggetto ben definito, bensì relativo ad un’attività professionale di consulenza ad ampio spettro ("analisi e studio dei contesti amministrativi e tecnici del settore distaccato di ... , sotto l'aspetto gestionale..." ), che avrebbe potuto svolgere il personale in organico (1)
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(1) In merito all’illecito conferimento di incarichi esterni, vedi anche, su questo sito, la sentenza della Sez. Giurisdizionale Lombardia n. 627/2010 e le sentenze della Sez. Prima Centrale d’Appello n. 393/2008 e n. 25/2010 (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 18.01.2011 n. 83 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Incarichi esterni - Manovra economica di cui al d.l. n. 78/2010 - Riduzione della spesa per studi e consulenze - Interpretazione.
L'art. 6, co. 7, del d.l. n. 78/2010, convertito in legge n. 122/2010, prevede che, "al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza...non può essere superiore al 20% di quella sostenuta nell'anno 2009".
La Sezione propende per l'interpretazione più restrittiva del riferimento a "studi e incarichi di consulenza", escludendo quindi le collaborazioni coordinate e continuative, nonché gli incarichi di ricerca.
Il taglio percentuale della spesa si riferisce non a quella stanziata, ma a quella effettivamente sostenuta, cioè impegnata, anche se non erogata nell'anno di riferimento.
Il fine, perseguito dal legislatore, "di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni", induce a ritenere che la riduzione del costo della spesa per gli incarichi, non ricomprenda le consulenze talmente specialistiche da non poter essere affidate a professionalità interne all'Amministrazione (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 10.01.2011 n. 6).

ATTI AMMINISTRATIVI: Responsabilità - Danno indiretto - Istanza di accesso agli atti - Mancata risposta nei termini - Sussistenza.
Si configura un danno all'erario indiretto qualora, a seguito dell'omessa evasione di un'istanza di accesso agli atti, l'istante ricorra al TAR ottenendo la condanna dell'Amministrazione all'esibizione, nonché al pagamento degli onorari e spese di lite.
La gravità della colpa risiede nella totale assenza di ogni attività di riscontro all'istanza di accesso, inattività che è perdurata anche dopo la prosecuzione del giudizio dinanzi al TAR.
Il danno va posto in parti uguali a carico dell'impiegato che ha ricevuto l'istanza e del dirigente preposto alla struttura per le carenze organizzative a lui riconducibili.
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Nota a sentenza.
L’art. 25, comma 4, della legge n. 241 prevede che “decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta (di accesso), questa si intende respinta”.
Sia la giurisprudenza che la dottrina, si sono divise nell’interpretare tale disposizione.
1- Il giudice amministrativo configura prevalentemente tale ipotesi come un caso di silenzio rifiuto, mero presupposto processuale per un ricorso giurisdizionale, previsto per evitare una situazione di stallo. Non si tratterebbe, quindi, di un provvedimento tacito.
Parte della giurisprudenza penale condivide questa ricostruzione e ritiene che l’omessa evasione di una richiesta di accesso non costituisca un provvedimento idoneo ad escludere la rilevanza penale dell’inerzia, la quale contrasterebbe con il principio di correttezza della P.A., configurando il reato di omissione di atti d’ufficio.
In effetti, non sembra al passo con i tempi considerare legittimo il comportamento inerte di una P.A. a fronte di un’istanza: è un principio di civiltà giuridica la pretesa per l’amministrato di conoscere le ragioni per le quali una sua richiesta è disattesa, senza essere costretto ad un ricorso per avere lumi. Non può inoltre omettersi di ricordare come la legge n. 69/2009 abbia normativizzato l’obbligo di conclusione del procedimento mediante provvedimento espresso.
2- La migliore dottrina amministrativista, invece, afferma che la norma, lì ove prevede che la richiesta in caso di inerzia s’intende “respinta” e non “rifiutata”, configura un silenzio rigetto. Il silenzio rigetto, equivalente al compimento dell’atto, si realizza quando la legge attribuisce all’inerzia della P.A. il significato di un diniego dell’accoglimento dell’istanza. Anche una giurisprudenza penale aderisce a quest’ultima ricostruzione, considerando lecito il comportamento inerte della P.A.
Tuttavia il Consiglio di Stato ha recentemente affermato che neanche il silenzio rigetto equivale ad un provvedimento, costituendo un mero comportamento presupposto di effetti processuali.
Il quadro rimane incerto.
Alla luce della esistenza di due diverse linee di pensiero circa il significato da attribuire all’inerzia in argomento, la sentenza è stata un po’ severa quantomeno nel non utilizzare il potere riduttivo, al quale la Corte dei conti ricorre nella quasi totalità dei casi caratterizzati da colpa grave. Nell’esercitare tale potere, infatti, il giudice può tenere conto di tutte le circostanze soggettive ed oggettive, tra le quali la complessità della normativa:
- responsabilità conseguente alla decisione temeraria di resistere dinanzi al TAR (Sez. Giurisdizionale per la Toscana, n. 832/2006). La riconosciuta temerarietà deriva dal fatto che il diniego dell’accesso, che aveva determinato il ricorso al giudice amministrativo, non era stato motivato adeguatamente. Il danno è stato ravvisato nelle spese di giudizio e nella parcella dell’avvocato.
- responsabilità conseguente alla mancata ottemperanza all’ordine di esibizione del TAR (Sez. Centrale d’Appello, sent. n. 73/200). Alla base della pronuncia vi sono i comportamenti dilatori e pretestuosi attuati dalla P.A., al fine di non eseguire la disposizione del giudice. Anche in questo caso, il danno cagionato è stato ravvisato nelle spese di soccombenza e di difesa. La condotta illecita, tuttavia, si colloca in un momento successivo rispetto a quello in rilievo nelle altre due pronunce esaminate, conseguendo alla mancata ottemperanza ad una sentenza.
La decisione della Sezione Giurisdizionale per la Campania è interessante giacché consegue direttamente al comportamento inerte tenuto dalla P.A., a seguito di un’istanza di accesso. La decisione può essere da monito per i pubblici dipendenti, i quali dovrebbero prendere atto di come non possano più esimersi dal concludere ogni procedimento con un provvedimento espresso, se non vogliono rischiare di incorrere in una responsabilità.
Altra riflessione deriva da una lettura parallela della pronuncia della Sezione Campania, unitamente a quella della Sezione Toscana.
La prima ha spiegato che la gravità della colpa è stata conseguente alla “assenza di ogni attività di riscontro alla domanda di accesso…inattività che è perdurata anche dopo la proposizione del giudizio dinanzi al TAR”; nella sentenza della Sezione per la Toscana, leggiamo che il Procuratore regionale ha stigmatizzato l’atteggiamento colpevole, “tenacemente mantenuto anche dopo la notifica del ricorso al TAR, che poteva costituire un’occasione per rimeditare la questione”.
Se si esclude l’ipotesi, teorica, in cui un danno consegue semplicemente al decorso del tempo, ingiustificatamente atteso per esercitare il diritto di accesso, nella generalità dei casi il danno (in presenza di un’istanza di accesso) deriva dalle spese di giudizio e di difesa.
Pertanto il funzionario, a fronte di un ricorso giurisdizionale conseguente ad un rigetto (esplicito o tacito), bene farebbe a “rimeditare la questione” ed a porre rimedio ad eventuali omissioni o errori, evitando il concretizzarsi di un danno del quale potrebbe essere chiamato a rispondere (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Campania, sentenza 21.12.2010 n. 2884 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Pronuncia per grave irregolarità – principio di attendibilità e prudenza – valutazione del trend triennale di entrate per rilascio del permesso di costruire - bilancio preventivo.
Il principio di attendibilità del bilancio postula che le previsioni delle entrate siano effettuate in relazione alla accertabilità delle stesse, tenendo conto degli atti che predeterminano il diritto alla riscossione e sulla base di idonei ed obiettivi elementi di riferimento (tra cui rilevano anche i flussi storici della specifica voce di finanziamento) nonché su fondate aspettative di acquisizione ed utilizzo delle risorse.
Il principio della prudenza esige poi che nel bilancio di previsione debbano essere iscritte solo le entrate che si prevede siano accertabili nel periodo amministrativo considerato.
Nella specie, la previsione delle entrate derivanti dai contributi per il rilascio del permesso di costruire presenta un valore molto più alto rispetto agli importi registrati nell’ultimo triennio.
Il bilancio di previsione 2010 non risulta rispondente, secondo valutazioni ex ante, ai principi di attendibilità e di prudenza sotto i profili sopra enunciati (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. controllo Liguria, parere 29.11.2010 n. 85).

ENTI LOCALI: Responsabilità amministrativa – Comune - Concessione impianto sportivo – Gratuità – Danno erariale – Sussiste – Misura – Ratei pregressi.
La concessione dello stadio comunale ad una società sportiva, a fronte di norme regolamentari che ne prevedono l'onerosità, non può essere deliberata senza previsione del canone, talché rappresenta danno erariale il mancato introito dei canoni relativi al periodo intercorso fra il primo rateo non riscosso (gennaio 1996) e la data della citazione (gennaio 2010), ancorché l'illegittima convenzione disponga anche per anni futuri, nella misura dell'ultimo canone riscosso prima della delibera di gratuità.
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La convenzione relativa all'uso del campo di calcio, per la quale la Giunta Comunale aveva previsto la soppressione del canone dal 2006, è stata ritenuta dal giudice contabile veneto produttiva di danno erariale con la sentenza in commento, che presenta almeno due profili di specifico interesse.
Il primo consiste nella affermazione che gli Amministratori non potevano ritenere di poter esercitare un potere discrezionale in proposito, stante l'esplicita previsione di un canone nel “Regolamento comunale per la concessione di sovvenzioni, contributi e agevolazioni economiche” e nel “Regolamento disciplina sportiva gioco calcio – Gestione sportiva campo comunale”, precedentemente approvati con delibere consiliari, ancorché la delibera giuntale in questione tenga in realtà conto del controvalore di alcuni compiti, affidati al concessionario pur essendo stati in precedenza ritenuti dover gravare sul Comune (ad es. manutenzione del tappeto erboso, manutenzione dell’impianto di irrigazione a esclusione del gruppo di pompaggio).
Il giudice ha dunque ritenuto in ogni caso illegittima e dannosa la decisione assunta dalla giunta, sottolineandone più la formale antigiuridicità (violazione di normativa secondaria) che l'eventuale antieconomicità, che non appare del tutto approfondita. D'altra parte, soltanto facendo riferimento alla violazione di una norma espressa era possibile negare in radice la possibilità di una scelta discrezionale da parte degli Amministratori (in proposito è pacifica giurisprudenza che sussiste discrezionalità solo quando vi è alternativa fra più comportamenti leciti e non quando uno dei comportamenti sia escluso normativamente).
La medesima sezione Veneto aveva più diffusamente motivato in una recente consimile fattispecie (sent. 21.04.2009 n. 323); dopo aver precisato che l’illegittimità dell’atto amministrativo, in via di principio “non implica la dannosità dello stesso” ha poi specificamente rilevato che l’omessa previsione di un canone di concessione, ancorché di importo esiguo rispetto (si trattava di un “canone ricognitorio” dovuto dalla FIN per l'uso delle piscine comunali) “si traduce, comunque, in un mancato introito per le casse dell’Ente”, con diretta integrazione di danno erariale (e assolveva poi sul punto i convenuti, funzionari che avevano reso il parere tecnico).
L'altro aspetto da segnalare riguarda la quantificazione del danno. Infatti a fronte di una richiesta attorea che abbracciava l'importo dei canoni di tutto il periodo a cui si riferiva la convenzione approvata dalla Giunta (fino all'anno 2013), il giudice contabile ha negato l'attualità della mancata riscossione dei ratei successivi alla citazione in giudizio, ancorché l'attuale regolazione pattizia del rapporto Comune–Società sportiva ne escluda fin d'ora la reclamabilità da parte dell'Ente. Ancorché la prospettazione sia peculiare, la soluzione risulta del tutto conforma alla consolidata giurisprudenza, dovendosi applicare inderogabilmente il criterio della attualità del danno.
Le distinzioni operate in alcune decisioni, in materia di erogazioni dannose, fra assunzione dell'obbligazione ed effettivo pagamento (v. per tutte SS.RR. 29.01.1997 n. 12/A e 3/2003/QM), finalizzate ad individuare l'exordium praescriptionis, non sono infatti valide nella presente fattispecie: quando la giurisprudenza ha voluto distinguere il sorgere del debito in capo all'amministrazione dal pagamento della relativa somma, ha comunque precisato che ai fini della responsabilità per danno non è sufficiente una lesione del patrimonio dell'amministrazione inteso in senso meramente giuridico, come complesso di rapporti giuridici attivi e passivi, e che dunque il danno è attuale almeno in presenze di un titolo esecutivo azionato dal creditore dell'Amministrazione; la prerogativa del terzo di non pagare il canone in futuro non è evidentemente provvista della stessa cogenza deterministica, potendo nel futuro essere ridiscussa alla luce di eventuali esercizi delle potestà di autotutela dell'Ente Locale o di altre evenienze modificative.
Resta da aggiungere che l’importo presuntivo dei canoni non riscossi è stato determinato prendendo in considerazione gli ultimi canoni incassati, sotto la vigenza della precedente convenzione cessata nel 2005, con un automatismo che può sembrare sbrigativo (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto, sentenza 25.11.2010 n. 725 - link a www.corteconti.it).

ENTI LOCALI: Responsabilità – Elementi - Danno – Spese di rappresentanza – Mancanza di titoli giustificativi – Semplici dichiarazioni postume - Legittimità – Esclusione.
Responsabilità – Elementi - Danno – Spese di rappresentanza – Mancanza di impegno – Classificabilità tra le spese economali – Esclusione - Fattispecie.
Responsabilità – Elementi – Comportamento – Illiceità - Insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali – Esclusione - Fattispecie.

Costituiscono danno ingiusto per le finanze dell’ente locale spese di rappresentanza disposte in occasione di cerimonie, ricorrenze civili e religiose, riunioni con funzionari regionali, personalità politiche di alto livello, tecnici e consulenti, sfornite però di titoli giustificativi (nella specie, erano state fornite solo semplici dichiarazioni postume, che il collegio giudicante non ha ritenuto valide).
Non sono legittime e costituiscono danno ingiusto per le finanze dell’ente locale spese (nella specie, di rappresentanza) sostenute senza previo impegno; né dette spese potrebbero essere ritenute assimilabili alle spese economali, in mancanza del relativo, apposito regolamento in materia, la cui emanazione era prescritta dal regolamento di contabilità del comune.
In una fattispecie di illegittima effettuazione di spese, non può essere invocata da parte degli amministratori la regola della insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali (art. 1, comma 1, della legge n. 20/1994, come novellato dall’art. 3 della legge n. 639/1996), poiché tale principio potrebbe operare solo nell’ipotesi di alternativa tra più azioni, tutte del pari legittime, ma non nel caso di condotte connotate da illegittimità formali e sostanziali (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. III centrale d'appello, sentenza 02.11.2010 n. 750 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Responsabilità amministrativa e contabile - Conferimento di incarichi di consulenza da parte di pubbliche amministrazioni – Requisiti.
Responsabilità amministrativa e contabile – Conferimento di incarichi di consulenza da parte di pubbliche amministrazioni – Svolgimento di attività continuativa - Illiceità - Fattispecie.
Responsabilità amministrativa e contabile – Elementi – Colpa grave - Conferimento di incarichi di consulenza in difetto dei requisiti previsti dalle norme in materia - Sussistenza - Fattispecie.
Responsabilità amministrativa e contabile - Conferimento di incarichi di consulenza da parte di pubbliche amministrazioni – Compensatio lucri cum damno - Esclusione - Fattispecie.

La disciplina in tema di conferimento di incarichi di consulenza da parte di enti e organismi pubblici è intesa ad evitare che si possa verificare uno spreco di risorse dell’ente pubblico, mascherando per consulenza un’attività che può essere svolta da personale interno dell’amministrazione e già da quest’ultima retribuito; la pubblica amministrazione, in conformità al dettato di cui all’art. 97 della Costituzione, deve infatti uniformare i propri comportamenti ai criteri di legalità, economicità, efficienza ed imparzialità, dei quali diviene corollario il principio secondo cui la stessa, nell’assolvimento dei propri compiti istituzionali, deve avvalersi prioritariamente delle proprie strutture organizzative e del personale che vi è preposto (1).
E’ illecito e fonte di danno erariale un incarico di consulenza che si sia sostanzialmente risolto nella direzione e di gestione di una struttura amministrativa –peraltro protrattasi per oltre un quinquennio- trattandosi nella specie di attività del tutto incompatibile con i requisiti, previsto dalle norme in materia, della temporaneità e della necessaria specificità dell’incarico, da intendere soprattutto come apporto per la soluzione di specifiche problematiche e non implicante svolgimento di attività continuativa.
Sussiste l’elemento soggettivo della colpa grave nei confronti del vertice amministrativo di una struttura pubblica (nella fattispecie, ASL), che abbia conferito un incarico di consulenza in violazione delle prescrizioni di legge, da ritenere chiarissime in materia; ciò in quanto, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, la determinazione del grado della colpa deve essere compiuta tenendo soprattutto conto della qualità del soggetto agente: a tal fine assumono peculiare rilevo la qualifica professionale rivestita, le specifiche competenze ed attribuzioni, la posizione funzionale, essendo fuori discussione che a funzionari di elevata professionalità e con attribuzioni di direzione sia richiesto un particolare grado di perizia e diligenza nella trattazione degli affari sottoposti alla loro valutazione.
Nel caso di spesa illegittima sostenuta da un ente pubblico (ASL) per il conferimento di un incarico di consulenza in contrasto con la disciplina normativa nella materia, non vi è titolo a compensatio lucri cum damno, neppure parziale, con riferimento alle prestazioni fornite dal consulente, dalle quali l’ente danneggiato non ha tratto alcuna utilità, in ragione della non compiuta utilizzazione e valorizzazione delle professionalità interne (2).
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(1) Cfr., in terminis, Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lazio, 12.05.2008, n. 787 e 18.08.2009, n. 1660; Sezione giurisdizionale Sardegna, 18.09.2008, n. 1831
(2) Cfr., in terminis, Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lazio, 12.05.2008, n. 787; Sezione giurisdizionale Emilia-Romagna, 15.01.2008, n. 21
(massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lombardia, sentenza 02.11.2010 n. 627 - link a www.corteconti.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Personale delle amministrazioni pubbliche - Conferimento di incarico dirigenziale di seconda fascia - Art. 19, comma 6, D.Lgs. n. 165/2001.
L’art. 19, sesto comma, del d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 40 della L. n. 150/2009, consente il conferimento di incarichi esterni a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale solo nell’ipotesi in cui tale qualificazione non sia rinvenibile nell’ambito del personale dirigenziale dell’Amministrazione, con conseguente onere di previa verifica della sussistenza di risorse interne all'Amministrazione in possesso dei requisiti professionali richiesti per quell’incarico e, soltanto ove tale indagine dia esito negativo, sarà possibile attribuire il posto vacante a soggetto esterno, se dotato della particolare specializzazione richiesta (nella fattispecie, la Sezione ha ricusato il visto, e la conseguente registrazione, al provvedimento di conferimento di un incarico dirigenziale di seconda fascia a soggetto estraneo ai ruoli, essendo stata accertata, a seguito di procedura selettiva intrapresa dall'Amministrazione, la presenza di dirigenti interni in possesso della richiesta professionalità) (massima tratta da www.centrostudi-sv.org - Corte dei Conti, Sez. centrale di controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle amministrazioni dello Stato, deliberazione 04.10.2010 n. 18/2010/P).

COMPETENZE GESTIONALIIl principio di netta separazione tra autorità politica e direzione amministrativa non elide una responsabilità diretta del Sindaco qualora egli venga meno a doverosi compiti di sovrintendenza degli uffici comunali o non formuli chiari indirizzi.
Prevedeva l’art. 36 della legge n. 142/1990 “1. Il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente, convocano e presiedono il consiglio e la giunta, sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici nonché all'esecuzione degli atti 2. Essi esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all'espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia.” distinguendo così le loro competenze da quelle dei dirigenti (art. 51) “2. Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti che si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti. 3. Spettano ai dirigenti tutti i compiti, compresa l'adozione di atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, che la legge e lo statuto espressamente non riservino gli organi di governo dell'ente. Spettano ad essi in particolare, secondo le modalità stabilite dallo statuto, la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la responsabilità sulle procedure d'appalto e di concorso, la stipulazione dei contratti. 4. I dirigenti sono direttamente responsabili, in relazione agli obiettivi dell'ente, della correttezza amministrativa e dell'efficienza della gestione” da quello dei Segretari Comunale (art. 52) “3. Il segretario, nel rispetto delle direttive impartitegli dal sindaco o dal presidente della provincia da cui dipende funzionalmente, oltre alle competenze di cui all'art. 51, sovraintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l'attività, cura l'attuazione dei provvedimenti, è responsabile dell'istruttoria delle deliberazioni, provvede ai relativi atti esecutivi e partecipa alle riunioni della giunta e del consiglio”.
A seguito dell’entrata in vigore del T.U.E.L., le attribuzioni del Sindaco sono previste dall’art. 50 che, ai primi tre commi afferma “1. Il sindaco e il presidente della provincia sono gli organi responsabili dell'amministrazione del comune e della provincia.
2. Il sindaco e il presidente della provincia rappresentano l'ente, convocano e presiedono la Giunta, nonché il consiglio quando non è previsto il presidente del consiglio, e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all'esecuzione degli atti.
3. Salvo quanto previsto dall'articolo 107 essi esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all'espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia
.”
L’assetto normativo che precede ha, quindi, sostanzialmente innovato non solo in tema di specifica attribuzione delle funzioni sindacali ma, anche, l’assoggettabilità del “primo cittadino” a specifiche fattispecie di responsabilità amministrativa.
Ad avviso del Collegio, però, ritenere –come fa la difesa– che ogni e qualsivoglia responsabilità di tipo gestionale gravi sul dirigente preposto al settore d’interesse e affranchi, da ogni obbligo relativo il vertice politico, appare conclusione che va oltre la ratio e la lettera della norma.
Entrambe le disposizioni, seppur attuative di quell’orientamento legislativo che ha voluto una netta separazione tra autorità politica e direzione amministrativa, non elidono una responsabilità diretta del Sindaco qualora egli venga meno a doverosi compiti di sovrintendenza degli uffici comunali o non formuli chiari indirizzi.
Quello che il Legislatore ha voluto (e certamente si è realizzato) è, da un lato, svincolare il Sindaco da gravosi e burocratici impegni di ordinaria amministrazione e, dall’altro, conferire dignità adeguata alla professionalità del dirigente, in un assetto dicotomico che non vuol significare deresponsabilizzazione (Corte di Conti, Sez. giurisdiz Lazio, sentenza 02.03.2009 n. 262 - link a www.corteconti.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICILe Sezioni Riunite di questa Corte muovendo dall’affermazione che la colpa grave consiste nella evidente e marcata trasgressione di obblighi di servizio o di regole di condotta, che si sostanzia nell’inosservanza di quel minimo di diligenza richiesto nel caso concreto, o in una marchiana imperizia o una irrazionale imprudenza, hanno individuato la fattispecie trasgressiva laddove, nel caso di illecito che si concreti in comportamento omissivo, questo sia pervicace ed ingiustificato, tale da rendere ostensiva la volontà del soggetto di disinteressarsi deliberatamente di adempimenti che gli fanno carico.
La colpa consiste nell'avere violato un criterio medio di diligenza, il quale deve essere più o meno elastico per adattarsi alla circostanze del caso concreto e, nel caso di colpa professionale, la limitazione al dolo e alla colpa grave si giustifica proprio perché si impone all'agente un rischio che egli non si assumerebbe se sapesse di dover rispondere per colpa lieve. In conseguenza, la limitazione delle responsabilità ai casi di dolo o colpa grave va visto come la realizzazione di un principio di ragionevolezza consistente nel fatto che la forma di colpa alla quale si deve riferire è quella in concreto cioè quella che si accerta in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale produttiva del danno. Ciò comporta che la colpa grave nella responsabilità amministrativa va individuata in relazione ai poteri e alle funzioni attribuite ai convenuti nella fattispecie concreta.

Il direttore dei lavori per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di una obbligazione di mezzi e non di risultati, ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di particolari e peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam” in concreto”. Egli “è tenuto ad effettuare una ricognizione del luogo sul quale verrà effettuata l'opera pubblica. Se da tale omissione, e da carenze nell'attività progettuale, derivano sospensioni dei lavori e difformità dal progetto originario, questi risponde dei conseguenti oneri”.
Premesso che non ogni comportamento censurabile può integrare gli estremi della colpa grave, ma solo quelli contraddistinti da precisi elementi qualificanti, che –nella inconfigurabilità di un criterio generale– vanno accertati caso per caso dal giudice in relazione alle modalità del fatto, all’ atteggiamento soggettivo dell’autore, nonché al rapporto tra tale atteggiamento e l’evento dannoso, occorre rammentare che le Sezioni Riunite di questa Corte muovendo dall’affermazione che la colpa grave consiste nella evidente e marcata trasgressione di obblighi di servizio o di regole di condotta, che si sostanzia nell’inosservanza di quel minimo di diligenza richiesto nel caso concreto, o in una marchiana imperizia o una irrazionale imprudenza (Corte conti Sezioni Riunite 10.06.1997 n. 56/A), hanno individuato la fattispecie trasgressiva laddove, nel caso di illecito che si concreti in comportamento omissivo, questo sia pervicace ed ingiustificato, tale da rendere ostensiva la volontà del soggetto di disinteressarsi deliberatamente di adempimenti che gli fanno carico.
In altri termini, secondo l’orientamento più di recente espresso dalle Sezioni d’Appello di questa Corte, (cfr. Corte Conti, II^ app. n. 8/2007) la colpa grave consiste in un giudizio di rimproverabilità per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere; trattasi di concetto normativo che esprime il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e la norma. Il fatto colposo è un fatto involontario che non si sarebbe dovuto produrre e tale tesi non solo fonda o esclude la responsabilità, ma la gradua secondo criteri di valore.
In sostanza, la colpa consiste nell'avere violato un criterio medio di diligenza, il quale deve essere più o meno elastico per adattarsi alla circostanze del caso concreto e, nel caso di colpa professionale, la limitazione al dolo e alla colpa grave si giustifica proprio perché si impone all'agente un rischio che egli non si assumerebbe se sapesse di dover rispondere per colpa lieve. In conseguenza, la limitazione delle responsabilità ai casi di dolo o colpa grave va visto come la realizzazione di un principio di ragionevolezza consistente nel fatto che la forma di colpa alla quale si deve riferire è quella in concreto cioè quella che si accerta in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale produttiva del danno. Ciò comporta che la colpa grave nella responsabilità amministrativa va individuata in relazione ai poteri e alle funzioni attribuite ai convenuti nella fattispecie concreta” (Corte Conti, II^ app. n. 8/2007).
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Come è ben noto, il Direttore dei Lavori è una figura professionale scelta dal committente proprio con lo scopo di seguire l'andamento regolare del cantiere tanto che esso svolge, per conto di questi, un’ opera di controllo e verifica della regolarità e del buon andamento dell’opera e rappresenta la cd. longa manus dell’amministrazione. Una volta nominato, diviene, da un lato, il fiduciario del committente per gli aspetti di carattere tecnico e, dall’altro, il garante, nei confronti del medesimo, dell’osservanza e del rispetto dei contenuti dei titoli abilitativi all’esecuzione dei lavori. L’obbligazione a cui egli è tenuto nei confronti del committente costituisce un'obbligazione di mezzi “in quanto ha per oggetto la prestazione di un'opera intellettuale che non si estrinseca in un risultato di cui si possa cogliere tangibilmente la consistenza”. (Cass. sent. n. 3264/1995).
Al Direttore dei lavori fanno capo una serie di responsabilità -delineate nell’art. 124 del DPR n. 554/1999- nonché tutte le attività ed i compiti normativamente previsti. In particolare deve curare che i lavori cui è preposto siano eseguiti a regola d’arte ed in conformità al progetto e al contratto, è responsabile del coordinamento e della supervisione dell'attività di tutto l'ufficio di direzione dei lavori, e interloquisce in via esclusiva con l’appaltatore in merito agli aspetti tecnici ed economici del contratto.
All’uopo “il direttore dei lavori per conto del committente presta un’opera professionale in esecuzione di una obbligazione di mezzi e non di risultati, ma, essendo chiamato a svolgere la propria attività in situazioni involgenti l’impiego di particolari e peculiari competenze tecniche, deve utilizzare le proprie risorse intellettive ed operative per assicurare, relativamente all’opera in corso di realizzazione, il risultato che il committente preponente si aspetta di conseguire, onde il suo comportamento deve essere valutato non con riferimento al normale concetto di diligenza, ma alla stregua della “diligentia quam” in concreto” (Cass. sent. n. 10728/2008).
Egli “è tenuto ad effettuare una ricognizione del luogo sul quale verrà effettuata l'opera pubblica. Se da tale omissione, e da carenze nell'attività progettuale, derivano sospensioni dei lavori e difformità dal progetto originario, questi risponde dei conseguenti oneri” (Corte dei conti, Sez. Giurisd. Veneto, sent. n. 530/2004)
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Veneto, sentenza 13.02.2009 n. 121 - link a www.corteconti.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'art. 25 della Legge 724/1994 vieta alle amministrazioni di affidare incarichi a proprio personale cessato per pensionamento di anzianità.
Il divieto copre ogni forma di incarico compreso il rapporto di lavoro subordinato e non solo il rapporto di consulenza, studio, ricerca od altro.

... emerge anzitutto la necessità di stabilire quale sia la reale portata del divieto di conferire incarichi al personale cessato dal servizio per pensionamento di anzianità, di cui all'art. 25 della l. n. 724/1994, perché qualora fosse vero che esso ha valore assoluto, sia con riferimento all'oggetto, che ai “soggetti attivi” e “passivi”, nel senso che l'Amministrazione non può mai, in nessun caso ed in nessun tempo, conferire incarichi ai propri ex dipendenti cessati dal servizio a domanda, come lascerebbe intendere parte attrice (v. pag. 11 della citazione e successivi, conformi interventi), allora apparirebbero del tutto superflue, per la risoluzione dell'odierna controversia, le ulteriori norme invocate da parte attrice medesima sulla disciplina generale degli incarichi, stante le peculiarità del caso.
I resistenti, come detto poc'anzi, hanno sostenuto che difettano, nella fattispecie all'esame, i presupposti applicativi del precitato art. 25, sia perché si verte in ipotesi di lavoro subordinato, e non già di vera e propria consulenza, sia perché l'art. 72, comma 1, della l. n. 388/2000 avrebbe modificato, a loro avviso, il ripetuto articolo art. 25, dando luogo “ad una sostanziale equiparazione delle pensioni liquidate con anzianità contributiva pari o superiore ai 40 anni, alle pensioni di vecchiaia” (v. precedente paragrafo XI).
Il Collegio ritiene che per poter ben comprendere la reale porta dell'art. 25 della l. n. 724/1994, che indubbiamente contiene una “norma di divieto”, occorra anzitutto individuare quale siano i beni-valori a tutela dei quali è stato posto il divieto stesso.
Soccorre al riguardo la lettera della norma che, nel suo incipit, espressamente correla il divieto in discorso al dichiarato fine di “garantire piena ed effettiva trasparenza e imparzialità (alla) azione amministrativa”; in tal senso, del resto, la stessa Corte costituzionale ha chiarito che “la disposizione tende ad arginare il fenomeno di dimissioni accompagnate da incarichi ad ex dipendenti, sì da garantire la piena ed effettiva trasparenza e la imparzialità dell'azione amministrativa” (cfr. sent. n. 406/1995, pure richiamata da parte attrice).
Nel contesto dell'art. 25 della l. n. 724/1994, dunque, la “trasparenza” e l'“imparzialità” passano da attributi generali dell'azione amministrativa a specifici beni-valori da tutelare, in relazione agli abusi intrinsecamente presenti nel conferimento di incarichi a chi, già dipendente dall'Amministrazione che gli incarichi stessi attribuisce, ha volontariamente posto fine al suo rapporto di servizio con l'Amministrazione medesima, così manifestando un chiaro disinteresse all' espletamento di ulteriori attività lavorativa con essa.
In altri termini, a fronte di un siffatto disinteresse, il citato art. 25 recepisce e positivizza l'idea, diffusa tra i consociati, secondo la quale è oltremodo contraddittorio, e perciò contrario ai canoni di giustificatezza e ragionevolezza che presiedono alla trasparenza ed all'imparzialità amministrativa, ex artt. 3 e 97 cost., affidare incarichi ai dipendenti pubblici che volontariamente cessino dal servizio, in quanto costoro se avessero voluto ancora lavorare per la loro ex Amministrazione di appartenenza non avrebbero certo chiesto di andare in pensione.
E' evidente infatti l'irrazionalità, anche economica, del conferimento di un incarico in simili condizioni, ove si consideri che l'attività commissionata con l'incarico stesso sarebbe stata remunerata con il solo stipendio, se il dipendete fosse rimasto ancora in servizio, laddove -dopo le dimissioni- il compenso per il ripetuto incarico si aggiunge alla pensione, ossia alla “retribuzione differita” dall'ex dipendente medesimo, con un sensibile aumento dei costi complessivi e, soprattutto, senza assicurare una nuova professionalità di ricambio, alla conclusione dell'incarico. E ciò poi, è appena il caso di rilevarlo, è ancora più ingiusto ed incomprensibile ove si consideri che di regola è lo stesso ex dipendente ad aver creato l'esigenza lavorativa che l'incarico tende a superare, come nel caso di specie, cessando volontariamente dal servizio.
Così individuata la ratio, le finalità e l'oggetto specifico della tutela del “divieto” posto dall'art. 25 della l. n. 724/1994, è evidente che esso copre ogni forma di incarico, e non solo quelle di “consulenza” in senso stretto, contrariamente a quanto sostenuto in proposito dai difensori dei convenuti.
D'altronde se, ai fini di una diversa conclusione, può indurre a dubbi l'intestazione dell'art. 25, che menziona solo gli “incarichi di consulenza”, la lettera della norma elimina ogni incertezza, riferendosi chiaramente oltre che agli “incarichi di consulenza, studi e ricerca”, anche agli incarichi di “collaborazionetout-court, nei quali sicuramente si collocano anche quelli che danno luogo ad un rapporto di lavoro subordinato.
Per questi ultimi, anzi, l'irrazionalità è ancora maggiore -dal lato dell'Amministrazione che conferisce l'incarico-, visto che l'incarico stesso riveste la medesima natura del rapporto di lavoro appena dismesso, mentre -dal lato dell'ex dipendente- può trovare giustificazione solo nel compenso che egli percepisce in aggiunta alla pensione (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Umbria, sentenza 27.07.2006 n. 235 - link a www.corteconti.it).

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CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Salvi i vecchi emolumenti. Gettoni e indennità cumulabili fino al 30/05/2010. La giurisprudenza ha escluso un'applicazione retroattiva del divieto.
È possibile il cumulo dei gettoni di presenza con l'indennità di funzione, a favore di consiglieri provinciali che espletano il proprio mandato politico in enti diversi, per il periodo compreso dal gennaio 2008 al maggio 2010?

Con l'entrata in vigore del dl 31/05/2010, n. 78, convertito in legge, con modificazioni dall'art. 1, comma 1, della legge 30/07/2010, n. 122, chi è eletto o nominato in organi appartenenti a diversi livelli di governo non può ricevere più di un emolumento, comunque denominato, a sua scelta.
Ne deriva che il legislatore, estendendo il divieto di cumulo originariamente contemplato solo tra due diverse indennità di funzione, ha precluso la possibilità di percepire contemporaneamente indennità di funzione e gettoni di presenza previsti per le cariche ricoperte presso enti diversi.
La nuova disciplina non consente più il suddetto cumulo a decorrere dal 31.05.2010. Prima di tale data, tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che tale cumulo fosse possibile, nonostante l'avvenuta abrogazione dell'art. 82, comma 6, del Tuel (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Richiesta di trasferimento.
È possibile applicare il beneficio di cui all'art. 78, comma 6, del Tuel nei confronti di dipendenti della polizia di stato, delegati a rappresentare enti locali presso società di natura consortile che, in relazione a tale carica, hanno prodotto istanza di trasferimento?
L'art. 78, comma 6, del Tuel introduce una disposizione di garanzia a favore di tutti i lavoratori dipendenti per evitare loro restrizioni o limitazioni all'esercizio delle funzioni connesse all'espletamento del proprio mandato. In proposito stabilisce che «la richiesta dei predetti lavoratori di avvicinamento al luogo in cui viene svolto il mandato amministrativo deve essere esaminata dal datore di lavoro con criteri di priorità».
L'art. 77, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 statuisce poi che, ai fini dell'applicazione delle norme di cui al capo IV, status degli amministratori locali (artt. 77-87), nel novero degli amministratori locali sono compresi anche «i componenti degli organi dei consorzi fra enti locali».
Va precisato che occorre di volta in volta esaminare se il rappresentante dell'ente locale sia stato designato a partecipare ad organi di un consorzio fra enti locali o piuttosto di altro ente: infatti non tutti gli enti cui partecipino più comuni o altri enti locali possono essere definiti «consorzi fra enti locali».
Solo in quest'ultimo caso, ai componenti dei relativi organi può ritenersi applicabile il citato art. 78 (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Indennità di funzione.
Può essere rideterminata in aumento l'indennità di funzione da corrispondere agli amministratori comunali, alla luce di quanto stabilito dall'art. 1, comma 54, della legge n. 266/2005, con particolare riferimento alla riduzione del 10%?
L'art. 1, comma 54, della legge finanziaria 2006 ha introdotto una disposizione che di fatto ha prodotto un effetto di «sterilizzazione permanente» del sistema di determinazione delle indennità e dei gettoni di presenza.
Tale sistema, che peraltro male si conciliava, sia dal punto di vista logico che normativo, con le sopravvenute novelle agli art. 82 e 83 del Tuel apportate dall'art. 2, comma 25, della Finanziaria 2008, ha successivamente trovato una decisiva conferma negli artt. 61, comma 10, secondo periodo, e 76, comma 3, della legge 06.08.2008, n. 133, di conversione del decreto legge 25.06.2008, n. 112.
Pertanto non è più possibile per gli enti locali rideterminare in aumento l'attuale misura dell'indennità e dei gettoni di presenza, benché la medesima risulti inferiore a quanto previsto dal dm 119/2000, al lordo della riduzione del 10% disposta dalla legge finanziaria 2006 (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Rimborso spese di viaggio.
È legittimo corrispondere il rimborso delle spese di viaggio sostenute dal sindaco che, per partecipare alle celebrazioni religiose tenutesi nel comune dove svolge il mandato, ha dovuto lasciare la località dove soggiornava in vacanza?
L'art. 84, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000 prevede solo per gli amministratori che risiedono fuori dal capoluogo del comune ove ha sede l'ente, il rimborso delle spese di viaggio effettivamente sostenute per la partecipazione a ognuna delle sedute del rispettivo organo assembleare, nonché per la presenza necessaria (cioè riconducibile ad oggettive esigenze connesse allo svolgimento del mandato) presso la sede dell'ufficio per lo svolgimento delle funzioni proprie o delegate.
La fattispecie in esame non è riconducibile alle oggettive condizioni sopra esposte che danno titolo al rimborso delle spese di viaggio, che pertanto deve escludersi (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOI comuni scivolano sul personale. Errori à gogo, dalle progressioni ai contratti decentrati. La Ragioneria dello stato ha riunito in un dossier le criticità rilevate nell'attività di controllo.
Gli errori più frequentemente commessi dagli enti locali riguardano l'applicazione delle regole dettate dal legislatore e dai contratti collettivi nazionali in materia di personale.
Sono queste le principali indicazioni che si possono trarre dal massimario in cui sono riassunti, per la prima volta, i rilievi che servizi ispettivi della Ragioneria generale dello stato hanno formulato nella loro attività di controllo svolta nel corso del 2010.
Sono numerose le amministrazioni che hanno assegnato progressioni orizzontali a tutto il personale in servizio. Tale comportamento è formalmente vietato dal dlgs n. 150/2009, cosiddetta legge Brunetta, il quale espressamente limita il ricorso a questo istituto a una quota limitata. Per il periodo precedente, le norme contrattuali richiedevano comunque, in modo implicito, che il riconoscimento del beneficio fosse limitato a un numero ridotto di dipendenti, in considerazione del carattere meritocratico. In questo senso si sono pronunciate tanto l'Aran che la Corte dei conti della Basilicata.
Sono assai frequenti anche le violazioni riscontrate nelle progressioni verticali. In particolare, in molte realtà esse sono state effettuate senza rispettare il vincolo di garantire comunque un adeguato accesso dall'esterno. Analoga censura viene mossa per le procedure di stabilizzazione del personale precario. Nelle procedure di contrattazione decentrata continuano a essere frequenti i seguenti errori: presenza nella delegazione trattante di parte pubblica del sindaco e/o di assessori, mancata adozione da parte della giunta di una direttiva alla delegazione trattante, mancanza della deliberazione della giunta di autorizzazione alla sottoscrizione, mancata stipula del contratto dopo la deliberazione della giunta, mancanza della relazione illustrativa, mancata espressione del parere da parte dei revisori dei conti, mancata trasmissione all'Aran della copia del contratto decentrato.
In materia di costituzione del fondo del personale, in molte amministrazioni non sono state considerate le risorse necessarie per il finanziamento del reinquadramento dei vigili dalla quinta alla sesta qualifica funzionale e dei dipendenti di 1a e 2a in 3a qualifica funzionale, disposto dal Ccnl 31/03/1999. E ancora, non sono state tolte dal fondo le risorse relative al trattamento economico accessorio in godimento da parte del personale Ata trasferito alle dipendenze del ministero della pubblica istruzione dall'anno 2000. Alcune amministrazioni hanno inoltre indebitamente consolidato nel fondo gli aumenti previsti dai Ccnl del 2006 e del 2008 consentiti alle amministrazioni in possesso delle condizioni di particolare virtuosità, ma limitatamente a quegli esercizi.
In molti casi l'incremento del fondo sulla base delle previsioni di cui all'articolo 15, comma 2, Ccnl 01/04/1999 è stato disposto «in carenza del preventivo accertamento, da parte del servizio di controllo interno o del nucleo di valutazione, delle effettive disponibilità di bilancio create a seguito di processi di razionalizzazione o riorganizzazione delle attività ovvero espressamente destinate dall'ente al raggiungimento di specifici obiettivi di produttività e qualità». Sulla costituzione del fondo dei dirigenti vengono frequentemente contestati gli aumenti disposti per l'attivazione di nuovi servizi, sulla base delle regole contenute nell'articolo 26, comma 3, del Ccnl 23/12/1999, in particolare per l'assenza di motivazioni e per il consolidamento di tali risorse.
Sul versante della costituzione e della erogazione delle risorse stanziate dal fondo il rapporto evidenzia che in numerosi casi i progetti di produttività, soprattutto quelli finanziati con l'inserimento di risorse ulteriori nel fondo, ex articolo 15, comma 5, Ccnl 01/04/1999, in modo particolare quelli destinati al personale della vigilanza, non hanno rispettato i vincoli previsti dai Ccnl, vuoi perché non sono stati effettivamente adottati in via preventiva, vuoi per l'assenza di un effettivo miglioramento della qualità dei servizi, vuoi per l'avere stanziato risorse non determinate in modo motivato.
Quanto alla erogazione delle risorse, una censura assai diffusa riguarda la corresponsione ai vigili che prestano attività in giorno festivo del compenso per lavoro straordinario ex art. 24 del Ccnl 14/09/2000, anziché dell'indennità di turno maggiorata per le giornate festive. Occorre comunque evidenziare che in questa materia vi sono contrasti interpretativi nella giurisprudenza del lavoro. Sempre sul versante della erogazione del fondo è frequente la censura della «illegittima attribuzione dell'indennità di rischio a favore di tutto il personale anziché, come previsto dalla legge, ai soli soggetti esposti in maniera continua e diretta a rischi pregiudizievoli per la salute e per l'integrità personale», ambito in cui frequentemente viene contestata la erogazione di tale compenso ai dipendenti che utilizzano i personal computer.
Analoga censura, anche per la determinazione dell'importo, viene avanzata frequentemente per la corresponsione della indennità di disagio. E ancora, la erogazione della indennità per specifiche responsabilità in modo indiscriminato a tutti o alla gran parte dei dipendenti delle categorie D e C, così da remunerare il semplice affidamento di incarichi di responsabilità di procedimento. Per i dirigenti in molte realtà la indennità di posizione non è stata tagliata a fronte degli aumenti dello stipendio disposti dal Ccnl 2002 e viene spesso superata la soglia massima della indennità di posizione, senza una adeguata e convincente motivazione della complessità dell'incarico.
Quanto ai segretari le censure più frequenti riguardano le modalità di determinazione della indennità cosiddetta di galleggiamento, cioè della differenza tra la sua indennità di posizione e quella più elevata in godimento nell'ente, in modo da non tenere conto della eventuale maggiorazione. E ancora, spesso si contestata la corresponsione di compensi per i nuclei di valutazione, in modo da eccedere il tetto massimo di incremento della retribuzione di posizione fissato dal contratto integrativo nazionale del dicembre 2003 (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

APPALTIRegolarità contributiva allargata. Durc per tutti i contratti pubblici, salva l'esplicita deroga.
Nuove regole sul Durc negli appalti pubblici. La certificazione di regolarità contributiva va richiesta anche nei confronti di fondazioni e università; ogni attestazione, inoltre, è vincolata alla richiesta (contratto) per cui è stata emessa, con la sola eccezione dell'ipotesi di acquisizioni in economia di beni e servizi con affidamento diretto da parte del responsabile del procedimento (valore al di sotto dei 20 mila euro).

Le novità arrivano dall'entrata in vigore (dall'08.06.2011) del nuovo regolamento di attuazione del codice dei contratti pubblici.
Il nuovo regolamento.
Le nuove regole sul Durc sono previste dal regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici, dpr n. 207 del 05.10.2010 che dà attuazione al dlgs n. 163/2006, in vigore dall'08 giugno, il quale dedica l'intero Titolo H alla materia del Durc.
Riprendendo la definizione finora vigente, l'articolo 6 del regolamento stabilisce che per Durc s'intende «il certificato che attesta contestualmente la regolarità di un operatore economico per quanto concerne gli adempimenti Inps, Inail, nonché cassa edile per i lavori, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento».
Gli operatori economici.
L'obbligo della regolarità contributiva, dunque, gira attorno alla figura di «operatore economico», in quanto è nei confronti di questo soggetto che il certificato funge da certificazione e perché riguardo ai lavori di tale soggetto che le amministrazioni sono tenute a verificare la regolarità contributiva. Per operatore economico. soggetto obbligato alla regolarità contributiva, s'intende «l'imprenditore, il fornitore e il prestatore di servizi o un raggruppamento o consorzio di essi», siano essi persone fisiche o persone giuridiche.
Ai sensi del codice dei contratti pubblici (articolo 3) i termini relativi a «imprenditore», «fornitore» e «prestatore di servizi» designano una persona fisica o una persona giuridica o un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico (Geie), che offra sul mercato, rispettivamente, la realizzazione di lavori oppure opere, la fornitura di prodotti, la prestazione di servizi. Il termine «raggruppamento temporaneo» designa un insieme di imprenditori, o fornitori, o prestatori di servizi, costituito, anche mediante scrittura privata, allo scopo di partecipare alla procedura di affidamento di uno specifico contratto pubblico, mediante presentazione di una unica offerta. Il termine «consorzio» si riferisce ai consorzi previsti dall'ordinamento, con o senza personalità giuridica.
Secondo l'autorità di vigilanza sui contratti pubblici (determinazione n. 7/2010) la nozione di «operatore economico» in ambito europeo è molto ampia e tende ad abbracciare tutta la gamma dei soggetti che potenzialmente possono prender parte a una pubblica gara. Pertanto sono operatori economici anche le fondazioni, gli istituti di ricerca e le Università in quanto «per il diritto comunitario, la nozione di impresa comprende qualsiasi ente che esercita un'attività economica consistente nell'offerta di beni e servizi su un determinato mercato, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento (Corte di giustizia Ue, sentenza 26.03.2009, causa C-113/07)».
Soggetti tenuti a richiedere il Durc.
In base al nuovo regolamento la regolarità contributiva si riferisce a tutti i contratti pubblici, siano essi di lavori, di servizi o di forniture. Restano esclusi, pertanto, i soli contratti pubblici per i quali lo stesso codice prevede espressamente una deroga (Parte I, Titolo II del Codice avente ad oggetto «contratti esclusi in tutto o in parte dall'ambito di applicazione del codice», come ad esempio i contratti di servizi di arbitrato e conciliazione, di cui all'articolo 19, comma 1, lettera c).
È questa una previsione, dunque, che conferma che il Durc va sempre richiesto, senza alcuna eccezione, per ogni tipologia di contratto pubblico e, dunque, anche nel caso degli acquisti in economia odi modesta entità (interpello n. 10/2009 del ministero del lavoro). Spetta alla p.a. procedente stabilire se la fattispecie rientri nella tipologia del contratto pubblico e, quindi, se debba essere acquisito il Durc. In caso affermativo, le stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d'ufficio, anche attraverso strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva (il regolamento, infatti, stabilisce che il Durc nei contratti pubblici deve essere richiesto d'ufficio dalle «amministrazioni aggiudicatrici»).
Nei confronti dei soggetti diversi dalle amministrazioni aggiudicatrici, invece, il nuovo regolamento dispone che il Durc sia prodotto dagli stessi operatori economici. Pertanto, le imprese pubbliche, che non sono amministrazioni aggiudicatrici, non sono tenute ... (articolo ItaliaOggi del 30.05.2011 - tratto da www.corteconti.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ CIRCOSCRIZIONI/ Nel nuovo regolamento nessun cenno a eventuali tagli. Indennità ai presidenti. Il dl 78/2010 ha cancellato il gettone solo ai consiglieri.
Deve essere corrisposta l'indennità di funzione ai presidenti dei consigli circoscrizionali, ai sensi dell'art. 82 del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, dopo la modifica introdotta dal decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n. 122?
La recente manovra finanziaria varata con il decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30.07.2010, n. 122, ha disposto, all'art. 5, comma 7, che con decreto del ministro dell'interno (da emanarsi ai sensi dell'art. 82, comma 8, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 e successive modificazioni ed integrazioni, di concerto con il ministero dell'economia e delle finanze) siano rideterminati in riduzione gli importi delle indennità di funzione degli amministratori comunali e provinciali già previsti nel decreto ministeriale 04.04.2000, n. 119, e siano determinati gli importi dei gettoni di presenza per i consiglieri comunali e provinciali per la partecipazione a consigli e commissioni.
Il comma 6 dell'art. 5 del citato decreto-legge 31.05.2010, n. 78 ha, poi, statuito che nessuna indennità è più dovuta ai consiglieri circoscrizionali. È tuttora in corso l'iter di emanazione del nuovo regolamento per la determinazione della misura delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza da corrispondere agli amministratori degli enti locali, mentre nessuna nuova disposizione è stata dettata dalla normativa di riforma con riferimento ai presidenti dei consigli circoscrizionali.
Pertanto permane, a norma del primo comma del citato art. 82, il diritto all'indennità di funzione per i presidenti dei consigli circoscrizionali dei comuni capoluogo di provincia (articolo ItaliaOggi del 13.05.2011).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ ODG del consiglio.
Quali norme disciplinano l'inserimento, nell'ordine del giorno del Consiglio comunale, di una mozione presentata da un gruppo consiliare?

L'art. 43, comma 1, del dlgs n. 267/2000 riconosce ai «consiglieri comunali e provinciali» il diritto di iniziativa su ogni questione sottoposta alla deliberazione del Consiglio, stabilendo che «hanno inoltre il diritto di chiedere la convocazione del Consiglio secondo le modalità dettate dall'art. 39, comma 2, e di presentare interrogazioni e mozioni».
La dottrina definisce «mozioni» gli atti approvati dal Consiglio per esercitare un'azione di indirizzo, esprimere posizioni e giudizi su determinate questioni, organizzare la propria attività, disciplinare procedure e stabilire adempimenti dell'Amministrazione nei confronti del Consiglio.
Il Tar Puglia –sezione di Lecce– I sez., sentenza n. 1022/2004, chiarisce che la mozione è un «istituto a contenuto non specificato trattandosi di un potere a tutela della minoranza per situazioni non predefinibili, a differenza di altri strumenti più a valenza di mera conoscenza (quali l'interrogazione o la interpellanza), essendo strumento di «introduzione a un dibattito che si conclude con un voto che è ragione ed effetto proprio della mozione».
Alla luce della giurisprudenza e della dottrina, pertanto, a differenza della interrogazione e dell'interpellanza a cui rispondono il sindaco e la giunta, la mozione è diretta al consiglio comunale che deve esprimersi nelle forme della deliberazione, rappresentando una forma di controllo politico-amministrativo (art. 42, comma 1, del dlgs n. 267/2000).
L'art. 38 del dlgs n. 267/2000 prevede che il funzionamento dei consigli «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto, è disciplinato dal regolamento»; occorre, quindi, verificare quale disciplina detta il regolamento comunale nel caso di specie, e in particolare se la previsione regolamentare non pone limiti all'oggetto della mozione, nel senso che la stessa può essere riferita all'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo politico- amministrativo o se può avere un oggetto molto ampio nel caso di una risposta «non soddisfacente» a un'interpellanza posta al sindaco con la quale si chiede di conoscere i motivi o gli intendimenti della condotta dell'amministrazione.
In ogni caso, in assenza di previsioni normative e regolamentari, la possibilità da parte del presidente del consiglio, di una preventiva valutazione dell'oggetto della mozione al fine di inserirla o meno nell'ordine del giorno, va esercitata tenendo in considerazione il potere sovrano delle assemblee politiche (Tar per la Puglia sent. ult. cit.) al quale spetta di decidere, in via pregiudiziale, sull'ammissibilità della discussione sugli argomenti inseriti nell'ordine del giorno (articolo ItaliaOggi del 13.05.2011).

ENTI LOCALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Sì al referendum sul cimitero se non modifica il piano regolatore.
È possibile ricorrere all'istituto del referendum consultivo, previsto dallo statuto comunale, per decidere circa il mantenimento di un'area cimiteriale destinata alla sepoltura di defunti appartenenti a culti diversi da quello cattolico, in particolare di religione musulmana?

I referendum locali si configurano come tipici istituti di democrazia diretta, forme di partecipazione popolare di carattere opzionale, previsti dall'ente locale tra gli elementi facoltativi dello statuto comunale. Rispetto alla normativa previgente, è stata ampliata la valenza dell'istituto del referendum popolare che, secondo la dottrina, è ora configurabile non più solo come consultivo -unica tipologia già presente nell'originale formulazione della legge 142 del 1990- utilizzato per consentire la consultazione della popolazione su rilevanti questioni di interesse locale, ma anche come referendum abrogativo di provvedimenti a carattere generale degli organi istituzionali e burocratici dell'ente oppure propositivo, confermativo, di indirizzo, o infine oppositivo-sospensivo.
Il referendum popolare di tipo consultivo non sembra possa avere, allo stato attuale, quella efficacia politicamente vincolante che parte della dottrina ritiene debba essergli attribuita allorquando dai suoi risultati si evinca in modo inequivocabile e assoluto la prevalenza della volontà popolare. Il decreto legislativo 267/2000 nulla dice circa l'effetto dei risultati del referendum consultivo e gli statuti, in genere, hanno escluso che l'esito sia vincolante per l'amministrazione, preferendo precisare che l'ente locale possa discostarsi dall'esito referendario, motivando adeguatamente, con pieno riconoscimento dell'autonomia politica del consiglio.
In realtà, gli effetti del referendum consultivo si risolvono in una pressione di fatto sugli organi di governo dell'ente. In tal senso, si è anche affermato che il potere statutario in materia resta ampio per quanto riguarda l'oggetto, il numero di partecipanti per la sua validità e la possibilità di prevedere effetti consequenziali per l'amministrazione, legati all'esito del referendum e tuttavia con il limite della conservazione, in ogni caso, del potere decisionale in capo agli organi di governo.
La giurisprudenza ha sottolineato che «le consultazioni costituiscono strumento di partecipazione popolare all'elaborazione delle scelte amministrative, non strumento di verifica della condivisione da parte dei cittadini di scelte già definite con formali provvedimenti amministrativi. L'attività consultiva, per propria natura, deve anteporsi all'attività decisionale, non seguirla» (Cds 29.07.2008, n. 3768). Il referendum popolare locale, avente natura consultiva, non può «dispiegare alcuna giuridica influenza, atteso che impone solo all'amministrazione che lo ha indetto di tener conto della volontà popolare ma non esplica alcun effetto sull'azione amministrativa che ne è stato oggetto, né tanto meno su vicende successive o di altre amministrazioni, né la volontà popolare espressa con il referendum è idonea ad attribuire all'ente locale poteri estranei alla sfera di attribuzioni fissate con legge» (Cds sez. VI, 20.05.2004, n. 3263).
Nel caso di specie occorre verificare come le fonti normative locali, lo statuto e i regolamenti, abbiano disciplinato l'istituto del referendum. Posto che lo statuto comunale abbia previsto il referendum di tipo consultivo su questioni a rilevanza generale interessanti l'intera collettività comunale, disciplinandone alcuni aspetti relativi alla presentazione della proposta di referendum e alle condizioni per la sua validità, nonché alle materie escluse -disponendo che, in caso di esito favorevole, il sindaco è tenuto a proporre al consiglio comunale un provvedimento avente per oggetto il quesito sottoposto a referendum, salva la facoltà del consiglio di non accogliere il quesito referendario con adeguata motivazione- è necessario verificare se il quesito proposto incida, sostanzialmente, sulla modifica del Piano regolatore cimiteriale; in tal caso, infatti, il referendum si configurerebbe come consultazione popolare di tipo abrogativo -e non meramente consultivo- tipologia che, se non è prevista dalla normativa dell'ente, presenta profili di dubbia ammissibilità.
Inoltre, sebbene l'oggetto del quesito referendario rientri tra i settori di specifica competenza comunale, occorre valutare se la sua formulazione non sia in contrasto con gli articoli del regolamento (articolo ItaliaOggi del 15.04.2011).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sanzione amministrativa e non penale per l'assenza del Durc.
Le omissioni contributive legate al Durc non prevedono sanzioni penali ma esclusivamente amministrative.
Lo precisa la Corte di Cassazione, III Sez. penale, con la sentenza 31.05.2011 n. 21780.
I giudici hanno precisato che “il legislatore non ha inteso prevedere sanzioni penali per le omissioni riferite alla trasmissione del DURC e sanzioni siffatte non possono essere introdotte facendo ricorso alla previsione dell’articolo 44, primo comma, lettera a) del testo unico n. 380/2001”.
La norma prevista dall’articolo 44 del Dpr 380/2001 risponde “all’esigenza di evitare che vadano esenti da pena condotte di aggressione al territorio che si traducono nella violazione sostanziale delle norme che prescrivono le modalità con cui possono concretamente essere effettuate le trasformazioni del suolo”.
Ma il Durc è un certificato che attesta la regolarità dell’impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi. Infatti, in caso di assenza del Durc il comma 10 dell’articolo 90 del Dlgs 81/2008 prevede una sanzione amministrativa e non penale
(massima tratta e link a www.diritto24.ilsole24ore.com).
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Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), sanziona attualmente "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire".
Tale fattispecie penale trova i propri precedenti normativi nella L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), e nella L. n. 1150 del 1942, art. 41, lett. a), e le Sezioni Unite di questa Corte -con la sentenza 12.11.1993, Borgja, riferita alla previsione della L. n. 47 del 1985- hanno posto in rilievo che, nell'ambito dell'organico quadro della disciplina urbanistica posta dalla L. n. 1150 del 1942, "appariva evidente che l'oggetto della tutela penale s'identificasse nel bene strumentale del controllo della disciplina degli usi del territorio".
Dopo l'entrata in vigore della L. n. 765 del 1967 (introduttiva, tra l'altro, degli standard urbanistici e della salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio) e della legge di tutela paesaggistica n. 431/1985, però, "l'urbanistica non può farsi solo consistere nella disciplina dell'attività edilizia, dovendosi la relativa nozione estendere alla disciplina degli usi del territorio in senso sociale, economico e culturale, ivi compresa la valorizzazione delle risorse ambientali, nonché alle relazioni che devono instaurarsi tra gli elementi del territorio e non soltanto dell'abitato" (concetto riaffermato da Cass., sez. 3^, 10.06.1997, n. 5514).
Nel contesto della L. n. 47 del 1985, art. 20, le Sezioni Unite hanno ravvisato "una gradualità crescente delle pene edittali in rapporto al grado di lesione dell'interesse tutelato", rilevando in particolare che "la previsione della lettera a) comprende le trasgressioni residuali, sempreché apprezzabili penalmente, cioè non depenalizzate".
Trattasi di considerazioni sicuramente pertinenti anche rispetto alla nuova formulazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), con la necessaria precisazione che il concetto di "residualità" deve essere interpretato alla stregua del principio di tassatività delle fattispecie penali incriminataci, che porta comunque ad escludere dall'ambito di operatività della contravvenzione in oggetto inosservanze diverse da quelle individuabili secondo il tenore letterale della norma.
Nella ricostruzione delle singole ipotesi di inosservanza che integrano il precetto della disposizione sanzionatoria in esame -comunemente e pacificamente considerata quale "norma penale in bianco" (vedi Cass., Sez. Unite: 29.05.1992, Aramini e 12.11.1993, Borgja)- e con precipuo riferimento alla "inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive", ritiene il Collegio che inosservanze siffatte devono pur sempre riguardare la condotta di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio.
Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a), si riferisce testualmente alle disposizioni di legge "previste nel presente titolo", vale a dire il titolo 4^ della prima parte del testo unico in materia edilizia, comprendente gli artt. da 27 a 51, e ciò si palesa come una formulazione riduttiva rispetto alla corrispondente fattispecie incriminatrice previgente (la L. n. 47 del 1985, art. 20, lett. a), che, punendo "l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dalle presente legge, dalla L. 17 agosto 1942, n. 1150 e successive modificazioni e integrazioni", veniva interpretata come un rinvio aperto a tutta la legislazione urbanistico-edilizia, comprensiva - secondo parte della giurisprudenza (vedi Cass., sez. 3^: 07.03.1993, Gorraz e 07.03.1995, Garofalo)- anche delle leggi regionali che costituiscano integrazione dette norme per il controllo dell'attività urbanistica ed edilizia.
Nel precetto attualmente vigente (più aderente al principio di tassatività della fattispecie penale) manca qualsiasi riferimento espresso alla possibilità di integrazione del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. da 27 a 51 da parte della legislazione regionale (tenendo sempre conto, comunque, della preclusione posta dall'art. 10, u.c. nei casi in cui sia la legge regionale ad individuare ulteriori interventi sottoposti al preventivo rilascio del permesso di costruire).
Quello che più costa, però, nella valutazione della vicenda in esame, è che la violazione contestata afferisce ad un adempimento di carattere amministrativo che non riguarda la condotta di trasformazione del territorio.
Il DURC documento unico di regolarità contributiva, disciplinato attualmente, per le opere edilizie, dal D.Lgs. 09.04.2008, n. 81, art. 90 (in materia di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro) come modificato dal D.Lgs. n. 106 del 2009 è un certificato che attestala regolarità di un'impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi nonché in tutti gli altri obblighi previsti dalla normativa vigente nei confronti di INPS, INAIL e Casse Edili, verificati sulla base della rispettiva normativa di riferimento.
Esso, ai sensi del D.Lgs. n. 81 del 2008, stesso art. 90, comma 9, lett. c), deve essere trasmesso dal committente o dal responsabile dei lavori "all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività".
La normativa nazionale in materia di regolarità contributiva è spesso integrata da leggi regionali che individuano ulteriori fasi o particolari motivazioni che rendano necessario acquisire il DURC (ad es.: richiesta del certificato, nei casi di lavori privati in edilizia, anche alla fine dei lavori).
Il DURC rappresenta, dunque, un utile strumento per l'osservazione delle dinamiche del lavoro ed una forma di contrasto al lavoro sommerso e consente il monitoraggio dei dati e delle attività delle imprese affidatane di appalti.
Tutto ciò non ha nulla in comune con il governo del territorio (anche nella sua accezione più ampia) e la previsione del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 90, comma 10, -secondo la quale "in assenza del documento unico di regolarità contributiva delle imprese o dei lavoratori autonomi, è sospesa l'efficacia del titolo abilitativo"- ha carattere di sanzione amministrativa ulteriore rispetto alla sanzione amministrativa pecuniaria comminata, per la violazione dell'art. 90, comma 9, lett. c), dall'art. 157, lett. c), medesimo D.Lgs. in esame.
Il legislatore, dunque, non ha inteso prevedere sanzioni penali per le omissioni riferite alla trasmissione del DURC e sanzioni siffatte non possono essere surrettiziamente introdotte facendo ricorso alla previsione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a).
Una norma residuale in materia di reati edilizi ed urbanistici -quale è pacificamente considerata quella di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. a),- risponde, infatti, all'esigenza di evitare che vadano esenti da pena condotte di aggressione al territorio che si traducono nella violazione sostanziale delle norme che prescrivono le modalità con cui possono concretamente essere effettuate le trasformazioni del suolo.
Nella specie, in conclusione, il Tribunale ha correlato la sanzione penale alla inosservanza di una normativa prevista dalla legislazione statale e da quella regionale non a fini urbanistici ed in relazione ad un comportamento omissivo per il quale, in sede propria, il legislatore statale ha inteso comminare soltanto sanzioni amministrative.
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Niente condanna penale se non si presenta il Durc. Non possono essere applicate le regole a tutela del territorio.
L'omessa presentazione del Durc non è un reato. E, di conseguenza, non può essere sanzionata sul piano penale, ma solo su quello amministrativo. No quindi a tentativi surrettizi di inasprimento del trattamento punitivo utilizzando la disciplina di contrasto agli illeciti edilizi o urbanistici.
Lo chiarisce la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 31.05.2011 n. 21780 (link a www.diritto24.ilsole24ore.com).
La pronuncia ha così annullato la condanna che era stata inflitta dal giudice unico di Firenze a due rappresentanti legali di società cooperative che, titolari di permessi a costruire, avevano trascurato di presentare il documento di regolarità contributiva della srl cui erano stati subappaltati i lavori.
Il giudice fiorentino aveva ritenuto di dovere applicare la lettera a) dell'articolo 44 del Dpr 380/2001, una sorta di "norma penale in bianco" che colpisce le illecite condotte di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio. La Cassazione, però, nell'affrontare la questione, fa notare come la mancata presentazione del Durc «afferisce a un adempimento di carattere amministrativo che non riguarda la condotta di trasformazione del territorio». Il Durc è, infatti, un certificato che attesta la regolarità di un'impresa nei pagamenti e negli adempimenti previdenziali, assistenziali e assicurativi previsti dalla disciplina in vigore a favore di Inps, Inail e casse edili. Deve essere trasmesso dal committente o dal responsabile dei lavori all'amministrazione concedente, prima dell'inizio dei lavori oggetto del permesso di costruire o della denuncia di inizio attività.
Il Durc costituisce così «un utile strumento per l'osservazione delle dinamiche del lavoro ed una forma di contrasto al lavoro sommerso e consente il monitoraggio dei dati e delle imprese affidatarie di appalti». Nulla però che abbia a che vedere con il governo del territorio, neppure in senso ampio. La sospensione del titolo abilitativo, come misura per l'omessa presentazione, ha natura di sanzione amministrativa che va a sommarsi all'altra sanzione amministrativa pecuniaria.
La conclusione è così per l'esclusione assoluta di qualsiasi rilevanza penale per la condotta di mancata presentazione del documento. La norma che è stata utilizzata dal giudice unico di Firenze è invece una disposizione residuale contro i reati edilizi e urbanistici e risponde all'esigenza di colpire comportamenti di aggressione al territorio in violazione delle norme che disciplinano le trasformazioni del suolo (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.06.2011).

APPALTINelle procedure per l’aggiudicazione degli appalti pubblici sussiste sempre in capo all’amministrazione appaltante un margine di discrezionalità tecnica che può investire le componenti dell’offerta nella loro serietà e congruità, in relazione allo specifico oggetto della gara ed alle modalità di esecuzione del contratto, e che consente, quindi, di disporre quelle offerte che presentino aspetti di inattendibilità.
La validità della costituzione di un’A.T.I. deve essere giudicata con esclusivo riferimento al momento della formulazione dell’offerta, dovendo ritenere legittime le offerte congiuntamente presentate da imprese appositamente e tempestivamente raggruppate, singolarmente invitate, anche quando la loro costituzione in ATI sia intervenuta dopo la fase di prequalificazione.
L’obbligo di dichiarare l’assenza del c.d. pregiudizi penali può ritenersi assolto dal legale rappresentante dell’impresa anche avuto riguardo ai terzi (direttori tecnici o altri soggetti comunque muniti di poteri di rappresentanza anche se cessati nel triennio antecedente), nel presupposto che anche in questo caso operino le previsioni di responsabilità penale ed il potere di verifica da parte della stazione appaltante.

Come precisato dalla giurisprudenza, nelle procedure per l’aggiudicazione degli appalti pubblici sussiste sempre in capo all’amministrazione appaltante, a prescindere da una regola puntualmente fissata da disposizioni di legge, di regolamento e rinvenibili nella stessa lex spcialis, un margine di discrezionalità tecnica che può investire le componenti dell’offerta nella loro serietà e congruità, in relazione allo specifico oggetto della gara ed alle modalità di esecuzione del contratto, e che consente, quindi, di disporre quelle offerte che presentino aspetti di inattendibilità (C.d.S., sez. V, 18.09.2009, n. 5597; 21.04.2009, n. 2402).
Come precisato dalla giurisprudenza, la validità della costituzione di un’A.T.I. deve essere giudicata con esclusivo riferimento al momento della formulazione dell’offerta, dovendo ritenere legittime le offerte congiuntamente presentate da imprese appositamente e tempestivamente raggruppate, singolarmente invitate, anche quando la loro costituzione in ATI sia intervenuta dopo la fase di prequalificazione (C.d.S., sez. V, 18.09.2003, n. 5309); più recentemente tale indirizzo è stato confermato, precisandosi che non sussiste alcun divieto in tal senso, emergendo per contro un preciso indirizzo legislativo volto a favorire il fenomeno del raggruppamento e ad individuare la presentazione dell’offerta come momento della procedura da cui decorre il divieto di modificabilità soggettiva della composizione dei partecipanti, divieto che non opera per la fase di prequalificazione (C.d.S., sez. VI, 20.02.2008, n. 588).
Come puntualizzato recentemente dalla giurisprudenza (C.d.S., sez. V, 15.10.2010, n. 7524; 19.11.2009, n. 7244), l’obbligo di dichiarare l’assenza del c.d. pregiudizi penali può ritenersi assolto dal legale rappresentante dell’impresa anche avuto riguardo ai terzi (direttori tecnici o altri soggetti comunque muniti di poteri di rappresentanza anche se cessati nel triennio antecedente), nel presupposto che anche in questo caso operino le previsioni di responsabilità penale ed il potere di verifica da parte della stazione appaltante
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 31.05.2011 n. 3256 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Sull'interpretazione della disposizione di cui all'art. 23-bis, c. 9, ultimo periodo, del d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla l. n. 133 del 2008, nel testo successivamente riformato dal d.l. n. 135/2009, convertito dalla l. n. 166/2009.
L'ultimo periodo del c. 9, dell'art. 23-bis, del d.l. 25.06.2008, n. 112, convertito dalla l. 06.08.2008, n. 133, nel testo successivamente riformato dal d.l. 25.09.2009, n. 135, convertito dalla l. 20.11.2009, n. 166, tempera il divieto contenuto nel medesimo c. 9 con una disposizione derogatoria, di diritto transitorio, consentendo ai soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali di concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara successiva alla cessazione del servizio, avente ad oggetto i servizi da essi forniti.
Il problema ermeneutico è rappresentato principalmente dal significato attribuibile all'espressione "prima gara successiva alla cessazione del servizio"; se cioè essa rilevi sul piano soggettivo (riguardando l'impresa-concorrente), ovvero oggettivo (riguardando la prima gara indetta dalla stazione appaltante dopo l'introduzione dell'art. 23-bis).
Si ritiene che la norma designi, come parametro di rilevanza ermeneutica, quello dell'impresa affidataria. La ratio della disposizione sembra verosimilmente quella di evitare che le società che hanno fornito servizi ad un'amministrazione ed hanno acquisito esperienza "sul territorio" siano automaticamente estromesse dalle gare per l'affidamento concorrenziale di quei servizi, e non già quella di elargire a tutti gli affidatari diretti una moratoria generalizzata.
In altri termini, posto che, a regime, tali imprese non possono godere, in virtù dei principi comunitari in materia di tutela della concorrenza, della possibilità di ottenere affidamenti diretti e di partecipare a gare in libero mercato, si è ritenuto che l'esclusione di tali soggetti dalle gare indette dalle amministrazioni per i servizi da essi già forniti, avrebbe creato un'improvvisa soluzione di continuità, foriera di disparità di trattamento alla rovescia, con la cancellazione ex abrupto degli investimenti effettuati specialmente nell'ambito territoriale di riferimento.
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Non compatibile con il principio di parità concorrenziale la tesi secondo cui dovrebbe ritenersi consentita la partecipazione alle prime gare, bandite da qualsivoglia Comune sul territorio, da parte di tutti gli affidatari diretti, in quanto tale soluzione non farebbe altro che protrarre nel tempo la loro condizione di privilegio, senza produrre alcun vantaggio nella prospettiva della concorrenza per il mercato, obiettivo della norma in esame.
Diversa è la situazione del precedente gestore, anche affidatario diretto, cui in via transitoria si consente di partecipare per salvaguardare il patrimonio gestionale acquisito; ed infatti la volontà della norma, in qualche misura compromissoria, è quella di superare gli affidamenti diretti, e non già di eliminare le imprese affidatarie dirette.
Tale sembra essere l'interpretazione proporzionata e ragionevole, ed anche costituzionalmente orientata, dell'ultimo periodo del c. 9, dell'art. 23-bis, del d.l. 25.06.2008, n. 112, inserita nel contesto di una disposizione che persegue il dichiarato scopo di tutelare la concorrenza, evitando dunque che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali, costituendo inevitabili fattori di distorsione della stessa (TAR Umbria, Sez. I, sentenza 31.05.2011 n. 152 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Il danno da perdita di chance non è liquidabile in via equitativa.
Il danno da perdita di chance, come chiarito dalla giurisprudenza, consiste in un danno patrimoniale relativo alla perdita non di un vantaggio economico, ma della mera possibilità di conseguirlo secondo una valutazione ex ante collegata al momento in cui il comportamento illegittimo ha inciso su tale possibilità; pertanto si configura come danno attuale e risarcibile, sempreché ne sia provata la sussistenza anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, sicché alla mancanza di tale prova non è possibile sopperire con una valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., infatti diretta a fronteggiare l’impossibilità di provare non l’esistenza del danno risarcibile, bensì del suo esatto ammontare.
In altri termini, la perdita di chance di rilievo risarcitorio, in quanto entità patrimoniale giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione e non mera aspettativa di fatto o generiche ed astratte aspirazioni di lucro, deve correlarsi a dati reali, senza i quali risulta impossibile il calcolo percentuale di possibilità delle concrete occasioni di conseguire un determinato bene, e che dunque il danneggiato ha l’onere di fornire (cfr. Cons. St., Sez. IV, 27.11.2010 n. 8253).    (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.05.2011 n. 3243 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Annullamento nulla-osta paesaggistico da parte della Soprintendenza per i beni architettonici.
Va ribadito il costante principio giurisdizionale, condiviso dal Collegio, secondo il quale nel sistema successivo all'entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato all'annullamento del nulla-osta paesaggistico da parte del competente organo statale non richieda più la previa comunicazione ex art. 7 legge n. 241 del 1990.
Tanto, in base al disposto di cui al comma 1 dell'art. 159, d.lgs. 42, cit. il quale (innovando in parte qua rispetto al previgente disposto di cui all'art. 151 del d.lgs. 490 del 1999) stabilisce in modo espresso che la comunicazione relativa all'avvenuto rilascio del nulla osta da parte dell'Ente a ciò competente “costituisce avviso di inizio di procedimento, ai sensi e per gli effetti della legge 07.08.1990, n. 241” (per tutte, Cons. Stato, sez. VI, 27.08.2010, n. 5980) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.05.2011 n. 3223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La stazione appaltante ha l’obbligo di comunicare l’aggiudicazione.
La sentenza impugnata merita conferma laddove ha respinto l’eccezione, argomentando dalla mancata comunicazione dell’aggiudicazione, che costituisce preciso obbligo della stazione appaltante secondo quanto dispone l’art. 79, comma 5, d.lgs. n. 163 del 2006. Tale norme impone all’amministrazione procedente di comunicare l'aggiudicazione, “tempestivamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni, all'aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati che hanno presentato un'offerta ammessa in gara, nonché a coloro la cui offerta sia stata esclusa, se hanno proposto impugnazione avverso l'esclusione, o sono in termini per presentare detta impugnazione”.
Pertanto, come è stato già stabilito (cfr. Consiglio Stato, sez. VI, 11.11.2008, n. 5624), essendo puntualmente disciplinata la fase di comunicazione dell'atto di aggiudicazione, la legale conoscenza dello stesso non può ricondursi a forme diverse di partecipazione dell'esito del concorso, né può esserne valorizzata la conoscenza comunque conseguita dall’interessato, al fine di calcolare la tempestività dell’impugnazione (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.05.2011 n. 3222 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Per impugnare l’esclusione da una procedura concorsuale basta la notifica del ricorso alla stazione appaltante.
Nelle gare di appalto pubblico, invero, il ricorso avverso il provvedimento di esclusione non deve essere notificato ad alcun controinteressato, salvo che lo stesso non sia intervenuto quando la gara si era già conclusa, nel qual caso il gravame deve essere notificato all'impresa aggiudicataria (C.g.a., 29.01.2007 n. 7; Cons. Stato, sez. V, 28.05.2005 n. 5200); per l'ammissibilità del ricorso è sufficiente, sempre che si tratti di provvedimento di esclusione adottato prima dell'aggiudicazione, che il ricorso sia stato notificato alla stazione appaltante, non sussistendo alcun onere per l'impresa esclusa di seguire gli sviluppi del procedimento al quale è ormai estranea ed impugnare gli atti conseguenti, ricercando i controinteressati successivi, salva la facoltà per questi ultimi di proporre l'opposizione di terzo.
Infatti, nelle procedure ad evidenza pubblica, la posizione di controinteressato, ossia del titolare di un interesse qualificato alla conservazione dell'atto, emerge esclusivamente al momento dell'aggiudicazione, con la conseguenza che l'esclusione dalla gara che sia stata pronunciata in un momento anteriore vulnera soltanto l'interesse di colui che sia stato estromesso dalla gara, ma non incide sotto alcun profilo neppure potenziale su quello degli altri partecipanti alla gara.
Da quanto detto consegue che il ricorso contro l'esclusione da una procedura concorsuale è rettamente introdotto con la notifica alla sola stazione appaltante, mentre solo quando la gara si sia già conclusa il ricorso deve essere notificato all'impresa aggiudicataria al fine di consentirle la difesa della posizione di futura contraente dell'Amministrazione che ha indetto la pubblica gara.
Pertanto, nel caso di specie, non sono configurabili i presupposti affinché l’aggiudicatario provvisorio debba essere già considerato quale controinteressato (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2011 n. 3193 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa pubblica amministrazione può avvalersi dell’istituto dell’accesso ai documenti nei confronti del concessionario quando il documento sia di contenuto scorporabile.
L’azione esperita dal Comune appellante, nella pronuncia in commento, era intesa ad ottenere, dall’affidataria del servizio pubblico di distribuzione del gas nel suo territorio, l’ostensione della documentazione necessaria a permettere di indire la gara che lo stesso Ente aveva deciso di svolgere ai fini del nuovo affidamento del servizio.
Per potere impostare la procedura di gara il Comune aveva bisogno di ottenere dal gestore in uscita la documentazione riguardante la struttura del servizio e lo stato dei relativi impianti, stante la necessità di fornire ai partecipanti gli elementi loro occorrenti ai fini della formulazione delle offerte. Da qui la sua richiesta di accesso, respinta dalla ditta resistente poiché i dati richiesti si riferivano ad un impianto unitario di distribuzione servente più comuni; il rilascio delle informazioni domandate, pertanto, avrebbe pregiudicato il corretto svolgimento della futura gara d’ambito e leso anche l’interesse della società stessa a parteciparvi, in quanto sarebbero stati previamente svelati alcuni dati riservati.
Il Comune ricorrente sottolineava, in particolare: la propria necessità di indicare nel bando di gara lo stato di consistenza e le caratteristiche degli impianti oggetto di gara, onde permettere ai concorrenti di formulare un’offerta; la valenza ostruzionistica del diniego di accesso impugnato; la circostanza che l’esibizione dei documenti richiesti doveva reputarsi dovuta dall’attuale gestore sia sul piano del rapporto tra concedente e concessionario di pubblico servizio, relazione implicante un dovere di collaborazione del secondo con il primo, sia sulla scorta del principio di leale cooperazione istituzionale previsto dall’art. 22, comma 5, della legge n. 241/1990 ed estensibile anche ai gestori di servizi, e sia comunque, infine, in base al principio del diritto di accesso agli atti amministrativi.
Secondo i giudici del Consiglio di Stato, sul punto, riveste carattere prioritario la disamina del richiamo che parte appellante fa al principio di leale cooperazione istituzionale di cui all’art. 22, comma 5, della legge n. 241/1990 (“L’acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici … si informa al principio di leale cooperazione istituzionale”).
Gli stessi giudici, infatti, osservano che la menzione legislativa del principio della “leale cooperazione istituzionale” non può essere intesa come preclusiva dell’applicabilità dell’istituto dell’accesso nei confronti dei soggetti pubblici aspiranti ad un’acquisizione documentale. Specialmente in presenza di un “sistema” di soggetti pubblici tanto pletorico e disarmonico come quello nazionale, non vi sarebbe infatti ragione di ritenere riservato ai privati tale istituto, che offre il non trascurabile vantaggio di uno statuto di precise garanzie e di tutela giuridica anche in sede giudiziale, e di abbandonare invece in toto i soggetti pubblici che siano interessati ad ottenere un’ostensione documentale alle incognite di una collaborazione spontanea –inevitabilmente non sempre sollecita e puntuale- dell’Amministrazione di volta in volta legittimata passiva.
Non pare invero dubbio, affermano i giudici di Palazzo Spada, che l’esigenza di accesso avvertita da una Pubblica amministrazione debba disporre di una tutela di base almeno equivalente a quella accordata dalle norme generali del diritto pubblico alla generalità dei consociati, a meno di non incorrere in un inopinato quanto illogico ribaltamento di rapporti, in fatto di intensità di tutela, tra interessi privati e pubblici. Atteso allora che l’art. 22, comma 1, lett. b) della legge n. 241/1990 annovera pur sempre tra i soggetti “interessati” anche i portatori di interessi pubblici, anche un “soggetto pubblico” può quindi avvalersi, ove ritenga, dell’istituto dell’accesso ai documenti (in tal senso, almeno in parte, cfr. C.d.S., V, n. 5573 del 07.11.2008).
Le quante volte ciò accada, il richiamo legislativo al principio di leale cooperazione istituzionale non è però privo di valenza. Tale canone, pur nella sua elasticità, esige comportamenti coerenti e non contraddittori, un confronto su basi di correttezza e apertura alle altrui posizioni e al contemperamento degli interessi, e, d’altro canto, non tollera atteggiamenti dilatori, pretestuosi, ambigui, incongrui o insufficientemente motivati (cfr., tra le tante, C.Cost. n. 379 del 27/07/1992 e n. 242 del 18/07/1997).
Lo stesso principio è allora suscettibile di rilevare non solo come criterio orientativo per l’interpretazione specifica delle norme generali in tema di accesso, ma anche quale regola ulteriore, complementare e di diritto speciale, ossia come canone aggiuntivo per stabilire se la singola richiesta ostensiva del soggetto pubblico debba avere corso. Canone che acquista precisione di contorni specialmente se calato all’interno del particolare modulo relazionale di diritto pubblico che (eventualmente) intercorra tra i soggetti attivo e passivo dell’accesso, e che integra una cornice di particolare ausilio per decifrare la misura della cooperazione istituzionale dovuta. Uno degli schemi relazionali che possono presentarsi, a questo riguardo, può essere anche quello tipicamente intercorrente tra concedente e concessionario (benché questo sia normalmente una comune società di capitali, piuttosto che un’Amministrazione pubblica).
Il richiedente l’accesso è infatti designato dall’art. 22, comma 5, legge cit., come “soggetto pubblico”, mentre nella veste di possibile soggetto passivo dello stesso accesso vengono in rilievo tutte le categorie individuate dall’art. 23 della legge n. 241, ivi inclusi, quindi, anche i gestori di pubblici servizi. Il richiamo alla “leale cooperazione istituzionale” vale perciò anche nei confronti di questi ultimi, avuto riguardo alla loro pur limitata posizione pubblicistica (che è lo stesso fattore, peraltro, che ha giustificato la loro sottoposizione all’obbligo di dare accesso alla stessa stregua delle PP.AA., in forza dell’art. 23 legge cit.).
Di riflesso, e più operativamente, mentre l’art. 2, comma 2, ult. periodo, del d.P.R. n. 184 del 2006 detta la regola generale che “La pubblica amministrazione non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso al fine di soddisfare le richieste di accesso”, nella peculiare prospettiva, invece, della “leale cooperazione istituzionale”, e avuto riguardo alla natura del rapporto specifico corrente tra le parti, si deve riconoscere che il compimento di una ragionevole attività di elaborazione può non essere in concreto rifiutabile. Ebbene, le considerazioni appena svolte portano a ritenere che il canone della leale cooperazione, nello specifico, non consenta al concessionario Gas di sottrarsi –invocando le regole generali- all’attività di elaborazione occorrente a scorporare, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, i dati documentali di interesse dell’Amministrazione richiedente da quelli complessivamente attinenti all’impianto (avvalendosi eventualmente anche della collaborazione offerta dalla richiedente per la bisogna).
Quando, cioè, il documento richiesto in accesso esista, ma si riferisca unitariamente all’intero impianto, il Comune ha in linea di principio titolo ad ottenere lo scorporo ed estrazione dei dati documentali di proprio interesse, cui abbia limitato la propria richiesta ostensiva, da quelli che si riferiscono allo svolgimento del servizio negli altri Comuni. Quando, invece, il documento non sia di contenuto scorporabile, e la domanda abbia ad oggetto i soli dati concernenti l’ambito comunale della richiedente, l’accesso non potrà trovare corso.
E la richiesta ostensiva neppure potrà trovare corso, come si è visto, allorché la documentazione richiesta non esista (neppure in proporzioni più ampie e con contenuti aggregati), ma occorrerebbe costruirla ab origine attraverso un’apposita istruttoria, atteso che l’istituto dell’accesso deve pur sempre avere ad oggetto documenti, e non pure informazioni (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2011 n. 3190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso agli atti ed individuazione dei controinteressati.
Poiché la richiesta di accesso non deve indicare in modo puntuale i documenti, in quanto molto spesso il privato non sa in quali fonti siano contenute le informazioni ricercate, spetta proprio all'Amministrazione individuare i documenti recanti le informazioni richieste, sempre che sussistano i presupposti per consentire l'accesso.

.. occorre misurarsi con il disposto dell'art. 22, comma 1, lett. c), legge n. 241/1990 (come sostituito con la legge n. 15/2005).
Ai sensi di tale previsione, per "controinteressati" in materia di accesso devono intendersi "tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall'esercizio dell'accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza".
Prima dell’avvento di tale norma, la giurisprudenza tendeva a considerare come controinteressati tutti i soggetti determinati cui –semplicemente- si riferissero i documenti richiesti in accesso (C.d.S., V, 02.12.1998, n. 1725; VI, 08.07.1997, n. 1117; IV, 11.06.1997, n. 643; VI, 05.10.1995, n. 1085; VI, 20.05.1995, n. 506; VI, 06.02.1995, n. 71; IV, 15.09.1994, n. 713; IV, 07.03.1994, n. 216; A.P., n. 16 del 1999).
La novella definizione appena riportata ha però un’indubbia portata innovativa, in quanto impone di riconoscere qualità di controinteressato (cfr. sul punto C.d.S., VI, n. 3601 del 2007) non già a tutti coloro che, a qualsiasi titolo, siano nominati o comunque coinvolti nel documento oggetto dell'istanza ostensiva, ma, appunto, solo a coloro che per effetto dell'ostensione vedrebbero pregiudicato il loro diritto alla riservatezza. Non basta, perciò, che taluno venga chiamato in qualche modo in causa dal documento in richiesta, ma occorre in capo a tale soggetto un quidpluris, vale a dire la titolarità di un diritto alla riservatezza sui dati racchiusi nello stesso documento.
La veste di controinteressato in tema di accesso è una proiezione, perciò, del valore della riservatezza, e non già della mera oggettiva riferibilità di un dato alla sfera di un certo soggetto.
Se ne desume che non tutti i dati riferibili ad un soggetto sono per ciò solo rilevanti ai fini in discorso, ma solo quelli rispetto ai quali sussista, per la loro inerenza alla personalità individuale, o per i pregiudizi che potrebbero discendere da una loro diffusione, una precisa e ben qualificata esigenza di riserbo.
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La giurisprudenza ha avuto già modo di chiarire che, poiché la richiesta di accesso non deve indicare in modo puntuale i documenti, in quanto molto spesso il privato non sa in quali fonti siano contenute le informazioni ricercate, spetta proprio all'Amministrazione individuare i documenti recanti le informazioni richieste, sempre che sussistano i presupposti per consentire l'accesso (C.d.S., VI, 04.09.2007, n. 4638 e 13.07.2006, n. 4505).
Ed è stato altresì precisato, nello stesso spirito collaborativo, che ciò che rileva ai fini dell'accoglimento dell'istanza di accesso non è il "nomen iuris" di un determinato atto o documento dell'Amministrazione, ma è l'informazione in esso contenuta, indipendentemente dal modo in cui l'atto sia stato denominato: di conseguenza, al di là del termine con cui siano stati indicati gli atti cui si intende accedere, l'accesso deve essere consentito a tutti gli atti esistenti contenenti le informazioni indicate (C.d.S., VI, 26.01.2006, n. 229)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2011 n. 3190 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla legittimità dell'istanza di accesso, da parte di un Comune, alla documentazione necessaria ad indire una gara, da svolgere ai fini di un nuovo affidamento del servizio di distribuzione del gas, nei confronti dell'impresa attuale affidataria.
E' legittima l'istanza di accesso alla documentazione necessaria ad indire una gara, da svolgere ai fini di un nuovo affidamento del servizio di distribuzione del gas, da parte di un Ente Comunale nei confronti dell'impresa attuale affidataria. L'esigenza di accesso avvertita da una P.A., deve disporre di una tutela di base equivalente a quella accordata dalle norme generali di diritto pubblico alla generalità dei consociati. Atteso che l'art. 22, c. 1, lett. b), l. n. 241/1990, annovera tra i soggetti legittimati anche i portatori di interessi pubblici, anche un "soggetto pubblico" può quindi avvalersi, dell'istituto di accesso ai documenti.
Il principio di leale cooperazione istituzionale, rileva non solo come criterio orientativo per l'interpretazione specifica delle norme generali in tema di accesso, ma anche quale canone aggiuntivo per stabilire se la singola richiesta ostensiva del soggetto pubblico debba, o meno, avere corso. E ciò, soprattutto, se calato all'interno del particolare modulo relazionale di diritto pubblico intercorrente tra i soggetti attivo e passivo dell'accesso. Nell'ipotesi di rapporto tra concedente e concessionario, il richiedente l'accesso è infatti designato dall'art. 22, c. 5, legge cit., quale soggetto pubblico, mentre nella veste di possibile soggetto passivo dello stesso accesso vengono in rilievo tutte le categorie individuate dall'art. 23, l. n. 241/1990, ivi inclusi, quindi, anche i gestori di pubblici servizi.
Il richiamo alla "leale cooperazione istituzionale" vale perciò anche nei confronti di questi ultimi. Di riflesso, mentre l'art. 2, c. 2, ult. periodo, del d.P.R. n. 184/2006 detta la regola generale secondo cui la P.A. non è tenuta ad elaborare dati in suo possesso, al fine di soddisfare le richieste di accesso, nella peculiare prospettiva, invece, della "leale cooperazione istituzionale", si deve riconoscere che il compimento di una ragionevole attività di elaborazione può non essere in concreto rifiutabile.
Pertanto, il canone della leale cooperazione, nel caso di specie, non consente all'affidataria di sottrarsi all'attività di elaborazione occorrente a scorporare i dati documentali di interesse della P.A. richiedente (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.05.2011 n. 3190 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Le dichiarazioni relative all'insussistenza di sentenze di condanna passate in giudicato, per reati che incidano sull'affidabilità dei concorrenti, non implicano l'insussistenza di provvedimenti di condanna di cui all'art. 45, par. 1, dir. CE 2004/18.
Secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, in materia di gare d'appalto, le dichiarazioni, rese dai concorrenti, di insussistenza a proprio carico di sentenze di condanna passate in giudicato, per reati che incidano sull'affidabilità morale e professionale delle imprese stesse, non implicano anche l'insussistenza di provvedimenti di condanna per uno o più reati di partecipazione ad un'organizzazione criminale, corruzione, frode, riciclaggio, quali definiti dagli atti comunitari citati all'articolo 45, par. 1, dir. CE 2004/18.
L'art. 38 del d.lgs. n. 163/2006, distingue infatti due categorie di reati: quelli di cui al predetto art. 45, e quelli definiti dalla stessa norma senza individuare precise fattispecie criminose come "reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale". Le rispettive condanne comportano conseguenze diverse, in quanto le prime costituiscono causa automatica di esclusione, laddove le seconde, invece, lasciano alla stazione appaltante un ampio margine di apprezzamento sia sulla incidenza del reato sulla moralità professionale, sia in ordine all'offensività per lo Stato o per la Comunità, sia sulla gravità del fatto.
Non è peraltro consentito, nel caso di specie, ricorrere all'integrazione documentale, ciò in quanto, trattandosi di dichiarazione mancante, l'amministrazione non vanta spazi di apprezzamento discrezionale (TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 27.05.2011 n. 1325 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: L’impugnazione delle clausole del bando è ammissibile solo se l'impresa interessata ha partecipato alla gara.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, formatosi sulla scorta della decisione della Adunanza Plenaria n. 1 del 29.01.2003, l’impugnazione immediata delle clausole del bando è ammissibile solo in presenza di due inderogabili condizioni concorrenti: che l'impresa interessata abbia presentato una rituale domanda di partecipazione alla gara; che le clausole contestate definiscono in modo puntuale i requisiti soggettivi e/o oggettivi di partecipazione, impedendo, in modo assoluto, la partecipazione a determinati soggetti (massima tratta da www.dirittodegliappaltipubblici.it - TAR Sicilia-Palermo, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 1003 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazioni "estreme" senza innovazioni.
La ristrutturazione, se può spingersi fino all'estremo della demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, sconta però in tal caso il vincolo che il nuovo edificio deve essere del tutto fedele a quello preesistente.
In relazione alla previsione di cui all’art. 31, comma 1, lett. d), della legge 05.08.1978, n. 457 –il quale definiva lavori di ristrutturazione edilizia "quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, la eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi impianti"- la giurisprudenza aveva ripetutamente chiarito che, ai sensi della norma avanti citata, il concetto di ristrutturazione edilizia comprendeva anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, purché tale ricostruzione assicurasse la piena conformità di sagoma, di volume e di superficie tra il vecchio ed il nuovo manufatto e venisse, comunque, effettuata in un tempo ragionevolmente prossimo a quello della demolizione (cfr. fra le tante, Cons. St., Sez. V, 03.04.2000 n. 1906).
È poi intervenuto, a definire siffatto intervento edilizio, l'art. 3 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380, che, nel testo originario, menzionava il criterio della "fedele ricostruzione" come indice tipico della tipologia di ristrutturazione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione.
Per effetto, poi, della normativa introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. 27.12.2002 n. 301, il vincolo della fedele ricostruzione è venuto meno, così estendendosi ulteriormente il concetto della ristrutturazione edilizia, che, per quanto riguarda gli interventi di ricostruzione e demolizione ad essa riconducibili, resta distinta dall'intervento di nuova costruzione per la necessità che la ricostruzione corrisponda, quanto meno nel volume e nella sagoma, al fabbricato demolito (cfr. Cons. St., Sez. IV, 28.07.2005 n. 4011; Cons. St., V, 30.08.2006, n. 5061).
In altri termini, come da ultimo ribadito (cfr. Cons. St., Sez. V, 07.04.2011 n. 2180) la ristrutturazione, se può spingersi fino all'estremo della demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato, sconta però in tal caso il vincolo che il nuovo edificio deve essere del tutto fedele a quello preesistente .
Nel caso di specie, se così è deve escludersi che l’edificio realizzato con il permesso di costruire possa in alcun modo essere ricollegato al precedente, essendosi trattato della realizzazione di una nuovo edificio, distinto e diverso dal precedente, sicché si è prodotta una soluzione di continuità fra i due edifici (commento tratto da www.ipsoa.it - TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 791 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALII consiglieri comunali hanno diritto di accesso alla registrazione audio delle sedute consiliari anche quando non è prevista dal regolamento.
Il ricorrente, nella sua qualità di consigliere di un comune piemontese, ha chiesto al Sindaco di quel Comune, la trascrizione completa della registrazione riguardante una delibera [consiliare], al fine di verificarne la corrispondenza con quanto trascritto nel relativo verbale.
Il Sindaco, ha respinto l’istanza sul rilievo che, “in assenza di specifiche norme al riguardo nel vigente Regolamento del Consiglio Comunale, le registrazioni su supporto magnetico delle sedute di tale consesso sono assimilabili a semplici appunti, non ancora tradotti in atti, che il segretario utilizza per la formazione del verbale della seduta, con la conseguenza che la registrazione non può qualificarsi come documento amministrativo, ai sensi dell’art. 22, comma 2, della legge 241/1990, dovendosi attribuire tale qualità solo al verbale della seduta”.
L’interessato, pertanto, ha adito il Tribunale amministrativo di Torino al fine di ottenere l’annullamento dei predetti dinieghi e la condanna del Comune all’esibizione della registrazione magnetofonica richiesta, con facoltà per l’interessato di estrarne copia. Il ricorso, ad avviso dei giudici del Tribunale amministrativo piemontese, è fondato, infatti, la registrazione sonora delle sedute consiliari è suscettibile di essere inclusa nella nozione di “documento amministrativo” rilevante, ai sensi dell’art. 22, comma 1, lettera d), della L. 241/1990, ai fini dell’esercizio del diritto di accesso, dal momento che in tale nozione è espressamente ricompresa, tra l’altro, “ogni rappresentazione…elettromagnetica… del contenuto di atti…detenuti da una pubblica amministrazione” (in senso analogo, con riferimento a fattispecie similari: Cons. Stato, sez. IV, 04.07.1996, n. 820; TAR Lombardia Milano, sez. III, 13.03.2009, n. 1914; TAR Umbria Perugia, sez. I, 30.01.2009, n. 21; TAR Piemonte Torino, sez. II, 18.04.2006, n. 1862).
Del resto, continuano i giudici sabaudi, anche a prescindere dalla predetta considerazione, appare assorbente il rilievo che il ricorrente, in quanto consigliere comunale, ha un diritto di accesso più esteso e più tutelato di quello spettante alla generalità dei cittadini, posto che l'art. 43, comma 2, del t.u. n. 267/2000 prevede che “i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato”.
Ciò significa che il diritto di accesso dei consiglieri comunali non è strettamente limitato agli atti qualificabili come “documento amministrativo” in senso stretto, ma si estende ad ogni ulteriore “notizia” o “informazione” in possesso degli uffici che possa essere di utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale.
È vero che la registrazione audio delle sedute consiliari non è richiesta dalla legge e neppure (nel caso in esame) dal regolamento consiliare, ma se di fatto gli uffici comunali vi provvedono non si vede per quale ragione le registrazioni non debbano essere messe a disposizione dei membri del consiglio; né si può negare che i consiglieri comunali abbiano un apprezzabile interesse ad avere accesso alle registrazioni, se non altro per poter verificare -come nella specie in questione- la correttezza della verbalizzazione ufficiale, prima di approvarla; ma anche, e più in generale, per poter disporre nell’espletamento del proprio mandato di una documentazione più completa ed accurata (commento tratto da www.documentazione.ancitel.it - TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.05.2011 n. 563 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Accesso, il consigliere può disporre delle registrazioni audio delle sedute.
Il consigliere comunale ha diritto ad ottenere la trascrizione completa della registrazione riguardante una delibera consiliare.
Lo ha riconosciuto il TAR Piemonte, Sez. I, nella sentenza 27.05.2011 n. 563.
Il diritto di accesso del consigliere comunale trova riferimento all’art. 43, comma 2, D.Lgs. 267/2000 (testo unico degli enti locali) nel punto in cui prevede che i consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Si tratta dunque di un diritto di accesso più esteso e più tutelato di quello spettante alla generalità dei cittadini.
Infatti, secondo quanto interpretato dalla giurisprudenza la previsione dell’art. 43 citato sta ad intendere che il diritto di accesso dei consiglieri comunali non è strettamente limitato agli atti qualificabili come documento amministrativo in senso stretto, ma si estende ad ogni ulteriore notizia o informazione in possesso degli uffici che possa essere di utilità all’espletamento del loro mandato. Il fine è quello di permettere di valutare con piena cognizione la correttezza e l’efficacia dell’operato dell’Amministrazione, nonché di esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio e allo stesso tempo, promuovere, anche nell’ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 04.07.1996, n. 820; TAR Lombardia Milano, sez. III, 13.03.2009, n. 1914; TAR Umbria Perugia, sez. I, 30.01.2009, n. 21; TAR Piemonte Torino, sez. II, 18.04.2006, n. 1862).
Nella sentenza in rassegna, il collegio piemontese ha ritenuto la registrazione sonora delle sedute consiliari suscettibile di essere inclusa nella nozione di documento amministrativo rilevante, ai sensi dell’art. 22 L. 241/1990 (legge sul procedimento amministrativo), ai fini dell’esercizio del diritto di accesso, dal momento che in tale nozione è espressamente ricompresa, tra l’altro, ogni rappresentazione elettromagnetica del contenuto di atti detenuti da una pubblica amministrazione.
Se è vero che la registrazione audio delle sedute consiliari non è richiesta dalla legge e neppure (come nella fattispecie all’esame del Tar) dal regolamento consiliare, tuttavia -osserva il collegio- , se di fatto gli uffici comunali vi provvedono, non si vede per quale ragione le registrazioni non debbano essere messe a disposizione dei membri del consiglio; né si può negare -prosegue l’organo giudicante- che i consiglieri comunali abbiano un apprezzabile interesse ad avere accesso alle registrazioni, se non altro per poter verificare la correttezza della verbalizzazione ufficiale, prima di approvarla; ma anche, e più in generale, per poter disporre nell’espletamento del proprio mandato di una documentazione più completa ed accurata (commento tratto da www.diritto.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il porticato è un’opera che, in quanto destinata ad incrementare la superficie del manufatto cui inerisce, ne costituisce una sua parte, condividendone così la natura.
La Sezione condivide quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui il porticato non costituisce pertinenza, ma un’opera che, in quanto destinata ad incrementare la superficie del manufatto cui inerisce, ne costituisce una sua parte, condividendone così la natura, nella fattispecie scrutinata di intervento di nuova costruzione (Consiglio di Stato IV Sezione 13.10.2010 n. 7481); d’altronde, il porticato risulta privo di quel carattere funzionale di autonomia e indipendenza necessario per poterlo qualificare come pertinenza.
Né può essere accolta la tesi prospettata dalla ricorrente, circa la natura di opera accessoria dei predetti porticati e quindi la loro non computabilità ai fini del volume complessivo del fabbricato; al riguardo, secondo giurisprudenza anche di questa Sezione, per porticato deve intendersi una struttura edilizia costituita da un piano di copertura sostenuto da pilastri o altri sistemi di supporto, con apertura su almeno tre lati, che ha una funzione accessoria rispetto al corpo di fabbrica principale e, quanto alla destinazione, assolve la funzione di protezione degli accessi all’edificio (o a parte di esso) dagli agenti atmosferici, ovvero di temporaneo deposito di cose e stazionamento dei residenti (TAR Campania Sezione II, 08.05.2009 n. 2457).
Ebbene, con riferimento a tale impostazione i porticati de quibus, anche in base ai dati che emergono dal progetto, non assolvono affatto ad una funzione accessoria, essendo invece destinati ad essiccatoi e quindi proprio all’esercizio dell’attività agricola cui la realizzazione dell’intervento è preordinata; ne consegue che il loro volume deve conteggiarsi in quello complessivo del fabbricato (TAR Campania Napoli Sezione IV, n. 11048 del 2003 e n. 10593 del 2005).
Infine, nemmeno può essere invocata l’applicazione dell’art. 37, sesto comma lettera g) del regolamento edilizio comunale che esclude i porticati dal computo delle superfici lorde, trattandosi di una disposizione su cui è destinata a prevalere, ai sensi dell’art. 3, secondo comma del d.p.r. 06.06.2001 n. 380, la diversa definizione di porticato come evincibile dal primo comma del medesimo art. 3 secondo i richiamati arresti giurisprudenziali (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 26.05.2011 n. 2862 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Bando di gara. La rettifica va pubblicizzata con le stesse forme con cui è stata data pubblicità al bando.
Ogni rettifica del contenuto del bando di gara, dove tale concetto va esteso anche agli atti allegati, “è priva di efficacia nei confronti delle imprese partecipanti alla gara ove non sia portata a conoscenza delle stesse nelle medesime forme attraverso le quali è stata data pubblicità al bando”. Tale statuizione è espressione del principio di reciproca correttezza che deve improntare i rapporti tra stazione appaltante ed imprese partecipanti alla selezione, correttezza idonea a fondare l’affidamento del privato.
La possibilità che, conseguentemente, le modifiche alla disciplina di gara possano avere forme di pubblicità attenuata, sebbene non possa escludersi a priori, deve però essere guardata con disfavore e comunque giustificata da esigenze cogenti che siano idonee a giustificare, in astratto ma anche in concreto, i detti principi che improntano la disciplina delle procedure ad evidenza pubblica.
Nel caso in specie, deve quindi ritenersi non condivisibile l’ipotesi che la semplice divulgazione di una modifica del disciplinare sul sito internet della stazione appaltante possa costituire forma fattualmente e giuridicamente idonea di conoscenza.
Infatti, in primo luogo, proprio in relazione all’evolversi della fattispecie si è data prova che il meccanismo divulgativo predisposto si è dimostrato fallace, adottando un sistema di comunicazione che non è stato idoneo a permettere l’effettiva conoscenza dell’intervenuta modificazione.
E, in secondo luogo, perché si è trattato di un sistema che, in concreto, ha gravato le imprese partecipanti di un onere di diligenza ulteriore, del quale è arduo individuare la fonte normativa, potendosi richiedere alle imprese un onere collaborativo solo nei limiti degli strumenti di legge, salvo voler trasformare il bando di gara da strumento di autovincolo della stazione appaltante in semplice atto introduttivo di una procedura, che diventerebbe così suscettibile di ulteriori modifiche anche in assenza di ulteriore controllo (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2011 n. 3139 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Occupazione appropriativa. Requisiti per l’indennizzo e risarcimento dei danni.
In linea generale, il danno spettante al proprietario ai sensi dell’art. 2043 c.c., per illegittima occupazione di un fondo implica:
a. l’azione restitutoria del bene o in alternativa, l’azione risarcitoria per equivalente conseguente alla perdita definitiva del terreno, in modo da ristorare integralmente il bene perduto. Questa è la fattispecie disciplinata dal comma 1 dell'art. 55 del Testo unico delle espropriazioni –n. 327/2001 e s.m.i.– nella quale in base ai principi esattamente ricordati dall’appellante il ristoro va commisurato al valore venale per la perdita dei proprietari del diritto sul bene dominicale quale che ne sia la natura (agricola o edificatoria);
b. un’azione risarcitoria per il mancato utilizzo del bene per tutto il periodo dell’illegittima occupazione, la quale è in sostanza diretta ad indennizzare i proprietari della perdita dei frutti del loro terreno, naturali e civili, conseguenti, ai sensi dell’art. 1148 c.c. a causa dell’illegittima occupazione.
Entrambe costituiscono la restaurazione sotto due profili, dell'ordine giuridico violato, la prima in sostanza concerne il capitale perduto e, quindi, al valore di mercato del suolo illegittimamente acquisito alla mano pubblica, mentre la seconda concerne i proventi dello stesso o comunque il pagamento di un’indennità equitativamente fissata per il periodo di occupazione illegittima.
Nel caso di specie, posto che nel caso la Società ricorrente ha implicitamente rinunciato alla restituzione, l’azione sub a. è stata azionata innanzi alla competente Corte di Appello di Bari, che ha disposto CTU al fine di determinare il valore venale del bene ai sensi dell’art. 55, 1° co, del T.U. n. 327/2001.
In tale ambito dunque è evidente che la pretesa di applicarlo anche alla restaurazione dei danni derivanti dalla perdita del bene in conseguenza dell’occupazione illegittima si risolverebbe, sotto il profilo processuale in un “bis in idem” del medesimo giudizio azionato in sede ordinaria, e sotto quello sostanziale in un indebito arricchimento, perché la perdita di un unico cespite capitale sarebbe sostanzialmente indennizzato due volte.
In tale scia per la determinazione del risarcimento dei restanti danni da occupazione illegittima, si deve fare riferimento ai canoni comuni operanti in tema di risarcimento del danno (arg. ex Cassazione civile, sez. I, 11.02.2008, n. 3189) ed avendo come riferimento il valore venale dell’immobile.
Al proprietario, per il risarcimento del danno per l'utilizzazione illegittima del suolo per tutto il periodo, il risarcimento ex art. 2043 ben può essere determinato, in via equitativa, in misura pari agli interessi legali annualmente calcolati in relazione al valore venale del bene (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 25.05.2011 n. 3137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge con il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui sorge l’obbligazione.
Il considerevole lasso di tempo decorso tra la presentazione della domanda di sanatoria ed il rilascio della concessione non può essere utilmente valorizzato nell’ottica della individuazione di decorrenze del termine per la formazione del silenzio-assenso (e, così, del decorso della prescrizione) diverse da quelle normativamente indicate né per sollecitare una non meglio specificata “giusta mediazione” che tenga conto delle tariffe eventualmente più favorevoli esistenti all’epoca della presentazione della domanda di sanatoria.

L’obbligazione di pagamento degli oneri concessori sorge con il rilascio della concessione edilizia e la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la determinazione del contributo dovuto per gli oneri in questione debba essere riferita al momento in cui sorge l’obbligazione.
In tale contesto, il considerevole lasso di tempo decorso tra la presentazione della domanda di sanatoria ed il rilascio della concessione non può essere utilmente valorizzato nell’ottica della individuazione di decorrenze del termine per la formazione del silenzio-assenso (e, così, del decorso della prescrizione) diverse da quelle normativamente indicate né per sollecitare una non meglio specificata “giusta mediazione” che tenga conto delle tariffe eventualmente più favorevoli esistenti all’epoca della presentazione della domanda di sanatoria (quanto a quelle vigenti al momento di realizzazione dell’opera abusiva, lo stesso ricorrente riconosce che sarebbe ingiusto agevolare il responsabile) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.05.2011 n. 3116 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANon rientra nel concetto di ristrutturazione edilizia l’intervento con il quale viene mutata, a seguito di sopraelevazione del tetto, la cubatura e la sagoma dell’edificio, giacché la ristrutturazione al massimo comporta la demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato in modo fedele al preesistente.
Se è vero che non rientra nel concetto di ristrutturazione edilizia l’intervento con il quale viene mutata, a seguito di sopraelevazione del tetto, la cubatura e la sagoma dell’edificio, giacché la ristrutturazione al massimo comporta la demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato in modo fedele al preesistente, nella specie si è trattato soltanto di sostituzione di parte di scala, di alcune parti di muro degradate, della copertura di un solaio degradato, di sostituzione di una parete al primo piano in tufo.
L’intervento ha comportato la sola modesta modifica della sagoma esterna, consistente nell’innalzamento della sagoma esterna del fabbricato contenuto (in venti centimetri per la parte appellata, in un metro per la parte appellante), pari allo spessore dello strato isolante, che prima non esisteva.
L’intervento è stato giustificato anche richiamando la normativa regionale sui consumi energetici e sugli impianti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 24.05.2011 n. 3112 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTINelle gare pubbliche le regole stabilite dalla lex specialis vincolano rigidamente anche l’amministrazione, che è tenuta ad applicarle senza alcun margine di discrezionalità a garanzia della par condicio dei concorrenti, con la conseguenza che le clausole di un bando di gara devono essere necessariamente interpretate, nel rispetto dei principi fissati dagli artt. 1362 e ss. c.c., dando prevalenza alle espressioni letterali e restando preclusa qualsiasi forma di interpretazione analogica o estensiva, eventualmente finalizzata a consentire la più ampia partecipazione possibile, opzione che può ammettersi solo in presenza di clausole equivoche o di imperfetta formulazione.
La Sezione osserva che la questione controversa consiste nello stabilire l’esatta interpretazione del contenuto della autodichiarazione di cui al predetto punto 5 del disciplinare di gara ed in particolare se per “forniture” effettuate negli ultimi tre anni deve intendersi la fornitura specifica di filobus, come ha sostanzialmente ritenuto l’amministrazione, ovvero se si riferisca a forniture in generali, comunque attinenti i mezzi di trasporto urbano, come sostanzialmente sostiene l’appellante.
Ai fini del corretto svolgimento dell’operazione ermeneutica deve innanzitutto tenersi conto del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui nelle gare pubbliche le regole stabilite dalla lex specialis vincolano rigidamente anche l’amministrazione, che è tenuta ad applicarle senza alcun margine di discrezionalità a garanzia della par condicio dei concorrenti (ex multis, C.d.S., sez. V, 02.08.2010, n. 5075; 29.01.2009, n. 498), con la conseguenza che le clausole di un bando di gara devono essere necessariamente interpretate, nel rispetto dei principi fissati dagli artt. 1362 e ss. c.c. (notoriamente applicabili anche agli atti amministrativi), dando prevalenza alle espressioni letterali e restando preclusa qualsiasi forma di interpretazione analogica o estensiva, eventualmente finalizzata a consentire la più ampia partecipazione possibile, opzione che può ammettersi solo in presenza di clausole equivoche o di imperfetta formulazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZISono legittime le determinazioni delle amministrazioni appaltanti che, allo scopo di ottenere la dimostrazione della capacità economica, finanziaria e dei tecnica dei partecipanti, limitano l’ammissione ai soli concorrenti che abbiano svolto servizi identici a quelli dell’appalto nei tre anni precedenti.
La giurisprudenza di questo consesso ha più volte ribadito la legittimità delle determinazioni delle amministrazioni appaltanti che, allo scopo di ottenere la dimostrazione della capacità economica, finanziaria e dei tecnica dei partecipanti, limitano l’ammissione ai soli concorrenti che abbiano svolto servizi identici a quelli dell’appalto nei tre anni precedenti (C.d.S., sez. V, 29.03.2006, n. 1599; 15.02.2001, n. 919; 06.08.2001, n. 4237, sia pur riferite alle disposizioni di cui agli artt. 13 e 14 del d.lgs. 17.03.1995, n. 157) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3100 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce, di per sé, motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata un'alterazione della documentazione.
Il rigoroso orientamento giurisprudenziale secondo il quale la tutela dell’integrità dei plichi contenenti gli atti di gara deve essere assicurata in astratto, e sarebbe quindi sufficiente che la documentazione di gara sia stata sottoposta a rischio di manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara, non può essere seguito quando in concreto non sia stato fornito alcun principio di prova della eventuale manomissione dei plichi o quanto meno di un concreto pericolo di manomissione.

La Sezione ritiene di dover ribadire le proprie recenti enunciazioni (decisione 22.02.2011, n. 1094) secondo le quali:
- la mancata dettagliata indicazione nei verbali di gara delle specifiche modalità di custodia dei plichi e degli strumenti utilizzati per garantire la segretezza delle offerte non costituisce, di per sé, motivo di illegittimità del verbale e della complessiva attività posta in essere dalla commissione di gara, dovendo invece aversi riguardo al fatto che, in concreto, non si sia verificata un'alterazione della documentazione (cfr. sezione IV, 05.10.2005, n. 5360; sez. V, 20.09.2001, n. 4973; 10.05.2005, n. 2342; 25.07.2006, n. 4657);
- il rigoroso orientamento giurisprudenziale secondo il quale la tutela dell’integrità dei plichi contenenti gli atti di gara deve essere assicurata in astratto, e sarebbe quindi sufficiente che la documentazione di gara sia stata sottoposta a rischio di manomissione per ritenere invalide le operazioni di gara (Consiglio Stato, Sezione V, 06.03.2006, n. 1068 e 21.05.2010, n. 3203), non può essere seguito quando in concreto non sia stato fornito alcun principio di prova della eventuale manomissione dei plichi o quanto meno di un concreto pericolo di manomissione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTII principi di pubblicità e trasparenza delle sedute della commissione di gara non sono assoluti, ma, appunto, derogabili dalla lex specialis, la quale, ove trattisi di gara svolta con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ben può –e, anzi, deve- prevedere la valutazione in seduta riservata dell'offerta tecnica, e, per esigenze di economicità della procedura, può altresì prevedere (anche per implicito) che tanto sia effettuato previa apertura delle relative buste nel corso della stessa seduta.
L'obbligo inderogabile di pubblicità delle sedute delle commissioni di gara riguarda infatti esclusivamente la fase dell'apertura dei plichi contenenti la documentazione amministrativa e l'offerta economica dei partecipanti, e non anche la fase di apertura e valutazione delle offerte tecniche.

La giurisprudenza ammette che il principio di pubblicità della gara possa essere derogato allorché si debba procedere, da parte della commissione, ad una specifica valutazione tecnica delle offerte, specie quando si debba aggiudicare con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa (cfr. Sez. IV, 05.04.2003, n. 1787; Sez. V, 30.05.1997, n. 576 e 27.02.2001, n. 1067).
I principi di pubblicità e trasparenza delle sedute della commissione di gara non sono difatti assoluti, ma, appunto, derogabili dalla lex specialis, la quale, ove trattisi di gara svolta con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa, ben può –e, anzi, deve- prevedere la valutazione in seduta riservata dell'offerta tecnica, e, per esigenze di economicità della procedura, può altresì prevedere (anche per implicito) che tanto sia effettuato previa apertura delle relative buste nel corso della stessa seduta.
L'obbligo inderogabile di pubblicità delle sedute delle commissioni di gara riguarda infatti esclusivamente la fase dell'apertura dei plichi contenenti la documentazione amministrativa e l'offerta economica dei partecipanti, e non anche la fase di apertura e valutazione delle offerte tecniche (si vedano, tra le più recenti, Cons. Stato, Sez. V, 13.10.2010, n. 7470; 14.10.2009, n. 6311; 11.05.2007 n. 2355; cfr. anche 13.07.2010, n. 4520)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa piena conoscenza dell’atto censurato si concretizza con la cognizione dei suoi elementi essenziali, quali l’autorità emanante, l’oggetto, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo, essendo tali elementi sufficienti a rendere il soggetto legittimato all’impugnativa consapevole dell’incidenza dell’atto nella sua sfera giuridica, ed avendo egli la concreta possibilità di rendersi conto della lesività del provvedimento, senza che sia necessario l’ulteriore elemento della compiuta conoscenza della motivazione e degli atti del procedimento, che può rilevare solo ai fini della proposizione dei motivi aggiunti.
Il termine per l'impugnazione dei provvedimenti amministrativi non è collegato alle convinzioni dei destinatari circa l'illegittimità dell'attività amministrativa, ma solo all’insorgenza della piena conoscenza, come sopra intesa, del provvedimento da contestare.

Il Collegio aderisce, invero, al tradizionale e tuttora prevalente insegnamento giurisprudenziale secondo cui la piena conoscenza dell’atto censurato si concretizza con la cognizione dei suoi elementi essenziali, quali l’autorità emanante, l’oggetto, il contenuto dispositivo ed il suo effetto lesivo, essendo tali elementi sufficienti a rendere il soggetto legittimato all’impugnativa consapevole dell’incidenza dell’atto nella sua sfera giuridica, ed avendo egli la concreta possibilità di rendersi conto della lesività del provvedimento, senza che sia necessario l’ulteriore elemento della compiuta conoscenza della motivazione e degli atti del procedimento, che può rilevare solo ai fini della proposizione dei motivi aggiunti (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.09.2009, nr. 5639 e 7247 del 2010; Cons. Stato, sez. VI, 19.03.2009, nr. 1690; Cons. Stato, sez. V, 26.01.2009, nr. 367; Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, nr. 3750; del 2010, 26.01.2010 n. 292).
E, soprattutto, è principio consolidato quello per cui il termine per l'impugnazione dei provvedimenti amministrativi non è collegato alle convinzioni dei destinatari circa l'illegittimità dell'attività amministrativa, ma solo all’insorgenza della piena conoscenza, come sopra intesa, del provvedimento da contestare (VI, 21.05.2007, n. 2543, e 22.04.2008, n. 1853; V, 02.04.1996, n. 381 e 04.10.1994, n. 1120).
D’altra parte, il valorizzare ai fini della decorrenza del termine per insorgere in giudizio il momento della cognizione di un possibile vizio del provvedimento sposterebbe intollerabilmente in avanti, ed esporrebbe ad eccessiva incertezza, il dies a quo dell’azione giudiziaria, e, correlativamente, il momento del consolidamento di qualsiasi atto amministrativo
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrano a pubblici appalti devono non solo essere in possesso dei requisiti previsti dalla legge ma anche dichiararlo.
L’art. 49, co. 2, lett. c), del codice dei contratti pubblici, onera l’impresa che concorre ad una gara di appalto di allegare una <<dichiarazione sottoscritta da parte dell’impresa ausiliaria attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’art. 38>>.
La chiarezza della norma e la sua ratio, inducono la sezione a non discostarsi dal consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui tutti i soggetti che a qualunque titolo concorrono a pubblici appalti (in veste di affidatari, sub affidatari, consorziati, componenti di a.t.i., ausiliari in sede di avvalimento), devono non solo essere in possesso dei requisiti previsti dall’art. 38 cit., ma anche dichiararlo, assumendosi le relative responsabilità (cfr. da ultimo Cons. St., sez. V, 15.06.2010, n. 3759; ad. plen., 15.04.2010, n. 2155, cui si rinvia a mente dell’art. 74 c.p.a.)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3077 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: La richiesta di regolarizzazione documentale non può essere formulata dalla stazione appaltante se vale ad integrare documenti che in base a previsioni univoche del bando o della lettera di invito avrebbero dovuto essere prodotte a pena di esclusione.
La richiesta di regolarizzazione non può essere formulata dalla stazione appaltante se vale ad integrare documenti che in base a previsioni univoche del bando o della lettera di invito avrebbero dovuto essere prodotte a pena di esclusione; che è quanto accaduto nel caso di specie dove non si può configurare alcun margine di ambiguità che renda ammissibile la richiesta di integrazione intesa come riflesso della responsabilità dell’amministrazione e non come ingiustificato strumento diretto a promuovere indistintamente una più ampia partecipazione alle gare in una logica collaborativa fra l’amministrazione e le imprese interessate che appare travalicare i limiti imposti dall’antagonista principio di formalità vigente in materia di procedimenti concorsuali.
Oltretutto in tal modo si finirebbe per addivenire ad una inammissibile disapplicazione di provvedimenti autoritativi, al di fuori di qualsiasi previsione normativa espressa, da parte della p.a. prima e del giudice amministrativo poi .
A diverse conclusioni non si giunge pur volendo considerare, per assurdo, inesistente, ovvero di portata ambigua ed incompleta, la clausola della lex specialis (si ribadisce mai impugnata dalla ditta), che comminava l’esclusione per il caso di omessa dichiarazione.
Anche in questo caso, infatti, l’amministrazione non ha l’obbligo inderogabile di invitare i concorrenti a regolarizzare la documentazione esibita, ma ha soltanto la facoltà, nell’ambito dei propri poteri discrezionali, di rivolgere detto invito se ritenuto confacente con l’irregolarità riscontrata, con i tempi del procedimento e nel rispetto del principio della parità di trattamento.
Sotto tale angolazione si è affermato che:
a) il mancato esercizio di tale facoltà è insindacabile da parte del giudice amministrativo, salvo il limite della abnormità;
b) il suo esercizio in concreto non può determinare una alterazione della par condicio delle imprese, attraverso una modifica dell’offerta incidente su elementi o formalità essenziali della stessa;
c) può riguardare solamente documenti già presentati ma non dichiarazioni o documentazioni omesse, trovando altresì un limite temporale nel termine perentorio individuato dal bando per la presentazione delle offerte e del relativo corredo documentale
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3077 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: È illegittima per incompetenza la delibera con la quale il Consiglio comunale abbia approvato il progetto per la realizzazione di un parcheggio che comporta variante allo strumento urbanistico.
La giurisprudenza ha chiarito che in base al disposto degli articoli 32 e 35 della legge 08.06.1990, n. 142, l’approvazione dei progetti di opere pubbliche rientra nella competenza della giunta comunale anche quando l’approvazione comporta variante allo strumento urbanistico ex art. 1 della legge 03.01.1978, n. 1 (C.d.S., sez. IV, 26.04.2006, n. 2293), con conseguente illegittimità, sotto il profilo proprio dell'incompetenza, della delibera con la quale il Consiglio comunale abbia approvato il progetto per la realizzazione di un parcheggio, che comporta variante allo strumento urbanistico (C.d.S., sez. IV, 20.03.2000, n. 1471).
E’ stato anche precisato che appartengono alla competenza della giunta comunale gli atti che non siano riservati per legge al consiglio comunale, cui spetta l'adozione di atti di programmazione e di indirizzo, tra cui non può annoverarsi l'approvazione dei progetti di opera pubblica (C.d.S., sez. V, 16.06.2009, n. 3853) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: L’approvazione di un progetto di opera pubblica equivale ex lege a dichiarazione di pubblica utilità, nonché indifferibilità ed urgenza dei relativi lavori, ai sensi dell’articolo 1 della legge 03.01.1978, n. 1, solo allorquando l’opera stessa sia conforme alle previsioni del vigente strumento urbanistico, con la conseguenza che laddove tale conformità difetta il progetto stesso deve essere approvato in variante al piano regolatore, ai sensi del comma 5, del citato articolo 1 della legge 03.01.1978, n. 1, dal competente consiglio comunale.
L’approvazione di un progetto di opera pubblica equivale ex lege a dichiarazione di pubblica utilità, nonché indifferibilità ed urgenza dei relativi lavori, ai sensi dell’articolo 1 della legge 03.01.1978, n. 1, solo allorquando l’opera stessa sia conforme alle previsioni del vigente strumento urbanistico, con la conseguenza che laddove tale conformità difetta il progetto stesso deve essere approvato in variante al piano regolatore, ai sensi del comma 5, del citato articolo 1 della legge 03.01.1978, n. 1, dal competente consiglio comunale (C.d.S., sez. IV, 16.03.2010, n. 1540; 17.12.2003, n. 8264).
Poiché nel caso di specie difettava proprio la conformità urbanistica del progetto da realizzare la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza dei relativi lavori, quest’ultima è divenuta efficace, e dunque capace di svolgere tutti i suoi effetti propri, solo con l’effettiva approvazione della variante urbanistica (adottata con la delibera consiliare n. 52 del 27.10.1993 ed approvata dalla Regione Lombardia con la delibera di giunta n. V/54150 del 21.06.2004).
Pertanto non sussiste il dedotto vizio di violazione degli articoli 7 e seguenti della legge 07.08.1990, n. 241: infatti, la necessità che l’approvazione di progetti di opere pubbliche equivalente a dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori, ai sensi dell’articolo 1 della legge 03.01.1978, n. 1, sia preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento (tra le più recenti, C.d.S., sez. IV, 08.06.2007, n. 2999; 22.03.2005, n. 1236) si ricollega alla immediata efficacia della dichiarazione stessa che consegue solo alla conformità urbanistica del progetto di opera pubblica approvato, laddove le garanzie partecipative risultano pienamente assicurate, come nel caso di specie, con l’adempimento delle formalità previste per il procedimento di approvazione della variante urbanistica (deposito della delibera di adozione della variante nella segreteria comunale, adeguata pubblicità del deposito stesso nel B.U.R.L., possibilità di proporre osservazioni e opposizioni al progetto di variante urbanistica), allorquando il progetto approvato comporta una variante al piano regolatore (con conseguente approvazione del progetto ai sensi del comma 5 dell’articolo 1 della legge 03.01.1978, n. 1)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Le determinazioni assunte dall'amministrazione all'atto dell'adozione del piano regolatore generale o di una variante al piano stesso sono riservate alla sua discrezionalità e costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, e non necessitano neppure di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o ingenerato affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni.
Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo di discostarsi, le determinazioni assunte dall'amministrazione all'atto dell'adozione del piano regolatore generale o di una variante al piano stesso sono riservate alla sua discrezionalità (spettando solo ad essa il coordinamento delle esigenze che si presentano in concreto nel territorio della comunità sottoposto alla sua cura) e costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità, e non necessitano neppure di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali, di ordine tecnico-discrezionale, seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o ingenerato affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiano meritevoli di specifiche considerazioni (tra le più recenti, C.d.S., sez. IV, 04.05.2010, n. 2545; 07.04.2010, n. 1986; marzo 2009, n. 1652)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: I pareri di regolarità tecnica e contabile non costituiscono requisito di legittimità delle deliberazioni (consiliari e/o giuntali) cui si riferiscono, essendo preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile.
Il mancato inserimento dei pareri di regolarità tecnica e contabile nella deliberazione impugnata costituisce mera irregolarità, ai sensi dell'art. 53, l. 08.06.1990 n. 142, allorquando non si contesta l'effettiva esistenza dei pareri medesimi.

... gli atti impugnati non erano muniti dei pareri previsti dalla legge per la loro validità, pareri che non risultavano acquisiti agli atti di causa e dei quali non si conosceva in ogni caso il loro effettivo contenuto, incerta essendo anche la loro effettiva provenienza.
E' sufficiente ricordare sul punto il condivisibile indirizzo giurisprudenziale secondo cui i pareri in questione non costituiscono requisito di legittimità delle deliberazioni cui si riferiscono, essendo preordinati all'individuazione sul piano formale, nei funzionari che li formulano, della responsabilità eventualmente in solido con i componenti degli organi politici in via amministrativa e contabile (C.d.S., 22.06.2006, n. 3388); d’altra parte è stato anche osservato che il mancato inserimento dei pareri di regolarità tecnica e contabile nella deliberazione impugnata costituisce mera irregolarità, ai sensi dell'art. 53, l. 08.06.1990 n. 142, allorquando non si contesta l'effettiva esistenza dei pareri medesimi (C.d.S., sez. IV, 11.02.2004, n. 548)
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 23.05.2011 n. 3075 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’obbligo per le autorità competenti di assicurare la tutela del vincolo è permanente.
Il principio di diritto affermato dalla sentenza impugnata (per cui un intervento di ripristino in area vincolata richiederebbe una valutazione di compatibilità paesaggistica ‘meno approfondita’ se relativo ad opere preesistenti non completamente distrutte da una mareggiata) non è condivisibile.
Da un lato, infatti, l’obbligo per le autorità competenti di assicurare la tutela del vincolo è permanente, e, dall’altro, il contesto di fatto in cui si colloca l’opera può essersi modificato nel corso del tempo, comportando un diverso impatto paesaggistico la ricostruzione del manufatto e, perciò, una valutazione diversa da quella che sia stata eventualmente espressa in precedenza.
In questo quadro, rileva la giurisprudenza consolidata per la quale:
a) il potere di annullamento della Soprintendenza non consente il riesame nel merito delle valutazioni discrezionali compiute dalla Regione o da un ente sub-delegato (il Comune nella specie), ma si esprime in un controllo di legittimità, esteso a tutte le ipotesi riconducibili all'eccesso di potere, anche per difetto di motivazione o di istruttoria;
b) il Comune deve quindi esercitare il proprio potere motivando adeguatamente sulla compatibilità con il vincolo paesaggistico dell’opera specificamente assentita, in relazione a tutte le circostanze rilevanti nel caso di specie, sussistendo, in caso contrario, illegittimità per carenza di motivazione o di istruttoria;
c) l’autorità statale, se ravvisa un tale vizio nell’atto oggetto del suo riesame, nel proprio provvedimento, perché sia a sua volta immune da vizi di legittimità, motiva sulla non compatibilità degli interventi programmati rispetto ai valori paesaggistici compendiati nel vincolo (Cons. Stato: VI, 13.02.2009, n. 772; 14.10.2009, n. 6294; 04.12.2009, n. 7609) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 23.05.2011 n. 3037 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Sulla dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione ex art. 38 d.lgs. 163/06: distinzione tra un bando che richieda una dichiarazione generica ed un bando più preciso che specifichi che vanno dichiarate tutte le condanne o tutte le violazioni.
Qualora il bando di gara richieda genericamente una dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione dell'art. 38, del d.lgs. n. 163/06, esso giustifica una valutazione di gravità/non gravità compiuta dal concorrente, sicché il concorrente non può essere escluso per il solo fatto dell'omissione formale, cioè di non aver dichiarato tutte le condanne penali o tutte le violazioni contributive; andrà escluso solo ove la stazione appaltante ritenga che le condanne o le violazioni contributive siano gravi e definitivamente accertate. La dichiarazione del concorrente, in tale caso, non può essere ritenuta falsa.
Diversamente, nel caso in cui il bando sia più preciso, e non si limiti a chiedere una generica dichiarazione di insussistenza delle cause di esclusione di cui al citato art. 38, ma specifichi che vanno dichiarate tutte le condanne penali, o tutte le violazioni contributive, la dichiarazione del concorrente deve avere un contenuto più ampio e più puntuale rispetto a quanto prescritto dall'art. 38 codice, all'evidente fine di riservare alla stazione appaltante la valutazione di gravità o meno dell'illecito, al fine dell'esclusione.
In siffatta ipotesi, la causa di esclusione non è solo quella, sostanziale, dell'essere stata commessa una grave violazione, ma anche quella, formale, di aver omesso una dichiarazione prescritta dal bando (TAR Puglia-Bari, Sez. I, sentenza 20.05.2011 n. 752 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ATTI AMMINISTRATIVIOrdinanze ko per vizio di incompetenza. Orario d'apertura, Sindaci limitati.
Non è consentito al sindaco vietare l'utilizzo degli apparecchi da intrattenimento dopo le 22 e neppure anticipare l'orario di chiusura del kebab.
Con due distinte sentenze emanate rispettivamente dai Tar Piemonte e Lombardia, i rispettivi collegi hanno messo il freno alle iniziative dei comuni in quanto, seppur con motivazioni diverse, in ambedue i casi è stato violato il principio della competenza.
Nel primo caso, la sentenza 20.05.2011 n. 513 (TAR Piemonte, Sez. II) puntualizza che con la previsione di un orario di disattivazione degli apparecchi da gioco «il comune si è arrogato una potestà normativa che non trova sostegno in alcuna disposizione legislativa e che, anzi, si svela integrare un'invasione delle competenze rimesse allo stato».
Peraltro, ha osservato la sezione già la Corte costituzionale (sent. n. 237 del 2006), seppur con riferimento al contingentamento, «aveva statuito che i profili relativi all'installazione degli apparecchi e congegni automatici da gioco presso esercizi aperti al pubblico, sale giochi e circoli privati, disciplinati dall'art. 110 del rd n. 773 del 1931, afferiscono alla materia ordine pubblico e sicurezza che l'art. 117, comma 2, lett. h, Cost. riserva alla competenza esclusiva dello stato».
Connesso al profilo dell'incompetenza peraltro, ha aggiunto il collegio, è anche quello della mancanza di una legge di copertura, tale da consentire al comune di incidere negativamente su situazioni soggettive dei privati connesse alla libertà di iniziativa economica. Infatti, non può essere ritenuto tale l'art. 50, comma 7, del dlgs n. 267/2000, il quale consente al sindaco di esercitare il potere di fissare gli orari degli esercizi pubblici, ma unicamente «al fine di armonizzare l'espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti» e non anche per finalità inerenti alla sicurezza pubblica, di competenza dello stato.
Con la sentenza 18.05.2011 n. 739, invece, Il TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, ha dichiarato l'illegittimità dell'ordinanza del sindaco di Bergamo motivata dal fatto che era stata emessa in «stretta correlazione tra schiamazzi serali e notturni, disturbo della quiete pubblica e modalità di gestione del locale, il cui gestore sarebbe stato, peraltro, titolare di una responsabilità oggettiva».
Secondo la sezione II far anticipare la chiusura serale dell'attività alle 16, il sabato e la domenica, comporta l'illegittimo esercizio del potere ex art. 54 del dlgs 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 03.06.2011).

APPALTI: L’esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti rilevanti per l’ammissione ad una gara d’appalto, quali la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna, si configura come causa autonoma di esclusione dalla gara.
La riabilitazione (combinato disposto dagli artt. 683 cpp e 178 cp) e l'estinzione del reato (combinato disposto dagli artt. 676 cpp e 151 seg. cp) per decorso del termine di legge devono essere giudizialmente dichiarate, giacché il giudice di sorveglianza nel primo caso ed il giudice dell'esecuzione nel secondo caso sono gli unici soggetti al quale l'ordinamento conferisce la competenza a verificare che siano venuti in essere tutti i presupposti e sussistano tutte le condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, in mancanza, la dichiarazione di assenze di condanne penali equivale a dichiarazione mendace e giustifica l'esclusione dalla gara del concorrente che l'abbia resa.

Considerato:
- che il punto 17, II comma, del disciplinare di gara richiedeva all’impresa ausiliaria, in caso di avvalimento ai sensi dell’art. 49 del DLgs n. 163/2006, la “dichiarazione attestante il possesso da parte di quest’ultima dei requisiti generali di cui all’art. 38 del DLgs 163/2006…”, dichiarazione da rendersi “con le modalità previste per il concorrente” (cfr. il disciplinare, pagg. 11);
- che, giusta il punto 6, I comma, n. 8, del disciplinare, il concorrente doveva attestare l’insussistenza delle cause di esclusione dalla partecipazione alla gare d’appalto di cui all’art. 38, comma 1, del DLgs n. 163/2006 indicando comunque tutte le eventuali sentenze definitive, anche quelle per le quali abbia beneficiato della non menzione, decreti penali di condanna e sentenze di applicazione della pena su richiesta…;
- che in sede di controllo, ai sensi dell’art. 71 del DPR n. 445/2000, delle dichiarazioni sostitutive rese dai concorrenti veniva acquisito, fra l’altro, il certificato del casellario giudiziale relativo al sig. ... (legale rappresentante della ditta ..., della quale la ricorrente si è avvalsa ai fini della partecipazione alla gara), da cui risultava una sentenza ex art. 444 cpp irrevocabile e non estinta, pronuncia giudiziale di condanna, questa, che l’interessato aveva omesso di dichiarare;
- che la necessità, anche per il rappresentante dell’impresa ausiliaria, di dichiarare tutte le sentenza di condanna, ivi comprese quelle patteggiate (con la sola eccezione di quelle estinte e di quelle per le quali era intervenuta la riabilitazione), derivava inequivocabilmente dal chiaro tenore del disciplinare di gara, il quale stabiliva che le dichiarazioni attestanti il possesso dei requisiti di cui all’art. 38 del codice dei contratti dovevano “essere rese con le modalità previste per il concorrente” e, dunque, nei termini imposti a quest’ultimo dal punto 17, II comma del disciplinare di gara:
- che il Collegio, in punto di diritto, aderendo ad un consolidato e prevalente orientamento giurisprudenziale -che afferma che l’esistenza di false dichiarazioni sul possesso dei requisiti rilevanti per l’ammissione ad una gara d’appalto, quali la mancata dichiarazione di sentenze penali di condanna, si configura come causa autonoma di esclusione dalla gara (cfr., da ultimo, CdS, VI, 06.04.2010 n. 1909; V, 02.02.2010, n. 428; TAR Veneto, I, 24.01.2011 n. 75)-, non può esimersi dall’osservare che la circostanza che il rappresentante legale della ditta ... abbia oggettivamente omesso di dichiarare i propri precedenti penali ha senza dubbio integrato la violazione della lex specialis di gara (è appena il caso di osservare che quest’ultima richiedeva qualcosa di più della mera indicazione dei “reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale” pretesa dall’art. 38, I comma, lett. “c” del DLgs n. 163/2006, in quanto imponeva di specificare, a pena di esclusione –sanzione, questa, prevista dal citato art. 38, I comma, espressamente richiamato dalla lex specialis-, tutte le pregresse vicende giudiziarie dei soggetti interessati, demandando così alla stazione appaltante ogni valutazione in ordine alla gravità del reato e alla sua incidenza sulla moralità professionale), comportando legittimamente l’esclusione della ditta ricorrente da parte della stazione appaltante, anche avuto riguardo alla previsione di cui all’art. 75 del D.P.R. 28.12.2000 n. 445, secondo cui “il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera” (e che giustifica pienamente, sul piano normativo, la richiamata prescrizione contenuta nel disciplinare);
- che l’art. 75, I comma, del D.P.R. citato, del tutto chiaro nella formula letterale, prescinde, infatti, per la sua applicazione dalla condizione soggettiva del dichiarante, attestandosi sul dato oggettivo della "non veridicità", apprezzato ex ante e rispetto al quale è, pertanto, irrilevante il complesso delle giustificazioni poi addotte dal dichiarante;
- che, peraltro, è appena il caso di evidenziare che la riabilitazione (combinato disposto dagli artt. 683 cpp e 178 cp) e l'estinzione del reato (combinato disposto dagli artt. 676 cpp e 151 seg. cp) per decorso del termine di legge devono essere giudizialmente dichiarate, giacché il giudice di sorveglianza nel primo caso ed il giudice dell'esecuzione nel secondo caso sono gli unici soggetti al quale l'ordinamento conferisce la competenza a verificare che siano venuti in essere tutti i presupposti e sussistano tutte le condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, in mancanza, la dichiarazione di assenze di condanne penali equivale a dichiarazione mendace e giustifica l'esclusione dalla gara del concorrente che l'abbia resa (cfr., da ultimo, CdS, V, 20.10.2010 n. 7581);
- che è affatto irrilevante in causa –diversamente ne rimarrebbe leso il principio della par condicio- la circostanza che la dichiarazione di estinzione del reato sia intervenuta successivamente alla dichiarazione resa in sede di gara e, comunque, alla scadenza del termine per la proposizione della domanda di partecipazione alla gara;
- che non può richiamarsi la buona fede del ricorrente e la scusabilità dell’errore in relazione alla circostanza che il certificato del casellario giudiziale non riportava alcunché a carico dei soggetti interessati: è noto, infatti, che i certificati del casellario rilasciati ai privati sono incompleti, potendosi comunque effettuare presso il competente Ufficio una visura ai sensi dell’art. 33 del DPR n. 313/2002, da cui emerge il quadro completo della propria situazione penale ... (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 19.05.2011 n. 836 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - F.O.S. - Natura di rifiuto urbano - Esclusione - Ragioni - Classificazione tra i rifiuti speciali ex art. 184, c. 3, d.lgs. n. 152/2006 - Abrogazione dell’art. 184, c. 1, lett. n) ad opera del d.lgs. n. 4/2008 - Conseguenze.
La natura di rifiuto speciale ex art. 184, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 152/2006, da riconoscere alla F.O.S., deriva dal diritto positivo e precisamente dal medesimo d.lgs. n. 152/2006. Quest’ultimo, infatti, tra gli Allegati alla Parte IV contiene l’Allegato D, il quale reca l’elenco delle diverse categorie di rifiuti, classificati in base ad un codice a sei cifre.
E mentre i rifiuti prodotti dal trattamento meccanico dei rifiuti -quale la F.O.S.- risultano classificati con i codici: a) 19.12.11 e b) 19.12.12,. la categoria dei rifiuti urbani è identificata, invece, con il codice 20 e le varie tipologie di rifiuti che la compongono sono identificate da codici a sei cifre, tutti recanti come prime due cifre il codice 20.
Ne segue che, per esplicita previsione di diritto positivo, i rifiuti derivati dal trattamento meccanico dei rifiuti non appartengono alla categoria dei rifiuti urbani, Ciò, d’altro lato, è confermato, sempre sul piano del diritto positivo, dal fatto che la F.O.S. - e, più in generale, i rifiuti derivati dal trattamento meccanico dei rifiuti - non sono compresi nell’elenco dei rifiuti urbani di cui all’art. 184, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006.
E’, invece, indubbiamente corretta la classificazione della F.O.S. -e, più in generale, dei rifiuti derivati dal trattamento meccanico dei rifiuti- tra i rifiuti speciali ex art. 184, comma 3, lett. g), del d.lgs. n. 152/2006: tale disposizione vi comprende, infatti, i rifiuti derivanti dall’attività di recupero e smaltimento dei rifiuti. Detta conclusione non è in alcun modo infirmata dall’intervenuta abrogazione della lett. n) dell’art. 184, comma 3, del d.lgs. n. 152 cit. operata dal d.lgs. n. 4/2008.
A tale abrogazione non può, infatti, attribuirsi l’inserimento della F.O.S. tra i rifiuti urbani, quanto, invece, il significato di un riconoscimento legislativo dell’inutilità della succitata lett. n), dovendo, per quanto esposto, i rifiuti derivati dal trattamento meccanico dei rifiuti considerarsi rifiuti speciali già ai sensi dell’art. 184, comma 3, lett. g), di cui la lett. n) costituiva (in parte qua) un’inutile duplicazione (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 18.05.2011 n. 917 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Zonizzazione - Scelte pianificatorie - Discrezionalità amministrativa - Limiti - Artt. 97 e 113 Cost..
Se è vero che le scelte di pianificazione, e tra queste, la zonizzazione acustica, rientrano nella discrezionalità amministrativa della Pubblica Amministrazione, esse sono sempre assoggettate, come principio generale del “sistema” delle garanzie comunemente discendenti dagli artt. 97 e 113 Cost., al sindacato giurisdizionale nei limiti della loro (ritenuta) irrazionalità, contraddittorietà e manifesta incongruenza (cfr. sul punto, ex plurimis, le decisioni Cons. Stato, n. 664 dd. 06.02.2002 n. 4920 dd. 27.07.2010).
INQUINAMENTO ACUSTICO - Classi di zonizzazione - DPCM 14.11.1997 - Comuni - Pianificazione conforme - Regione Piemonte - L.r. n. 52/2000.
La definizione delle classi di zonizzazione acustica è disciplinata nella Tabella A allegata al D.P.C.M. 14.11.1997, alla quale sono tenuti a conformarsi i Comuni nella conseguente pianificazione di loro competenza; in Piemonte, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. e) della L.R. 52 del 2000, la zonizzazione è attuata secondo le linee guida regionali approvate con deliberazione della Giunta Regionale 06.08.2001 n. 85-3802.
INQUINAMENTO ACUSTICO - Zonizzazione - Parametri di riferimento - Destinazione d’uso futura - Livelli di rumore sussistenti di fatto - Illegittimità.
E’ illegittima la zonizzazione acustica del territorio che viene compiuta non già tenendo conto dell’attuale destinazione d’uso delle varie porzioni di territorio, ma di quella che si prevede o si auspica esse possano avere nel prossimo futuro, e non già tenendo conto dei livelli di rumore tollerabili in relazione alle destinazioni esistenti, ma di quelli superiori eventualmente sussistenti di fatto (cfr. in tal senso la decisione Cons. Stato n. 9302 dd. 31.12.2009) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 16.05.2011 n. 2957 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Trasformazione di balcone in veranda.
La trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, o di un terrapieno et similia mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica od altri elementi costruttivi, non costituisce intervento di manutenzione straordinaria ,di restauro o pertinenziale, ma è opera già soggetta a concessione edilizia ed attualmente a permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 11.05.2011 n. 18507 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIn materia di DIA, il potere inibitorio, previsto dall’art. 23, comma 6, T.U. 06.06.2001 n. 380 è esercitabile entro il termine perentorio di 30 giorni, potendo successivamente essere emanati soltanto provvedimenti d’autotutela e sanzionatori, in quanto alla scadenza del detto termine matura l’autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati ed indicati nella denuncia di inizio attività, restando fermo al contempo il potere dell’Amministrazione comunque di provvedere non più con provvedimento inibitorio ma con un provvedimento di tipo ripristinatorio o pecuniario, in base alla normativa che disciplina la repressione degli abusi edilizi.
La denuncia di inizio attività edilizia -che non è una domanda ma una informativa cui è subordinato l’esercizio di un diritto- costituisce species (la cui disciplina prevale su quella generale) di un particolare tipo di procedimento semplificato e accelerato, introdotto in via generale dall’art. 19 della Legge 241 del 1990, che consente al privato l’esercizio di una certa attività comunque rilevante per l’ordinamento, già subordinato a qualsivoglia forma di autorizzazione, a prescindere dalla emanazione di un espresso provvedimento amministrativo, comunque assimilabile ad una istanza autorizzatoria, che con il decorso del termine di legge provoca la formazione di un titolo che rende lecito l’esercizio dell’attività, e cioè di un provvedimento tacito di accoglimento di una siffatta istanza.
Il potere inibitorio, previsto dall’art. 23, comma 6, T.U. 06.06.2001 n. 380 è esercitabile entro il termine perentorio di 30 giorni, potendo successivamente essere emanati soltanto provvedimenti d’autotutela e sanzionatori, in quanto alla scadenza del detto termine matura l’autorizzazione implicita ad eseguire i lavori progettati ed indicati nella denuncia di inizio attività, restando fermo al contempo il potere dell’Amministrazione comunque di provvedere non più con provvedimento inibitorio ma con un provvedimento di tipo ripristinatorio o pecuniario, in base alla normativa che disciplina la repressione degli abusi edilizi.
Va da sé, quindi, per quanto innanzi chiarito, che condizione necessaria perché sia validamente presentata una DIA è che i lavori oggetto della stessa non siano stati già interamente o in parte realizzati essendo la denuncia finalizzata esclusivamente alla predisposizione di uno strumento più agile ed efficace di determinati interventi edilizi.
La norma in materia prevede, infatti, che la denuncia debba essere presentata almeno 30 giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, termine entro il quale l’Amministrazione competente può esercitare il controllo sulla sussistenza delle condizioni legittimanti l’attività e conseguentemente inibire l’attività stessa in caso di mancanza delle condizioni necessarie.
In altri termini, non è ipotizzabile una denuncia di inizio di attività per opere già realizzate non potendosi utilizzare tale procedimento quale strumento per ottenere un titolo abilitativo in sanatoria.
Nella specie, invece, risulta in modo incontrastato che il sig. ... ha presentato la denuncia di inizio attività in data 22.06.2005 relativamente ad opere di ristrutturazione edilizia di un sottotetto già interamente realizzate e quindi senza che all’Amministrazione fosse consentito di esercitare tempestivamente il già citato potere di inibizione.
Inappropriato era da considerarsi, quindi, lo strumento della DIA, nel mentre poteva invece utilizzarsi il diverso istituto dell’accertamento di conformità ex art. 36, comma 1, del DPR 380/2001 (TAR Basilicata, sentenza 11.05.2011 n. 301 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa Sezione condivide l'orientamento giurisprudenziale che ritiene il terzo leso dall’attività denunciata legittimato all'instaurazione di un giudizio di cognizione: ciò sul presupposto che la denuncia di inizio attività non è formalmente né sostanzialmente un’istanza, ma uno strumento di massima semplificazione, il quale resta sottoposto all’esercizio di un potere amministrativo successivo, finalizzato sia al riscontro della sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto meramente allegati nella previa denuncia del privato che all’eventuale repressione dell’illecito edilizio.
Sulla configurazione della D.I.A. esistono due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Secondo uno, il procedimento avviato con la D.I.A. darebbe luogo ad una fattispecie provvedimentale a formazione progressiva e a determinazione implicita (cfr., C.d.S., sez. IV, 25.11.2008, n. 5811) ed al conseguente formarsi del titolo abilitativo -avverso cui possono insorgere i terzi dallo stesso danneggiati- per effetto del decorso del termine fissato dalla legge (art. 91-bis della l.p. n. 22 del 1991), entro cui l'Amministrazione può impedire gli effetti della D.I.A. (cfr., C.d.S., sez. IV, 13.01.2010, n. 72; sez. IV, 29.07.2008, n. 3742; sez. IV, 12.09.2007, n. 4828; sez. VI, 05.04.2007, n. 1550). Secondo tale teoria, pertanto, trattandosi di provvedimento ampliativo della sfera giuridica del privato, il suo autoannullamento d’ufficio, pur non ristretto entro termini di decadenza o prescrizione, deve tuttavia essere opportunamente coordinato con il principio di certezza dei rapporti giuridici e di salvaguardia del legittimo affidamento del privato.
Secondo un’altra costruzione, il procedimento connesso alla D.I.A. presentata dal privato non dà luogo ad un atto implicito di natura provvedimentale, trattandosi, al contrario, di un atto del privato, come tale non immediatamente impugnabile innanzi al Tar, con la conseguenza che l'azione a tutela del terzo che si ritenga leso dall'attività svolta sulla base della denuncia non è un’azione di annullamento, ma di accertamento dell'inesistenza dei presupposti della D.I.A. Tale azione (che, sebbene non legalmente tipizzata, troverebbe il suo fondamento nel principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dall'art. 24 Cost.) andrebbe proposta nei confronti del soggetto pubblico che ha il compito di vigilare sulla D.I.A. e verso il quale si produrranno poi gli effetti conformativi derivanti dall'eventuale sentenza di accoglimento, da pronunciarsi in contraddittorio con il presentatore, contro interessato processuale.
Di conseguenza, è a questo specifico aspetto di situazioni create ed affidamenti indotti che dovrebbe rivolgersi l’obbligo di motivazione, per il resto essendo sufficiente la constatata violazione delle regole edilizie poste in essere dal denunciante (cfr., C.d.S., sez. IV, 13.05.2010, n. 2919; sez. VI, 15.04.2010, n. 2139; sez. IV, 12.03.2009, n. 1474; sez. VI, 09.02.2009, n. 717, con ampi riferimenti dottrinari e normativi; sez. IV, 19.09.2008, n. 4513; sez. V, 22.02.2007, n. 948).
Questo Tribunale si è attestato sulla seconda tesi ricostruttiva dell’istituto, condividendo l'orientamento giurisprudenziale sopra sintetizzato, che ritiene il terzo leso dall’attività denunciata legittimato all'instaurazione di un giudizio di cognizione: ciò sul presupposto che la denuncia di inizio attività non è formalmente né sostanzialmente un’istanza, ma uno strumento di massima semplificazione, il quale resta sottoposto all’esercizio di un potere amministrativo successivo, finalizzato sia al riscontro della sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto meramente allegati nella previa denuncia del privato che all’eventuale repressione dell’illecito edilizio (cfr., TRGA Trento, 14.05.2008, n. 111, ed anche 10.11.2008, n. 286; 07.05.2009, n. 150; 05.10.2009, n. 248; 18.11.2009, n. 281; 17.12.2009, n. 310; 05.02.2010, n. 38; 16.11.2010, n. 219).
Qualunque sia la corretta costruzione teorica da dare all’istituto della D.I.A. -per la quale l’ordinanza n. 14 del 05.01.2011 della IV Sezione del Consiglio di Stato ha chiesto l’intervento chiarificatore ed unificante dell’Adunanza Plenaria dello stesso Consiglio- resta comunque il fatto che a fronte di un procedimento attivato mediante una denuncia di inizio attività del privato i noti orientamenti giurisprudenziali in tema di motivazione degli atti di annullamento dei titoli edilizi debbono essere adattati alla particolarità della fattispecie della D.I.A.
La giurisprudenza, infatti, si è sempre preoccupata di dare effettività alla tutela dell'affidamento ingenerato nel cittadino dopo il rilascio di un titolo abilitativo esplicito e con il successivo trascorrere del tempo in assenza di provvedimenti inibitori dell'attività edilizia formalmente assentita dalla stessa Amministrazione; nonché di assicurare la necessità, per il potere pubblico, di esercitare la propria discrezionalità tecnica nel procedimento di riesame del permesso rilasciato mediante un adeguato iter istruttorio. Ha considerato pertanto abnorme, soprattutto in casi di non particolare complessità dell'istruttoria, il provvedimento di annullamento che fosse intervenuto a distanza di vari anni dal rilascio dell'atto annullato in sede di autotutela (cfr., con riferimento alla concessione edilizia, C.d.S., sez. IV, 21.12.2009, n. 8529).
Se, dunque, l’affidamento del privato si correla ad un’attività amministrativa esplicita al fine di delimitare tempi e contenuti dei successivi atti di autotutela, per una serie di effetti incidenti sull’azione e la responsabilità della Pubblica amministrazione (motivazione dell’autoannullamento, tempestività dell’esercizio del relativo potere, risarcimento del danno, ecc. ) è evidente che quell’affidamento subisce un affievolimento -rispetto agli ordinari canoni del potere repressivo dell’attività edilizia illegittima o illecita- nel caso di dichiarazione di inizio attività che, se incompleta o inesatta rispetto alla fattispecie teorica legislativamente predeterminata, non produce alcun effetto di legittimazione dell’intervento.
Con l’introduzione della D.I.A, infatti, il Legislatore ha sostituito il principio di imperatività con quello dell'autoresponsabilità dell'amministrato, il quale è sì legittimato a procedere in via autonoma, a prescindere dall’emanazione di un provvedimento di formale autorizzazione, ma, al contempo, accollandosi la valutazione, in prima battuta, dell'esistenza dei presupposti e dei requisiti richiesti dalla normativa per porre in essere l’attività in tal modo liberalizzata.
Secondo la ricordata impostazione la D.I.A., in definitiva, è un atto di un soggetto privato e non di una pubblica amministrazione, che ne è invece destinataria; essa non costituisce, pertanto, esplicazione di una potestà pubblicistica (cfr., C.d.S., sez. VI, n. 717 del 2009, cit.). Da ciò consegue che la fiducia che il privato nutre circa la bontà e la conformità alla legge del proprio operato denunciato con la D.I.A. è meno consistente e tutelabile di quanto non sia l’ordinario affidamento -peraltro già di per sé limitato in materia edilizia, stante la natura vincolata ed obbligatoria dei provvedimenti repressivi degli abusi- connesso all’emanazione di un formale ed espresso provvedimento di autorizzazione, concessione, presa d’atto e, in genere, ampliativo della sfera giuridica del privato.
In aggiunta a ciò, non si può non osservare che lo stesso Legislatore, ove in ordine alla disciplina generale dell’istituto della D.I.A. ha precisato che è comunque “fatto salvo il potere dell’amministrazione competente di assumere determinazioni in via di autotutela” (cfr., art. 23, comma 1-bis, della l.p. 30.11.1992, n. 23, e, in termini, art. 19, comma 3, della l. 07.08.1990, n. 241), per la particolare fattispecie della D.I.A. edilizia ha inteso invece ulteriormente precisare che “è fatto salvo l’esercizio dei poteri di vigilanza di cui al titolo X” (cfr., commi 6 e 10 dell’art. 91-bis della l.p. n. 22 del 1991), e che gli imposti controlli successivi alla presentazione delle denunce di inizio attività sono quantificati solo nel minimo (almeno il 20 per cento degli interventi in corso, o realizzati, scelti a campione), così lasciando all’organizzazione amministrativa di ogni Comune la potestà di scegliere modalità e tempi per la verifica, anche sistematica, delle denunce di inizio attività pervenute.
In tale prospettiva, dunque, l’ordinario affidamento che governa i rapporti sociali non è collocato sull’operato dell’Amministrazione bensì in capo al progettista. Non si può non ricordare, a questo proposito, che la “dettagliata relazione” di accompagnamento della D.I.A. per opere a tale istituto soggette, la quale “assevera la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi vigenti” (cfr., comma 4 dell’art. 91-bis della l.p. n. 22 del 1991), comporta che l’ordinamento riponga uno specifico affidamento sulla relazione tecnica del progettista e sulla sua veridicità, atteso che quella relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell'ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell'intervento; con il termine <asseverare> il legislatore ha inteso affermare con solennità la particolare rilevanza formale della dichiarazione del tecnico di parte e il suo particolare valore nei confronti dei terzi quanto a verità ed affidabilità del contenuto (cfr., Cass. Pen., sez. III, 16.07.2010, n. 27699)
(TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 11.05.2011 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer l’annullamento d’ufficio del provvedimento implicito formatosi sulla D.I.A., così come per l’autoannullamento della concessione edilizia o del permesso di costruire, è di norma irrilevante -salvi casi di spazi temporali esagerati- il tempo trascorso dall’attività edilizia posta in essere, in quanto la repressione degli abusi edilizi è un preciso obbligo dell’Amministrazione pubblica la quale, a fronte dell’accertamento della violazione delle norme edilizie, non gode di alcuna discrezionalità al riguardo; pertanto, l’atto di repressione degli abusi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare.
Per l’annullamento d’ufficio del provvedimento implicito formatosi sulla D.I.A., così come per l’autoannullamento della concessione edilizia o del permesso di costruire, è di norma irrilevante -salvi casi di spazi temporali esagerati- il tempo trascorso dall’attività edilizia posta in essere, in quanto la repressione degli abusi edilizi è un preciso obbligo dell’Amministrazione pubblica la quale, a fronte dell’accertamento della violazione delle norme edilizie, non gode di alcuna discrezionalità al riguardo; pertanto, l’atto di repressione degli abusi non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può giammai legittimare (cfr., C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049 e n. 5050; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229 e 11.01.2011, n. 79) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 11.05.2011 n. 135 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Impianti di distribuzione carburante.
Gli impianti di distribuzione di carburante sono compatibili con qualsiasi destinazione di zona, stante la loro attitudine a servire in relazione a ogni tipo di attività. La loro localizzazione, ai sensi dell’art. 2 del D.Lv. n. 32/1998, non è esclusa neppure dalla destinazione dell’area a verde pubblico o a verde attrezzato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2011 n. 17873 - link a www.lexambiente.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti. Ecopiazzole e titolo abilitativo.
Al fine di verificare la necessità o meno dell’autorizzazione regionale per le c.d. ecopiazzole, occorre in concreto anzitutto verificare se si sia in presenza di un centro di raccolta dei rifiuti e se il centro sia rispondente ai requisiti indicati dai decreti ministeriali di riferimento dovendosi escludere, in caso affermativo, la necessità di autorizzazione regionale e, dunque la configurabilità del reato per il mancato rilascio.
Solo nel caso in cui si verifichi la non rispondenza alle previsioni indicate o si accerti l’effettuazione presso il centro di raccolta di attività che esulano dalla funzione propria di essi, si potrà valutare la necessità dell’autorizzazione regionale traendo le necessarie conseguenze sul piano penale dalla sua mancanza (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2011 n. 17864 - link a www.lexambiente.it).

URBANISTICA: Lottizzazione e anticipazione dei lavori di costruzione degli edifici residenziali, rispetto alle opere di urbanizzazione primaria.
La anticipazione dei lavori di costruzione degli edifici residenziali, rispetto alla compiuta realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria poste a carico dei lottizzanti, integra inadempimento della convenzione di lottizzazione e non costituisce violazione di un mero obbligo civilistico, poiché le convenzioni di lottizzazione si presentano quale momento indefettibile del complesso procedimento di pianificazione urbanistica che si conclude con l’approvazione del piano di lottizzazione, sicché le stesse configurano un modulo organizzativo attraverso il quale si imprime un determinato statuto ai beni che ne formano oggetto (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.05.2011 n. 17834 - link a www.lexambiente.it).

APPALTI: Mancanza di un documento - Addebitabilità alla formulazione della lex specialis - Tutela della par condicio e del principio di massima partecipazione - Invito a completare e chiarire la documentazione.
Nel caso in cui la mancanza di un documento è da addebitarsi innanzitutto alla formulazione della lex specialis, piuttosto che alla colpa del privato, la stazione è tenuta ad invitare il concorrente a completare e chiarire la documentazione presentata, a tutela della par condicio e del principio di massima partecipazione, senza che possa assumere rilievo la distinzione, in altri casi dirimente, tra mancanza della dichiarazione ed incompletezza della stessa, che finirebbe per violare la ratio stessa dell’art. 46 del d.lgs. 163/2006.
Condotta colposa della stazione appaltante - Conseguenze - Traslazione a carico del soggetto concorrente - Esclusione - Fattispecie.
La tutela dell’affidamento e la correttezza dell’azione amministrativa impediscono che le conseguenze di una condotta colposa della stazione appaltante (quale, nel caso di specie, finisce per essere l’imprecisa dizione letterale del disciplinare) possano essere traslate a carico del soggetto concorrente, comminandogli la sanzione dell’esclusione dalla gara (fattispecie relativa alla previsione, nel disciplinare, della causa di esclusione ex art. 38, c. 1, lett. b), del d.lgs. n. 163/2006; mentre la legge fa riferimento alla posizione degli amministratori muniti di poteri di rappresentanza, il disciplinare di gara si riferiva invece agli amministratori muniti di potere di firma e di rappresentanza legale) (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 09.05.2011 n. 2587 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso di costruire in sanatoria - Istanza dell’interessato - Necessità - Abusi edilizi - Amministrazione - Obbligo di valutare la sanabilità - Insussistenza.
Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire, l’Amministrazione comunale deve senz’altro disporne la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617).
Ordine di demolizione - Presupposto - Motivazione.
Presupposto per l’adozione dell’ordine di demolizione di opere abusive è soltanto la constatata esecuzione di un intervento edilizio in assenza del prescritto titolo abilitativo, con la conseguenza che, essendo tale ordine un atto dovuto, esso è sufficientemente motivato con l’accertamento dell’abuso, e non necessita, quindi, di una particolare motivazione in ordine alle disposizioni normative che si assumono violate, né in ordine all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 28.12.2009, n. 9638; Sez. VI, 09.11.2009, n. 7077; Sez. VII, 04.12.2008, n. 20987).
Ordine di demolizione - Motivazione - Indicazione dei dati catastali dell’immobile - Necessità - Esclusione.
Nella motivazione dell’ordine di demolizione è necessaria e sufficiente l’analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, mentre non è necessaria una puntuale identificazione - mediante i dati catastali - della superficie occupata dalle stesse (TAR Toscana Firenze, Sez. III, 06.02.2008, n. 117; TAR Campania Napoli, Sez. III, 17.12.2007, n. 16311) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 06.05.2011 n. 2562 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - Impianti di telecomunicazione - DIA - Incompletezza documentale - Rigetto dell’istanza - Illegittimità - Onere dell'amministrazione di invitare l'interessato ad integrare la documentazione mancante.
La mancata allegazione, alla denuncia di inizio attività (d.i.a) presentata ai sensi del d.lgs. n. 259 del 2003, di taluni documenti, non è idonea a sorreggere la decisione, di dichiarare "improcedibile", "inefficace e come mai presentata" la stessa denuncia.
L'incompletezza documentale non è infatti di per sé solo causa di rigetto di istanze prodotte alla pubblica amministrazione, in quanto sussiste, per principio generale del procedimento amministrativo desumibile dall'art. 6, lett. b), della legge n. 241 del 1990, l'onere dell'amministrazione di invitare l'interessato ad integrare la documentazione mancante (cfr. per tutte, Tar Campania, sez. IV, n. 500/2004).
Tale principio è pacificamente applicabile anche alla d.i.a. relativa ad impianti di telecomunicazioni, posto che l'art. 87, comma 5, del d.lgs. n. 259 del 2003, recante il Codice delle comunicazioni elettroniche, espressamente prevede la possibilità di integrazioni documentali.
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - Potestà regolamentare del Comune - Sospensione generalizzata degli interventi di installazione di stazioni radio base nelle more dell’approvazione del regolamento - Illegittimità.
Ferma la potestà regolamentare dei Comuni -nell'ambito del perimetro delineato dagli artt. 86 ed 87 del d.l.vo 259/2003 e l. 36 del 2001 nell'interpretazione operatane dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., in particolare, Corte cost., sentenze n. 307 e n. 331 del 2003; n. 336 del 2005 e n. 103 del 2006)- nelle more dell'adozione dei regolamenti non può ritenersi sussistere un potere, generale ed assoluto, di sospensione della realizzabilità degli interventi finalizzati all’installazione degli impianti di telefonia mobile (v. anche C.d.S., Sez. VI, 27.12.2010, n. 9414).
INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO - DIRITTO URBANISTICO - Formazione del titolo abilitativo - Sospensione dell’efficacia per mancanza del certificato di regolarità contributiva.
Formatosi il titolo abilitativo, anche per silentium, prima dell'inizio dei lavori deve essere prodotto il certificato di regolarità contributiva, di cui alla lettera b-bis, dell’art. 3, comma 8, del d.l.vo 14.08.1996, n. 494 (recante le prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili in attuazione della direttiva 92/57/CEE), quale vigente a seguito delle modifiche da ultimo apportate dal d.l.vo 06.10.2004, n. 251: nelle more di tale incombente l'efficacia del titolo resta sospesa, per diretta previsione di legge (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 06.05.2011 n. 2555 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTINei cottimi fiduciari meno vincoli sulle offerte.
Per i cottimi fiduciari le norme in tema di verifica delle offerte anomale si applicano solo in via di principio e non come regole di dettaglio.

Lo chiarisce il TAR Lombardia-Milano, Sez. I, con l'ordinanza 05.05.2011 n. 739 che ha accolto la sospensiva richiesta dalla ditta seconda in graduatoria in una procedura di cottimo, proprio perché l'amministrazione appaltante non ha posto in essere la procedura di verifica dell'anomalia dell'offerta aggiudicataria. ... (articolo ItaliaOggi del 04.06.2011 - tratto da www.corteconti.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Violazioni normativa antisismica e natura permanente dei reati.
Il reato di cui agli artt. 93 e 95 del D.P.R. n. 380/2001 (omesse denunzia dei lavori e presentazione dei progetti) permane sino a quando chi intraprende un lavoro edile in zona sismica non presenta la prescritta denuncia con l’allegato progetto ovvero non porta ad ultimazione il lavoro medesimo. Fino al verificarsi delle condizioni anzidette, infatti, persiste la lesione del bene giuridico protetto, perché l’ufficio tecnico regionale non è messo in grado di controllare la conformità delle opere alle norme tecniche stabilite al riguardo: il contravventore, inoltre, potrà fare cessare la condotta antigiuridica presentando la denuncia anche dopo l’inizio dei lavori (oltre che interrompendo i medesimi). Ne consegue, attesa la ratio della norma, che il dovere di agire imposto dall’art. 93 perdura nel tempo anche dopo l’inizio dei lavori, benché cominci ad essere vincolante prima di tale inizio.
Il reato di cui agli artt. 94, 1° comma, e 95 del D.P.R. n. 380/2001 (inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della Regione) permane sino a quando chi intraprende un lavoro edile in zona sismica termina il lavoro ovvero ottiene la relativa autorizzazione. Nelle more il contravventore esegue e prosegue lavori non autorizzati in relazione ai quali l’ufficio tecnico regionale non ha verificato la conformità alle norme tecniche di sicurezza stabilite per le zone sismiche di media o alta intensità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.05.2011 n. 17217 - link a www.lexambiente.it).

APPALTILe vecchie violazioni dell'incorporata bloccano l'appalto. Pesano le false dichiarazioni sul rispetto della normativa previdenziale.
Nelle gare pubbliche anche il "passato" delle società va messo sotto esame. Nel verificare il possesso dei requisiti morali ex articolo 38, Dlgs 163/2006 per l'affidamento di contratti pubblici, la stazione appaltante (e per converso l'impresa partecipante) deve attentamente valutare gli elementi caratterizzanti l'eventuale vicenda societaria (trasformazione, fusione, incorporazione) antecedente la partecipazione alla gara. E laddove non vi sia effettiva estinzione di una delle parti dell'operazione straordinaria, bensì identità tra il soggetto originario e quello successivo, dovranno essere prese in considerazione anche le eventuali infrazioni ex ante commesse dai soggetti apicali dell'impresa originaria, che andranno pertanto evidenziate dall'impresa partecipante nelle proprie autodichiarazioni sul possesso dei requisiti richiesti dal legislatore.
La questione, affrontata dal Consiglio di Stato, Sez. VI, nella sentenza 04.05.2011 n. 2662, trae spunto da una vicenda relativa a una gara pubblica indetta per la costruzione di fabbricati destinati a ospitare alloggi di edilizia residenziale pubblica. La gara era stata aggiudicata a un operatore economico risultante dall'incorporazione di un'altra impresa, cui la stazione appaltante, sul presupposto della continuità tra le due imprese, aveva medio tempore revocato in autotutela l'aggiudicazione per alcune irregolarità, compiute antecedentemente e in via autonoma dall'impresa incorporata, relative alla violazione delle norme concernenti false dichiarazioni in ordine al rispetto della normativa in materia previdenziale, con conseguente segnalazione all'Osservatorio dei Lavori pubblici, e interdizione alla contrattazione con la pubblica amministrazione.
Nel caso in esame si applica l'articolo 38 del Dlgs 163/2006, sostitutivo dell'articolo 75 del Dpr 21.12.1999, n. 554, che richiede alle imprese partecipanti a una gara pubblica di autocertificare il possesso di alcuni requisiti, tra i quali anche il fatto di non aver commesso violazioni gravi e definitivamente accertate in materia di contributi previdenziali e assistenziali.
Il tema della trasmissibilità delle violazioni previdenziali –e più in generale delle cause di esclusione di cui all'articolo 38– evidenziato dalla Sezione è in effetti privo di un'espressa regolamentazione normativa.
Tuttavia, i giudici amministrativi hanno evidenziato come nell'ottica di un affidamento di contratti pubblici, sia imprescindibile valutare attentamente gli elementi caratterizzanti un'eventuale operazione straordinaria effettuata dal l'operatore a monte della partecipazione alla gara: al di là del "velo" della forma societaria, la stazione appaltante dovrà dunque verificare se la vicenda societaria comporti estinzione o continuità del soggetto privo dei requisiti morali.
In quest'ultimo caso, come nella vicenda in esame, è evidente che il nuovo soggetto –per effetto della trasmissibilità– incorre nel difetto dei requisiti morali del precedente; nel primo caso (ad esempio a seguito di una fusione per incorporazione) l'estinzione del soggetto incorporato a seguito dell'assorbimento del medesimo in un soggetto preesistente, non comporta invece a discapito di quest'ultimo alcuna trasmissione del difetto dei requisiti di ordine morale riconducibile ai soggetti apicali dell'impresa incorporata, ferma restando la responsabilità patrimoniale a fini previdenziali dell'impresa incorporante.
Questi approfondimenti rilevano pertanto nell'ambito dell'autodichiarazione resa dall'impresa concorrente, per evitare dunque possibili strumentalizzazioni delle disposizioni normative e per scongiurare l'adozione di soluzioni abusive volte, nel silenzio della legge, a eludere precisi obblighi con il ricorso a (fittizie) modificazioni soggettive delle parti in spregio della libera concorrenza (articolo Il Sole 24 Ore del 30.05.2011 - tratto da www.ecostampa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni abusive - Ordinanza di demolizione - Eventuale sanabilità dell'opera - Preventiva valutazione da parte dell'Amministrazione Comunale - Carenza - Legittimità del provvedimento - Insussistenza di obblighi al riguardo in capo alla P.A..
E' legittima l'ordinanza di demolizione adottata dalla competente Amministrazione comunale in assenza di qualsivoglia valutazione in ordine alla eventuale sanabilità dell'opera, della quale è ordinata la demolizione, ai sensi dell'art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001.
In presenza di un abuso edilizio la vigente normativa urbanistica non pone, invero, alcun obbligo in capo all'Autorità comunale, prima di emanare l'ordinanza di demolizione, circa una verifica della sanabilità della stessa ai sensi della richiamata normativa, come chiaramente evincibile dal dato testuale di cui agli artt. 27 e 31, D.P.R. n. 380 del 2001.
In tal senso mentre le disposizioni legislative da ultimo richiamate obbligano il responsabile del competente ufficio comunale a reprimere l'abuso, senza alcuna valutazione di sanabilità, il già menzionato art. 36, D.P.R. n. 380 del 2001 rimette alla esclusiva iniziativa della parte interessata l'attivazione del procedimento di accertamento di conformità urbanistica ivi disciplinato (massima tratta da www.immobili24.ilsole24ore.com - TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 04.05.2011 n. 2442 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl rilascio della sanatoria edilizia ai sensi degli artt. 31 e segg. L. 47/85, se da un lato rende legittimo l’edificio che era, strutturalmente e funzionalmente, abusivo, dall’altro non conferisce alcun ulteriore beneficio automatico o vantaggio, attuale o potenziale; pertanto non può essere variata automaticamente la destinazione urbanistica del terreno ove insiste l’edificio condonato e nemmeno può ritenersi mutata la relativa normativa urbanistica.
I volumi oggetto di condono edilizio possono essere utilizzati solo nello stato di fatto e diritto presupposto al titolo edilizio rilasciato in base alla L. 47/1985. Gli edifici condonati, dunque, possono essere successivamente fatti oggetto solo di interventi finalizzati alla conservazione dell’immobile nello stato in cui é sorto e ad una utilizzazione di esso per una finalità conforme a quella originaria.
Sono pertanto ammissibili, su un immobile oggetto di condono, solo gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. In particolare l’immobile condonato neppure può essere fatto oggetto di ristrutturazione attuata mediante demolizione, totale o parziale, e ricostruzione dell’edificio con identica volumetria e sagoma, giacché con la demolizione, anche solo parziale, l’immobile condonato non esiste più nella sua conformazione originaria e quindi si perdono i benefici derivanti dal condono, che era stato rilasciato sul presupposto di una determinata situazione di fatto e diritto.
Ove, poi, l’immobile sia stato condonato in quanto non conforme alla destinazione urbanistica osterebbe alla possibilità di procedere alla demolizione parziale dell’edificio condonato seguita da ricostruzione la constatazione che questa ultima dovrebbe osservare la destinazione urbanistica ed i parametri edilizi vigenti e che pertanto si determinerebbe la coesistenza, su uno stesso fondo, di destinazioni urbanistiche tra di loro incompatibili.

Dal condono edilizio non può conseguire automaticamente alcun beneficio ulteriore a quello derivante dal mantenimento dell’opera abusiva.
Il Consiglio di Stato, sez. V, con sentenza 01/10/2002 n. 5117, ha affermato che “Il rilascio della sanatoria edilizia ai sensi degli artt. 31 e segg. L. 47/1985, se da un lato rende legittimo l’edificio che era, strutturalmente e funzionalmente, abusivo, dall’altro non conferisce alcun ulteriore beneficio automatico o vantaggio, attuale o potenziale; pertanto non può essere variata automaticamente la destinazione urbanistica del terreno ove insiste l’edificio condonato e nemmeno può ritenersi mutata la relativa normativa urbanistica”.
Tale assunto appare assolutamente condivisibile, sol che si pensi che il contrario significherebbe ammettere che qualsiasi soggetto possa ottenere una destinazione urbanistica dei propri fondi più favorevole, o quantomeno più confacente alle proprie esigenze, semplicemente passando per le vie di fatto e confidando sulla periodica riapertura dei termini per presentare la sanatoria straordinaria di cui agli artt. 31 e segg. L. 47/1985, ciò che si tradurrebbe in un vantaggio ingiustificabile in quanto rivolto a favore di un soggetto che ha scelto di porsi in contrasto con l’ordinamento giuridico.
Dai titoli autorizzativi “in sanatoria” rilasciati in base agli artt. 31 e segg. L. 47/1985, quindi, consegue il solo effetto di impedire che all’opera abusiva vengano applicate le varie sanzioni previste dalla legge, tra cui la demolizione e la nullità degli atti di vendita, consentendo così ai beni stessi di poter circolare liberamente in modo legale; essi, invece, non hanno il potere di rendere l’opera abusiva “conforme” alla normativa urbanistica vigente, né fanno acquisire al proprietario del fondo il diritto di disporre liberamente della volumetria oggetto di condono, dal momento che il condono esprime la rinuncia dello Stato ad esercitare una potestà sanzionatoria, rinuncia che deve considerarsi assolutamente eccezionale.
Segue da quanto sopra esposto che i volumi oggetto di condono edilizio possono essere utilizzati solo nello stato di fatto e diritto presupposto al titolo edilizio rilasciato in base alla L. 47/1985. Gli edifici condonati, dunque, possono essere successivamente fatti oggetto solo di interventi finalizzati alla conservazione dell’immobile nello stato in cui é sorto e ad una utilizzazione di esso per una finalità conforme a quella originaria.
Sono pertanto ammissibili, su un immobile oggetto di condono, solo gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria. In particolare l’immobile condonato neppure può essere fatto oggetto di ristrutturazione attuata mediante demolizione, totale o parziale, e ricostruzione dell’edificio con identica volumetria e sagoma, giacché con la demolizione, anche solo parziale, l’immobile condonato non esiste più nella sua conformazione originaria e quindi si perdono i benefici derivanti dal condono, che era stato rilasciato sul presupposto di una determinata situazione di fatto e diritto.
Ove, poi, l’immobile sia stato condonato in quanto non conforme alla destinazione urbanistica –come é avvenuto nel caso di specie-, osterebbe alla possibilità di procedere alla demolizione parziale dell’edificio condonato seguita da ricostruzione la constatazione che questa ultima dovrebbe osservare la destinazione urbanistica ed i parametri edilizi vigenti e che pertanto si determinerebbe la coesistenza, su uno stesso fondo, di destinazioni urbanistiche tra di loro incompatibili (TAR Puglia-Bari, Sez. II, sentenza 28.04.2011 n. 1637 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzioni abusive - Stato di degrado dell’area - Motivo di giustificazione dell’abuso - Esclusione.
Lo stato di degrado e disordine ambientale non può costituire motivo di giustificazione della costruzione abusiva, atteso che diversamente opinando non avrebbe senso neppure l’imposizione del relativo vincolo, finalizzato proprio a prevenire l’aggravamento della situazione e di perseguire il possibile recupero, (C.d.S., sez. V, 27.03.2000, n. 1761; 27.04.2010, n. 2377).
Nulla osta paesaggistico - Verifica della correttezza del giudizio espresso dall’amministrazione preposta - Sopralluogo - Necessità - Esclusione.
In tema di rilascio di nulla-osta paesaggistico, l’attività di verifica della correttezza del giudizio espresso dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo e del conseguente provvedimento comunale non implica necessariamente il compimento di un effettivo sopralluogo, ben potendo limitarsi alla valutazione documentale della condotta tenuta dalle amministrazioni interessate (C.d.S., sez. VI, 27.04.2010, n. 2377).
Amministrazione preposta alla tutela del vincolo paesaggistico - Prescrizioni dirette ad assicurare la compatibilità delle opere con il vincolo - Dovere - Esclusione.
L’amministrazione preposta alla tutela del vincolo e/o l’amministrazione comunale non è tenuta ad indicare gli eventuali accorgimenti ed interventi volti a rendere compatibile le opere abusivamente realizzate con l’ambiente circostante al fine di consentire la sanabilità delle stesse.
Un simile dovere di soccorso, invero, non solo non trova alcun fondamento positivo specifico, ma neppure può trovare radicamento nei principi costituzionali (art. 97 Cost.) cui deve improntarsi l’azione amministrativa, ciò in quanto in ogni caso l’amministrazione deve esercitare il potere conferitole dalla legge per il perseguimento dell’interesse pubblico, nel caso di specie quello della tutela della bellezza del paesaggio dell’area interessata, certamente prevalente rispetto a quello privato alla conservazione delle opere realizzate abusivamente senza i necessari permessi richiesti dalla legge.
Vincolo paesaggistico - Abuso edilizio - Ordine di demolizione - Atto vincolato - Affidamento del privato - Possibile sussistenza - Esclusione.
Come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, il provvedimento di demolizione è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (C.d.S., sez. IV, 01.10.2007, n. 5049; 10.12.2007, n. 6344; 31.08.2010, n. 3955; sez. V, 07.09.2009, n. 5229) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2011 n. 2527 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI: Subappalto - Divieto di cui all’art. 37 d.lgs. n. 163/2006 - Individuazione delle opere - Criterio sostanziale.
L'individuazione delle opere rientranti nel divieto di subappalto di cui all’art. 37 del d.lgs. n. 163/2006 dev’essere di tipo sostanziale, non formale (con riguardo, cioè, alle declaratorie ex d.P.R. n. 34/2000, all. A, delle o.g. e delle o.s.), per cui, ai fini dell'applicabilità del divieto, occorre verificare, di volta in volta, in rapporto a ciascun appalto, se le opere classificate come generali siano in concreto di "notevole contenuto tecnologico o di rilevante complessità tecnica", indipendentemente dalla relativa declaratoria formale: prevale l’esigenza di evitare che l’aggiudicataria, classificata per le opere prevalenti, agisca da copertura per una serie di mascherati subappalti concernenti proprio le opere di maggiore complessità tecnologica (cfr. C.S., sez. IV, dec. 19.10.2004 n. 6701; sez. VI, dec. 19.08.2003 n. 4671) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.04.2011 n. 2479 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Conferenza decisoria e autorizzazione paesaggistica. “Serve sempre un autonomo, espresso e puntuale provvedimento di autorizzazione da parte dell’ente.
La recente sentenza 18.04.2011 n. 2378 del Consiglio di Stato, Sez. VI, si segnala per la sua indubbia rilevanza sul tema della conferenza di servizi c.d. decisoria applicata alle vicende dell’autorizzazione paesaggistica. L’importanza della decisione risiede tra l’altro nel fatto di confermare in maniera definitiva l’orientamento dei giudici di Palazzo Spada sulla configurazione del modulo procedimentale della conferenza di servizi.
Il principio affermato nella decisione richiamata è che la conferenza di servizi decisoria non è di per sé idonea a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento compiuto, se non segue un autonomo, espresso e puntuale provvedimento di autorizzazione da parte dell’ente competente e se la Soprintendenza, che può legittimamente discostarsi dalle risultanze della conferenza, non ha poi esercitato in senso favorevole la sua susseguente funzione di cogestione del vincolo.
Come è noto, la conferenza di servizi decisoria è prevista in quei casi in cui l’Amministrazione procedente deve acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi di altre amministrazioni pubbliche, concludendosi con una decisione che tiene luogo dei citati atti di assenso. In termini generali, essa è disciplinata dell’art. 14, commi 2 e 4 della l. 241/1990, nonché dai successivi articoli 14-ter e 14-quater. Si differenzia da altre tipologie di conferenze di servizi, quali l’istruttoria e la preliminare o preventiva. In buona sostanza, la conferenza decisoria permette una valutazione contestuale degli interessi pubblici coinvolti accelerando e semplificando la scansione procedimentale.
Nell’affrontare il caso in esame il Consiglio di Stato ribadisce e conferma il proprio orientamento –già espresso, tra l’altro, da Cons. Stato, VI, 11.12.2008, Cons. Stato, VI, 09.11.2010, n. 7891 e, da ultimo, Cons. Stato, VI, 31.01.2011, n. 712– in base al quale la conferenza decisoria, in quanto modulo procedimentale, è caratterizzata da una struttura dicotomica articolata in una fase endoprocedimentale ed in una successiva fase esoprocedimentale. Soltanto nella seconda , con valenza esterna, si ha l’effettiva determinazione della fattispecie, incidendo sulle situazioni degli interessati.
Tale configurazione si fonda su precisi argomenti interpretativi di natura logico-sistematica, quali:
a) l’abrogazione della previsione normativa che enunciava il carattere immediatamente esecutivo della determinazione conclusiva dei lavori della conferenza;
b) l’abrogazione della previsione normativa che consentiva alle amministrazioni dissenzienti di impugnare direttamente ed immediatamente la determinazione conclusiva dei lavori della conferenza;
c) l’anticipazione al momento della conclusione dei lavori della conferenza della palese espressione delle volontà delle amministrazioni che vi partecipano non può comportare la de quotazione sistematica delle ragioni che pongono la distinzione tra il momento conclusivo della conferenza ed il successivo momento provvedi mentale;
d) la scelta di mantenere un provvedimento espresso come momento conclusivo della complessiva vicenda appare ispirato dalla volontà di lasciare inalterato il complessivo sistema di garanzie e responsabilità trasfuso nel nuovo Capo IV-bis della legge n. 241 del 1990, con particolare riguardo all’onere di comunicazione, all’acquisto di efficacia e –sussistendone le condizioni– al carattere di esecutorietà del provvedimento.
Nel corpo della decisione si ribadisce che in capo all’autorità procedente resta ferma l’autonomia del potere provvedimentale, cui è rimessa la determinazione finale, previa valutazione delle specifiche risultanze della conferenza, tenendo conto delle posizioni “prevalenti” ivi espresse. Rimanendo intatta l’imputazione all’autorità procedente della responsabilità derivante dalla decisione amministrativa che segue la valutazione collegiale, secondo il Consiglio di Stato non vi può essere un nesso di consequenzialità automatica con le determinazioni della conferenza stessa, perché all’imputazione autonoma deve corrispondere un’autonomia di valutazione, anche se è necessario dover tenere conto delle risultanze della conferenza e delle posizioni prevalenti.
Portando alle estreme conseguenze il proprio ragionamento logico-giuridico, i giudici evidenziano che non accogliendo l’assunto dell’autonomia di valutazione e della imputazione di responsabilità all’amministrazione procedente si giungerebbe irragionevolmente a configurare in capo agli altri partecipanti alla conferenza stessa, l’assunzione occasionale di un potere pubblico non di loro competenza e per giunta senza responsabilità. La conferenza non potrebbe essere più considerata come occasione procedimentale di accelerazione e coordinamento dei casi complessi, ma luogo di formazione collegiale della decisione: ciò che è negato dalla dominante giurisprudenza.
L’autorità procedente dunque deve tener conto delle risultanze della conferenza per ciò che può concernere l’apporto conoscitivo di fatto circa gli elementi propri della sua valutazione, ma conserva nel merito il suo potere, perché la cura di sua competenza va esercitata con il provvedimento appositamente nominato dall’ordinamento e secondo il suo contenuto tipico.
Conseguentemente il modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa essere utile ad un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti, non è di per sé idoneo a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo, espresso e puntuale provvedimento di autorizzazione da parte dell’ente competente e se la Soprintendenza non ha poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua susseguente funzione di cogestione del vincolo.
In conclusione, i giudici hanno sostenuto che la formulazione del parere conclusivo nella conferenza di servizi non è idonea a consumare il potere di provvedere in ordine agli aspetti attinenti alla tutela paesaggistica e che pertanto, nel caso in esame, ben poteva la Soprintendenza, nella sua competenza, discostarsi dalla risultanze della conferenza di servizi. A ben guardare si tratta dell’ennesimo riconoscimento della esclusiva competenza delle Soprintendenze a dire “l’ultima parola” in sede di tutela paesaggistica, in ossequio ai principi costituzionali, sanciti dall’articolo 9 (commento tratto da www.leggioggi.it - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autorizzazione paesaggistica - Conferenza di servizi decisoria - Idoneità alla legittimazione dell’intervento - Esclusione - Necessità di un autonomo provvedimento di autorizzazione da parte dell’ente competente.
Il modulo della conferenza di servizi c.d. decisoria, applicato alle vicende di autorizzazione paesaggistica, per quanto possa essere utile ad un esame contestuale e sollecito dell’istanza e possa comportare il raccordo con gli altri procedimenti, non è di suo idoneo a legittimare dal punto di vista paesaggistico l’intervento, se non è seguito da un autonomo, espresso e puntuale provvedimento di autorizzazione da parte dell’ente competente e se la soprintendenza non ha poi esercitato in senso favorevole all’istanza stessa la sua susseguente funzione di cogestione del vincolo (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 18.04.2011 n. 2378 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Danni da dequalificazione per il dipendente assegnato ad altre mansioni senza adeguata formazione.
Il dipendente assegnato dal datore di lavoro a nuove mansioni ha diritto al risarcimento del danno da dequalificazione se non riesce a svolgerle per non aver ricevuto un'adeguata formazione. In questo caso, infatti, deve essere indennizzato il disagio dovuto "all'evidente ed incolpevole imperizia" in quanto lesivo per la dignità e il prestigio professionale.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 14.04.2011 n. 8527, che ha respinto il ricorso di una società nei confronti di un proprio dipendente che era stato assegnato all'uso di un elaboratore elettronico senza la preventiva e necessaria istruzione. In questo caso, ha affermato la Cassazione, il giudice deve determinare il danno in via equitativa (massima tratta e link a www.diritto24.ilsole24ore.com - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Demansionamento senza formazione. La Cassazione amplia il riconoscimento.
Stretta della Cassazione sul demansionamento. Ha diritto a essere risarcito anche del danno morale il lavoratore a cui sono state affidate nuove mansioni senza nessuna formazione, soprattutto se viene assegnato all'uso del Pc.

È quanto affermato dalla Suprema corte che, con la sentenza n. 8527 del 14.04.2011, ha respinto il ricorso di un'azienda condannata a risarcire un dipendente trasferito e al quale erano state affidate nuove mansioni, senza nessuna preventiva istruzione.
In particolare l'impiegato, che da sempre si era occupato di amministrazione, era stato assegnato all'uso dell'elaboratore elettronico. Ma non aveva ricevuto nessun tipo di istruzione. Aveva quindi avuto delle forti difficoltà a ingranare nella nuova attività. Per questo aveva chiesto al tribunale di Milano il risarcimento del danno.
I giudici avevano accolto l'istanza. La Corte d'appello e ora la Cassazione hanno reso definitiva la decisione, respingendo il ricorso dell'azienda.
In sentenza si legge che «l'assunto della società è infondato, in quanto le considerazioni svolte dalla Corte territoriale non conducono a tale conclusione, avendo la stessa, alla luce dell'istruttoria esperita, osservato come il lavoratore fosse stato assegnato all'uso dell'elaboratore elettronico senza la previa, necessaria istruzione e quindi con disagio dovuto all'evidente e incolpevole imperizia e con conseguente pregiudizio per la dignità personale e per il prestigio professionale, tutelati dall'art. 35, primo comma, Cost.».
C'è di più. «In caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore», si legge in un altro passaggio chiave delle motivazioni, «in violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice di merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto» (articolo ItaliaOggi del 15.04.2011).

ESPROPRIAZIONE: Palla alla Consulta su mancata dichiarazione Ici.
Sarà la Corte costituzionale a decidere se il contribuente che non ha presentato la dichiarazione Ici dev'essere privato, in caso di espropriazione per pubblica utilità, della relativa indennità.
A rimettere gli atti a Palazzo della Consulta sono state le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione che, con l'ordinanza 14.04.2011 n. 8489, non hanno ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità dell'articolo 16 del dlgs 504 del '92 e in particolare della sua interpretazione che ha ritenuto finora non dovuta al contribuente l'indennità di esproprio in caso di mancata dichiarazione Ici.
Insomma, ha sancito il Collegio esteso, «ritenuta la rilevanza nel giudizio in corso e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, comma 1, del dlgs 30.12.1992, n. 504, oggi art. 37, comma 7, dpr 08.06.2001, n. 327, nella parte in cui, in caso dì omessa dichiarazione/denuncia Ici o di dichiarazione/denuncia di valori assolutamente irrisori, non stabilisce un limite alla riduzione dell'indennità di esproprio, idoneo a impedire la totale elisione di qualsiasi ragionevole rapporto tra il valore venale del suolo espropriato e l'ammontare della indennità, pregiudicando in tal modo anche il diritto a un serio ristoro, spettante all'espropriato, con riferimento agli artt. 117, primo comma, e 42, terzo comma, Cost., anche in considerazione del disposto dell'art. 6 e dell'art. 1, del primo protocollo addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali».
Ora la parola passa ai giudici delle leggi che, nei prossimi mesi, dovranno stabilire se è conforme alla Carta fondamentale l'interpretazione obbligata delle norme sull'Ici per cui l'indennità di espropriazione va esclusa in caso di mancata dichiarazione.
L'iter giudiziario del contribuente si allungherà ancora. Infatti, oltre al passaggio al Collegio esteso di Piazza Cavour deciso dalla prima sezione civile, ora si dovrà attendere il verdetto della Corte costituzionale (articolo ItaliaOggi del 15.04.2011).

EDILIZIA PRIVATA: Abuso edilizio, l'illecito permanente esclude l'usucapione.
Non si può dar luogo all'usucapione di un manufatto abusivo, nemmeno dopo lo scadere dei 20 anni previsti dalla legge.
E' quanto ha stabilito il TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, con la sentenza 24.03.2011 n. 2606.
E' irrilevante la persistenza dell'opera da 20 anni, in quanto è comunque necessario il titolo edilizio per legittimare l'usucapione; il decorso del tempo non determina la consumazione del potere sanzionatorio, in capo all'Ente comunale, in presenza di un illecito permanente, qual è un abuso edilizio.
Il caso di specie vedeva il personale della Polizia municipale accertare la realizzazione di un manufatto, della superficie di 43,2 mq., realizzato in parte in muratura e in parte in legno, coperto da ondulato, in assenza di titolo edilizio, a ridosso del muro di confine.
Dapprima, con determinazione dirigenziale è stata disposta l'immediata sospensione dei lavori e successivamente, con determinazione dirigenziale, impugnata presso il TAR, è stata ingiunta la demolizione di detto manufatto, ai sensi dell'art. 33, D.P.R. n. 380 del 2001.
Nella fattispecie il TAR Lazio ha fatto corretta applicazione dell'art. 33, D.P.R. n. 380 del 2001, che va a colpire un'ipotesi di ampliamento della superficie fruibile rispetto ad un fabbricato preesistente.
Sul punto si è osservato che, in relazione alla persistenza della struttura da 20 anni, oltre ad essere solo affermato e non provato, non è, in ogni caso, rilevante, essendo comunque necessario il titolo edilizio per legittimarla e non determinando il decorso del tempo la consumazione del potere sanzionatorio, in capo all'Ente comunale, in presenza di un illecito permanente, qual è un abuso edilizio.
Il giudice amministrativo ha, inoltre, evidenziato che si trattava di opera di entità tutt'altro che trascurabile, determinante una trasformazione del territorio, in quanto tale, richiedente, quale titolo legittimante, il permesso di costruire o, alternativamente, la D.I.A. c.d. "pesante", che, perciò, deve essere munita di tutta la documentazione di regola richiesta per il rilascio del permesso di costruire ed, in particolare, dell'attestazione dell'avvenuto versamento del contributo dovuto in qualità di oneri concessori (link a www.altalex.com).

EDILIZIA PRIVATAPer i tubi destinati all'illuminazione e i loro arredi, non espressamente contemplati dall'art. 889 c.c., non soccorre la presunzione assoluta di pericolosità ed è, pertanto, necessario -affinché in via di interpretazione estensiva possa ritenersi ugualmente sussistente l'obbligo di rispettare la distanza minima di 1 metro dal confine- accertare in concreto, sulla base delle loro specifiche caratteristiche, e con onere della prova a carico della parte istante, se abbiano e meno attitudine a cagionare danno.
La distanza di almeno un metro dal confine è prescritta dall'art. 889 c.c., comma 2, per l'installazione dei tubi dell'acqua, del gas e simili, giacché per tali condutture, aventi un flusso costante di sostanze liquide o gassose, il legislatore ha tenuto conto della loro potenziale attitudine ad arrecare danno alla proprietà contigua, stabilendo, con valutazione ex antea, una presunzione iuris et de iure di pericolosità.
Tra dette opere non rientrano i tubi destinati all'illuminazione e i loro arredi: per essi, non espressamente contemplati nella menzionata disposizione, non soccorre la presunzione assoluta di pericolosità, ed è, pertanto, necessario -affinché in via di interpretazione estensiva possa ritenersi ugualmente sussistente l'obbligo di rispettare le distanze ivi previste- accertare in concreto, sulla base delle loro specifiche caratteristiche, e con onere della prova a carico della parte istante, se abbiano e meno attitudine a cagionare danno (cfr. Cass., Sez. 2^, 5 Liarzo 1973, n. 587; Cass., Sez. 2^, 05.11.1977, n. 4719; Cass., Sez. 2^, 29.05.1986, n. 3643; Cass., Sez. 2^, 03.12.1991, n. 12927; Cass., Sez. 2^, 09.01.1993, n. 145) (Corte di Cassazione, Sez. II penale, sentenza 12.12.2010 n. 25475).

EDILIZIA PRIVATAE' ormai pacifico secondo la giurisprudenza di questa Corte che la realizzazione di un soppalco necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, atteso che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), assoggetta a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente, senza la necessità che concorrano tutte le condizioni previste nello stesso articolo (modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti, delle superfici), in quanto queste sono alternative, come ricavasi dall'uso della disgiuntiva nel citato testo normativo.
Con la sentenza n. 1893 del 13.12.2006 questa Corte ha affermato: "In materia edilizia sono realizzabili con denuncia di inizio attività gli interventi di ristrutturazione edilizia di portata minore, ovvero che comportano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti dell'immobile, e con conservazione della consistenza urbanistica iniziale, classificabili diversamente dagli interventi di ristrutturazione edilizia descritti dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente con aumento delle unità immobiliari o modifiche del volume, sagoma, prospetti o superfici e per i quali è necessario il preventivo permesso di costruire." (conf. Cass. pen. sez. 3 n. 12369 del 25.02.2003).
In motivazione si evidenzia che "la stessa attività di ristrutturazione, del resto, può attuarsi attraverso una serie di interventi che, singolarmente considerati, ben potrebbero ricondursi agli altri tipi dianzi enunciati. L'elemento caratterizzante, però è la connessione finalistica delle opere eseguite, che non devono essere riguardate partitamente ma valutate nel loro complesso al fine di individuare se esse siano o meno rivolte al recupero edilizio dello spazio attraverso la realizzazione di un edificio in tutto o in parte nuovo" e dopo aver esaminato il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c) e art. 22, comma 3, lett. a) conclude che "Dalle disposizioni legislative dianzi ricordate si deduce che sono sempre realizzabili previa mera denunzia di inizio dell'attività le ristrutturazioni edilizie di portata minore: quelle cioè che determinano una semplice modifica dell'ordine in cui sono disposte le diverse parti che compongono la costruzione, in modo che, pur risultando complessivamente innovata, questa conserva la sua iniziale consistenza urbanistica (diverse da quelle descritte nel citato DPR, art. 10, comma 1, lett. c) che possono incidere sul carico urbanistico)".
Per quanto riguarda più specificamente il "soppalco" è, ormai, pacifico secondo la giurisprudenza di questa Corte (come del resto riconosce lo stesso ricorrente) che esso necessita del preventivo rilascio del permesso di costruire, "atteso che il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 1, lett. c), assoggetta a permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione edilizia che portano ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente, senza la necessità che concorrano tutte le condizioni previste nello stesso articolo (modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti, delle superfici), in quanto queste sono alternative, come ricavasi dall'uso della disgiuntiva nel citato testo normativo" (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 8669 del 12.01.2007; Cass. pen. sez. 3 n. 35863 del 2006 Rv. 235066; N. 37705 del 2006 Rv. 235065) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 04.11.2010 n. 39171).

EDILIZIA PRIVATARientrando nella categoria delle opere di urbanizzazione primaria (quali le strade, gli spazi di sosta e parcheggio, la pubblica illuminazione etc.) le opere predette (cabina elettrica di trasformazione) non possono che essere allocate necessariamente in prossimità delle zone interessate dal servizio e non possono conseguentemente essere previste nel “Programma di Fabbricazione” non essendo possibile destinare nello strumento di pianificazione un’area specifica per il loro insediamento.
L’art. 4 della legge 29.09.1964 n. 847 nel definire le opere di urbanizzazione primaria, ai fini della acquisizione delle aree ai sensi della legge n. 167 del 1962, elenca alla lettera e) “rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas” e quindi annovera tra tali opere tutte quelle necessarie alla erogazione del servizio dell’energia elettrica ivi compreso, ovviamente, le strutture destinate al potenziamento degli impianti esistenti.
Orbene nel caso in essere l’opera oggetto di concessione è una cabina di trasformazione che è stata progettata e realizzata allo scopo di ottenere il potenziamento della rete elettrica a servizio dell’abitato del comune di Stigliano e, cioè, per migliorare il regime di tensione delle utenze comprese tra via Zanardelli- piazza Garibaldi e via Levi-salita Trieste.
Va da sé quindi che rientrando nella categoria delle opere di urbanizzazione primaria (quali le strade, gli spazi di sosta e parcheggio, la pubblica illuminazione etc.) le opere predette non possono che essere allocate necessariamente in prossimità delle zone interessate dal servizio e non possono conseguentemente essere previste nel “Programma di Fabbricazione” non essendo possibile destinare nello strumento di pianificazione un’area specifica per il loro insediamento (TAR Basilicata, sentenza 28.05.2010 n. 316 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAE' granitico l'orientamento giurisprudenziale in ordine al carattere vincolato, e non discrezionale, che connota l’attività sanzionatoria del Comune sull’attività edilizia abusiva; in particolare, il giudizio di difformità dell’intervento rispetto alla normativa urbanistica, che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto, sia pure condotto alla stregua di parametri tecnici.
E' alquanto infelice la modalità espositiva prescelta dal Comune per motivare le proprie determinazioni in ordine alle opere abusive de quibus: in particolare, riproducendo ex extenso i contenuti della relazione tecnica redatta in occasione del sopralluogo sul sito dell’intervento, l’Amministrazione ne ha riportato anche i passaggi in cui venivano usate formule ipotetiche o dubitative (“sembra predisposta…”, “potrebbero essere orientati…”), offrendo il destro all’odierna appellante per le doglianze con le quali ha lamentato l’assoluta incertezza della definizione dell’illecito contestato. E, in effetti, se l’uso di formule del tipo di quelle sopra richiamate è comprensibile in un verbale di sopralluogo, laddove l’organo accertante altro non fa che riportare le proprie valutazioni in ordine a quanto constatato (che deve comunque essere descritto in maniera precisa), altrettanto non è consentito in un ordine di demolizione, laddove l’Amministrazione è tenuta a individuare in modo certo gli abusi contestati al privato.

La Sezione reputa addirittura superfluo richiamare il granitico orientamento in ordine al carattere vincolato, e non discrezionale, che connota l’attività sanzionatoria del Comune sull’attività edilizia abusiva; in particolare, il giudizio di difformità dell’intervento rispetto alla normativa urbanistica (o, che è lo stesso, al titolo abilitativo rilasciato), che costituisce il presupposto dell’irrogazione delle sanzioni, non è affatto connotato da discrezionalità tecnica, ma integra un mero accertamento di fatto, sia pure condotto alla stregua di parametri tecnici (peraltro rigidamente predeterminati dalla normativa).
Ne discende che ben può il giudice verificare la correttezza di tale attività accertativa, non diversamente da quanto avviene allorché controlla l’esattezza di accertamenti tecnici condotti dalla p.a. in altri contesti (p.es. l’esattezza di una misurazione di distanze o di altezze).
Tanto premesso, nel caso di specie la Sezione condivide il giudizio espresso dal TAR, che ha reputato alquanto infelice la modalità espositiva prescelta dal Comune per motivare le proprie determinazioni in ordine alle opere de quibus: in particolare, riproducendo ex extenso i contenuti della relazione tecnica redatta in occasione del sopralluogo sul sito dell’intervento, l’Amministrazione ne ha riportato anche i passaggi in cui venivano usate formule ipotetiche o dubitative (“sembra predisposta…”, “potrebbero essere orientati…”), offrendo il destro all’odierna appellante per le doglianze con le quali ha lamentato l’assoluta incertezza della definizione dell’illecito contestato.
E, in effetti, se l’uso di formule del tipo di quelle sopra richiamate è comprensibile in un verbale di sopralluogo, laddove l’organo accertante altro non fa che riportare le proprie valutazioni in ordine a quanto constatato (che deve comunque essere descritto in maniera precisa), altrettanto non è consentito in un ordine di demolizione, laddove l’Amministrazione è tenuta a individuare in modo certo gli abusi contestati al privato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.05.2010 n. 3126 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl nudo proprietario è pienamente legittimato a presentare istanza per la realizzazione di interventi edilizi.
Deve ritenersi frutto di un’erronea valutazione dell’art. 23 del d.p.r. 06.06.2001, n. 380, l’affermazione dell’amministrazione che l’istante, in quanto nudo proprietario non è legittimato alla presentazione delle richiesta di esecuzione dei lavori. L’art. 23 cit., infatti, individua genericamente quali soggetti legittimati “il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio di attività”.
Inoltre, anche dalla disciplina dettata dal codice civile in materia di usufrutto, si desume la piena legittimazione del nudo proprietario alla realizzazione degli interventi di recinzione, atteso che tali opere non costituiscono interventi di manutenzione ordinaria posti a carico dell’usufruttuario a norma dell’art. 1004 c.c., ma rientrano tra le opere straordinarie, che l’art. 1005 c.c. pone espressamente a carico del nudo proprietario. L’art. 1005 individua, infatti, come interventi straordinari la realizzazione di muri di cinta, ai quali non può non essere assimilata la costruzione di una recinzione (TAR Basilicata, sentenza 16.04.2010 n. 205 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONENon è ammissibile l’autonoma impugnabilità dell’atto con il quale è autorizzato l'accesso ai fondi per le operazioni di misurazione preliminari al procedimento espropriativo, trattandosi di atto non direttamente lesivo, avente carattere puramente preparatorio e strumentale nell’ambito del procedimento volto all’apposizione del vincolo espropriativo.
Nell'ambito della serie procedimentale degli atti e provvedimenti di approvazione di un progetto di opera pubblica devono considerarsi impugnabili solo quegli atti effettivamente dotati di lesività nei confronti dei cittadini incisi dall'attività amministrativa, tra i quali in via generale rientrano l'approvazione del progetto definitivo (che, contenendo la dichiarazione di pubblica utilità, come disposto dall'art. 17 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, imprime al bene privato quella particolare qualità od utilità pubblica che lo rende assoggettabile alla procedura espropriativa), il decreto di occupazione temporanea e d'urgenza (che realizza lo spossessamento del bene in capo al privato) ed il decreto di espropriazione (che attua il trasferimento coattivo del bene dal privato alla p.a.), mentre gli altri atti non possono considerarsi ex se immediatamente lesivi e quindi non sono immediatamente impugnabili.
Ne consegue che non è atto immediatamente lesivo e come tale non è impugnabile, l’atto di approvazione del piano triennale dei lavori pubblici, il quale, peraltro, è privo di alcun riferimento in ordine alla localizzazione dell’opera pubblica sull’area di proprietà della parte ricorrente.
Né l’impugnata autorizzazione ad introdursi nell’area di proprietà dell’istante, per l’effettuazione delle operazioni planimetriche, è considerabile un atto immediatamente lesivo, suscettibile di pregiudicare in via diretta la situazione giuridica soggettiva della ricorrente. L’art. 15 del d.p.r. 08.06.2001, n. 327, nell’ambito delle disposizioni particolari disciplinanti il procedimento per l’approvazione dei progetti definitivi di opere pubbliche, prevede la possibilità che i tecnici incaricati dall’amministrazione, anche privati, possano essere autorizzati ad introdursi nell'area interessata, per le operazioni planimetriche e le altre operazioni preparatorie necessarie “per la redazione dello strumento urbanistico generale, di una sua variante o di un atto avente efficacia equivalente nonché per l'attuazione delle previsioni urbanistiche e per la progettazione di opere pubbliche e di pubblica utilità”.
Al riguardo il Collegio, ritiene, che l’autorizzazione in questione, in quanto atto indubitabilmente preparatorio e strumentale rispetto alla formazione del progetto di massima per la realizzazione dell’opera pubblica, non possa avere carattere immediatamente e direttamente lesivo dell'interesse del proprietario dell'area interessata, interesse che, come già anticipato, viene ad essere pregiudicato solo al momento dell’approvazione del progetto definitivo di localizzazione dell’opera pubblica sull’area interessata, atto quest’ultimo che, al momento del rilascio dell’autorizzazione ad effettuare sul fondo privato le operazioni di misurazione preliminare, si rivela come futuro e incerto, in quanto condizionato sia all’esito positivo delle operazioni tecniche preliminari in ordine all’idoneità del terreno alla realizzazione dell’opera pubblica, sia alla conclusione del procedimento con l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio.
Per tali ragioni, il Collegio non ritiene di doversi discostare da quella giurisprudenza amministrativa che non ammette l’autonoma impugnabilità dell’atto con il quale è autorizzato l'accesso ai fondi per le operazioni di misurazione preliminari al procedimento espropriativo, trattandosi di atto non direttamente lesivo, avente carattere puramente preparatorio e strumentale nell’ambito del procedimento volto all’apposizione del vincolo espropriativo (Tar Latina, 27.03.1990, n. 353; Consiglio Stato , sez. IV, 03.07.1986, n. 458; Consiglio Stato, sez. IV, 03.07.1979, n. 558) (TAR Basilicata, sentenza 19.01.2010 n. 15 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALe norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice Civile (come quelle contenute per es. negli artt. 873, 905, 906 e 907 C.C.), sono derogabili (per usucapione o mediante convenzione, la quale in tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca una menomazione per l’immobile che avrebbe diritto alla distanza legale), in quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti intersoggettivi di vicinato (per es. l’art. 873 C.C. mira unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose.
Mentre le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi comunali, poiché trascendono l’interesse meramente privatistico, in quanto hanno la funzione di tutelare l’interesse pubblico alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del vicino di chiedere la riduzione in pristino.

Secondo pacifico orientamento giurisprudenziale (cfr. con riferimento all’art. 905 C.C. Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 4605 del 14.07.1981; con riferimento all’art. 873 C.C. cfr. Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 19449 del 28.09.2004; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 2117 del 04.02.2004; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 12984 del 23.11.1999; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 8260 del 13.08.1990; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 5711 del 27.06.1987; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 4737 del 27.05.1987; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 2331 del 30.03.1983; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 5117 del 05.10.1982; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 287 del 12.01.1980; Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 60 del 05.01.1980), che questo Tribunale condivide (cfr. TAR Basilicata Sent. n. 519 del 04.09.2007):
1) le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute nel Codice Civile (come quelle contenute per es. negli artt. 873, 905, 906 e 907 C.C.), sono derogabili (per usucapione o mediante convenzione, la quale in tali casi costituisce un vero e proprio diritto di servitù, in quanto arreca una menomazione per l’immobile che avrebbe diritto alla distanza legale), in quanto la predetta normativa del Codice Civile ha lo scopo di tutelare i reciproci diritti soggettivi dei singoli proprietari e/o i rapporti intersoggettivi di vicinato (per es. l’art. 873 C.C. mira unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose; mentre l’art. 905 C.C. ha la finalità di proteggere la riservatezza del proprietario frontistante, la quale ai sensi del 3° comma dello stesso art. 905 viene meno se tra i due fondi vi è una via pubblica o soggetta ad uso pubblico);
2) mentre le norme sulle distanze tra le costruzioni o tra queste ed i terreni confinanti, contenute negli strumenti urbanistici e/o nei Regolamenti Edilizi comunali, poiché trascendono l’interesse meramente privatistico, in quanto hanno la funzione di tutelare l’interesse pubblico alla realizzazione di un determinato assetto urbanistico prefigurato, non possono essere derogate (le apposite convenzioni sono invalide anche nei rapporti interni tra i proprietari confinanti) e la loro violazione comporta la facoltà del vicino di chiedere la riduzione in pristino
(TAR Basilicata, sentenza 17.11.2009 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 27, commi 1 e 3, DPR n. 380/2001 attribuisce al Responsabile del competente Ufficio comunale l’esercizio della funzione di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale, “per assicurare la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi”, cioè assegna al Responsabile del competente Ufficio comunale il compito di far rispettare tutte le “norme di legge e di regolamento” e perciò anche quelle previste dal Codice Civile in materia di distanze minime per l’apertura di vedute.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 27, comma 3, DPR n. 380/2001, in quanto tale norma consente l’emanazione dell’Ordinanza di sospensione dei lavori, già autorizzati con permesso di costruire, soltanto nel caso di violazioni delle prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici o delle modalità esecutive indicate nel permesso di costruire, ma non per la violazione delle norme del Codice Civile in materia di distanze, per le quali il permesso di costruire fa comunque salvi i diritti dei terzi, che “trovano difesa davanti al Giudice Ordinario”.
Tale censura risulta destituita di fondamento, in quanto l’art. 27, commi 1 e 3, DPR n. 380/2001 attribuisce al Responsabile del competente Ufficio comunale l’esercizio della funzione di vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale, “per assicurare la rispondenza alle norme di legge e di regolamento, alle prescrizioni contenute negli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nei titoli abilitativi”, cioè assegna al Responsabile del competente Ufficio comunale il compito di far rispettare tutte le “norme di legge e di regolamento” e perciò anche quelle previste dal Codice Civile in materia di distanze minime per l’apertura di vedute
(TAR Basilicata, sentenza 17.11.2009 n. 766 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa realizzazione di un edificio traslato in maniera rilevante, rispetto al progetto approvato, integra un'ipotesi di variazione essenziale e l'ordinanza di ingiunzione a demolire non abbisogna di specifica motivazione sul pubblico interesse, atteso che tale disposizione la configura come attività amministrativa vincolata che va doverosamente esercitata nei casi di accertata mancanza del titolo concessorio, ovvero di totale difformità o variazione essenziale.
La realizzazione di un edificio traslato, in maniera rilevante rispetto al progetto approvato, integra, ai sensi dell'art. 8, lett. c), l. 28.02.1985 n. 47, un'ipotesi di variazione essenziale e l'ordinanza di ingiunzione a demolire ex art. 7 l. 28.02.1985 n. 47 non abbisogna di specifica motivazione sul pubblico interesse, atteso che tale disposizione la configura come attività amministrativa vincolata che va doverosamente esercitata nei casi di accertata mancanza del titolo concessorio, ovvero di totale difformità o variazione essenziale (cfr. TAR Lombardia Brescia, 17.09.1991 n. 616)
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 08.07.2009 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità dell'opera o comunque sul consolidamento dell'interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, a imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all'esistenza di un interesse pubblico prevalente.
In generale, va evidenziato che:
- l'ingiunzione di demolizione è atto vincolato, per il quale il legislatore ha tracciato in modo analitico il "modus agendi" del pubblico potere, spogliando l'amministrazione di ogni autonomia nella valutazione del pubblico interesse, il cui perseguimento è "in re ipsa" e coincide con il perseguimento della finalità, fatta propria dal legislatore, di ripristinare la disciplina pubblicistica violata.
- la valutazione di prevalenza dell'interesse al rispetto del territorio, nonché delle regole che presiedono alla sua tutela, è stata compiuta dalla l. 47/1985 (e poi dal d.P.R. 380/2001) con la previsione di sanzioni vincolate quanto a emanazione e contenuto, espressione di un potere autoritativo, non sottoposto a termini di prescrizione o decadenza, che intende colpire il fenomeno della compromissione del territorio e dei valori ambientali coinvolti.
- un potere così connotato induce a ritenere che debba prevalere l'aspettativa della collettività a vedere rispettate le norme in materia edilizia e urbanistica, piuttosto che quella del contravventore a vedere conservata l'opera abusiva, ancorché realizzata molti anni prima.
In definitiva, il mero decorso del tempo non è sufficiente a far insorgere un affidamento sulla legittimità dell'opera o comunque sul consolidamento dell'interesse del privato alla sua conservazione, né, per conseguenza, a imporre la necessità di una specifica motivazione in ordine all'esistenza di un interesse pubblico prevalente (cfr. TAR Lombardia Milano, sez. II, 08.11.2007, n. 6200)
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 08.07.2009 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIIl prolungato disuso di un bene demaniale da parte dell'ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza osservato da quest'ultimo rispetto a un'occupazione da parte di privati, non costituiscono elementi sufficienti, sul piano logico giuridico, a comprovare inequivocabilmente la cessazione della destinazione del bene -anche solo potenziale- all'uso pubblico (cosiddetta sdemanializzazione tacita), essendo ulteriormente necessario, al riguardo, che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da non lasciare adito ad altre ipotesi se non a quella che l'amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso pubblico.
Non è ammessa l’usucapione dei beni demaniali, dal momento che tali beni "sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano" (art. 823, primo comma codice civile) e che il possesso delle cose di cui non si può acquistare la proprietà non produce alcun effetto (art. 1145, primo comma codice civile).
Gli unici rapporti giuridici che possono essere costituite con soggetti privati con riguardo a tali beni presuppongono il ricorso allo strumento della concessione.
L'usucapione dei beni demaniali è possibile solo dopo la sdemanializzazione, che consiste nel procedimento di passaggio dei beni del demanio pubblico al patrimonio dello Stato.
Questa può essere sia espressa, ovvero attraverso un formale provvedimento di sclassificazione, sia tacita, risultante cioè dati univoci inconcludenti, incompatibile con la volontà di conservare la destinazione del bene all'uso pubblico.
Quanto ai requisiti della sdemanializzazione tacita, la giurisprudenza (cfr Cons. St. Sez. V 12.04.2007 n. 1701; Sez. IV 14.12.2002 n. 6923; Cass. SS.UU. 26.07.2002 n. 11101) ha sposato tesi restrittive. In particolare, ha ritenuto che il prolungato disuso di un bene demaniale da parte dell'ente pubblico proprietario, ovvero la tolleranza osservato da quest'ultimo rispetto a un'occupazione da parte di privati, non costituiscono elementi sufficienti, sul piano logico giuridico, a comprovare inequivocabilmente la cessazione della destinazione del bene -anche solo potenziale- all'uso pubblico (cosiddetta sdemanializzazione tacita), essendo ulteriormente necessario, al riguardo, che tali elementi indiziari siano accompagnati da fatti concludenti e da circostanze così significative da non lasciare adito ad altre ipotesi se non a quella che l'amministrazione abbia definitivamente rinunciato al ripristino dell'uso pubblico
 (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 08.07.2009 n. 1450 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa collocazione al di sopra di un muro di sostegno di n. 22 fioriere in cemento dell’altezza di cm. 60 ben può essere ricompresa nell'ambito delle «opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti», di cui all'art. 7 comma 2, d.l. 23.01.1982 n. 9, dato che esse sembrano possedere tutte le caratteristiche che la consolidata elaborazione giurisprudenziale connette al concetto di pertinenza edilizia.
La collocazione al di sopra di un muro di sostegno di n. 22 fioriere in cemento dell’altezza di cm. 60 (fissate al suolo da elementi di cemento dell’altezza di cm. 15) ben può essere ricompresa nell'ambito delle «opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti», di cui all'art. 7 comma 2, d.l. 23.01.1982 n. 9, dato che esse sembrano possedere tutte le caratteristiche che la consolidata elaborazione giurisprudenziale (cfr. TAR Catanzaro, sez. II, 10.06.2008 n. 647) connette al concetto di pertinenza edilizia:
a) un nesso oggettivo strumentale e funzionale con la cosa principale;
b) il mancato possesso, per natura e struttura, di una pluralità di destinazioni;
c) un carattere durevole;
d) la non utilizzabilità economica in modo diverso;
e) una ridotta dimensione;
f) una individualità fisica e strutturale propria;
g) l'accessione ad un edificio preesistente edificato;
h) l'assenza di un autonomo valore di mercato.
Da tale presupposto discende, ex art. 10 L. n. 47/1985, la sola applicabilità nella specie della sanzione pecuniaria, con il conseguente annullamento dell’ordinanza di demolizione (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 08.07.2009 n. 1449 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’attività di repressione degli abusi edilizi o comunque lesivi dell’interesse ambientale sia dovuta e non discrezionale e non rilevi il decorso del tempo, in quanto la trasgressione integra un illecito amministrativo permanente, che si rinnova in ogni istante a causa della mancata demolizione dell’opera realizzata contra legem.
In buona sostanza l’abuso ha natura di illecito permanente e si pone in perdurante contrasto con le leggi amministrative sino a quando non viene ripristinato lo stato dei luoghi, per cui la disciplina sanzionatoria non può che essere quella vigente al tempo della sua applicazione e non all’atto della commissione della violazione.

Il Collegio aderisce al dominante orientamento giurisprudenziale, il quale ritiene che l’attività di repressione degli abusi edilizi o comunque lesivi dell’interesse ambientale sia dovuta e non discrezionale e non rilevi il decorso del tempo, in quanto la trasgressione integra un illecito amministrativo permanente, che si rinnova in ogni istante a causa della mancata demolizione dell’opera realizzata contra legem (TAR Toscana, sez. III – 23/01/2008 n. 37).
In buona sostanza l’abuso ha natura di illecito permanente e si pone in perdurante contrasto con le leggi amministrative sino a quando non viene ripristinato lo stato dei luoghi, per cui la disciplina sanzionatoria non può che essere quella vigente al tempo della sua applicazione e non all’atto della commissione della violazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V – 24/03/1998 n. 345; TAR Veneto, sez. II – 21/12/2001 n. 3052): la natura continuativa della trasgressione è collegata all’omissione della spontanea demolizione, da effettuare per adeguare lo stato di fatto a quello di diritto, per cui non si punisce una condotta commissiva ma si statuisce l’eliminazione di manufatti ancora esistenti nonostante la sussistenza dell’obbligo di demolirli.
D’altronde, la pretesa sanzionatoria nasce all’atto della contestazione dell’abuso e non in quello della sua materiale realizzazione, ed è nel momento della contestazione (anche rinnovata) che l’illecito va qualificato come tale e con riguardo alle norme vigenti, così come devono essere riferite al momento dell’intervento repressivo le valutazioni che l’amministrazione è tenuta ad effettuare in funzione della scelta del tipo di sanzione.
Né è esatto sostenere che tale impostazione si pone in contrasto con il divieto di retroattività delle norme sanzionatorie, perché alle misure repressive va attribuito un carattere amministrativo e non penale –circostanza che fa escludere l’applicabilità del principio costituzionale di irretroattività (art. 25 Cost.)– ma più in generale, posto che la sanzione si giustifica con l’attualità dell’abuso, non ha senso parlare di retroattività dell’esercizio del potere sanzionatorio ma, al contrario, della coerente applicazione, ad una condotta illecita permanente, delle norme vigenti all’atto dell’accertamento della violazione.
Se si ripudiasse questo principio per affermare che chi viola le norme edilizie ha il diritto di contare sulla certezza del trattamento sanzionatorio, nella forma della sua immutabilità nel tempo, ne discenderebbe una sorta di “ultrattività” delle norme repressive per cui –nel caso di successione di leggi ed in qualunque tempo l’abuso venga scoperto– l’amministrazione sarebbe tenuta comunque ad applicare le preesistenti sanzioni, ancorché riferite a norme medio tempore sostituite o abrogate (TAR Campania Napoli, sez. IV – 14/02/2005 n. 1020).
Nella fattispecie siamo incontestabilmente di fronte ad un abuso lesivo dell’ambiente perpetuato nel tempo, rispetto al quale è sopravvenuta una normativa più sfavorevole a tutela di un valore costituzionalmente pregnante e di spessore più rilevante rispetto all’interesse all’ordinato assetto urbanistico del territorio. Ne deriva che alla fattispecie esaminata deve necessariamente essere applicato il principio tempus regit actum (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 24.04.2009 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICALa perequazione urbanistica nella forma del riconoscimento di facoltà edificatorie in cambio della cessione gratuita di aree da destinare alla fruizione collettiva può essere esercitata anche in collegamento con edificazioni singole al di fuori di un piano attuativo.
In via generale si osserva che la perequazione urbanistica nella forma del riconoscimento di facoltà edificatorie in cambio della cessione gratuita di aree da destinare alla fruizione collettiva può essere esercitata anche in collegamento con edificazioni singole al di fuori di un piano attuativo. Questo perché anche le edificazioni singole devono concorrere, al pari di quelle di maggiore complessità, al raggiungimento del livello minimo di dotazioni infrastrutturali previsto dal piano dei servizi.
In proposito dispone l’art. 9, comma 3, della LR 12/2005, il quale estende ai piani attuativi la stessa dotazione minima di aree per attrezzature pubbliche e di interesse generale prevista dal piano dei servizi per le altre parti del territorio, con questo implicando che tutti i proprietari, all’interno e all’esterno dei piani attuativi, sono assoggettati all’obbligo di contribuire al reperimento delle aree destinate a standard pubblico (v. TAR Brescia 13.07.2005 n. 749; TAR Brescia 16.05.2006 n. 567). L’assoggettamento si deve intendere proporzionato all’ampiezza delle aree di proprietà e all’impatto dell’intervento edilizio.
Nel caso in esame, dove si discute di un albergo, la cessione dell’area a parcheggio appare proporzionata, in quanto da un lato non ostacola il raggiungimento dell’obiettivo edificatorio della ricorrente e dall’altro è giustificata dal fatto che l’aumento dell’esigenza di parcheggi è strettamente correlato all’avvio dell’attività alberghiera
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 15.04.2009 n. 859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl costo di costruzione per i nuovi edifici non corrisponde alla spesa effettiva ma è definito dalla Regione con riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata ed è adeguato autonomamente dai comuni sulla base della variazione accertata dall'ISTAT.
In tale contesto il concetto di “costo documentato di costruzione” previsto dal successivo comma 4 per gli interventi con destinazione commerciale e turistico-alberghiero-ricettiva non è rappresentato dal costo che i privati ritengono di dover sostenere per effetto dei propri rapporti con gli appaltatori o con i fornitori ma costituisce un costo standard, omogeneo sul territorio comunale, e definito secondo criteri certi.
Il prezziario della Camera di Commercio è utile a questo scopo, come le altre banche dati provenienti da organismi affidabili.

In base all’art. 48, commi 1 e 2, della LR 12/2005 il costo di costruzione per i nuovi edifici non corrisponde alla spesa effettiva ma è definito dalla Regione con riferimento ai costi massimi ammissibili per l'edilizia agevolata ed è adeguato autonomamente dai comuni sulla base della variazione accertata dall'ISTAT.
In tale contesto il concetto di “costo documentato di costruzione” previsto dal successivo comma 4 per gli interventi con destinazione commerciale e turistico-alberghiero-ricettiva non è rappresentato dal costo che i privati ritengono di dover sostenere per effetto dei propri rapporti con gli appaltatori o con i fornitori ma costituisce un costo standard, omogeneo sul territorio comunale, e definito secondo criteri certi. Il prezziario della Camera di Commercio è utile a questo scopo, come le altre banche dati provenienti da organismi affidabili.
Di “costo reale degli interventi” si parla solo nel comma 6 a proposito degli interventi di ristrutturazione edilizia non comportanti demolizione e ricostruzione, ma anche in questo caso non può essere esclusa la possibilità di una direttiva regionale o comunale di omogeneizzazione delle voci di costo
(TAR Lombardia-Brescia, sentenza 15.04.2009 n. 859 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPur tenendo conto che la dotazione minima di parcheggi è un obbligo ex lege che integra le previsioni urbanistiche, e costituisce inoltre un requisito preliminare al rilascio del permesso di costruire relativo all’edificio principale, l’effetto di deroga previsto con formulazione ampia dall’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 deve valere anche per la quota di parcheggi eccedente la dotazione obbligatoria.
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione dell’art. 9 della legge 122/1989 e dell’art. 67 della LR 12/2005. I ricorrenti sostengono che trattandosi di parcheggi pertinenziali le relative costruzioni sarebbero sempre consentite ex art. 9 della legge 122/1989 anche in mancanza della conformità urbanistica e potrebbero essere vietate solo nelle ipotesi tassative dell’art. 67 della LR 12/2005 (contrasto con il piano urbano del traffico, con le misure poste a tutela dei corpi idrici, con l'uso delle superfici sovrastanti, con le previsioni urbanistiche riguardanti la parte di sottosuolo interessata dall'intervento). Poiché il progetto in questione non interferisce con gli interessi pubblici elencati in quest’ultima norma (in particolare non vi sono disposizioni esplicite per il sottosuolo) la realizzazione di autorimesse pertinenziali interrate non dovrebbe incontrare ostacoli.
La tesi si avvale dell’evoluzione normativa che ha semplificato e incentivato la realizzazione di parcheggi ma non può essere condivisa nelle sue conclusioni. In base all’art. 69, comma 1, della LR 12/2005 tutti i parcheggi, pertinenziali e non pertinenziali, anche se eccedenti il limite di 1mq/10mc stabilito dall’art. 41-sexies della legge 17.08.1942 n. 1150, sono considerati opere di urbanizzazione e beneficiano per questo del regime della gratuità.
La deroga alle disposizioni urbanistiche è però riservata a una categoria più ristretta di parcheggi, perché in base agli art. 66-67 della LR 12/2005 deve sussistere un vincolo di pertinenzialità trascritto nei registri immobiliari. Non è invece necessario che l’edificio principale abbia destinazione residenziale, né che si tratti di edificio già esistente (v. TAR Brescia 26.09.2007 n. 898). Pur tenendo conto che la dotazione minima di parcheggi è un obbligo ex lege che integra le previsioni urbanistiche, e costituisce inoltre un requisito preliminare al rilascio del permesso di costruire relativo all’edificio principale, l’effetto di deroga previsto con formulazione ampia dall’art. 9, comma 1, della legge 122/1989 deve valere anche per la quota di parcheggi eccedente la dotazione obbligatoria.
In sostanza, indagando la finalità della norma, si può ritenere che la deroga alla disciplina urbanistica sia concessa non tanto per permettere la realizzazione di nuovi edifici (altrimenti impossibile in mancanza di parcheggi sufficienti) ma soprattutto per incentivare la realizzazione di parcheggi pertinenziali, i quali pur essendo beni privati hanno rilievo pubblico per i vantaggi che assicurano alla viabilità (decongestionamento del traffico, minori oneri per la realizzazione di parcheggi pubblici).
Tuttavia, sia in relazione ai parcheggi obbligatori sia per quanto riguarda i parcheggi facoltativi, non possono essere messi in pericolo gli altri interessi pubblici elencati nell’art. 67 della LR 12/2005, alcuni dei quali hanno valore ambientale come nel caso della tutela dei corpi idrici e della speciale destinazione del sottosuolo (ad esempio il mantenimento di una percentuale di verde profondo per il drenaggio delle acque). Oltre a questi, per espressa previsione dell’art. 9, comma 1, della legge 122/1989, hanno carattere prioritario i vincoli paesistico-ambientali formalmente istituiti, che pertanto rappresentano un ostacolo alla realizzazione dei parcheggi, salvo il potere di autorizzazione dell’autorità responsabile della tutela del vincolo.
Pertanto, i progetti di parcheggi pertinenziali non sono mai sottratti al giudizio di compatibilità paesistico-ambientale quando un vincolo è presente. E anche in assenza di un vincolo formale è comunque necessario uno scrutinio analogo in relazione alle norme degli strumenti urbanistici che tutelano i corpi idrici e la destinazione del sottosuolo.
Con riguardo alla pretesa dei ricorrenti si osserva che nel caso in esame sussistono entrambe le cause ostative. Sull’area grava infatti un vincolo paesistico ex lege, e in dettaglio l’art. 24 del PTC impone la conservazione e lo sviluppo delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali e il mantenimento a prato o rimboschimento degli spazi aperti, ammettendo le nuove edificazione esclusivamente per lo sviluppo delle attività agricole e per la fruizione turistica (v. sopra al punto 10). Questo significa che il sottosuolo non è disponibile per interventi residenziali, a meno che anche questi non siano collegati alle attività agricole.
L’inquadramento urbanistico e ambientale su cui si basa il diniego di autorizzazione paesistica appare quindi corretto anche per quanto riguarda i rapporti con la disciplina dei parcheggi pertinenziali (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 15.04.2009 n. 858 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICASe, in linea generale, l’art. 2, lett. d), l.r. 23/1997 ammette l’aumento del carico insediativo con la procedura di variante semplificata purché nel limite massimo del 10%, tale aumento non può però essere realizzato con piano di recupero, che è uno “strumento attuativo destinato al recupero del patrimonio edilizio esistente senza, tuttavia, implicare incrementi volumetrici tali da determinare un aumento del carico insediativo”.
La norma attributiva del potere esercitato dall’amministrazione comunale, nel caso in esame, deve essere ricercata nell’art. 2 della l.r. 23/1997, che dispone che si possa utilizzare la procedura di variante semplificata per l’approvazione degli strumenti urbanistici per: “(…), d) varianti dirette a modificare le modalità di intervento sul patrimonio edilizio esistente, nel caso in cui esse non concretino ristrutturazione urbanistica e non comportino incremento del peso insediativo in misura superiore al 10% rispetto a quanto stabilito dallo strumento urbanistico vigente; ove necessario, le varianti potranno altresì prevedere il conseguente adeguamento della dotazione di aree a standard; e) varianti di completamento interessanti ambiti territoriali di zone omogenee già classificate ai sensi dell'art. 2 del D.M. 02.04.1968, n. 1444 come zone B, C e D che comportino, con o senza incremento della superficie azzonata, un aumento della relativa capacità edificatoria non superiore al 10% di quella consentita nell'ambito oggetto della variante dal vigente PRG, ove necessario tali varianti potranno altresì prevedere il conseguente adeguamento della dotazione di aree a standard”.
Nel caso in esame, l’amministrazione ha utilizzato, in particolare, il disposto di cui alla lettera d) dell’art. 2 l.r. 23/1997 ritenendo si trattasse di una variante diretta a modificare le modalità di intervento sul patrimonio edilizio esistente, e che tale modifica delle modalità di intervento fosse legittimata dalla previsione della norma sovraordinata di p.r.g. che prevedeva nelle zone A1 la possibilità di edificare tramite piano di recupero.
Il piano di recupero approvato non si è limitato, però, a consentire l’edificazione in base a titolo diverso dall’intervento diretto di ristrutturazione edilizia, che è l’unico titolo che sarebbe stato possibile utilizzare in forza delle norme di piano sovraordinate, ma ha anche consentito l’aumento volumetrico del 10% sull’immobile oggetto dell’intervento.
L’amministrazione ha ritenuto di disporre di tale potere di aumentare la volumetria dell’immobile nel limite del 10% dello stesso per effetto della previsione della lettera d) dell’art. 2 l.r. 23/1997 che, come indicato sopra, ammette le varianti che non comportino incremento del peso insediativo in misura superiore al 10% rispetto a quanto stabilito dallo strumento urbanistico vigente.
Se, in linea generale, l’art. 2, lett. d), l.r. 23/1997 ammette l’aumento del carico insediativo con la procedura di variante semplificata purché nel limite massimo del 10%, tale aumento non poteva però essere realizzato con piano di recupero, che, come già evidenziato da questo Tribunale, è uno “strumento attuativo destinato al recupero del patrimonio edilizio esistente senza, tuttavia, implicare incrementi volumetrici tali da determinare un aumento del carico insediativo” (Tar Lombardia, sez. Brescia, 09.12.2002, n. 2216) .
La pronuncia appena citata si è già occupata del rapporto tra piano di recupero ed utilizzo della procedura semplificata di approvazione degli strumenti urbanistici di cui alla l.r. 23/1997, ed ha stabilito sul punto che “deve, di conseguenza, escludersi che il recupero edilizio, consistendo in interventi sugli elementi costitutivi degli edifici esistenti, possa comportare incrementi volumetrici, ossia aumenti di superficie o di corpi di fabbrica. Ciò premesso è illegittimo il Piano di recupero che venga approvato attraverso la procedura semplificata di variante urbanistica ai sensi della legge regionale 23.06.1997, n. 23, per assentire un aumento di volumetria altrimenti non realizzabile secondo le previsioni degli strumenti urbanistici in vigore”.
La presente vicenda, che riguarda un caso esattamente in termini con quello appena citato di piano di recupero che legittima un aumento di volumetria altrimenti non realizzabile secondo le previsioni degli strumenti urbanistici, deve pertanto essere deciso in conformità con tale precedente (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 08.04.2009 n. 806 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPer gli atti amministratavi “di cui non sia richiesta la notifica individuale”, come nella specie il permesso di costruire, il quale deve essere notificato soltanto al richiedente e non anche alle altre persone eventualmente interessate, il termine decadenziale di impugnazione di 60 giorni decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione di tale atto all’Albo Pretorio; ma, poiché i lavori autorizzati con il permesso di costruire possono iniziare entro un anno dalla data di rilascio del permesso di costruire, opportunamente il Legislatore con la terza frase dell’art. 20, comma 7, DPR n. 380/2001 stabilisce che il termine decadenziale di impugnazione di 60 giorni ex art. 21, comma 1, L. n. 1034/1971 decorre dall’allestimento del cantiere edile e più precisamente dall’esposizione del cartello, indicante gli estremi del permesso di costruire rilasciato.
Quello che conta ai fini del decorso del termine di impugnazione giurisdizionale di un permesso di costruire da parte di un soggetto terzo, diverso dal destinatario, è la conoscibilità di tale permesso di costruire associata all’effettivo inizio dei lavori, resa possibile dalla pubblicazione nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso e dall’esposizione nel cantiere del cartello con gli estremi del permesso di costruire rilasciato, e non l’effettiva conoscenza del permesso di costruire previa istanza di accesso ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990.

L’art. 20, comma 7, seconda e terza frase, DPR n. 380/2001 statuisce che “Dell’avvenuto rilascio del permesso di costruire è data notizia al pubblico, mediante affissio-ne all’Albo Pretorio. Gli estremi del permesso di costruire sono indicati nel cartello esposto presso il cantiere, secondo le modalità stabilite dal Regolamento Edilizio”.
Secondo questo Tribunale (cfr. TAR Basilicata Sentenze nn. 515 e 517 del 04.09.2007) tale norma va letta ed interpretata unitamente all’art. 21, comma 1, L. n. 1034/1971, nella parte in cui sancisce che per gli atti amministratavi “di cui non sia richiesta la notifica individuale”, come nella specie il permesso di costruire, il quale deve essere notificato soltanto al richiedente e non anche alle altre persone eventualmente interessate, il termine decadenziale di impugnazione di 60 giorni decorre dall’ultimo giorno di pubblicazione di tale atto all’Albo Pretorio; ma, poiché i lavori autorizzati con il permesso di costruire possono iniziare entro un anno dalla data di rilascio del permesso di costruire, opportunamente il Legislatore con la terza frase dell’art. 20, comma 7, DPR n. 380/2001 stabilisce che il termine decadenziale di impugnazione di 60 giorni ex art. 21, comma 1, L. n. 1034/1971 decorre dall’allestimento del cantiere edile e più precisamente dall’esposizione del cartello, indicante gli estremi del permesso di costruire rilasciato.
Pertanto, secondo quanto statuito dal combinato disposto di cui agli artt. 20, comma 7, seconda e terza frase, DPR n. 380/2001 e 21, comma 1, L. n. 1034/1971, quello che conta ai fini del decorso del termine di impugnazione giurisdizionale di un permesso di costruire da parte di un soggetto terzo, diverso dal destinatario, è la conoscibilità di tale permesso di costruire associata all’effettivo inizio dei lavori, resa possibile dalla pubblicazione nell’Albo Pretorio dell’apposito avviso e dall’esposizione nel cantiere del cartello con gli estremi del permesso di costruire rilasciato, e non l’effettiva conoscenza del permesso di costruire previa istanza di accesso ex art. 22 e ss. L. n. 241/1990.
Dunque, dopo l’entrata in vigore dell’art. 20, comma 7, seconda e terza frase, DPR n. 380/2001 non può più essere seguito il precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale consolidato, secondo cui la mera affissione all’Albo Pretorio ed anche l’indicazione degli estremi del permesso di costruire nel cartello esposto presso il cantiere non costituivano una formalità idonea per la decorrenza del termine di impugnazione giurisdizionale di un permesso di costruire, poiché il momento dal quale far decorrere il termine di impugnazione era quello dell’ultimazione dei lavori, in quanto soltanto da tale data i soggetti interessati potevano avere la piena consapevolezza dell’esistenza e dell’entità delle violazioni urbanistiche commesse (TAR Basilicata, sentenza 05.03.2009 n. 65 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: LAVORO PUBBLICO - DIVIETO DI CUMULO TRA PENSIONE ANTICIPATA DI ANZIANITÀ E INCARICHI DI CONSULENZA PER L´AMMINISTRAZIONE DI PROVENIENZA.
Il divieto di cumulo tra pensione anticipata di anzianità e lo svolgimento o la prosecuzione, successivamente alla cessazione del rapporto, di incarichi di consulenza per l'amministrazione di provenienza si estende anche allo svolgimento dell’incarico di direttore amministrativo presso un’istituzione ospedaliera, in ragione della trasparenza nel conferimento degli incarichi e dell’ulteriore fine di garantire risparmi di spesa impedendo il cumulo tra pensione e retribuzione (massima tratta da www.lavoroprevidenza.com - Corte di Cassazione, sentenza 28.07.2008 n. 20523).

EDILIZIA PRIVATAL’Amministrazione non può impedire la formazione del titolo abilitativo, o annullarlo o rimuoverlo, contestando la mancanza del DURC; tuttavia, altra cosa è l’esecuzione materiale dei lavori ove “In assenza della certificazione della regolarità contributiva, anche in caso di variazione dell'impresa esecutrice dei lavori, è sospesa l'efficacia del titolo abilitativo”, sicché appare legittimo l’ordine di sospensione dei lavori fino alla produzione della certificazione in parola.
L’Amministrazione non può impedire la formazione del titolo abilitativo, o annullarlo o rimuoverlo, contestando la mancanza del DURC; tuttavia, altra cosa è l’esecuzione materiale dei lavori.
A tal fine, la certificazione di regolarità contributiva è necessaria: infatti, ex art. 3, comma 8, lett. b)-ter, del D.Lgs. 494/1996 “In assenza della certificazione della regolarità contributiva, anche in caso di variazione dell'impresa esecutrice dei lavori, è sospesa l'efficacia del titolo abilitativo”, sicché appare legittimo l’ordine di sospensione dei lavori fino alla produzione della certificazione in parola (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 28.12.2007 n. 16559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASul piano della normativa nazionale, la collocazione dei cartelli viene subordinata alla verifica, caso per caso, della relativa compatibilità con la tutela di quella porzione di territorio, o di quell’immobile o complesso di immobili le cui qualità, intrinseche ed oggettivamente percepibili dalla generalità, siano state previamente evidenziate e ritenute meritevoli di tutela all’esito dei processi ricognitivi compiuti nel corso dell’istruttoria che si è conclusa con l’approvazione del piano paesistico regionale.
L'art. 153 del Codice Urbani dispone quanto segue: “1) nell’ambito ed in prossimità dei beni paesaggistici indicati nell’art. 134 é vietato collocare cartelli e altri mezzi pubblicitari, se non previa autorizzazione dell’amministrazione competente individuata dalla regione. 2) lungo le strade, site nell’ambito ed in prossimità dei beni indicati nel comma 1, è vietato collocare cartelli o altri mezzi pubblicitari salvo autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 30.04.1992 n.285 e successive modificazioni, previo parere favorevole dell’amministrazione competente individuata dalla regione sulla compatibilità della collocazione e della tipologia del mezzo pubblicitario con i valori paesaggistici degli immobili o delle aree soggette a tutela.
L’art. 134 titolato “beni paesaggistici” individua come tali: gli immobili e le aree indicati dall’art. 136, (immobili di notevole interesse pubblico, tra cui alla lettera d) sono comprese “le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze”); 2) le aree indicate dall’art. 142 (aree tutelate per legge); 3) gli immobili e le aree tipizzati , individuati e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli artt. 143 e 156.
Dal complesso di tali disposizioni che dichiaratamente sono state assunte a presupposto anche dal piano oggi in questione, senza voler essere esaustivi, si ricava che la tutela è riservata ad ambiti, aree od immobili previamente individuati nei loro confini e nella loro entità: 1) o da provvedimenti adottati dalle amministrazioni statali, quali ad esempio i vari decreti di dichiarazione di interesse pubblico, 2) o direttamente dalla legge; 3) o individuati e tipizzati dalla regione nel contesto del piano paesaggistico.
In coerenza con la tutela del diritto di iniziativa economica privata, suscettibile di limitazioni solo per espressa disposizione di legge in ossequio alla Costituzione (art. 41), la legge non prescrive, inoltre, per nessuno di tali “beni” un divieto assoluto di installazione di cartelli pubblicitari, neanche nell’ambito od in prossimità dei beni stessi.
Volendo limitare l’esame alle prescrizioni che più direttamente riguardano la presente controversia, sul piano della normativa nazionale, la collocazione dei cartelli viene subordinata alla verifica, caso per caso, della relativa compatibilità con la tutela di quella porzione di territorio, o di quell’immobile o complesso di immobili le cui qualità, intrinseche ed oggettivamente percepibili dalla generalità, siano state previamente evidenziate e ritenute meritevoli di tutela all’esito dei processi ricognitivi compiuti nel corso dell’istruttoria che si è conclusa con l’approvazione del piano paesistico regionale (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 31.10.2007 n. 2014 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa recinzione in legno o in rete metallica di un terreno non richiede alcuna concessione o autorizzazione edilizia, in quanto costituisce non già trasformazione urbanistica -in quanto non comporta trasformazione morfologica del territorio- ma estrinsecazione lecita dello "ius excludendi alios", immanente al diritto di proprietà; e, pertanto, è illegittimo l'ordine di demolizione di una recinzione costituita da paletti infissi al suolo senza cordolo di calcestruzzo e collegati da una rete metallica.
Per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, trattandosi di installazione precaria e rientrando tale opera tra le attività di mera manutenzione.

"La recinzione in legno o in rete metallica di un terreno non richiede alcuna concessione o autorizzazione edilizia, in quanto costituisce non già trasformazione urbanistica -in quanto non comporta trasformazione morfologica del territorio- ma estrinsecazione lecita dello "ius excludendi alios", immanente al diritto di proprietà; e, pertanto, è illegittimo l'ordine di demolizione di una recinzione costituita da paletti infissi al suolo senza cordolo di calcestruzzo e collegati da una rete metallica (TAR Veneto, sez. II, 07.03.2006, n. 533)”, che “per la posa in opera di una semplice recinzione con paletti in ferro, non infissi in muratura nel terreno, non è necessaria alcuna richiesta di provvedimento concessorio, trattandosi di installazione precaria e rientrando tale opera tra le attività di mera manutenzione (TAR Lazio Roma, sez. II, 05.11.2004, n. 12554”, e che comunque ai sensi del t.u. 06.06.2001 n. 380, la realizzazione di una recinzione è soggetta a denuncia di inizio attività ex art. 22 dello stesso t.u., pena sanzione pecuniaria, pari al doppio dell'aumento di valore venale dell'immobile, conseguente alla realizzazione degli interventi stessi, e comunque in misura non inferiore a 516 euro, salvo che l'area non sia coperta da vincoli, tali da comportare la restituzione in pristino (TAR Lazio Roma, sez. I, 13.06.2005, n. 4782) .
Né tali considerazioni mutano anche a volere considerare la recinzione strumentale alla realizzazione del campo di calcetto -intervento in relazione al quale, peraltro, l’amministrazione nulla ha contestato- atteso che risulta pacificamente dagli atti di causa che trattasi di uno spazio senza strutture murarie di alcun genere e consistente, in sostanza, nella mera predisposizione di uno spiazzo d'erba (cfr. TAR Puglia Bari, sez. III, 14.02.2005, n. 546) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 30.10.2007 n. 10269 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi sensi dell’art. 1 del D.M n. 1404/1968 le disposizioni contenute nel decreto medesimo, relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, non trovano applicazione all’interno del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti previsti dai piani regolatori generali.
Ai sensi dell’art. 1 del D.M n. 1404/1968 le disposizioni contenute nel decreto medesimo, relative alle distanze minime a protezione del nastro stradale, non trovano applicazione all’interno del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti previsti dai piani regolatori generali (TAR Toscana II sez. 23/01/1995 n. 20) (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 26.10.2007 n. 3688 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - ATTI AMMINISTRATIVI - COMPETENZE GESTIONALIIl provvedimento con il quale si impone il recupero ambientale, trattandosi di atto di gestione, deve essere adottato dal dirigente del competente Ufficio del Comune procedente e non dal Sindaco nella sua veste di organo politico, fuoriuscendosi nella specie dallo schema tipico descritto dagli artt. 50 e 54 del decreto legislativo n. 267 del 2000 circa le competenze provvedimentali del Sindaco.
La competenza del dirigente comunale (o, in sua assenza, del responsabile del servizio) ad adottare l'ordinanza prevista dal comma 3° dell'art. 14 del decreto legislativo n. 22 del 1997 non può essere posta in dubbio sia sulla base del richiamo all'art. 70, comma 6°, del decreto legislativo n. 165 del 30.03.2001 sia sulla scorta di quanto analogamente stabilito dall’art. 107, comma 5, del decreto legislativo n. 267 del 2000.

Per giurisprudenza ormai consolidata (cfr., in argomento, TAR Veneto, Sez. III, 24.01.2006 n. 130; TAR Sardegna, Sez. II, 24.01.2005 n. 104; TAR Molise, 25.11.2004 n. 729; TAR Basilicata, 18.09.2003 n. 878; TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12.06.2003 n. 7532; TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 08.05.2002 n. 1152; TAR Lombardia, Brescia, 25.09.2001 n. 792), il provvedimento con il quale si impone il recupero ambientale, trattandosi di atto di gestione, deve essere adottato dal dirigente del competente Ufficio del Comune procedente e non dal Sindaco nella sua veste di organo politico, fuoriuscendosi nella specie dallo schema tipico descritto dagli artt. 50 e 54 del decreto legislativo n. 267 del 2000 circa le competenze provvedimentali del Sindaco.
Infatti, in disparte quanto si legge testualmente nella disposizione normativa sulla quale fonda il presupposto giuridico dell’ordinanza qui impugnata (ora superata dalla novella del decreto legislativo n. 152 del 12.04.2006), la competenza del dirigente comunale (o, in sua assenza, del responsabile del servizio) ad adottare l'ordinanza prevista dal comma 3° dell'art. 14 del decreto legislativo n. 22 del 1997 non può essere posta in dubbio sia sulla base del richiamo all'art. 70, comma 6°, del decreto legislativo n. 165 del 30.03.2001 (il quale, nel reiterare l'art. 45 comma 1° del decreto legislativo 31.03.1998 n. 80, tecnicamente abrogato dall'art. 72, comma 1°, lett. b), del citato decreto legislativo n. 165 del 2001, ha stabilito che, a decorrere dal 23.04.1998, le disposizioni che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti) sia sulla scorta di quanto analogamente stabilito dall’art. 107, comma 5, del decreto legislativo n. 267 del 2000 (avendo anch'esso previsto che a "decorrere dalla data di entrata in vigore del presente testo unico, le disposizioni che conferiscono agli organi di cui al capo I titolo III l'adozione di atti di gestione e di atti e provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti..").
È pur vero che nel quadro ordinamentale descritto dal Testo unico sugli Enti locali l'art. 50 del decreto legislativo n. 267 del 2000 ha previsto in favore del Sindaco, quale autorità locale (e non quale ufficiale di governo), un potere di ordinanza in caso di "emergenze sanitarie e di igiene pubblica" a carattere esclusivamente locale; trattasi però di ordinanze espressamente qualificate dalla norma "contingibili ed urgenti" nel cui novero non rientra, per quanto sopra osservato, quella di cui all’art. 14 del decreto legislativo n. 22 del 1997.
A tal proposito si ribadisce che il provvedimento disciplinato dal citato art. 14 non possa rientrare nel genus delle ordinanze contingibili ed urgenti.
Va ancora osservato come il potere di ordinanza contingibile ed urgente sia atipico e residuale e cioè che sia esercitabile (sempreché ne ricorrano gli eccezionali presupposti dell'urgenza, della gravità del pericolo, etc.) quante volte non sia conferito dalla legge il potere di emanare atti tipici in presenza di presupposti indicati da specifiche normative di settore; viceversa, proprio l'articolo 14 comma 3 citato configurerebbe una siffatta specifica normativa con la previsione d'un ordinario potere di intervento attribuito all'autorità amministrativa locale e non all'ufficiale del governo.
Del resto, la norma in parola è priva di qualsiasi riferimento ai requisiti di contingibilità ed urgenza, a differenza invece dell'articolo 13 dello stesso decreto che, a parte l'esplicita qualificazione contenuta nel titolo ("Ordinanze contingibili ed urgenti"), riporta al primo comma un chiaro riferimento alla "eccezionale ed urgente necessità di tutela della salute pubblica e dell'ambiente" al fine di consentire al Sindaco, ove non si possa altrimenti provvedere, di emettere appunto ordinanze contingibili ed urgenti che consentano il ricorso temporaneo a speciali forme di gestione dei rifiuti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, garantendo un elevato livello di tutela della salute e dell'ambiente.
In conclusione, l'articolo 14 del decreto legislativo n. 22 del 1997 prevede una ordinanza di sgombero a carattere sanzionatorio tanto è vero che, per la sua applicazione a carico dei soggetti obbligati in solido (tra cui il proprietario), prevede in capo agli stessi l'imputazione a titolo di dolo o colpa del comportamento tenuto in violazione del divieto di legge (TAR Toscana, Sez. II, sentenza 18.10.2007 n. 3279 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAMentre ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e dalle disposizioni dei regolamenti locali da esso richiamate, deve farsi riferimento alle costruzioni che, essendo erette sopra il suolo, ne sporgano stabilmente (essendo escluse dal rispetto delle distanze legali soltanto i manufatti completamente interrati), viceversa ai fini del rispetto delle norme contenute nei regolamenti edilizi, che stabiliscono le distanze tra le costruzioni e di esse dal confine, essendo tali norme volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente, ciò che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono.
La giurisprudenza (Cass. civ., sez. II, 04.10.2005, n. 19350), con riferimento alla necessità di rispettare la distanza dai confini, ha già avuto modo di chiarire che mentre ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali stabilite dall’art. 873 c.c. e dalle disposizioni dei regolamenti locali da esso richiamate, deve farsi riferimento alle costruzioni che, essendo erette sopra il suolo, ne sporgano stabilmente (essendo escluse dal rispetto delle distanze legali soltanto i manufatti completamente interrati), viceversa ai fini del rispetto delle norme contenute nei regolamenti edilizi, che stabiliscono le distanze tra le costruzioni e di esse dal confine, essendo tali norme volte non solo ad evitare la formazione di intercapedini nocive fra edifici frontistanti, ma anche a tutelare l’assetto urbanistico di una data zona e la densità degli edifici in relazione all'ambiente, ciò che rileva è la distanza in sé delle costruzioni a prescindere dal loro fronteggiarsi o meno e dal dislivello dei fondi su cui insistono (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 18.10.2007 n. 819 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATARelativamente alle opere precarie non rileva il carattere provvisorio della struttura, in quanto in materia edilizia ciò che rileva è l’oggettiva idoneità del manufatto ad incidere sullo stato dei luoghi a prescindere dall’intenzione del proprietario in ordine alla sua utilizzabilità, sicché, come ha chiarito la giurisprudenza, la precarietà va esclusa ogni qualvolta l'opera sia destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione all'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale del manufatto.
Il collegio rileva che il titolo necessario per l’esercizio dell’attività edilizia dipende dalla idoneità o meno delle opere a realizzare la trasformazione permanente del territorio dalla quale l'art. 1 della L. n. 10/1977 fa discendere la necessità della concessione edilizia.
Nel caso di specie i manufatti, come risulta dal provvedimento impugnato e riconosciuto dalla stessa ricorrente, anche se non di grande dimensione, sono idonei a modificare il territorio in modo permanente e non possono essere configurati come pertinenza ai sensi dell’ art. 7 d.l. 23.01.1982 n. 9, convertito con modificazioni nella l. 25.03.1982 n. 94, in quanto la nozione urbanistica di pertinenza e' assai più ristretta di quella prevista dall'art. 817 del codice civile ed è configurabile solo quando l’opera non abbia un consistente ed autonomo impatto sul territorio (si veda in proposito la sentenza del Consiglio Stato sez. V, 23.03.2000, n. 1600).
Né rileva il carattere provvisorio della struttura, in quanto in materia edilizia ciò che rileva è l’oggettiva idoneità del manufatto ad incidere sullo stato dei luoghi a prescindere dall’intenzione del proprietario in ordine alla sua utilizzabilità, sicché, come ha chiarito la giurisprudenza, la precarietà va esclusa ogni qualvolta l'opera sia destinata a dare un'utilità prolungata nel tempo, ancorché a termine, in relazione all'obiettiva ed intrinseca destinazione naturale del manufatto ( Consiglio Stato sez. V, 15.06.2000, n. 3321) (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 11.10.2007 n. 2286 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia/permesso di costruire.
La realizzazione di una veranda chiusa con vetrate, determinando l'aumento della superficie utile di un appartamento e la modifica della sagoma dell'edificio, richiede il previo rilascio della concessione di costruzione.
E’ necessaria la concessione edilizia nel caso di veranda costruita con elementi in alluminio e vetri che aumenti la volumetria dell'edificio rispetto alla conformazione originaria, trattandosi peraltro di opera destinata a perdurare a tempo indeterminato, a nulla rilevando in contrario l'utilizzazione dei materiali diversi dalla muratura e l'eventuale amovibilità delle strutture utilizzate.

La giurisprudenza ha più volte affermato che “La trasformazione di un balcone o di un terrazzino circondato da muri perimetrali in veranda, mediante chiusura a mezzo di installazione di pannelli di vetro su intelaiatura metallica, non costituisce realizzazione di una pertinenza, né intervento di manutenzione straordinaria e di restauro, ma è opera soggetta a concessione edilizia/permesso di costruire” (cfr. Cass., Sez. III: 28.10.2004, D'Aurelio; 13.01.2000, Spaventi; 23.06.1989, Bindi; 06.04.1988, Rossi; 23.12.1987, Milani; 04.12.1987, Sanchini; 28.04.1983, Topi; 20.04.1983, Ambri).
Infatti, la realizzazione di una veranda chiusa con vetrate, determinando l'aumento della superficie utile di un appartamento e la modifica della sagoma dell'edificio, richiede il previo rilascio della concessione di costruzione (C. Stato, Sez. V: 08.04.1999, n. 394; 22.07.1992, n. 675).
E’ necessaria la concessione edilizia "nel caso di veranda costruita con elementi in alluminio e vetri che aumenti la volumetria dell'edificio rispetto alla conformazione originaria, trattandosi peraltro di opera destinata a perdurare a tempo indeterminato, a nulla rilevando in contrario l'utilizzazione dei materiali diversi dalla muratura e l'eventuale amovibilità delle strutture utilizzate" (C.G.A.R.S. sezioni riunite del 15.10.1991, sentenza n. 345; CGA del 23.10.1998, n. 633) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.10.2007 n. 9931 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa sostituzione della copertura del gazebo da un telo di stoffa con un struttura in legno non può che alterarne l’identità, assumendo i connotati di una tettoia e mutandone in toto la funzione, oramai non più meramente pertinenziale ed ornamentale.
Una tettoia è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, una vera e propria costruzione assoggettata al requisito della concessione, poiché difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire esigenze temporanee e contingenti, con la sua successiva rimozione ma durevole nel tempo ampliando così il godimento dell’immobile.
E’ necessaria la concessione di costruzione per la realizzazione di tettoie, giacché l’opera è idonea ad escludere la natura pertinenziale e determinante la stessa una consistente e durevole trasformazione urbanistica.

La sostituzione della copertura del gazebo da un telo di stoffa con un struttura in legno non può che alterarne l’identità, assumendo i connotati di una tettoia e mutandone in toto la funzione, oramai non più meramente pertinenziale ed ornamentale.
Secondo la giurisprudenza: <<Una tettoia (…..) è da considerarsi, in senso tecnico-giuridico, una vera e propria costruzione assoggettata al requisito della concessione, poiché difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata non a sopperire esigenze temporanee e contingenti, con la sua successiva rimozione ma durevole nel tempo ampliando così il godimento dell’immobile>> (Cass. 06.04.1988).
<<La tettoia non ha una propria autonomia individuale e funzionale, ma si unisce ad una preesistente edificio ed entra a far parte di esso costituendone opera accessoria abbisognevole di concessione edilizia (……) dall’Autorità preposta alla tutela del vincolo cui la zona è assoggettabile>> (Cass. Pen., 13.03.2001, 9924).
<<E’ necessaria la concessione di costruzione per la realizzazione di tettoie, giacché l’opera è idonea ad escludere la natura pertinenziale (TAR Piemonte, 21.12.2000, n. 1393) e determinante la stessa una consistente e durevole trasformazione urbanistica>> (TAR, Campania, Napoli, 31.05.2001, n. 2469)
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 09.10.2007 n. 9134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI provvedimenti che ordinano la demolizione di manufatti abusivi ed, in particolare, la diffida a demolire, non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso (che è “in re ipsa”, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato), atteso che l’art. 7 della legge n. 47/1985 configura la relativa attività sanzionatoria come da doverosamente esercitarsi, anche a distanza di anni dalla realizzazione dell’abuso
La giurisprudenza assolutamente maggioritaria afferma che: <<I provvedimenti repressivi come l’ordine di demolizione di una costruzione abusiva prescindono da qualsiasi valutazione discrezionale dei fatti e sono subordinati al solo verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge, così che, una volta accertata la consistenza dell’abuso non vi è alcun margine di discrezionalità per l’interesse pubblico eventualmente collegato>> (C. di S., Sez. IV, 27.04.2004, n. 2592).
Pertanto i provvedimenti che ordinano la demolizione di manufatti abusivi ed, in particolare, la diffida a demolire, non abbisognano di congrua motivazione in punto di interesse pubblico attuale alla rimozione dell’abuso (che è “in re ipsa”, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato), atteso che l’art. 7 della legge n. 47/1985 configura la relativa attività sanzionatoria come da doverosamente esercitarsi, anche a distanza di anni dalla realizzazione dell’abuso
(TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 09.10.2007 n. 9134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL’identità della volumetria e della sagoma costituisce un limite solo per gli interventi di ristrutturazione che comportano la previa demolizione dell’edificio; viceversa tali limiti non valgono per quegli interventi di ristrutturazione ordinaria (cioè senza previa demolizione) i quali devono mantenere inalterati gli elementi strutturali che individuano e qualificano l’edificio preesistente, potendo però comportare integrazioni strutturali e cioè in pratica anche modifiche non stravolgenti alla sagoma nonché limitati incrementi di superficie e volume.
Come è noto, la nozione di ristrutturazione edilizia si rinviene oggi nell’art. 3, comma 1, lettera d), del T.U. n. 380 del 2001 (interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente) e nell’art. 10, comma 1, lettera c), del citato T.U. (interventi .. che comportino modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti e delle superfici..)
Per quanto riguarda invece la ipotesi specifica di derivazione giurisprudenziale della ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione, la relativa disciplina è stata per la prima volta introdotta nell’ordinamento positivo con l’art. 3, comma 1, lettera d), del T.U. n. 380 del 2001, il quale richiedeva la fedele ricostruzione (sagoma, volume, sedime e materiali) della preesistenza.
Successivamente, l’art. 1, comma 6, lettera b), della legge delega sulle infrastrutture n. 443 del 2001 ha richiesto identità di volume e sagoma.
Da ultimo, riprendendo tale impostazione, il D. L.vo n. 301 del 2002 ha eliminato dall’art. 3 del T.U. edilizia l’originario riferimento alla “fedele ricostruzione” (espungendo così ad es. il richiamo alle caratteristiche dei materiali) ma ha tenuto fermo che la ricostruzione costituisce ristrutturazione solo se il risultato finale coincide con la volumetria e sagoma preesistenti.
Dal raffronto fra i corpi normativi ora richiamati emerge con chiarezza, a giudizio del Collegio, che l’identità della volumetria e della sagoma costituisce un limite solo per gli interventi di ristrutturazione che comportano la previa demolizione dell’edificio; viceversa tali limiti non valgono per quegli interventi di ristrutturazione ordinaria (cioè senza previa demolizione) i quali devono mantenere inalterati gli elementi strutturali che individuano e qualificano l’edificio preesistente, potendo però comportare integrazioni strutturali e cioè in pratica anche modifiche non stravolgenti alla sagoma nonché limitati incrementi di superficie e volume.
Né le limitazioni suddette, apposte ora dalla legge solo all’ipotesi di ristrutturazione con previa demolizione, possono considerarsi irrazionali, in quanto si rapportano agli evidenti vantaggi (si pensi all’ipotesi di più restrittivi strumenti urbanistici sopravvenuti) che discendono dall’inquadramento dell’attività ricostruttiva di ciò che è stato demolito nell’ambito della ristrutturazione anziché in quello della nuova costruzione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 08.10.2007 n. 5214 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl termine biennale per il silenzio assenso su domanda di condono edilizio previsto dall'art. 35 L. 28.02.1985 n. 47 non decorre qualora la domanda sia carente dei documenti necessari ad identificare compiutamente le opere oggetto della richiesta sanatoria e dunque quando manchi la prova concreta della sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti, con la conseguenza che il termine di 24 mesi, fissato dall'Amministrazione comunale per determinarsi sull'istanza stessa, decorre, in caso di incompletezza della domanda o della documentazione inoltrata a suo corredo, soltanto dal momento in cui le carenze sono state eliminate.
Per consolidato e condiviso orientamento giurisprudenziale, il termine biennale per il silenzio assenso su domanda di condono edilizio previsto dall'art. 35 L. 28.02.1985 n. 47 non decorre qualora la domanda sia carente dei documenti necessari ad identificare compiutamente le opere oggetto della richiesta sanatoria e dunque quando manchi la prova concreta della sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti, con la conseguenza che il termine di ventiquattro mesi, fissato dall'Amministrazione comunale per determinarsi sull'istanza stessa, decorre, in caso di incompletezza della domanda o della documentazione inoltrata a suo corredo, soltanto dal momento in cui le carenze sono state eliminate (cfr., ex plurimis, TAR Veneto, 25.10.1999, n. 1750; Cons. Stato, V Sez., 17.10.1995 n. 1440) (TAR Basilicata, sentenza 27.12.2002 n. 1030 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICADeve escludersi che il recupero edilizio, consistendo in interventi sugli elementi costitutivi degli edifici esistenti, possa comportare incrementi volumetrici, ossia aumenti di superficie o di corpi di fabbrica.
E' illegittima l'approvazione di un piano di recupero attraverso la procedura semplificata di variante urbanistica, ai sensi della L.R. n. 23/1997, per assentire un aumento di volumetria nella misura del 10%, altrimenti non realizzabile per le previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, al fine della realizzazione di un terzo piano dell’edificio.

Il piano di recupero consiste in uno strumento attuativo destinato al recupero del patrimonio edilizio esistente, senza, tuttavia, implicare incrementi volumetrici tali da determinare un aumento del carico insediativo, come risulta dall’opinione della costante giurisprudenza amministrativa.
Tale strumento ha, dunque, per oggetto la ridefinizione del tessuto urbanistico di un'area ed è connaturato dalla specialità dei fini del recupero del patrimonio edilizio ed urbanistico degradato per mantenere e meglio utilizzare il patrimonio stesso mediante una globalità di interventi edilizi organici integrati con il tessuto urbanistico esistente, nonché con lo sviluppo programmato, attraverso gli strumenti urbanistici generali.
Balza agli occhi, di conseguenza, che tale piano può assolvere alla finalità di recupero edilizio di immobili degradati esistenti, magari attraverso sistematici interventi di ristrutturazione o restauro, oppure può ridisegnare l'assetto urbanistico esistente nelle zone soggette a recupero ed assumere una caratteristica efficacia di programmazione, salva restando la connotazione tipica dello strumento attuativo, che ne individua i limiti oggettivi, connaturati dalla conservazione e riutilizzazione del patrimonio edilizio esistente. Deve, quindi, escludersi che il recupero edilizio, consistendo in interventi sugli elementi costitutivi degli edifici esistenti, possa comportare incrementi volumetrici, ossia aumenti di superficie o di corpi di fabbrica.
Ciò, del resto, risulta avvalorato dall’art. 27 della legge 05.08.1978, n. 457, intitolato: Individuazione delle zone di recupero del patrimonio edilizio esistente, nonché dall’art. 2, comma 2, lett. g, della L.R. 23.06.1997, n. 23, che, nell’esplicitare una delle ipotesi cui si applica il procedimento semplificato di variante urbanistica, ai sensi dell’art. 3 della stessa legge, menziona le varianti finalizzate alla individuazione delle zone di recupero del patrimonio edilizio esistente, di cui all'art. 27 della legge 05.08.1978, n. 457 (norme per l'edilizia residenziale).
Nel caso di specie, dalla documentazione versata in atti risulta incontrovertibilmente, come confermato, peraltro, dalle stesse difese del comune di Palosco, che il piano di recupero è stato approvato attraverso la procedura semplificata di variante urbanistica, ai sensi della L.R. n. 23/1997, per assentire un aumento di volumetria nella misura del 10%, altrimenti non realizzabile per le previsioni degli strumenti urbanistici vigenti, al fine della realizzazione di un terzo piano dell’edificio (TAR Lombardia-Brescia, sentenza 09.12.2002 n. 2216 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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